SEGNA AVVOCATUJRA DELLO STATO Progetto grafico dell'architetto CAROLINA VACCARO. ANNO XLIX -N. 1-4 GENNAIO -DICEMBRE 1997 MSEGNA AVvO.::.< . .. :::: ...-<::. ::-: :.......::. .....::.. . .. .... ....: ... . . . ... . Uᥥ )ᥥ..}t66j$id~a.td~irih~ᥥ j .i;. i~~~t~~t~z~ ~~ e~it!i!,1~ J~:d1~lss~zi~:~ soll~a questforte < $1iifi#~~i~d$titliziolale ~n'ift; 6, ci>~3; della Ieggtsdfoenibre t9S9; 11~ 491 Q'.#~~W.l,ti't1~l$et,if~ @lgiil,od:i delle scommesse Clandestini e tte" .... J~ l'.t~~ #Brr~~tz~~ ii~ilt1 $vdtg{mnt6>di comptizfonf agol1iStkhe), djm .... $~~ijt~i9~~ilft;, tael;l~lgg~24fehbr~fot995,n:4s(oriveri>fo~eili legge; ~i~llli1~ii~~~iaa~1:w~,~r:i0~cif~ri;a;~~;J~f,;:;;m~~~~~ ..................... .ᥥ~~~~11,d?~,i~iiJ~l~~-,~1~1:~1ii~ii~~~;J~ti-~1afll~Wliii < > . 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Prei>crizione qi~~@tiffi~i~~~'~~.. @~~~=~t1f?9mma ~.. ~.P9~~~:~!~~.d~~trni.~d..e. sqmq~ .. ffi~~9!~?m1'~t~W~li;~~~()te g~~~J?Hkkll~ p~so}~ PJ!~JYr~ h-c9n. 9am#Je,.j),ij~~~ 9x~.mt~#i~ s\!ss;:$~.HJ.~l~#Yi.pres\l.p1los.j.. ~ntto.. . ....:/ / ~-~i$~~riJ~l';r;$;i~.dt;.ssi;.~,.!;, 9!~P;si~Jo..e c.ensttl'.a~. nella Pan~i#(;i# nof\ Pi.~vede ltffitfve.t~ 4ll:J.n di~~!sor~u.eUafase <;U onyalida clelproV:\'ediinentri d~l.. questore clapar:te delgil,lclice perle. indagl.i preliminari pres~9J~pretnra; si ponedncntrasto.cQn.l'ari. u della:..Cdstituzione attes(l he ia nonna: prevede graVi limitazionialla libert personale, che. possono ptotrarsiper un peJ:iodo ditempo non certo breve (fino ad un anno)~), e con l'art~ 24;. secondo .comma,. della Costituzione poich nel procedimento nel quale .,...,,... come quello in esame-viene in questione davanti ad un giudice l'interesse dellaJibert personale, spetta sempre al soggetto il diritto all'esercizio diuna integrale difesa~ RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 3. -La questione fondata per quanto di seguito esposto. Nel prowedimento che impone l'obbligo di comparire presso l'ufficio o il comando di polizia territorialmente competente, in orario compreso nel periodo di tempo in cui si svolgono le competizioni sportive, la Corte ha gi avuto occasione di ravvisare una misura che incide sulla sfera della libert personale del destinatario (sentenze nn. 143 e 193 del 1996). Di qui l'esigenza che l'adozione della stessa sia circondata, sul piano processuale, da quelle garanzie che la giurisprudenza ha da tempo indicato quando, pur ammettendo che prowedimenti prowisori possano essere adottati dall'autorit di pubblica sic:urezza in situazioni caratterizzate da necessit ed urgenza, ha stabilito che gli stessi, qualora si risolvano in misure limitative della libert personale, debbano essere sottoposti al vaglio dell'autorit giudiziaria (sentenze nn. 27 del 1959 e 74 del 1968). Quanto sopra al fine di garantire un controllo sul prowedimento da parte del giudice, in conformit di quanto disposto dall'art. 13 della Costituzione, nonch per assicurare, in detta occasione, la garanzia del diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione. Nel quadro di tali principi occorre, dunque, valutare la questione sottoposta dal rimettente, il quale attraverso l'evocazione di entrambi i parametri sopra accennati, prospetta essenzialmente una possibile lesione del diritto di difesa derivante, a suo avviso, dalla emissione dell'ordinanza di convalida inaudita altera parte. Ma il diritto di difesa, come la Corte ha gi rilevato in altre occasioni, ammette una molteplicit di discipline, in rapporto alla variet dei contesti, delle sedi e degli istituti processuali in cui esso esercitato (sentenza n. 48 del 1994), al punto che la stessa assistenza del difensore pu e deve trovare svolgimento in forme adeguate sia alla struttura del singolo procedimento o dell'atto che va adottato (sentenza 160 del 1995), sia alle esigenze sostanziali del caso sottoposto all'esame del giudice. Il ricorso, nella disposizione oggetto di denuncia, al modello della convalida non impone, dunque, necessariamente di assegnare al procedimento le medesime garanzie previste per la convalida dell'arresto e del fermo di polizia giudiziaria. La identica qualificazione data al procedimento stesso, sul piario degli istituti processuali, non consente, infatti, di trascurare che il prowedimento qui assunto da parte del giudice per le indagini preliminari ha portata e conseguenze molto pi limitate sulla libert personale del destinatario, rispetto a quelle delle anzidette misure pre-cautelari o di altre ancora che, comunque, incidono in maniera ben pi rilevante, sullo stesso bene. Detti rilievi appaiono ancor pi pertinenti ove si consideri che, nella fattispecie oggetto della disposizione censurata, la necessit di garantire all'interessato una adeguata difesa va coniugata con la celerit nell'applicazione della misura, condizione necessaria perch la stessa possa rivelarsi efficace, s da giustificare, in un equilibrato rapporto fra esigenze in giuoco, l'adozione di forme semplificate attraverso le quali possa esplicarsi il contraddittorio. D'altra parte, nel caso di specie non sussiste neppure la paventata impossibilit per l'interessato di interloquire nel procedimento, giacch, anche alla stregua del principio generale che nel processo penale consente alle parti <'\d PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 25 ai difensori di presentare al giudice memorie o richieste scritte (art. 121 cod. proc. pen.), non si pu ritenere impedito all'interessato di esercitare la facolt di esporre le proprie ragioni al giudice per le indagini preliminari. Poste tali premesse, le argomentazioni del giudice a quo non sono, tuttavia, prive di una qualche plausibilit sotto il diverso profilo della esigenza di assicurare all'interessato la concreta ed effettiva conoscenza delle facolt di difesa di cui pu fruire. In questi limiti, per eliminare il vizio di costituzionalit dell'attuale disciplina, il destinatario del provvedimento deve essere espressamente avvisato della facolt di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, appositamente nominato, memorie o deduzioni al giudice per le indagini preliminari. Detta facolt dovr evidentemente essere esercitata con modalit tali da non interferire con la definizione del procedimento di convalida, nei termini previsti dalla legge. Resta ovviamente salvo il potere del legislatore di apprestare una specifica disciplina al riguardo. La disposizione denunciata va, pertanto, dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede che la notifica del provvedimento adottato dal questore contenga il predetto avviso (omissis). CORTE COSTITUZIONALE, 4 giugno 1997, n. 161 -Pres. Granata -Red. Chieppa -Presidente del Consiglio dei Ministri. Pena -Condannato all'ergastolo -Revoca del beneficio della liberazione condizionale -Nuova concessione -Esclusione -Violazione della finalit rieducativa della pena -illegittimit costituzionale. (Cost., art. 27; cod. pen. art. 177, primo comma). illegittimo, per violazione dell'art. 27, terzo comma Cost., l'art. 177, primo comma, Cod. Pen. nella parte in cui non prevede che il condannato alla pena dell'ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i relativi presupposti in quanto in tal modo il condannato risulta escluso in via permanente ed assoluta dal processo rieducativo e di reinserimento sociale (1). (omisiss) 1. -Il tribunale di sorveglianza di Firenze solleva, in relazione ai condannati alla pena dell'ergastolo, incidente di legittimit costituzionale dell'art. 177, primo comma, ultimo periodo, del codice penale nella parte in (1) La Corte ribadisce che la liberazione condizionale l'unico istituto idoneo a rendere lergastolo compatibile con il principio rieducativo della pena, come affermato sin dalla sent. 7 novembre 1974 n. 264 in cui si legge che detto istituto consente l'effettivo reinserimento anche dell'ergastolano nel consorzio civile senza che possano ostarvi le sue precarie condizioni economiche. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO cui detta norma dispone che i condannati nei cui confronti la liberazione condizionale gi concessa sia stata revocata non possono essere riammessi a detto beneficio. Per i condannati alla pena dell'ergastolo questa preclusione varrebbe a rendere immodificabile la perpetuit della pena loro inflitta, e ci in contrasto con la finalit rieducativa assegnata a tutte le pene dall'art. 27, comma terzo, della Costituzione. A sostegno della denuncia di incostituzionalit della disposizione menzionata l'ordinanza del giudice a quo fa valere le varie sentenze rese in passato dalla Corte costituzionale in materia di ergastolo, e segnatamente la sentenza n. 264 del 1974, con la quale la Corte stessa, nel respingere la tesi della incostituzionalit di detta pena, ha posto in rilievo il valore rappresentato dalla ammissibilit del condannato all'ergastolo alla liberazione condizionale (a quell'epoca dopo ventotto anni di esecuzione della pena, secondo la prima riforma dell'istituto intervenuta con la legge 25 novembre 1962, n. 1634), nonch la sentenza n. 270 del 1993, la quale pur dichiarando la inammissibilit della questione allora sollevata in relazione alla computabilit nella durata della pena del periodo trascorso in libert vigilata dal condannato all'ergastolo liberato condizionalmente, ebbe a riconoscere espressamente che le argomentazioni svolte nella sentenza n. 282 del 1989 circa la necessit di computare, ai fini di determinare la pena residua, in caso di revoca della liberazione condizionale il periodo scontato in libert vigilata vanno ribadite anche nei confronti del condannato all'ergastolo, riguardo al quale la perpetuit della pena irrogata non pu costituire un ostacolo sufficiente per precludere in assoluto la medesima opera di scomputo. E ci, sia perch altrimenti -prosegue la Corte nel passo della predetta sentenza n. 270 del In precedenza, con sentenza n. 204 del 1974, era stata dichiarata incostituzionale la norma che attribuiva al Ministro della Giustizia la facolt di concedere la liberazione condizionale in quanto sottraeva tale istituto alle garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, rimettendolo alle scelte discrezionali del potere politico. Successivamente si segnalano la sent. 21 settembre 1983 n. 274 (con cui stata dichiarata l'illegittimit dell'art. 54 legge 26 luglio 1975 n. 354 nella parte in cui non prevedeva la possibilit di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena ai soli fini del computo della quantit di pena cos detratta nella quantit scontata, richiesta per l'ammissione alla liberazione condizionale); la sent. 17 maggio 1989 n. 282 (che ha dichiarato l'illegittimit dell'art. 177 c.p. nella parte in cui, in caso di revoca della liberazione condizionale, non consentiva al Tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare). Con la decisione che si annota il condannato all'ergastolo acquista la possibilit di essere riammesso alla liberazione condizionale pur dopo la revoca di detto beneficio. Resta ora il problema di disciplinare le condizioni per la riammissione; al riguardo la Corte, nell'auspicare un intervento del legislatore, rileva che non ci si potr limitare ad estendere in modo automatico i presupposti temporali fissati dalla legge per la riproposizione della domanda respinta, bens sar necessario prevedere che sia il Tribunale di sorveglianza a valutare se ricorrono i presupposti per la nuova concessione del beneficio. F.S. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 1993 richiamato dal giudice rimettente -al condannato all'ergastolo sarebbe riservato un trattamento di maggior rigore rispetto al condannato a pena temporanea sia perch alla funzione rieducativa della pena non pu essere sottratto il condannato all'ergastolo senza che ne risulti vulnerato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Per risolvere questo problema, la cui esistenza gi stata riconosciuta dalla Corte costituzionale, non rimarrebbe -osserva l'ordinanza del giudice a quo -che riconoscere la fondatezza della questione ora sollevata eliminando come incostituzionale, per il condannato all'ergastolo, la preclusione ad una nuova concessione della liberazione condizionale. N -conclude sempre l'ordinanza -vi sarebbero altri ostacoli a detta soluzione, dato che anche la nuova eventuale concessione dovrebbe essere subordinata ad una valutazione di merito del tribunale di sorveglianza, che verifichi l'entit delle ragioni che hanno portato all~ revoca e valuti se e quando sussistano i presupposti per una nuova ammissione all'esperimento della liberazione condizionale. 2. -La questione, rigorosamente limitata, nella impostazione e negli svolgimenti dell'ordinanza del giudice a quo ai problemi posti dalla vigente disciplina nei confronti dei soli condannati all'ergastolo, fondata. 3. -L'art. 177 del codice penale, il cui primo comma dedicato alla disciplina della revoca della liberazione condizionale, trae origine dall'art. 17 del codice penale del 1889, che per la prima volta introdusse in Italia l'istituto della liberazione condizionale e di questa disciplin i presupposti (art. 16). Esso ricalcava tutto il sistema del detto art. 17, nel quale figuravano, come presupposti della revoca, la commissione di un reato che importi pena restrittiva della libert personale o, alternativamente, l'inadempimento delle condizioni imposte al condannato, e, come conseguenze della revoca stessa, il divieto di computare nella pena residua il periodo trascorso in liberazione condizionale e il divieto di ammissione ad una nuova liberazione condizionale. Questo sistema era relativo, tanto nel codice del 1889 quanto nella formulazione originaria del codice vigente, ai soli condannati a pena detentiva temporanea, non essendo allora considerata l'ammissibilit alla liberazione condizionale per i condannati alla pena dell'ergastolo. Viceversa, per i condannati all'ergastolo, l'ammissione alla liberazione condizionale fu prevista dall'art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 (Modificazioni alle norme del codice penale relative all'ergastolo e alla liberazione condizionale) e ribadita con l'art. 8 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libert), la quale ultima ridusse il periodo di esecuzione della pena richiesto per l'ammissibilit al beneficio da ventotto a ventisei anni. Con quest'ultima legge veniva inoltre disciplinato in modo pi favorevole ai condannati l'istituto denominato liberazione anticipata, gi introdot RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 28 to con l'art. 54 dell'ordinamento penitenziario del 1975 per i condannati che nell'espiazione della pena abbiano dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione, ai fini del loro pi efficace reinserimento nella societ (questa la prima formulazione dell'art. 54). Veniva infatti elevato a quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata il periodo massimo di detrazione e veniva sancita la detrazione di pena anche per i condannati all'ergastolo. Quest'ultima modificazione consacrava anche formalmente, sul piano legislativo, la pronuncia resa da questa Corte con sentenza n. 274 del 1983, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il suddetto art. 54 dell'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la possibilit di concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantit di pena cos detratta nella quantit scontata, richiesta per l'ammissione alla liberazione condizionale. Per effetto di tali modificazioni il periodo minimo di durata della pena effettivamente scontata perch il condannato all'ergastolo potesse essere ammesso alla liberazione condizionale, stabilito nel 1962 in anni ventotto e ridotto nel 1986 ad anni ventisei, veniva a poter essere diminuito, in caso di fruizione delle riduzioni proprie della liberazione anticipata, in modo assai consistente. 4. -Riassunti come sopra i precedenti legislativi relativi all'ammissione alla liberazione condizionale dei condannati all'ergastolo, oggetto, con gli altri presupposti generali dell'istituto stesso, dell'art. 176 del codice penale, deve ricordarsi che anche l'art. 177 dello stesso codice, concernente la revoca, ha conosciuto, nel corso dei decenni successivi al 1930, modificazioni ad opera del legislatore, decisioni di parziale illegittimit costituzionale e messe a punto della giurisprudenza ordinaria, segnatamente della giurisprudenza di legittimit. Le modificazioni legislative, intervenute ad opera dell'art. 2 della menzionata legge 25 novembre 1962, n. 1634, hanno rappresentato soltanto un allineamento alle modificazioni introdotte con la stessa disposizione nell'art. 176: sospensione, in caso di ammissione alla liberazione condizionale, della misura di sicurezza detentiva a cui eventualmente il condannato a pena detentiva temporanea sia stato sottoposto, e, nel secondo comma, previsione di un termine (cinque anni) per la liberazione definitiva del condannato all'ergastolo a seguito di esperimento positivo del periodo di liberazione condizionale. L'intervento di questa Corte si concret invece nella declaratoria di illegittimit costituzionale di una delle due proposizioni dell'ultimo periodo del primo comma, e precisamente del comma suddetto nella parte in cui, in caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenendo conto del tempo trascorso in libert condizionale, nonch delle restrizioni di libert subite dal condannato e del suo comportamento in tale periodo (sentenza n. 282 del 1989). Ovviamente detta sentenza si riferiva soltanto alle pene detentive temporanee. ' PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Infine da considerarsi rilevante l'intervento compiuto dalla giurisprudenza di legittimit su uno dei due presupposti alternativamente previsti per la revoca, e precisamente sul presupposto attinente alla trasgressione agli obblighi inerenti alla libert vigilata, disposta ai termini dell'art. 230, n. 2. Con alcune sentenze dell'ultimo decennio la Corte di cassazione ha statuito che ai fini di stabilire l'esistenza di una trasgressione degli obblighi inerenti alla libert vigilata non sufficiente la mera segnalazione degli organi di polizia incaricati della sorveglianza, ma occorre accertare in primo luogo la volontariet del fatto, dovendosi ovviamente escludere le infrazioni incolpevoli, ed in particolare, poi, se la violazione degli obblighi inerenti la libert vigilata sia di tale gravit da investire tutto il regime di vita al quale il liberato stato sottoposto e da costituire sicuro elemento per ritenere, con giudizio penetrante e completo tradotto in adeguata motivazione, la insussistenza nella realt di quel ravvedimento, sicch il liberato sia immeritevole dell'anticipato reinserimento nella vita sociale. Con questi interventi la Corte di cassazione, svolgendo opera interpretativa guidata da criteri di razionalit e di aderenza alle finalit degli istituti in questione, veniva incontro non solo ad un voto formulato sin dai tempi delle prime revisioni del codice penale vigente, ma anche ad una chiara presa di posizione incidentale (sorretta peraltro da una serie di analitiche proposizioni) di questa Corte, che nella ricordata sentenza n. 282 del 1989 aveva ricordato le critiche all'automatismo della revoca, qualificando tale automatismo come frutto di una visiorie ingiustificatamente punitiva di tale istituto. Tale il quadro normativo e giurisprudenziale nel quale si deve collocare la presente decisione, la quale riguarda -cos come richiesto dall'ordinanza del giudice a quo -entrambi i casi di revoca della liberazione condizionale: quello determinato dalla commissione di un delitto o contravvenzione della stessa indole e quello determinato dalla trasgressione agli obblighi della libert vigilata, disposta a termini dell'art. 230, n. 2 del codice penale. 5. -Della compatibilit della pena dell'ergastolo con la funzione rieducativa assegnata alla pena in generale dall'art. 27, comma terzo, della Costituzione, e pi in generale della pena dell'ergastolo, questa Corte ebbe ad occuparsi pi di una volta. Con la sentenza n. 264 del 1974, la Corte, chiamata a riesaminare la legittimit dell'ergastolo, espose a sostegno della infondatezza della questione vari argomenti, tra i quali assume indubbiamente valore preminente quello incentrato sulla legge 25 novembre 1962, n. 1634 che ammise la liberazione condizionale anche per i condannati a detta pena. Scrisse allora la Corte che l'istituto della liberazione condizionale disciplinato dall'art. 176 cod. pen. -modificato dall'art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 -consente l'effettivo reinserimento anche dell'ergastolano nel consorzio civile senza che possano ostarvi le sue precarie condizioni economiche: invero ... la concessione della liberazione condizionale subordinata all'adempimento delle obbligazioni RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 30 civili, semprech il condannato abbia la possibilit di prowedervi, che altri t menti potr dimostrare di trovarsi nell'impossibilit di adempierle senza subire alcun pregiudizio. E questa posizione fu rinforzata, nella sentenza stessa, con il dare rilievo alla precedente sentenza n. 204 dello stesso anno 1974, con la quale era stata dichiarata l'illegittimit costituzionale della norma attributiva della facolt di concedere la liberazione condizionale al Ministro della giustizia (art. 43 r.d. 28 maggio 1931, n. 602), conseguentemente attribuendosi la facolt stessa all'autorit giudiziaria che con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerter se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo rawedimento. Questi motivi furono ripetutamente ripresi in decisioni successive, tra le quali spicca la sentenza n. 274 del 1983, nella quale -a premessa della estensione del gi ricordato istituto della riduzione di pena, che va sotto il nome di liberazione anticipata, ai condannati all'ergastolo -pu leggersi che la finalit rieducativa voluta dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione si riferisce senza ombra di dubbio anche a detti soggetti e che ci Ǐ fatto palese dalla estensione in loro favore dell'istituto della liberazione condizionale, operata dalla legge n. 1634 del 1962>>: a proposito della quale -prosegue la sentenza -fu enunciato, nella relazione governativa che accompagnava la presentazione alla Camera dei deputati del disegno di legge, il proposito di completare ed integrare, con speciale riferimento all'ergastolo, la progressiva umanizzazione della pena, rendendo pi concreta e funzionale anche nell'ergastolo l'azione intesa alla rieducazione del condannato. La recuperabilit sociale del condannato all'ergastolo, mediante la possibilit della sua liberazione condizionale, segnava perci nella nostra legislazione penale una svolta di evidente rilievo: una svolta sottolineata anche da questa Corte, la quale, nel dichiarare, con la ricordata sentenza n. 264 del 1974, non fondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 22 del codice penale, sollevata in riferimento all'art. 27, comma terzo, della Costituzione, faceva perno, tra l'altro, proprio sulla intervenuta ammissione della liberazione condizionale, in quanto essa Consente l'effettivo reinserimento dell'ergastolano nel consorzio civile. 6. -Alla stregua di queste premesse non pu non essere rilevata la illegittimit costituzionale della disposizione che, vietando per i condannati all'ergastolo la riammissione alla liberazione condizionale, li esclude in modo permanente ed assoluto dal processo rieducativo e di reinserimento sociale. La pena dell'ergastolo, per il suo carattere di perpetuit si distingue dalle altre pene restrittive della libert personale; oltre a comportare, per chi vi sottoposto, una serie di conseguenze, di tipo interdittivo e di tipo penitenziario, che sono, in tutto o in parte, estranee alle altre pene. Ma questo suo connotato di perpetuit non pu legittimamente intendersi, alla stregua dei principii costituzionali, come legato, sia pure dopo l'esperimento negativo di un periodo trascorso in liberazione condizionale, ad una preclusione assoluta dell'ottenimento, ove sussista il presupposto del sicuro rawedimento, di una PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE nuova liberazione condizionale. Il mantenimento di questa preclusione nel nostro ordinamento equivarrebbe, per il condannato all'ergastolo, ad una sua esclusione dal circuito rieducativo, e ci in palese contrasto -come gi si visto -con l'art. 27, comma terzo, della Costituzione, la cui valenza stata gi pi volte affermata e ribadita, senza limitazioni, anche per i condannati alla massima pena prevista dall'ordinamento italiano vigente. Se la liberazione condizionale l'unico istituto che in virt della sua esistenza nell'ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell'ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o pi esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale. Certamente, in concreto, il condannato all'ergastolo potr dalla competente autorit giudiziaria essere ritenuto non meritevole della riammissione al beneficio della liberazione condizionale; e l'autorit stessa potr graduare anche nei tempi la nuova ammissione, tenuto conto sia della prova data dal detenuto durante la detenzione sia della prova data durante i precedenti periodi trascorsi in libert vigilata, prendendo ovviamente in considerazione anche la concreta gravit delle violazioni che ebbero a dar luogo alla revoca. Ma questa possibilit di non riammissione o di riammissione dilazionata nel tempo non equivale ad una esclusione totale per divieto di legge. 7. -A quest'ultimo proposito, e cio in relazione ai presupposti di una nuova concessione del beneficio della liberazione condizionale al condannato all'ergastolo nei cui confronti precedenti concessioni siano state revocate, necessaria qualche precisazione ulteriore. L'ordinanza del giudice a quo si occupa espressamente di questo tema quando scrive che la normativa che deriverebbe dalla sentenza di accoglimento prospettata alla Corte costituzionale non richiederebbe integrazione alcuna. Si potrebbe cio discutere se debbano valere le stesse regole dettate per la rinnovazione della istanza dopo il provvedimento di rigetto, con una equiparazione a questo del provvedimento di revoca, mentre per le altre condizioni di ammissibilit non vi ragione che non debbano valere le stesse condizioni richieste per la ammissione al beneficio, come accade, ad esempio, per la semilibert dopo una precedente revoca. Inoltre l'ordinanza stessa aggiunge che dovr essere valutato seriamente, nel merito, il ravvedimento del condannato in presenza dell'insuccesso della prima concessione; e che in tale quadro dovranno essere valutate anche le ragioni della revoca, la cui gamma Ǐ assai ampia e pu andare da situazioni di gravit relativa ad altre di gravit estrema. Ora, quanto al problema dei termini da osservare in vista di una nuova ammissione alla liberazione condizionale, evidente che non dato a questa Corte alcun potere di intervento, spettante soltanto, nel rispetto dei presupposti e dei limiti costituzionali, ad una eventuale iniziativa legislativa. In par RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 32 ticolare non sembra possibile estendere in modo automatico i presupposti temporali fissati dalle leggi vigenti per la riproposizione della domanda del condannato dopo che stata respinta una sua domanda diretta ad ottenere la liberazione condizionale: diverse sono infatti le due situazioni, anche se una certa analogia tra le stesse non pu essere negata. A carico di chi sia incorso nella revoca del beneficio, pu rilevarsi che l'esperienza fatta in concreto ha segnato in modo negativo l'effettivit del suo ravvedimento, mentre, a suo favore, non si pu dimenticare che il lungo periodo precedentemente trascorso in carcere lo aveva fatto ritenere meritevole del beneficio, diversamente da colui al quale il beneficio aveva dovuto essere negato. Solo una penetrante valutazione condotta dal tribunale di sorveglianza, competente ai sensi dell'art. 70 dell'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), potr portare a concludere per la maggiore rilevanza delle valutazioni concernenti l'uno o l'altro periodo (quello trascorso in detenzione e quello trascorso in libert vigilata), tenuto ovviamente conto anche della prova data dal condannato nel periodo di privazione della libert personale successivo alla revoca. In assenza di un intervento legislativo sul punto, il termine richiesto dalla legge vigente per la riproposizione della domanda respinta potrebbe essere per il giudice un utile punto di riferimento. Altrettanto deve dirsi per le altre condizioni per la nuova ammissione al beneficio successivamente alla revoca. Varranno ovviamente anche qui i parametri propri dell'istituto della liberazione condizionale, fissati nell'art. 176 del codice penale, che nell'ultima sua redazione esige che durante l'esecuzione della pena sia stato tenuto dal condannato Un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Ovviamente, in caso di condannato che, come nella fattispecie qui considerata, abbia gi usufruito di un periodo di liberazione condizionale in libert vigilata, dovr il tribunale tener conto anche di tale periodo; e in questo contesto di valutazioni rientrer anche un esame delle ragioni che dettero luogo alla revoca e della loro maggiore o minore gravit. Su tutto dovr operare il rispetto della finalit rieducativa, intesa come reinserimento del reo nella societ, secondo le formule pi volte adottate dalla Corte in questa materia (v. particolarmente, anche per la liberazione condizionale del condannato all'ergastolo, la sentenza n. 274 del 1983). PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara l'illegittimit costituzionale dell'art. 177, primo comma, ultimo periodo, del codice penale, nella parte in cui non prevede che il condannato alla pena dell'ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa ess~re nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i relativi presupposti (omissis). - PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 33 CORTE COSTITUZIONALE, 4 giugno 1997, n. 162 -Pres. Granata -Red. Chieppa -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Russo) c. Regione Liguria (avv. Sorrentino). Impiego pubblico -Regione Liguria -Dipendenti regionali -Collocamento a riposo -Domanda di trattenimento in servizio -Diritto -Esclusione Accettazione da parte dell'amministrazione -Legittimit. (Cost., art. 3, 97 e 177; legge reg. Liguria riapprovata il 10 aprile 1996, art. unico). Dall'art. 16 d. lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 non si desume un principio fondamentale della legislazione statale, e vincolante per il legislatore regionale, secondo il quale i dipendenti pubblici avrebbero un diritto incondizionato al mantenimento in servizio per un biennio dopo il sessantaciquesimo anno d'et; pertanto infondata la questione di legittimit costituzionale della legge della regione Liguria riapprovata il 1 O aprile 1996, art. unico, nella parte in cui, al terzo comma, conferisce all'amministrazione la facolt di accettare o meno, per motivata esigenza di servizio, la domanda di trattenimento in servizio fino ad un massimo di due anni presentata dai dipendenti regionali (1). (omissis) 1. -La questione di legittimit costituzionale, sottoposta all'esame della Corte dal ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, riguarda l'articolo unico della legge della regione Liguria recante Norme sul collocamento a riposo dei dipendenti regionali, riapprovata il 10 aprile 1996 a seguito di rinvio governativo, nella parte in cui, al comma 3, conferisce all'amministrazione la facolt di accettare; per motivate esigenze di servizio, la domanda di trattenimento in servizio del personale di cui si tratta, fino ad un massimo di due anni oltre il raggiungimento del limite del sessantacinquesimo anno di et. La questione prospettata sotto il profilo della violazione dell'art. 117 della Costituzione, per contrasto con un principio fondamentale della legislazione statale, di cui sarebbe espressione l'art. 16 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, che rimette la permanenza in servizio dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici per un biennio oltre i limiti di et alla facolt (1) La Corte esclude l'esistenza di un limite unico di et per la cessazione dal servizio previsto in via generale per tutto il pubblico impiego e ribadisce che nel prolungamento dell'et pensionabile il legislatore regionale ha un'ampia discrezionalit con il limite della manifesta arbitrariet ed il divieto di stabilire in via generale un'et massima per il collocamento a riposo superiore a quella fissata dalle leggi statali per la corrispondente categoria di dipendenti. Con tale pronuncia si afferma peraltro che il principio fondamentale della legislazione statale (ex art. 16 d. lgs. 30.12.1992 n. 503) non di riconoscere un diritto incondizionato del dipendente a permanere in servizio per un biennio bens quello secondo il quale il trattenimento in servizio oltre i limiti di et pu awenire solo su istanza dell'interessato. Sull'ampia discrezionalit del legislatore in materia di prolungamento dell'et pensionabile si vedano le sentenze C. Cost. n. 422 del 1994; n. 374 del 1992; n. 491 e 440 del 1991; n. 186 del 1990 nonch le ordinanze n. 252 del 1993; nn. 349, 362 e 442 del 1992. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 34 dei dipendenti stessi; degli artt. 3 e 97 della Costituzione, per la disparit di trattamento che si determinerebbe tra i dipendenti della regione Liguria e quelli dello Stato o di altre regioni, in contrasto con i principi di uguaglianza, di ragionevolezza, di equit e imparzialit della pubblica amministrazione. Inoltre, per l'eventualit che la Corte ritenga, in conformit alla interpretazione governativa, che l'art. 16 del decreto legislativo n. 503 del 1992 per un verso si applichi ad ogni settore del pubblico impiego, e abbia valore di principio vincolante per la legislazione regionale, per l'altro attribuisca al dipendente un diritto incondizionato al mantenimento in servizio, la regione Liguria ha posto il dubbio della legittimit costituzionale del predetto art. 16 per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto consentirebbe applicazioni lesive del principio di buon andamento dell'amministrazione e di ragionevolezza. 2. -Il ricorso privo di fondamento. Il principio fondamentale della legislazione statale, che si desume dall'art. 16 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, e' quello secondo il quale il trattenimento in servizio oltre i limiti di et pu avvenire solo su istanza dell'interessato, essendo giuridicamente protetta la posizione del dipendente pubblico diretta ad ottenere il collocamento a riposo al compimento dei limiti di et previsti (in via generale o per il determinato settore di impiego pubblico). La prosecuzione d~l rapporto di impiego oltre il limite di et stata configurata dal legislatore come eccezione alla regola posta in tema di limiti di et per il servizio (rimasti, si nota, immodificati), prevedendosi una prosecuzione del rapporto su domanda dell'interessato per un periodo massimo di un biennio. La suddetta disposizione di carattere eccezionale, anche se introdotta con finalit di contenimento della spesa pubblica in ordine ai trattamenti di previdenza e di quiescenza (permanendo tuttavia il carico del trattamento di servizio attivo e degli oneri riflessi, in genere complessivamente maggiori rispetto a quelli connessi a nuove assunzioni, meramente eventuali anche in relazione a ricorrenti blocchi), non incompatibile con le disposizioni normative che prevedono la sussistenza di requisiti per la continuazione del rapporto di pubblico impiego (come l'idoneit fisica, l'assenza di incompatibilit, la persistenza del posto ecc.). Dalle disposizioni invocate dal ricorrente non pu trarsi, invece, un principio fondamentale della legislazione statale (tale da vincolare il legislatore regionale) secondo cui esisterebbe un diritto incondizionato del dipendente pubblico al mantenimento in servizio per un biennio. 3. -D'altro canto, in materia di limiti di et e di trattenimento in servizio di dipendenti regionali, il legislatore regionale non tenuto a conformarsi pedissequamente alle singole disposizioni statali relative al pubblico impiego, tanto pi nel caso in cui -come nella specie -la norma statale interposta, invocata come parametro di valutazione, sia contenuta in un decreto delegato emanato in base a delega sulla previdenza, con oggetto e criteri direttivi non estesi a tutti i dipendenti pubblici, ma limitati al settore dei dipendenti PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE civili dello Stato e degli enti pubblici non economici (art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421). Il legislatore regionale, nell'esercizio della competenza in materia di impiego pubblico regionale (cui ascrivibile la legge impugnata recante norme sul collocamento a riposo di ufficio e sul limite di et), vincolato dai principi fondamentali della legislazione statale, che possono consistere in un complesso articolato di criteri direttivi risultanti dalla regola generale vigente nel settore ed integrata dalle possibili deroghe stabilite dalla medesima legislazione. Pertanto lo stesso legislatore dovr attenersi alla regola generale e potr distaccarsene soltanto con la previsione di discipline derogatorie identiche a quelle dettate dalle leggi dello Stato, owero riconducibili alla medesima ratio .... La regola consiste nel divieto per il legislatore regionale di stabilire in via generale una disciplina che preveda per il personale della Regione un'et massima per il collocamento a riposo superiore a quella fissata dalle leggi statali per la corrispondente categoria dei dipendenti (sentenze n. 186 del 1990 e n. 238 del 1988). Certamente nella materia di cui si tratta deve escludersi la esistenza di un limite unico di et generale per l'intero settore pubblico, essendo previsti limiti diversi a seconda delle categorie di personale (argomentando dalle sentenze n. 238 del 1988 e n. 422 del 1994); inoltre, relativamente al prolungamento dell'et pensionabile devesi riconoscere un'ampia discrezionalit del legislatore con il solo limite della manifesta arbitrariet (da ultimo, ordinanza n. 380 del 1994 e sentenza n. 422 del 1994). Tale discrezionalit deve essere riconosciuta anche al legislatore regionale, la cui scelta, nella fattispecie in esame, deve ritenersi tutt'altro che arbitraria o irragionevole, per avere espressamente attribuito all'amministrazione un potere di valutare motivatamente la coincidenza con esigenze di interesse pubblico attinenti al servizio della facolt esercitata dal dipendente di rimanere in attivit, per un ulteriore periodo massimo di due anni, in aggiunta al limite di et di 65 anni, previsto dall'ordinamento regionale. Tale potere di valutazione da parte dell'amministrazione regionale (certamente conforme alle esigenze di buon andamento rilevanti sul piano costituzionale), in quanto esercizio di una discrezionalit amministrativa, deve essere caratterizzato da una puntuale motivazione, il cui obbligo rinforzato dal preciso limite, posto dalla norma primaria, della rilevanza delle sole esigenze di servizio ai fini del rifiuto di accettazione della domanda. In altri termini, solo in caso di dimostrata e motivata mancanza di esigenze di servizio (come, ad es., nel caso di sovrabbondanza di personale con identiche funzioni; di accertata non rispondenza delle condizioni fisiche del dipendente allo svolgimento delle funzioni specifiche di istituto; di soppressione di ufficio a seguito di delega a enti locali; ed altri) la regione -in una razionale e corretta interpretazione della norma -potr esercitare la facolt di non accettare la domanda di trattenimento in servizio. Di conseguenza deve essere esclusa ogni violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza, equit ed imparzialit invocati nel ricorso (artt. 3 e 97 della Costituzione). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 36 4. -Dal rigetto del ricorso principale proposto dallo Stato consegue che non deve essere esaminata la eccezione di legittimit costituzionale dell'art. 16 del decreto legislativo n. 503 del 1992, sollevata dalla regione Liguria in via meramente subordinata e nella sola eventualit di accoglimento della interpretazione, data nel ricorso, della predetta norma. PER QUESTI MOTM LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimit costituzionale della legge della regione Liguria, riapprovata il 10 aprile 1996, (Norme sul collocamento a riposo dei dipendenti regionali), sollevata, in riferimento agli artt. 117, 3 e 97 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei Ministri, con il ricorso in epigrafe (omissis). CORTE COSTITUZIONALE, 27 giugno 1997, n. 204 -Pres. Granata -Est. Mirabelli -Terziroli (avv. Valcavi) c. Banca commerciale italiana: interv. Pres. Cons. Ministri (avv. Stato Laporta). Corte costituzionale -Questione di legittimit costituzionale -Giudice istruttore civile in funzione di giudice monocratico -Legittimazione. Fideiussione omnibus -Diritto transitorio -Diversit di regimi e disparit di trattamento -Esclusione -Questione infondata. ammissibile la questione di legittimit costituzionale sollevata dal giudice istruttore civile in funzione di giudice monocratico. infondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 1938 cod. civ., in riferimento agli art. 3 e 47 Cast., poich la validit delle fideiussioni omnibus senza indicazione dell'importo massimo garantito, stipulate prima dell'entrata in vigore della legge di riforma (art. 10 legge 17.2.1992, n. 154), non d luogo a disparit di trattamento, n viola il precetto costituzionale di tutela del risparmio (1). (omisiss) 1. -Con ordinanza emessa il 4 aprile 1996 nel corso di un giudizio promosso per far dichiarare la nullit di una fideiussione per obbligazioni future (cosiddetta fideiussione omnibus), prestata prima della legge (1) Fideiussione omnibus e ius superveniens: la Consulta conferma l'irretroattivit della novella che impone l'indicazione di un importo massimo garantito. I. Con la sentenza che si annota, l'ampia produzione giurisprudenziale relativa alla fideiussione omnibus si arricchisce di un ultimo (importantissimo) tassello: la tesi (consolidata nella giurisprudenza della Cassazione) della validit dei contratti stipulati prima della riforma del 1992 (attuata con la nota legge sulla trasparenza bancaria n. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 37 17 febbraio 1992, n. 154 (Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari) -che, all'art. 10, ha stabilito debba essere previsto l'importo massimo garantito -il giudice istruttore del tribunale di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 47, primo comma, della Costituzione, questione di legittimit costituzionale dell'art. 1938 cod. civ., che, anche dopo la modifica apportata con la legge n. 154 del 1992, continuerebbe a considerare valide ed efficaci le fideiussioni di importo illimitato stipulate prima del 9 luglio 1992 (data di entrata in vigore della legge di riforma). Il giudice rimettente ritiene che le fideiussioni per obbligazioni future, con garanzia illimitata, siano tuttora valide ed efficaci. Difatti la disposizione che prevede l'obbligo di indicare l'importo massimo garantito avrebbe carattere innovativo e non sarebbe una norma di interpretazione autentica del precedente testo dell'art. 1938 cod. civ., da riconoscere solo se l'intervento del legislatore fosse stato destinato a porre fine al dibattito dottrinale e giu 154/1992), che ha definitivamente bandito dall'ordinamento i contratti di garanzia caratterizzati dalla cd. clausola omnibus riceve l'imprimatur della Corte costituzionale, la cui decisione merita di essere segnalata sia per i profili di merito della questione risolta, che per i profili processuali evidenziati dall'Awocatura che intervenuta in giudizio. II. L'evoluzione della fideiussione omnibus pu essere sommariamente storicizzata, attraverso l'enucleazione di tre tappe fondamentali del dibattito dottrinale e giurisprudenziale. a) In una prima fase (a partire cio dagli anni Sessanta (1) fino alla fine degli anni Ottanta) il dibattito sulla fideiussione omnibus si incentrava soprattutto sul profilo della validit della garanzia, la cui peculiarit era data dalla circostanza di essere prestata in favore di una banca e di avere ad oggetto tutti i debiti presenti o futuri di un certo debitore, senza che vi fosse l'indicazione dell'importo massimo garantito. Il parametro normativo era stato individuato nell'art. 1938, che consente la fideiussione avente ad oggetto un credito futuro (o condizionato): secondo lo schema del contratto ad oggetto futuro, si spiegava, sorge subito l'impegno a carico del garante a prestare la garanzia, ma tale impegno si attualizza naturalmente quando sorge il credito (o si verifica la condizione). Durante la fase di quiescenza o pendenza del rapporto, il garante non pu revocare il proprio impegno e s entrambi i soggetti del rapporto di garanzia grava l'obbligo di comportarsi secondo correttezza. Da questo paradigma normativo si arriv ad elaborare la figura della fideiussione omnibus, connotata dalla peculiarit che la garanzia si estende a tutti i crediti futuri che il creditore garantito (normalmente una banca) andr a costituire nei confronti di quello stesso debitore. noto tuttavia che la giurisprudenza oscillava tra due soluzioni estreme: vi era da un lato la tesi prevalente della piena validit e vincolativit del contratto; si opponeva dall'altro la tesi decisamente minoritaria della relativa nullit (in funzione di tutela del fideiussore che appariva esposto all'arbitrio insindacabile della banca garantita). (1) La dottrina concorda nel sostenere che il dibattito sulla fideiussione omnibus ha inizio in termini significativi al declinare degli anni sessanta, a seguito della diffusione dei moduli ABI d.I. 1964-66: in tal senso cfr. DoLMETIA, La fideiussione bancaria attiva nell'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, in Fideiussione omnibus e buona fede, a cura di Munari, 1992, 3 (e gli Autori indicati alla nota 4). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 38 risprudenziale che si era sviluppato, particolarmente per i rapporti bancari, sulla validit delle fideiussioni per obbligazioni future senza limite di importo garantito. Queste, secondo un orientamento interpretativo minoritario, erano da considerare nulle, perch l'oggetto del contratto non sarebbe stato determinato o determinabile (art. 1346 cod. civ.); mentre, secondo l'interpretazione dominante, tali fideiussioni erano valide, giacch l'oggetto del contratto poteva essere determinato con riferimento al contratto bancario (per lo pi un'apertura di credito) cui la garanzia accedeva. Affermata, in conformit all'interpretazione prevalente, la non retroattivit dell'art. 10 della legge n. 154 del 1992, l'obbligo di prevedere, nelle fideiussioni per obbligazioni future, l'importo massimo garantito non potrebbe trovare applicazione alle fideiussioni prestate in precedenza, i cui effetti, quindi, permarrebbero; con la conseguenza che situazioni identiche, ad avviso del giudi- Mentre infatti una parte della dottrina (2) e la giurisprudenza di merito (3) dubitavano della validit del contratto per l'indeterminatezza ed indeterminabilit del suo oggetto ex art. 1346 cod. civ., che difetta proprio per la preminenza dell'aspetto potestativo (che lascia la banca ed il cliente liberi di intrattenere quanti rapporti vorranno, in assenza di una limitazione preventiva, al momento della stipula del contratto), nella giurisprudenza della Cassazione (4) era prevalsa nettamente la tesi della piena validit della fideiussione omnibus, in base alla spiegazione (S) che la possibilit di abusi della banca in danno del garante sarebbe stata in realt scongiurata dal fatto che l'esercizio dell'attivit bancaria , per diritto positivo, sottoposto ad un'articolata regolamentazione di carattere pubblicistico. Secondo l'impostazione dominante, l'oggetto della garanzia, bench non determinato, appariva comunque determinabile per (2) Tra i critici della fideiussione omnibus si possono annoverare: STOLFI, In tema di fideiussione per debiti futuri, in Riv. dir. comm., 1971, 1, 225; GALGANO, in Riv. crit. dir. priv., 1983, l; PORTALE, in Le garanzie bancarie internazionali, Milano 1989, 24, il quale arriva a sostenere che il contratto con clausola omnibus esonera la banca da ogni rischio d'impresa e trasforma il negozio in un Garantievertrag (e cio in un contratto autonomo di garanzia; RoPPO, Fideiussione omnibus : valutazioni critiche e spunti ricostruttivi, in Banca, borsa e tit. cr., 1987, 137; VALCAVI, in Foro it., 1985, I, 509, ma anche negli altri suoi scritti in materia; SIMONETTO, La fideiussione prestata dai privati, Padova, 102. Per una panoramica: cfr. Bozzr, voce Fideiussione omnibus, in Enc. giur., XIV, Torino, 1989, agg. 1993; e ancora VIALE, Le garanzie bancarie, in Tratt. dir. comm., diretto da GALGANO, Padova, 1994, 16. (3) Va ricordta innanzitutto la decisione con la quale si diede inizio al dibattito nella giurisprudenza di merito: Trib. Milano, 6 settembre 1979, in Dir. fall., 1981, II, 419. Nella stessa direzione si ricordano, tra le altre: Trib. Pistoia, 17 ottobre 1991, in ll fallimento, 1992, 937 (La fideiussione omnibus nulla per indeterminatezza dell'oggetto ai sensi dell'ad. 1418 e.e.); App. Milano, 4 ottobre 1988, in Giur. comm., 1989, II, 571, con nota di OLGIATI, ma anche in Banca borsa e tit. cr. 1989, II, 607 (E'nulla per assoluta indeterminabilit dell'oggetto la fideiussione prestata a favore di una banca a garanzia di tutte le obbligazioni presenti e future del debitore principale (c.d. fideiussione omnibus); App. Milano, 27 maggio 1988, in Giust. civ. ,1988, I, 2976, con nota di COSTANZA, ma anche in Dir. Fall. ,1989, II, 405, con nota di SIMONETTO, Ancora meditate sentenze di merito contrarie alla fideiussione c.d. omnibus; Trib. Roma, 27 maggio 1985, in Giust. civ. , 1986, I, 2000, con nota di PIAZZA. (4) Si ricordano, ex plurimis: Cass. 4 febbraio 1965, n. 182; Cass. 20 luglio 1967, 1887; Cass. 29 ottobre 1971, n. 3037, in Foro it., 1972, I, 396, con nota di MARTINELLI, ma soprattutto in Banca, borsa e tit. cr., II, 22, con nota di REscIGNO; Cass. 15 gennaio 1973, n. 118, in Giust. civ. 1973, I, 1548, con nota critica di Dr AMATO; Cass. 1 agosto 1987, n. 6656, in Foro it., 1988, I, 1947, con nota critica di VALCAVI. (5) Cfr. in tal senso: Cass. 27 gennaio 1979, n. 615 in Banca borsa e tit. cr., 1981, Il, 266, con nota di LAURINI, Determinabilit dei crediti e fideiussione omnibus. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 39 ce rimettente, sarebbero disciplinate diversamente, in violazione del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 della Costituzione). L'ordinanza di rimessione indica anche, quale ulteriore parametro per il giudizio di legittimit costituzionale, l'art. 47, primo comma, della Costituzione, che prevede sia incoraggiato e tutelato il risparmio e che sia disciplinato e controllato l'esercizio del credito. 2. - intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Awocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. relationem, essendo ex antea definiti i criteri che consentono poi la determinazione dell'oggetto (con una relatio non formale, si precis, ma sostanziale), che consistono: a) nella natura del debito del garante, che solo pecuniario; b) nell'individuazione dei soggetti, parti del rapporto obbligatorio, e nelle loro qualit, che si riflettono nel genere delle relazioni di fatto tra loro intercorrenti e sulle presumibili obbligazioni che ne potranno sorgere; c) nella natura delle operazioni economiche tra banca e debitore, che debbono rientrare tra quelle professionalmente proprie degli istituti di credito e quindi svolgersi secondo criteri di normalit. Di fronte a tale granitico indirizzo della Suprema Corte, vi fu chi (6) ironicamente fece notare che le critiche sollevate dalla dottrina avevano avuto la singolare ventura di essere maggiormente apprezzate dagli stessi istituti di credito, che non dalla Suprema Corte. Infatti, esse hanno pesato notevolmente nella revisione dei nuovi moduli fideiussori, adottati dall'associazione bancaria, con circolare n. 20 del 17 giugno 1987. In effetti, la maggioranza dei nuovi moduli ABI proponeva testi base di fideiussione con indicazione espressa dell'importo massimo garantito e concretamente questi testi hanno cominciato gradualmente a sostituire, nella prassi bancaria, i precedenti moduli di fideiussione con clausola omnibus. b) Sul finire degli anni Ottanta cominci a farsi strada una soluzione pi equilibrata dell'annosa querelle ed ebbe inizio quella che pu essere definita seconda fase evolutiva della controversa figura: con cinque decisioni della Suprema Corte del luglio del 1989 (7), si apr in effetti un nuovo corso e la discussione abbandon il terreno, pi astratto, della validit di tale forma di fideiussione per porsi sul terreno, pi concreto, dei limiti al suo operare (8). La Cassazione, pur non modificando la conclusione tradizionale in ordine alla validit del contratto, ridimension la vincolativit della garanzia attraverso una particolare ed innovativa applicazione del principio generale di buona fede oggettiva (9), (6) VALCAVI, op. cit., 1948. (7) Cass. 18 luglio 1989, n. 3362, in Giur. It. 1990, I, I, 1137, con nota di VALIGNANI; Cass. 20 luglio 1989, n. 3386, in Giur. It. 1990, I, I, 622, con nota di VALCAVI (che avevano ad oggetto una fideiussione illimitata) e Cass. 3385/1989; 3387/1989 e 3388/1989 (che avevano invece ad oggetto una fideiussione limitata). (8) DI MAJo, La fideiussione omnibus ed il limite della buona fede, nota a Cass. 18 luglio 1989, n. 3362, in Foro it., 1989, I, 2753; ma cfr. pure dello stesso Autore, Clausola omnibus nella fideiussione e buona fede, in Fideiussione omnibus e buona fede, cit., 41. (9) Sull'incidenza della buona fede, si vedano le puntuali ed approfondite osservazioni di DI MAJo, op. cit., 2762; nonch, l'ampia riflessione di DOLMETTA, op. cit., 20. Molto chiaro poi lo scritto di MARICONDA, Fideiussione omnibus e principio di buona fede: la Cassazione a confronto, in Foro it., 1989, I, 3102, che correttamente distingue le sentenze dell"89 in due distinti sottogruppi. Merita poi di essere segnalato -per la sua consueta chiarezza -il contributo di CANTILLO, La buona fede nella fideiussione omnibus secondo l'attuale orientamento della Corte di Cassazione, in Fideiussione omnibus e buona fede, cit., 57. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 40 Ad avviso dell'Awocatura, la questione non poteva essere sollevata dal giudice istruttore, il quale, per il compimento degli atti istruttori, non avrebbe dovuto fare applicazione della norma denunciata, destinata ad essere applicata nella fase della decisione della causa, la sola fase nella quale l'incidente di legittimit costituzionale potrebbe essere rilevante. Difatti la modifica della composizione del tribunale, quando giudica quale organo monocratico, determinerebbe l'identificazione in una stessa persona fisica delle figure del giudice istri:tttore e del giudice unico (decidente), ma non muterebbe le rispettive attribuzioni, che resterebbero distinte. E, ai fini della rilevanza della questione, dal- come correttezza comportamentale che penetra nella struttura del rapporto, orientandone lo svolgimento: per la Suprema Corte (10) infatti, la fideiussione omnibus, al pari della clausola del relativo contratto, con cui il garante dispensi l'istituto medesimo dall'onere di conseguire specifica autorizzazioI).e per nuove concessioni di credito in caso di mutamento delle condizioni patrimomali del debitore principale (art. 1956 c. c.), devono ritenersi valide ed efficaci, in considerazione della determinabilit per relationem dell'oggetto della fideiussione, sulla base di atti di normale esercizio dell'attivit creditizia, sottratti al mero arbitrio della banca, nonch in considerazione della disponibilit dei diritti del fideiussore, in ordine alla valutazione dell'opportunit dei finanziamenti in presenza di mutate situazioni economiche del debitore principale; peraltro, la banca beneficiaria di detta garanzia non si sottrae ai principi generali di correttezza e buona fede, che devono inderogabilmente presiedere al comportamento delle parti anche nella fase di esecuzione del rapporto (art. 1375 cod. civ.), sicch l'operativit di quella garanzia fideiussoria, o di quella clausola di dispensa, va esclusa non solo quando la banca abbia agito con il proposito di recare pregiudizio, ma anche quando non abbia osservato canoni di diligenza, schiettezza e solidariet, violando l'obbligo tassativo di ciascun contraente di salvaguardare gli interessi degli altri, nei limiti in cui ci non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico. Si trattava di una grande novit, soprattutto tenuto conto della (notoria) scarsa propensione del nostro giudice di legittimit all'utilizzazione della clausola generale di buona fede: ferma restando la determinabilit per relationem dell'oggetto del contratto ed il carattere non meramente potestativo della facolt della banca di ampliare il credito garantito, con operazioni successive, la Corte spostava finalmente l'angolo prospettico dal profilo della fattispecie (che l'aveva portata nella descritta prima fase ad occuparsi esclusivamente della validit o nullit della fattispecie, appunto) al profilo dell'attuazione del rapporto (nel cui ambito poteva operare il principio di buona fede). Sulla base di tali premesse teorihe, si arrivava ad affermare per la prima volta che l'impegno del garante pu essere reso inefficace qualora l'erogazione del credito al debitore principale sia awenuto in violazione delle regole di correttezza e buona fede comportamentale, che imponevano alla banca l'obbligo di salvaguardare la posizione del fideiussore. Si trattava di un'importante applicazione della teoria dei cd. obblighi di protezione, elaborata in Italia dal MENGONI (11) e sviluppata dal BENATTI (12), cui la (10) Cass. 18 luglio 1989, n. 3362, cit. (11) MENGONI, Obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi in Riv. dir. comm., 1954, I, 185, 280 e 366. (12) BENATTI, Osservazioni in tema di doveri di protezione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 1324 PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 41 l'ordinanza di rimessione non risulterebbe che, nel giudizio principale, si fosse passati dalla fase dell'istruttoria a quella della decisione. Nel merito, l'Avvocatura ritiene che il richiamo all'art. 47, primo comma, della Costituzione non sia pertinente, neppure con riferimento alla disciplina ed al controllo dell'esercizio del credito, che non riguarderebbero un contratto di garanzia. Non sarebbe, inoltre, violato l'art. 3 della Costituzione, perch, riconosciuta la perdurante efficacia di un contratto posto in essere prima che una norma lo escluda dall'ordinamento, la diversa valutazione nel tempo, da parte del legislatore, di un medesimo fatto o comportamento non potrebbe Cassazione pervenne con sottili argomentazioni (ci si riferisce alla sentenza n. 3362/89), che facevano leva, appunto, sulla distinzione tra il piano della fattispecie ed il piano dell'esecuzione e, perci, tra struttura del negozio nella sua fase genetica (nella quale andavano a collocarsi gli eventuali abusi di un contraente sull'altro) e attuazione del rapporto (nel momento successivo della sua esecuzione). Fase quest'ultima in cui il principio di buona fede integrativa doveva operare anche al di l e contro le specifiche previsioni contrattuali, permettendo di escludere la responsabilit del fideiussore nei confronti della banca, per le anticipazioni effettuate in favore del debitore garantito, in violazione del dovere integrativo di salvaguardia del fideiussore (13). c) Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/1997, che si annota (14), si chiude, in un certo senso, la terza fase della descritta evoluzione della fattispecie, fase che era stata inaugurata dall'entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria (legge 17 febbraio 1992, n. 154), il cui art. 10, modificando l'art. 1938 cod. civ., richiede la necessaria indicazione, a pena di nullit della fideiussione, dell'importo massimo garantito, con l'effetto di bandire dal nostro sistema le garanzie per importo non determinato o determinabile ex antea, secondo un'impostazione che stata mutuata dall'esperienza giuridica tedesca (15). Un problema diverso (non certo meno importante, ma che comunque esorbita dalla presente indagine) pone invece la modifica dell'art. 1956, nella parte in cui esclude l'autorizzazione preventiva da parte del fideiussore all'erogazione del credito al debitore principale, qualora quest'ultimo abbia mutato la propria consistenza patrimoniale, rendendo pi gravoso il soddisfacimento del credito. III. La Corte conferma il sistema binario sancito dalla giurisprudenza della Cassazione, che ha costantemente escluso la retroattivit della novella, con la conseguenza di riconoscere la perdurante validit dei contratti stipulati anteriormente all' entrata in vigore della legge, sebbene destinati a produrre i loro effetti successivamente. Il (13) Nella stessa direzione si veda la pi recente Cass., sez. I. 19 gennaio 1995, n. 558, in Giur. It., 1996, I, 1, 671, per la quale la fideiussione omnibus valida in virt della detenninabilit per relationem dell'oggetto, sulla base di atti di nonnale esercizio dell'attivit bancaria, sottratti, in quanto tali, al mero arbitrio della banca; alla validit del negozio, sul piano strutturale, corrisponde l'obbligo della banca di comportarsi secondo buona fede nel momento esecutivo, obbligo che non incide sulla validit del contratto stesso, o di sue singole clausole, in relazione al criterio di meritevolezza attinente alla fattispecie, ma che trova rilievo, perl'appunto, nella fase attuativa,,. (14) Tra i primi commentatori si segnalano: PISELLI, La responsabilit del garante senza limiti solo per i debiti sorti prima della rifonna, in Guida al diritto, 19 luglio 1997, 27, 40; nonch, LOMBARDI, in Corr. Giur., 1998, n. 1, 32. (15) Lo rileva CALDERALE, nella voce Fideiussione omnibus, in Dig. disc. priv., sez. civ., VIII, Torino, 1992, 277. Si segnala lo studio comparatistico di RAN!Eru, La fideiussione Omnibus nell'esperienza giuridica straniera, in Fideiussione omnibus e buona fede, cit., 69. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 42 costituire termine di comparazione per verificare il rispetto del principio di eguaglianza. Sarebbe, anzi, ragionevole tutelare l'affidamento e la certezza delle relazioni giuridiche, mantenendo gli effetti di un rapporto intersoggettivo in conformit alla disciplina della legge vigente al momento in cui il contratto sorto. Considerato in diritto 1. -La questione di legittimit costituzionale investe l'art. 1938 del codice civile, che disciplina la fideiussione per obbligazioni future. Questa disposizione prescrive, a seguito delle modifiche apportate con l'art. 10 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (Norme per la trasparenza delle operazioni e dei sergiudice delle leggi ha infatti dichiarato infondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 1938 cod. civ., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 47, primo comma, Cost., dal giudice istruttore presso il Tribunale di Varese, con ordinanza emessa il 4 aprile 1996 (16), pronunciandosi per la prima volta sulla figura della fideiussione omnibus. L'occasione stata fornita da un'azione di nullit di un contratto di fideiussione omnibus stipulato anteriormente all'entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (il cui art. 10, riformulando la norma codicistica sulla fideiussione per obbligazione futura dell'art. 1938, richiede, a pena di nullit, la necessaria indicazione dell'importo massimo garantito). La Banca, naturalmente, sosteneva la validit del contratto, facendo leva sul carattere irretroattivo della riforma, in assenza di una disposizione transitoria diretta a disciplinare la sorte delle fideiussioni ad importo illimitato sorte anteriormente alla legge del 1992, ma con effetti che si protraggono oltre la data della sua entrata in vigore. Il giudice a quo aderisce alla tesi (prevalente nella giurisprudenza della Cassazione) del carattere non retroattivo della modifica normativa, ma da ci fa derivare la disparit di trattamento tra le fattispecie regolate dalla vecchia norma e le fattispecie che (a far data dal 9 luglio 1992) sono regolate dalla novella, che ha bandito dal nostro sistema le fideiussioni per importo illimitato. In sostanza, dunque l'art. 1938 risulterebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perch situazioni identiche sarebbero assoggettate a regolamentazioni diverse (solo ad colorandum si assume la violazione anche dell'art. 47, primo comma, Cost., poich il giudice remittente non giustifica l'assunto con alcuna motivazione). L'Avvocatura intervenuta eccependo l'inammissibilit della questione, perch sollevata dal giudice istruttore civile presso il Tribunale, e ci sul presupposto che questi sprovvisto di legittimazione a sollevare questioni di costituzionalit su norme di cui non pu fare diretta applicazione, perch riferite alla fase decisoria rimessa al collegio. La peculiarit del caso di specie era offerta dalla competenza anche per il merito del giudice istruttore rimettente quale giudice unico, che per ad avviso dell'Avvocatura non valeva a modificare l'indirizzo restrittivo. a) Soffermandoci innanzitutto sui profili processuali della questione, la Corte ha affrontato per la prima volta il problema della legittimazione del giudice istruttore a sollevare incidenti di costituzionali, con riguardo a norma applicabile e rilevante (16) L'ordinanza di rimessione pubblicata in Foro it., 1996, I, 1834, con nota di richiami, ma anche in Banca, borsa e tit. cr., 1996, II, 597. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 43 vizi bancari e finanziari), che sia previsto l'importo massimo garantito. Lo stesso limite non varrebbe, tuttavia, per le fideiussioni prestate prima dell'entrata invigore (9 luglio 1992) della legge di riforma, le quali sarebbero tut tora.valid ed efficaci. Sicch, ad avviso del giudice istruttore del Tribunale diVarese; sarebbe violato l'art; 3 della Costituzione, in presenza di una disciplina ingiustificatamente diversa per situazioni analoghe, oltre che l'art. 47, primo comma, della Costituzione. "L'eccezione, proposta dall'Avvocatura dello Stato, di inammissibilit 27 della questione di legittimit costituzionale, perch sollevata dal giudice istrutt>re, non pu)essere accolta ... L'Avvocat.ra ritiene che, nella fase istruttoria, il giudice non avrebbe potuto valutare la rileva.za e la non manifesta infondatezza del dubbio di legittimit costituzionale della norma che disciplina il merito della causa, da apprezzare invece nella fase di decisione. L'eccezione di inammissibilit presuppone che, anche dopo la legge 26 novembre 1990; h. 353, che ha modificato la disciplina del processo civile, nella fase decisoria del giudizio, dopo la trasformazione del Tribunale in organo monocratico. Secondo la tesi dell'Awocatura il difetto di legittimazione ricorreva anche nell'ipotesi del giudice istruttore in funzione digiudice unico (ex art. 190 bis c.p.c.), ove non cisia stato ancora ilpassaggio della causa dalla fase istruttoria a quella decisoria, perch l'identificazione in una stessa persona fisica delle figure del giudiee istruttore e del giudice unico. non comporterebbe anche l'identificazione delle rispettive attribuzioni (che resterebbero nettamente distinte e separate, in funzione della preparazione della causa per il giudizio owero della decisione della lite). La giurisprudenz della Corte si arricchisce, al riguardo, di un'importante precisazione: Per indirizzo costante del giudice delle leggi: -sussiste la lgittimazfone del giudice iStruttore a sollevare incidente di costituzionalit solo con riferimento a questioni concernenti disposizioni di legge che tale giudice deve applicare per protivedimenti che rientrano nell'ambito della sua competenza (ex miiltis: ord. n. 436/94); . -non sussiste quando la nonna impugnata assume rilevanza per la risoluzione del merito della causa, in quanto in tal caso la competenza spetta al collegio (cfr. ord. citata, nonch le ordinanze nn. 215 e 147 del 1992); Nel solco di tale impostazione si inserisce la sentenza che si annota, nella quale si precisa che la legittimazione del gi.udice ( ...) dunque ancorata alla rilevanza concreta ed attuale della questione, che pu essere sollevata solo dal giudice nel momento in cui chiamato ad applicare la nonna della cui legittimit costituzionale dubita. Questa regola viene ora applicata alle novit introdotte dalla novella che ha riformato il processo civile. Gi una precedente ordinanza (la n. 295/96) aveva chiarito che tale impostazione poteva valere solo per i giudizi anteriori o pendenti alla data (il 30 aprile 1995) di entrata in vigore dell'art. 190 bis, che ha trasformato il giudice istruttore in giudice unico, perch in tale nuovo contesto -precisa la sentenza in rassegna allo stesso giudice istruttore spetta, nelle cause delle quali ( ...)ha esclusiva cognizione, individuare fa nonna da applicare alla questione sottoposta al suo giudizio. N occorre attendere il momento conclusivo del processo ( ...), quando chiaro che dalla sua soluzione dipende la decisione della causa e, ancor prima, lo sviluppo istruttorio di esso. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 44 valga la precedente distinzione tra giudice istruttore e tribunale, anche quando quest'ultimo sia a composizione monocratica, giacch vi sarebbe identit nelle I persone fisiche ma distinzione degli organi e delle fasi del procedimento. La giurisprudenza costituzionale ha, sino ad ora, affermato che il giudice I ~ istruttore nel processo civile non pu sollevare questioni di legittimit costi = tuzionale delle norme da applicare per la definizione della controversia, la cui identificazione e valutazione riservata al tribunale, il quale, nella sua composizione collegiale, chiamato a giudicare del merito (ordinanza n. 295 del 1996; ordinanza n. 503 del 1995; ordinanze nn. 436 e 424 del 1994; sentenza n. 1104 del 1988; sentenza n. 125 del 1980). Il giudice istruttore pu, invece, proporre incidente di costituzionalit relativamente alle norme che egli stesso debba applicare, per adottare provvedimenti attribuiti alla sua competenza (sentenza n. 84 del 1996; sentenza n. 278 del 1994; ordinanza n. 199 del 1990). b) Passando al merito della questione, il giudice a quo aveva rilevato che -aderendo alla tesi giurisprudenziale dominante (17) sul carattere innovativo della novella, che non pu applicarsi retroattivamente ai rapporti preesistenti -le garanzie ad importo illimitato stipulate anteriormente (in assenza di una disposizione transitoria che regoli le situazioni pregresse) continuano ad essere efficaci, con la conseguenza che si avrebbero situazioni analoghe disciplinate diversamente in violazione dell'art. 3 Cost. La Corte ha invece escluso che la riformulazione dell'art. 1938 introduca una disparit di trattamento, in quanto la vecchia norma non acquista carattere ultrattivo e perci investe solo i rapporti di garanzia sorti prima della legge, non quelli successivi. E la diversit di disciplina tra fideiussioni omnibus anteriori alla novella (che rimangono efficaci per la sua irretroattivit) e quelle successive (che sono vietate se ad importo illimitato) non d luogo ad alcuna disparit di trattamento di fattispecie identiche, ma rispecchia, piuttosto, la diversa qualificazione degli atti, nel tempo, da parte del legislatore, il quale, nel dettare una nuova regola attinente ad un requisito del contratto, non travolge gli obblighi gi sorti in base alla normativa precedente. In realt, l'art. 10 primo comma della legge sulla trasparenza bancaria, che riformula gli artt. 1938 e 1956 cod. civ. esigendo la previsione dell'importo massimo garantito e negando la possibilit di preventiva rinuncia del fideiussore ad invocare la propria liberazione per crediti concessi nonostante le difficolt economiche del debitore, stato oggetto di vivaci discussioni in dottrina. Alcuni Autori (18) sostenevano, infatti, che quella citata era norma di interpretazione autentica che sostanzialmente accoglie l'interpretazione data da quegli autori e giudici di merito che hanno :.. sostenuto, de jure condito, opinioni consone a quelle oggetto dell'odierno art. 1 O, anche in costanza delle vecchie nonne, con la conseguenza che tutte le fideiussioni per obbligazioni future anteriori alla novella dovevano ritenersi nulle, ove mancasse l'indicazione del (17) La giurisprudenza della Cassazione sul punto pressoch unanime. Tra le prime decisioni si segnalano: Cass. 25 agosto 1992, 9839, in Banca, borsa e tit. cred., 1993, Il, 237, con nota di DDLMETIA, Fideiussioni chiuse" e legge sulla trasparenza: una massima della Cassazione; Cass. 19 marzo 1993, n. 3291, in Foro it., 1993, I, 2171, con nota critica di VALCAVI, Sul carattere innovativo della nonna che vieta le fideiussioni omnibus" illimitate e sulla sua applicazione retrospettiva alle liti pendenti, oppure in Corr. giur., 1993, 692, con nota di MARICONDA, Fideiussioni omnibus, irretroattivita della novella, clausola a prima richiesta,,. (18) Cfr.: VALCAVI, Sulla nullit ope legis" delle fideiussioni omnibus" e sulle relative conseguenze, in Foro it., 1992, I, 795; lACUANIELLO BRUGGI, La fideiussione omnibus" tra recente passato e prossimo futuro, in Giur. it., 1992, I, 1, 1311. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 45 La legittimazione del giudice a proporre incidente di legittimit costituzionale , dunque, ancorata alla rilevanza concreta ed attuale della questione, che pu essere sollevata solo dal giudice nel momento in cui chiamato ad applicare la norma della cui legittimit costituzionale dubita. Questa regola porta ora a conclusioni diverse rispetto a quelle delineate in passato, essendo mutata la configurazione dei poteri del giudice istruttore, secondo la disciplina del processo civile quale risulta a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 353 del 1990. Fuori dei casi espressamente riservati alla cognizione collegiale, in materia civile il tribunale decide in persona del giudice istruttore (art. 48 dell'Ordinamento giudiziario, modificato con l'art. 88 della legge n. 353 del 1990), che si configura, dunque, quale giudice unico con tutti i poteri del col l'importo massimo garantito. Ma era prevalsa anche in dottrina (19) la tesi opposta (assolutamente dominante in Cassazione) (20) del carattere irretroattivo della norma in parola, che portava ad un sistema binario, con i contratti fideiussori vecchi (sottratti alla normativa sulla trasparenza bancaria) e contratti fideiussori <. ciato l'illegittimit costituzionale del comma primo dell'art. 8 per violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo dell'irrazionale trattamento diverso di fattispecie [: analoghe. I motivi di censura della norma sollevati dal giudice a quo sono stati sostan !i zialmente accolti nella sentenza. 1~: Nella motivazione si precisa che l'identit originaria di pena per i reati in questiom r.: ne esprimeva una identica valutazione legislativa circa la gra'l{it dei fatti da essi pre'!'. visti, che troverebbe ulteriore conferma nella stretta connessione tra le due fattispecie 'j: che, seppure oggettivamente e soggettivamente diverse, finirebbero per coincidere ~ ~~ PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 49 della obiezione di coscienza), come sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695 (Modifich.e agli artt. 2 e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per il riconoscimento della obiezione di coscienza), concernente il rifiuto di prestazione del servizio sostitutivo civile da parte di persona gi ammessa a svolgerlo, il giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Pavia ha sollevato, con ordinanza del 14 febbraio 1997, questione di legittimit costituzionale della richiamata disposizione penale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione. 2. -La norma impugnata, della quale il giudice a quo deve fare applicazione alla stregua della contestazione portata a giudizio e delle risultanze del procedimento, prevede, per chi, ammesso ai benefici della (presente) legge, sotto il profilo del significato delle condotte. La fattispecie di cui al primo comma, infatti, viene ricostruita, con ragionamento non del tutto lineare, come comprensiva dei fatti delittuosi descritti nel secondo comma, come una sorta di obiezione totale a formazione progressiva. Con queste argomentazioni, la Corte motiva l'attesa riduzione della sanzione per il reato di rifiuto del servizio sostitutivo al fine di equipararla a quella gi prevista per il rifiuto globale del servizio militare. La pronuncia in esame si segnala per alcuni interessanti elementi. Tra questi, l'applicazione, sempre pi diffusa nella giurisprudenza della Corte, del c.d. giudizio di ragionevolezza in tema di sanzioni penali (cfr. sentt. Corte Cost. 25/94, 333/92, 32/96 ed ordinanza 220/96). In base al principio de quo, anche se spetta al legislatore la determinazione della qualit e quantit della sanzione penale, rientra nei poteri della Corte la possibilit di sindacare la ragionevolezza delle valutazioni compiute dal legislatore in ordine al rapporto tra la sanzione prevista per il reato e la sua effettiva gravit, anche alla luce (come nel caso in rassegna) del confronto con fattispecie analoghe o comunque compatibili con quella censurata. Altro aspetto meritevole di attenzione l'adozione di un dispositivo di natura Sostitutiva in tema di congruit tra reati e pene. La Corte, cio, non si limitata ad accogliere la questione di illegittimit costituzionale censurando la norma, ma ha contestualmente indicato la pena da applicare in luogo di quella dichiarata illegittima, con riferimento alla pena prevista per un altro reato, tertium comparationis nel giudizio sulla ragionevolezza della norma impugnata. I precedenti in materia non sono numerosi, il pi significativo offerto proprio nella ricordata sentenza 409/89, attesa la resistenza incontrata da questi c.d. interventi manipolativi del Giudice costituzionale in un settore tanto delicato e coperto da riserva assoluta di legge (cfr. MODUGNo-R. D'ALESSIO, Verso una soluzione legislativa del problema dell'obiezione di coscienza?, in Giur. it., 1990, V, 97 ss.; A. PuGioTTo, Dottrina del diritto vivente e ridefinizione delle sentenze additive, in Corte Cost., 1992, 3694, ss.; REscIGNo, Riflessioni sulle sentenze manipolative da un lato e sulla delimitazione della questione di costituzionalit dall'altro, suggerite dalla sent. 139189, in Corte Cost., 1989, I, 654 ss.). In ultimo, si segnala il profilo certamente pi interessante della sentenza in oggetto, attinente, latu sensu, ai suoi presupposti. Come gi segnalato, infatti, la Corte intervenuta con l'attuale pronuncia al fine di ristabilire un equilibrio nell'assetto sanzionatorio interno all'art. 8, da essa stessa sbilanciato per effetto di una precedente pronuncia. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 50 rifiuti il servizio militare non armato o il servizio sostitutivo civile, la sanzione della reclusione tra un minimo di due anni e un massimo di quattro anni. Questa previsione sanzionatoria appare al rimettente di dubbia costituzionalit, sotto un duplice profilo. Per un primo aspetto, la misura della pena edittale sarebbe ingiustificatamente maggiore rispetto a quella applicabile nei riguardi dell'obiettore totale, vale a dire di colui che rifiuti il servizio militare, adducendo un motivo previsto dalla legge, al di fuori dei casi e delle procedure di ammissione a uno dei servizi sostitutivi. Per questi, infatti, in applicazione del secondo comma dell'art. 8 della legge n. 772 del 1972, la misura della pena stabilita nella reclusione da sei mesi a due anni, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 409 del 1989, che, in virt del raffronto tra il reato di rifiuto globale del servizio e quello di mancanza alla chiamata (art. 151 cod. pen. mil. pace), ha sostituito la pena stabilita dal secondo comma dell'art. 8 pena originariamente determinata in misura uguale a quella prevista nell'attuale primo comma -con quella prevista dalla norma del codice militare Atteso che la fattispecie del primo comma appariva gi intimamente legata, per l'aspetto del trattamento sanzionatorio, a quella del secondo comma (come testimoniato dall'originario richiamo testuale alla stessa pena soggiace ... con il quale si apriva il secondo comma) c' da chiedersi se ed entro quali limiti la Corte, pronunciandosi sulla pena prevista per il reato di cui al comma secondo, avrebbe potuto estendere l'esame all'identica pena prevista nel primo comma per l'altro delitto, al fine di conservare l'assetto sanzionatorio voluto dal legislatore. Una risposta a questo interrogativo, non pu che essere ricercata all'interno del quadro normativo che delimita i poteri della Corte. Ed in quest'ottica il riferimento offerto dall'art. 27 della legge 87/53 che disciplina l'illegittimit costituzionale consequenziale: "la Corte dichiara altres quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimit deriva come conseguenza della decisione adottata. L'interpretazione dell'istituto de quo, tuttavia, non pacifica neppure nella giurisprudenza della Suprema Corte. A volte l'illegittimit consequenziale viene riferita alle ipotesi in cui la causa dell'illegittimit la pronuncia medesima, ed in questo senso la Corte dovrebbe rimuovere gli effetti incostituzionali della sua pronuncia, altre volte, invece, viene ricondotta alle norme che risulterebbero illegittime perch inficiate dagli stessi vizi della norma specificatamente censurata. In base al diverso orientamento adottato, talvolta l'illegittimit derivata stata contenuta nei minimi termini, con riguardo a quelle norme strumentali o di dettaglio, che sarebbero comunque rese inapplicabili dall'annullamento della disciplina che esse presuppongono (o sulla quale si fondano). Altre volte, essa stata utilizzata per analogia , caducando norme che sarebbero rimaste sbilanciate (SANDULLI, Il giudizio sulle leggi, Milano, 1967) qualora fossero sopravvissute all'annullamento della disciplina specificatamente impugnata (cfr. il caso esemplare, sempre in tema di reati militari, della sentenza 26/1979). evidente che la sentenza esaminata riflette le problematiche e le incertezze connesse all'applicazione dell'illegittimit costituzionale consequenziale, e, in primis, la difficolt di conciliarla con il generale principio della corrispondenza chiesto-pronunciato. G.P.P. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE (reclusione da sei mesi a due anni). Ne derivato, secondo la prospettazione del giudice rimettente, uno squilibrio dell'assetto punitivo interno all'art. 8, irragionevolmente deteriore per chi rifiuti il servizio sostitutivo dopo esservi stato ammesso (primo comma) rispetto a chi rifiuti tout court il servizio (secondo comma): pur non essendo le condotte richiamate del tutto omogenee, il disvalore sociale a ciascuna di esse attribuito dal legislatore sarebbe stato originariamente, e sarebbe tuttora, il medesimo. Varrebbe come indice l'identit delle pene previste per le rispettive incriminazioni nel testo dell'art. 8 anteriore alla sentenza. Per un secondo e collegato aspetto, l'attuale diversificazione sanzionatoria pare al giudice a quo contrastare altres con il finalismo rieducativo della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione), quale principio che impone il rispetto del criterio di proporzione tra offesa e sanzione, dovendosi tenere conto, nel bilanciamento degli interessi che presupposto alla determinazione della sanzione, del mutato assetto normativo derivante dalla ricordata pronuncia della Corte costituzionale. Del resto, ad avviso del giudice rimettente, la differenziazione punitiva censurata non neppure coerente con la disciplina, contenuta nello stesso art. 8, che regola le speciali cause estintive del reato o della pena in caso di successiva richiesta -accolta -di assegnazione a un servizio sostitutivo (quarto e settimo comma dell'art. 8), giacch questa disciplina di incentivazione del recupero dell'obiettore non differenzia in alcun modo le due fattispecie incriminatrici cui riferita, quanto a condizioni ed effetti; anche sotto tale profilo, ne risulterebbe confermata l'intenzione legislativa originaria della piena equiparazione tra i due casi. La questione sollevata rilevante -conclude il rimettente -perch incide sulla valutazione della congruit della pena, concordata dalle parti, allo stato, in base ai limiti edittali vigenti. Considerato in diritto 1. -Il giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Pavia dubita della legittimit costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dell'art. 8, primo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento della obiezione di coscienza), come sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695 (Modifiche agli artt. 2 e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per il riconoscimento della obiezione di coscienza), il quale punisce con la reclusione da due a quattro anni colui che, ammesso ai benefici previsti dalla legge, rifiuta la prestazione del servizio militare non armato o il servizio sostitutivo civile. Ritiene innanzitutto il giudice rimettente che la misura della pena comminata per il reato in questione sia ingiustificatamente diversa e maggiore RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 52 rispetto a quella prevista dal secondo comma del medesimo articolo per il fatto del cosiddetto obiettore totale, cio di colui il quale, al di fuori dei casi di ammissione ai benefici del servizio militare non armato o del servizio civile, adducendo i motivi di coscienza previsti dall'art. 1 della legge n. 772 del 1972, rifiuta, in tempo di pace, prima di assumerlo, il servizio militare di leva. La pena prevista per tale ipotesi di reato era originariamente fissata nella stessa misura di quella prevista nel primo comma. Ma con la sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte, a seguito del raffronto operato tra il reato di rifiuto globale del servizio (secondo comma dell'art. 8) e quello di mancanza alla chiamata previsto dall'art. 151 cod. pen. mil. pace, la pena della reclusione da due a quattro anni stabilita per il primo stata sostituita con quella meno grave della reclusione da sei mesi a due anni, prevista per il secondo. Analoga riduzione non essendosi determinata con riguardo alla pena comminata per il reato previsto nel primo comma, ne sarebbe derivato, ad avviso del giudice rimettente, un ingiustificato squilibrio tra le pene relative ai reati rispettivamente previsti nei due primi commi dell'art. 8. Da qui la prospettata violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo dell'irrazionale trattamento diverso di fattispecie analoghe. In secondo luogo, il giudice rimettente ritiene rotta la proporzione tra la gravit dell'offesa e la misura della sanzione. La prevista pena da due a quattro anni di reclusione risulterebbe infatti eccessiva rispetto al disvalore del fatto, il quale sarebbe da misurare alla stregua delle considerazioni contenute nella sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte, riferibili anche all'ipotesi di reato del primo comma dell'art. 8, tenuto conto altres della comune possibilit, prevista dal quarto comma del medesimo articolo, riconosciuta all'imputato o al condannato, di formulare (nell'ipotesi prevista dal secondo comma) o di riformulare (in quella prevista dal primo comma) domanda di assegnazione al servizio militare non armato o a un servizio civile sostitutivo: domanda che, se accolta, produce in entrambe le ipotesi gli effetti estintivi indicati nel settimo comma del medesimo articolo. Da qui la censura d'incostituzionalit per violazione del principio della finalit rieducativa della pena previsto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. La proposta questione mira in definitiva a ottenere, attraverso una decisione d'incostituzionalit di questa Corte, un riallineamento della misura delle pene per i reati previsti nei due primi commi dell'art. 8 della legge n. 772 del 1972, al livello determinato per il reato di obiezione totale dalla sopra ricordata sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte. 2. -La questione fondata. L'ipotesi prevista dal primo comma dell'art. 8 presuppone che il soggetto, avendone fatto domanda sulla base dei motivi di coscienza indicati dall'art. 1 della legge, abbia ottenuto l'ammissione al servizio militare non arma PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE to o al servizio sostitutivo civile. Il reato consiste nel fatto di colui che successivamente rifiuta -perusare la formula della legge -i benefici ai quali stato ammesso. L'ipotesi prevista dal secondo comma, invece, prevede il caso di colui che, adducendo i motivi di coscienza indicati dall'art. l, al di fuori dei casi di ammissione al servizio militare non armato o al servizio sostitutivo civile, rifiuta, prima di assumerlo, il servizio militare di leva. Le due ipotesi di reato sono dunque diverse tanto dal punto di vista soggettivo quanto da quello oggettivo. Ci, se non consente interventi omologanti sulle fattispecie, ognuna delle quali dotata di una sua autonoma ragion d'essere (cos la sentenza n. 422 del 1993 di questa Corte), non esclude peraltro che possa essere compiuta una valutazione comparativa in ordine alla razionalit delle diverse misure delle pene, dal punto di vista dei caratteri delle due condotte: una valutazione sull'arbitrariet delle scelte legislative che, nei limiti dell'evidenza, compete a questa Corte senza che ci comporti invasione nella discrezionalit del legislatore (sentenze n. 84 del 1997, n. 313 del 1995, n. 341del1994). Al fine di tale valutazione sufficiente considerare che i primi due commi dell'art. 8 della legge n. 772 hanno a che vedere con ipotesi di reato che, dal punto di vista del significato delle condotte che prevedono, possono finire per coincidere. Il primo comma dell'art. 8 prevede il caso di chi, all'inizio, avendo avanzato motivi di coscienza contro il servizio militare armato, ottiene per questo di essere ammesso al servizio militare non armato o al servizio sostitutivo civile e poi, in un momento successivo, rifiuta di assoggettarsi anche a queste diverse prestazioni. Nella fattispecie prevista dal primo comma dell'art. 8 potrebbero perci rientrare casi di obiezione totale che vengono a determinarsi per fasi successive. bens vero che la fattispecie prevista da tale primo comma ha una portata pi comprensiva, riguardando il rifiuto del servizio militare non armato e del servizio sostitutivo civile tanto per i motivi di coscienza previsti dall'art. 1, quanto per qualunque altro diverso motivo. Ed dunque vero che l'equiparazione della previsione del primo comma a quella del secondo, sotto l'anzidetto profilo del medesimo significato delle condotte, in astratto potrebbe essere fatta solo nel primo caso, e non nel secondo. Ma il legislatore e solo il legislatore che, volendo, avrebbe potuto distinguere, considerando rilevante la natura dei motivi del rifiuto opposto alla soggezione al servizio militare non armato o al servizio sostitutivo civile. In mancanza di una tale distinzione legislativa, giocoforza considerare unitariamente la fattispecie del primo comma dell'art. 8, sotto il profilo della medesima gravit dei fatti che in essa ricadono. Ci che appare decisivo, ai fini del presente giudizio di costituzionalit, allora la stretta connessione fra le fattispecie dei due primi commi dell'art. 8 della legge n. 772 e l'identit di valutazione del legislatore circa la gravit dei fatti che essi prevedono, identit di valutazione che si esprimeva originariamente nell'identit di pene, stabilita l'una con una formula di rinvio all'altra (Alla stessa pena soggiace ... ). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 54 Il sistema delineato dalle disposizioni in esame, a seguito della sentenza n. 409 del 1989 che, in relazione comparativa col reato previsto dall'art. 151 cod. pen. mil. pace, ha gi pi che dimezzato la pena per la fattispecie prevista nel secondo comma dell'art. 8, risulta dunque manifestamente privo di razionalit e quindi incostituzionale per violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione. Il rimedio che consentito a questa Corte apprestare non pu consistere in altro che in una pronuncia d'incostituzionalit del denunciato primo comma del medesimo art. 8 dalla quale consegua la rinnovata equiparazione delle pene nella misura attualmente prevista dal secondo comma. 3. -La predetta dichiarazione d'incostituzionalit dell'art. 8, primo comma, della legge n. 772 del 1972 per violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione assorbe la censura prospettata per violazione dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione (omissis). SEZIONE SECONDA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE Le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunit europee pronunciate nel corso dell'anno 1997 in cause alle quali ha partecipato 11talia. Nel corso del 1997 la Corte di Giustizia delle Comunit europee ha emesso 35 sentenze in cause cui ha partecipato l'Italia (di cui 7 in ricorsi della Commissione C.E. contro l'Italia, 1 in un ricorso dell'Italia contro la Commissione, 28 in cause pregiudiziali promosse, ai sensi dell'art. 177 del trattato C.E. da giudici italiani o di altri paesi comunitari). Tre sono state le sentenze del Tribunale di primo grado. Quelle della Corte di giustizia sono state, oltre quelle pubblicate per esteso nel presente numero di questa Rassegna, le seguenti (alcune delle quali saranno pubblicate per esteso nei prossimi numeri della Rassegna): -9 gennaio 1997, nella causa C-255/95, Soc. Agri c. Regione Veneto, con la quale la Corte, in tema di aiuti alla estensivizzazione della produzione agricola, ha statuito che l'art. 1 ter, n. 3, lett. c), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 marzo 1985, n. 797, relativo al miglioramento dell'efficienza delle strutture agrarie, come modificato con regolamento (CEE) del Consiglio 15 giugno 1987, n. 1760, ambedue modificati con regolamento (CEE) del Consiglio 25 aprile 1988, n. 1094, e l'art. 4, nn. 1 e 2, del regolamento (CEE) della Commissione 21 dicembre 1988, n. 4115, che stabilisce le modalit di applicazione del regime di aiuto all'estensivizzazitme della produzione, devono essere interpretati nel senso che non consentono ad uno Stato membro, in caso di calo della produzione verificatosi durante il periodo intermedio compreso tra la fine del periodo di riferimento e l'inizio del periodo di impegno, di subordinare comunque la concessione dell'aiuto alla 'estensivizzazione' alla condizione che la produzione realizzata nel corso del periodo intermedio venga ridotta, durante il periodo di impegno, di una quantit corrispondente almeno al 20% della produzione del periodo di riferimento. -23 gennaio 1997, nella causa C-314/95, Commissione c. Italia, dove la Corte, in tema di rawicinamento delle legislazioni in materia sanitaria, ha dichiarato che avendo omesso di adottare entro i termini prescritti le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie a conformarsi: -alla direttiva del Consiglio 16 giugno 1992, 92/45/CEE, relativa ai problemi sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione di selvaggina e di commercializzazione delle relative carni; -alla direttiva del Consiglio 16 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 56 giugno 1992, 92/46/CEE, che stabilisce le norme sanitarie per la produzione e la commercializzazione di latte crudo, di latte trattato termicamente e di prodotti a base di latte; -alla direttiva del Consiglio 13 luglio 1992, 92/65/CEE, che stabilisce norme sanitarie per gli scambi e le importazioni nella Comunit di animali, sperma, ovuli e embrioni non soggetti, per quanto riguarda le condizioni di polizia sanitaria, alle normative comunitarie specifiche di cui all'allegato A, sezione I, della direttiva 90/425/CEE; -alla direttiva del Consiglio 26 ottobre 1992, 92/88/CEE, che modifica la direttiva 74/63/CEE relativa alle sostanze e ai prodotti indesiderabili nell'alimentazione degli .animali; -alla direttiva del Consiglio 1 7 dicembre 1992, 92/116/CEE, che modifica e aggiorna la direttiva 711118/CEE relativa a problemi sanitari in materia di scambi di carni fresche di volatili da cortile; alla direttiva del Consiglio 17 dicembre 1992, 92/117/CEE, riguardante le misure di protezione dalle zoonosi specifiche e la lotta contro agenti zoonotici specifici negli animali e nei prodotti di origine animale allo scopo di evitare focolai di infezioni e intossicazioni alimentari; e -alla direttiva del Consiglio 17 dicembre 1992, 92/118/CEE, che stabilisce le condizioni sanitarie e di polizia sanitaria per gli scambi e le importazioni nella Comunit di prodotti non soggetti, per quanto riguarda tali condizioni, alle normative comunitarie specifiche di cui all'allegato A, capitolo I, della direttiva 89/662/CEE e, per quanto riguarda i patogeni, alla direttiva 90/425/CEE; la Repubblica italiana venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza, rispettivamente, degli artt. 23, 32, 29, 2, 3, 17 e 20 di tali direttive. -18 marzo 1997; nella causa C-343/95, Cal c. Servizi ecologici porto di Genova S.p.A., in tema di concorrenza, dove stato statuito che l'art. 86 del Trattato CE va interpretato nel senso che un'attivit di sorveglianza antinquinamento che un ente di diritto privato stato incaricato di svolgere da parte dei pubblici poteri in un porto petrolifero di uno Stato membro non rientra nella sfera d'applicazione cli detto articolo, nemmeno nel caso in cui gli utenti del porto debbano versare un contributo destinato a finanziare detta attivit. -5 giugno 1997, nella causa C-105/97, Celestini, con la quale, in relazione all'organizzazione comune di mercato del settore vitivinicolo, la Corte ha deciso che: 1. -gli artt. 30 e 36 del Trattato CE devono essere interpretati nel senso che non ostano a che uno Stato membro assoggetti il vino prodotto in un altro Stato membro a un controllo idoneo allo scopo di accertarne la conformit alle norme comunitarie, anche se il vino accompagnato da regolari certificati di analisi rilasciati da laboratori debitamente autorizzati nello Stato membro d'origine, qualora i detti controlli vengano applicati in maniera non discriminatoria e rispettino il principio di proporzionalit e qualora si tenga conto, in particolare, dei controlli gi effettuati nello Stato membro d'origine; 2. -spetta al giudice nazionale stabilire, in base alle norme processuali vigenti nel suo Stato membro, se il metodo d'analisi dei vini denominato determinazione del rapporto isotopico 0121016 dell'acqua contenuta nel PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE vino sia conforme ai criteri di esattezza, di ripetibilit e di riproducibilit sanciti dall'art. 74, n. 2, lett. c), del regolamento (CEE) del Consiglio 16 marzo 1987, n. 822, relativo all'organizzazione comune del mercato vitivinicolo. -17 giugno 1997, nella causa C-70/95, Sodemare s.a. c. Reg. Lombardia, con la quale, in tema di libert di stabilimento e libera prestazione di senizi la Corte ha dichiarato che. 1:-il diritto comunitario, in particolare l'art. 190 del Trattato, non pone condizioni alla motivazione di una normativa nazionale di portata generale rientrante nel diritto comunitario; 2.-gli artt. 52 e 58 del trattato CE non ostano a che uno Stato membro consenta ai soli operatori privati che non perseguono fini di lucro di concorrere alla realizzazione del sistema di assistenza sociale con la stipula di convenzioni che danno diritto al rimborso da parte dello Stato dei costi di servizi d'assistenza sociale a rilevanza sanitaria; 3. -l'art. 59 del Trattato CE non riguarda la situazione di una societ che, stabilitasi in uno Stato membro per gestire strutture per anziani, fornisca servizi agli ospiti che, a tal fine, soggiornino permanentemente o a tempo indeterminato in tali strutture; 4. -gli artt. 85 e 86, in combinato disposto con gli artt. 3, lett. g) 5 e 90 del Trattato CE, non si applicano ad una normativa nazionale che consenta ai soli operatori privati che non perseguano fini di lucro di partecipare alla realizzazione di un sistema socio-assistenziale mediante la stipula di convenzioni che danno diritto al rimborso da parte dello Stato dei costi di servizi socio-assistenziali a rilevanza sanitaria. -25 giugno 1997, nella causa C-285/94, Italia c. Commissione, con la quale la Corte ha respinto il ricorso italiano diretto ad ottenere l'annullamento del reg. CEE della Commissione 27 luglio 1994, n. 1840, che fissa le rese di olive e di olio per la campagna 1993/94, ai fini della corresponsione di aiuti comunitari ai produttori, con modalit che erano state ritenute troppo riduttive. -25 giugno 1997, nelle cause riunite 304/94 ed altre, Tombesi, dove, in tema di ambiente, stato statuito che la nozione di 'rifiuti' figurante all'art. 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, cui rinviano l'art. 1, n. 3 della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e l'art. 2, lett. a), del regolamento (CEE) del Consiglio 1 febbraio 1993, n. 259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunit europea, nonch in entrata e in uscita dal suo territorio, non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati. In particolare, un processo di inertizzazione dei rifiuti finalizzato alla loro semplice innocuizzazione, l'attivit di discarica dei rifiuti in depressione o in rilevato e l'incenerimento dei rifiuti costituiscono operazioni di smaltimento o di recupero che rientrano nella sfera d'applicazione delle pre RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 58 citate norme comunitarie. Il fatto che una sostanza sia classificata nella categoria dei rifiuti riutilizzabili senza che le sue caratteristiche e la sua destinazione siano precisate al riguardo irrilevante. Lo stesso vale per la triturazione di un rifiuto. -25 giugno 1997, nella causa C-45/95, Commissione c. Italia, con la quale, in materia di NA la Corte ha dichiarato che, avendo istituito e mantenendo in vigore una normativa che non esenta dall'imposta sul valore aggiunto le cessioni di beni che erano destinati esclusivamente all'esercizio di un'attivit esentata o in altro modo esclusi dal diritto a detrazione, la Repubblica italiana venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 13, parte B, lett. c), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari -Sistema comune d'imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme -'--tre sentenze collegate, tutte in data 10 luglio 1997, nelle cause riunite c~94 e 95195, Bonifaci c. INPS, nella causa C-261/95, Palmisani c. INPS, e nella causa C-373/95, Maso c. INPS, in tema di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, con le quali la Corte ha statuito: -nella prima, che l'applicazione retroattiva e completa delle misure di attuazione della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva, a condizione che la direttiva stessa sia stata regolarmente recepita. Tuttavia, spetta al giudice nazionale far s che il risarcimento del danno subito dai beneficiari sia adeguato. Un'applicazione retroattiva, regolare e completa delle misure di attuazione della direttiva sar a tal finesufficiente, a meno che i beneficiari non dimostrino l'esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e che dovrebbero quindi essere anch'essi risarciti; -nella seconda, che il diritto comunitario, al suo stato attuale, non osta a che uno Stato membro imponga, per la proposizione di ogni ricorso diretto ~risarcimento del danno subito a seguito della tardiva attuazione della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavo I ratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, un termine di decadenza di un anno a decorrere dalla recezione nel suo ordinamento giu I ridico interno, purch tale modalit procedurale non sia meno favorevole di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna; -nella terza che: l -nell'ambito del risarcimento del danno subito da taluni lavoratori a I seguito della tardiva attuazione della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati I membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del I ~ PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE datore di lavoro, uno Stato membro pu legittimamente pplicare con efficacia retroattiva nei loro confronti le misure di attuazione adottate tardivamente; tvi cotnpresele norme anticumulo o le altre limitazioni dell'obbligo dipagamento dell'organismo di garanzia, .a condizione che la direttiva sia stata regolarmente recepita. Tuttavia; spetta al giudice nazionale far s che il :t~~rcimento del . danno. .. subito dai.. . beneficiari sia adeguato. Un'applicazione tettohiv, rgfare cmpleta delle niisute di attuazione dellkdirettiva sar tal fine suffi21ente, a 11len che i bnefdialinotid1mostrino l'esistenza di danni ulteriori da e$si eventualmente subiti'. per non aver pbtuto friti:fe s\lo tempodei vantaggi pecunfarl garntit dalla difettiva e che dovrebbero qwndi essere arich'ess risarciti; 2. -l'insorgete dell'insolvenza deldatore di lavoro di cui agli artC.3, n. 2, e 4, n. 2 della direttiva 80/987cmsponde alla data della domanda diretta all'apertura delprocedimento di soddisfacimento collettivo dei creditori, fernio restando che la gara,rgja n()J}; puq essere C()nceSSa prima della decl.siqne di apertura di tale pr6ceditJ::1ento o d,ell'accertament() della chi.sura definitiva dell'impresa, in ca59 di ins.fficienza cl,ell'attivo; 3 .. """'.:: gli artt. 4, n 3, e 10 della.i:lii;ettiva 80/987.vapn{).interp:retati nel senso.phe uno Stato membro non pu vietare il .Ul,ulo degli imp()rtl garantiti.dalla.direttiva con. un'indepnit quale l'indepnit: t di mobilit prevista 4agli a,rtt .. 4 e 16 della legge 23)uglio.l99l, n. 243, che .f:. diretta a sowenire ai bisogni di .un lavoratore licenziato durante i tre 11lesis.uccessivi alla 2essazione del rapporto cl.i lavoro; 4. -l'espressione 'ultimi tre mesi del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro' figurante all'art.A, n. 2 della direttiva 80/987 dev'essere interpretata nel senso che designa tre.wesi di calendarjq. :....... 17 luglio 1997, nella causa CA3/97, Commissione c. Italia , con la quale la Corte, in parziale accoglimento del ricorso della Commissione, ha dichiarato che,. non avendo adottato nel termine stabilito le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblit:i di forniture, la Repubblica italiana venuta meno agli obblighi che ad essa incombono aisensi dell'art. 34, n. l, primo comma, di questa direttiva, respingendo il ricorso per il resto. . .. .. . . . . .. . .. -19 sett(;!m~re 1997, nella causa C-279/94, Commissione c. It~a, con la quale la Corte ha parzialmente accolto il. ricorso della Commissfone dichiarando che avendo emanato la legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto, senza notificarla previamente alla Commissione allo stto di progetto, la Repubblica italiana venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 8, n, 1, primo comma, della direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura di informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche, come modificata dalla direttiva del Consiglio 22 marzo 1988, 88/182/CEE; l'inadempimento, per, stato dichiarato esclusivamente con - RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 60 riferimento all'obbligo della previa notifica del progetto di legge nel suo complesso, avendo poi la Corte affermato che ben poteva comunque l'Italia mettere in vigore immediatamente, e quindi senza attendere i risultati della procedura d'esame prevista dalla direttiva, le disposizioni della legge stessa non costituenti regole tecniche ai sensi della direttiva stessa. -17 settembre 1997, nella causa C-83/96, Prov. di Trento c. Dega di Depretto, con la quale, in materia di tutela dei consumatori, stato statuito che l'art. 3, n. 1. punto 6, della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, 79/112/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonch la relativa pubblicit, dev'essere interpretato nel senso che la locuzione Stabilito nella Comunit, in esso contenuta, si riferisce al solo venditore. -17 settembre 1997, nella causa C-322/95, Iurlaro c. INPS, dove, in materia di libera circolazione delle persone, si statuito che gli artt. 48-51 del Trattato CE, l'art. 9 bis. del regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunit, nella versione modificata ed aggiornata dal regolamento (CEE) del Consiglio 2 giugno 1983, n. 2001, in seguito modificato dal regolamento (CEE) del Consiglio 18 luglio 1989, n. 2332, e l'art. 15, n. 1, lett. f), punto ii), del regolamento (CEE) del Consiglio 21marzo1972, n. 574, che stabilisce le modalit d'applicazione del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata ed aggiornata dal regolamento n. 2001/83, devono essere interpretati nel senso che non obbligano uno Stato membro a prolungare il periodo di riferimento previsto dalla sua normativa per la determinazione del requisito minimo di assicurazione, ai fini dell'attribuzione di una prestazione d'invalidit, nella misura di un periodo equivalente ai periodi di disoccupazione compiuti dall'interessato ai sensi della normativa di un altro Stato membro, che, a differenza di quella del primo Stato membro, consente tale prolungamento allorch i periodi di disoccupazione sono compiuti nel territorio nazionale. Inoltre, gli artt. 48-51 del Trattato non ostano a che la normativa di uno Stato membro neghi la presa in considerazione, ai fini della determinazione del requisito minimo di assicurazione connesso all'attribuzione di una prestazione d'invalidit, dei periodi di assicurazione contro la disoccupazione compiuti durante un determinato periodo precedente il verificarsi dell'evento oggetto di assicurazione in base alla normativa di un altro Stato membro, oltre a quelli che sono presi in considerazione dalla normativa del primo Stato membro durante lo stesso periodo. -16 ottobre 1997, nella causa C-304/96, Hera S.p.a., con la quale, in tema di appalti pubblici, stato statuito che l'art. 30, n. 4, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE appalti pubblicidi lavori, dev'essere interpretato nel senso che non consente all'amministrazione aggiudicatrice, dopo il 31 dicembre 1992, di rifiutare le offerte che presentano un carattere anormalmente basso senza osservare la procedura di verifica prevista al primo comma della stessa disposizione. -16 ottobre 1997, nelle cause riunite C-69/96 ed altre, Garofalo c. Min. sanit, con la quale la Corte ha dichiarato che: 1.-Il Consiglio di Stato, quando emette un parere nell'ambito di.un ricorso straordinario, costituisce una giurisdizione ai sensi dell'art. 177 del Trattato; 2. -l'art. 36, n. 2, della direttiva del Consiglio 5 aprile 1993, 93/16/CEE, intesa ad agevolare la libera circolazione dei medici e il reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli-che ha sostituito l'art. 7, n. 2 della direttiva del Consiglio 15 settembre 1986, 86/457/CEE, relativa alla formazione specifica in medicina generale -dev'essere interpretato nel senso che uno Stato membro pu determinare i diritti acquisiti dei medici di medicina generale, in relazione a situazioni anteriori al 1 gennaio 1995, alla sola condizione che riconosca ai medici che vi si sono stabiliti in forza della direttiva del Consiglio, 16 giugno 1975, 75/362/CEE, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli di medico e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, anteriormente al 1 gennaio 1995, il diritto di esercitare l'attivit di medico di medicina generale nell'ambito del suo regime previdenziale, anche qualora essi non siano in possesso di un formazione specifica in medicina generale e non abbiano instaurato alcun rapporto di servizio con il regime previdenziale di tale Stato. -23 ottobre 1997, nella causa C-158/94, Commissione c. Italia, con la quale la Corte, in tema di monopoli nazionali a carattere commerciale, ha respinto il ricorso della Commissione contro l'Italia relativamente ai diritti esclusivi di importazione ed esportazione di energia elettrica riconosciuti in ambito nazionale all'ENEL, rilevando che a norma dell'art. 90, nn. 1 e 2, del trattato C.E. pu essere giustificata la concessione, da parte di uno Stato membro, a un'impresa incaricata della gestione di servizi di interesse economico generale di diritti esclusivi contrari, in particolare, all'art. 37 del Trattato stesso, qualora l'adempimento della specifica missione affidatale possa essere garantito unicamente grazie alla concessione di tali diritti e purch lo sviluppo degli scambi non risulti compromesso in misura contraria agli interessi della comunit. Spetta allo Stato membro che si richiami all'art. 90 n. 2 -ha precisato la Corte -dimostrare che ricorrono i presupposti per l'applicazione della norma, ma tale onere della prova non pu tuttavia estendersi fino a pretendere dallo Stato membro -allorch espone in maniera circostanziata le ragioni per cui, in caso di abolizione dei provvedimenti contestati, risulterebbe pregiudicato l'assolvimento, in condizioni economicamente accettabili, delle funzioni di interesse economico generale di cui ha incaricato un'impresa -di andare ancor oltre per dimostrare, in positivo, che nes RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 62 sun altro provvedimento immaginabile, per definizione ipotetico, potrebbe garantire l'assolvimento di tali funzioni alle stesse condizioni. E spetta alla Commissione, che contesti l'applicabilit dell'art. 90 n. 2, provare che, a causa del mantenimento dei diritti esclusivi contestati, gli scambi intracomunitari si sono sviluppati e continuano a svilupparsi in misura contraria agli interessi della Comunit. -4novembre 1997, nella causa C-337/95, Parfum Christian Dior c. Evora, con la quale, in materia di tutela dei diritti di marchio, la Corte ha statuito quanto segue: Nel caso in cui venga sollevata una questione relativa all'interpretazione della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, nell'ambito di un procedimento instaurato in uno degli Stati membri del Benelux e vertente sull'interpretazione della legge uniforme del Benelux in materia di marchi d'impresa, un organo giurisdizionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, come nel caso di specie tanto la Corte del Benelux quanto lo Hoge Raad, tenuto a rivolgersi alla Corte di giustizia, ai sensi dell'art. 177, terzo comma, del trattato CE. Tale obbligo diventa privo di causa e quindi di contenuto quando la questione sollevata materialmente identica a una questione gi decisa in via pregiudiziale nell'ambito della medesima causa nazionale; 2. -gli artt. 5 e 7 della direttiva 89/104 devono essere interpretati nel senso che, qualora vengano immessi sul mercato comunitario prodotti contrassegnati con un marchio dal titolare stesso del marchio o con il suo consenso, il rivenditore ha, oltre alla facolt di mettere in vendita tali prodotti, anche quella di usare il marchio per promuovere l'ulteriore commercializzazione dei prodotti stessi; 3. -il titolare di un marchio non pu inibire, in forza dell'art. 7, n. 2, della direttiva 89/104, a un rivenditore, che smercia abitualmente articoli della medesima natura ma non necessariamente della medesima qualit dei prodotti contrassegnati con il marchio, l'uso del marchio stesso, conformemente alle modalit correnti nel suo settore di attivit al fine di promuovere l'ulteriore commercializzazione di quei prodotti, a meno che non venga dimostrato, alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l'uso del marchio a tal fine nuoce gravemente al prestigio del marchio stesso; 4. -gli artt. 30 e 36 del Trattato CE devono essere interpretati nel senso che il titolare di un diritto di marchio o di un diritto d'autore non pu inibire a un rivenditore, che smercia abitualmente articoli della medesima natura ma non necessariamente della medesima qualit dei prodotti tutelati, l'uso di tali prodotti, conformemente alle modalit correnti nel suo settore di attivit, al fine di promuovere la loro ulteriore commercializzazione, a meno che non venga dimostrato alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l'uso dei detti prodotti a tal fine nuoce gravemente al prestigio del marchio. -6 novembre 1997, nella causa C-164/96, Regione Piemonte cl Saiagricola, con la quale la Corte ha statuito che la direttiva del Consiglio 17 aprile PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 63 1972, 72/159/CEE, relativa all'ammodernamento delle aziende agricole, e il regolamento (CEE) del Consiglio 12 marzo 1985, n. 797, relativo al miglioramento dell'efficienza delle strutture agrarie, vanno interpretati nel senso che essi non consentano agli Stati membri che istituiscono un albo inteso a determinare i beneficiari del regime di aiuti instaurato dalla direttiva 72/159 di escludere dall'iscrizione all'albo talune persone giuridiche per il solo motivo della loro forma giuridica e di prevedere un regime d'individuazione speciale mediante la creazione di un albo specifico destinato alle sole persone fisiche. -6 novembre 1997, nella causa C-261/96, Conserchimica, in materia di recupero di dazi doganali, con la quale la Corte ha statuito che l'art. 2, n. 1, secondo comma, del regolamento (CEE) del Consiglio 24 luglio 1979, n. 1697, relativo al recupero a posteriori dei dazi all'importazione o dei dazi all'esportazione che non sono stati corrisposti dal debitore per le merci dichiarate per un regime doganale comportante l'obbligo di effettuarne il pagamento, non si applica ai dazi non riscossi per una merce dichiarata a norma di un regime doganale qualora l'obbligo di pagare i detti dazi sia sorto in un momento precedente l'entrata in vigore del medesimo regolamento. -20 novembre 1997, nella causa C-244/95, Moskof, con la quale la Corte, in materia di premi comunitari ai produttori di tabacco, ha ritenuto che non vi fossero elementi atti a inficiare la validit dell'art. 5 del reg. CE della Commissione 17 dicembre 1993 n. 3477, relativo ai tassi di conversione agricoli da applicare nel settore del tabacco. -20 novembre 1997, nella causa C-90/96, Petrie, con la quale, in tema di libera circolazione dei lavoratori, stato statuito che gli artt. 5 e 48, n. 2 del Trattato non ostano ad una normativa nazionale che riservi unicamente ai professori di ruolo e ai ricercatori confermati la possibilit di ottenere supplenze nell'insegnamento universitario, escludendo i lettori di lingua straniera, a meno che laccesso alle supplenze sia consentito ad altre categorie professionali il cui accesso all'insegnamento universitario non avvenga mediante concorsi pubblici e le cui competenze didattiche e scientifiche non siano soggette ad una valutazione analoga a quella prescritta per i ricercatori, mentre i lettori di lingua straniera che fruirebbero, in base al diritto nazionale, dello stesso status e svolgerebbero funzioni equivalenti sarebbero esclusi da tali supplenze. -27 novembre 1997, nella causa C-369/95, Somalfruit, dove si statuito che l'esame del regolamento (CEE) del Consiglio 13 febbraio 1993, n. 404, relativo all'organizzazione comune dei mercati nel settore della banana, alla luce della quarta convenzione ACP-CEE, firmata a Lom il 15 dicembre 1989 e approvata con decisione del Consiglio e della Commissione 25 febbraio 1991, 91/400/CECA, CEE, non ha posto in evidenza alcun elemento atto ad inficiarne la validit. -2 dicembre 1997, nella causa C-188/95, Fantask, con la quale la Corte ha dichiarato che lart. 12, n. 1, lett. e), della direttiva del Consiglio 17 luglio llllllflllPllllMlllllllllllllJIMrlllllllflllllllllllll~ RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 64 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, va interpretato nel senso che, per avere carattere remunerativo, gli importi riscossi per l'iscrizione nel registro delle societ per azioni e delle societ a responsabilit limitata e degli aumenti di capitale effettuati da tali societ devono essere calcolati soltanto in base al costo delle formalit di cui trattasi, restando inteso che tali importi possono altres coprire le spese derivanti da operazioni minori che siano effettuate gratuitamente. Per calcolare tali importi, uno stato membro pu prendere in considerazione tutti i costi connessi con le operazioni di registrazione, compresa la parte delle spese generali ad esse imputabili. Inoltre, uno Stato membro ha la facolt di prevedere diritti forfettari e di stabilire i relativi importi per una durata indeterminata, purch verifichi, ad intervalli regolari, che tali importi continuino a non superare il costo medio delle operazioni di cui trattasi; 2. -il diritto comunitario osta a che azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione della direttiva possano essere respinte sul motivo che l'imposizione di tali tributi conseguenza di un errore scusabile delle autorit dello Stato membro, in quanto i tributi di cui trattasi sono stati riscossi per un lungo periodo senza che n questi n i soggetti passivi dei tributi fossero consapevoli della loro illegittimit; 3. -allo stato attuale, il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la direttiva 69/335, come modificata, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilit dei tributi di cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati sul diritto comunitario di quello dei ricorsi basati sul diritto interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario; 4. -il combinato disposto dell'art. 10 e dell'art. 12, n. 1, lett. e) della direttiva 69/335. come modificata, attribuisce ai singoli diritti che essi possono far valere davanti ai giudici nazionali. -4 dicembre 1997, nella causa C-207/96, Commissione c. Italia, con la quale la Corte. in parziale accoglimento del ricorso dell'esecutivo comunitario, ha dichiarato che la Repubblica italiana, avendo mantenuto in vigore nel proprio ordinamento giuridico disposizioni che stabiliscono il divieto di lavoro notturno per le donne in violazione dell'art. 5, della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parit di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del diritto comunitario.; l'inadempimento italiano stato, per, constatato solo per il periodo successivo alla denuncia da parte dell'Italia, avvenuta nel febbraio 1993, della convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), mentre stato respinto il ricorso della Commissione per la parte riguardante una richiesta di pronuncia di inadempimento a partire dal termine ultimo per conformarsi alla direttiva sopracitata. PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE -4 dicembre 1997, nella causa C-225/96, Commissione c. Italia, con la quale la Corte ha dichiarato che la Repubblica italiana, -avendo omesso di designare le acque richiedenti protezione o miglioramento per consentire la vita e lo sviluppo dei molluschi, conformemente all'art. 4 della direttiva del Consiglio 30 ottobre 1979 79/923/CEE, relativa ai requisiti di qualit delle acque destinate alla molluschicoltura; -avendo omesso di stabilire programmi per la riduzione dell'inquinamento, conformemente all'art. 5 della direttiva 79/923; -e avendo omesso di fissare i valori per i parametri di cui ai punti 8 e 9 dell'allegato, ad eccezione del mercurio e del piombo, a norma dell'art. 3 direttiva 79/923; venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in virt della direttiva 79/923. -11 dicembre 1997, nella causa C-55/96, Job centre coop. r.l., con la quale, in relazione alla libera prestazione dei servizi in materia di collocamento dei lavoratori, la Corte ha statuito che gli uffici pubblici di collocamento sono soggetti al divieto dell'art. 86 del Trattato nei limiti in cui l'applicazione di tale disposizione non vanifichi il compito particolare loro conferito. Lo Stato membro che vieti qualunque attivit di mediazione e interposizione tra domanda e offerta di lavoro che non sia svolta dai detti uffici trasgredisce l'art. 90, n. 1, del Trattato CE se d origine ad una situazione in cui gli uffici pubblici di collocamento saranno necessariamente indotti a contrawenire alle disposizioni dell'art. 86 del Trattato. Ci si verifica in particolare qualora ricorrano i seguenti presupposti: -gli uffici pubblici di collocamento non sono palesemente in grado di soddisfare, per tutti i tipi di attivit, la domanda esistente sul mercato del lavoro; -l'espletamento effettivo delle attivit di collocamento da parte delle imprese private viene reso impossibile dal mantenimento in vigore di disposizioni di legge che vietano le dette attivit comminando sanzioni penali e amministrative; -le attivit di collocamento di cui trattasi possono estendersi a cittadini o territori di altri Stati membri. -11 dicembre 1997, nella causa C-42/96, Soc. Immobiliare SIF, in tema di tassazione di conferimenti di immobili in societ di capitali, la Corte ha dichiarato che: l. -la direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, nella versione risultante dalle direttive del Consiglio 9 aprile 1973, 73179/CEE, che modifica il campo d'applicazione dell'aliquota ridotta dell'imposta sui conferimenti prevista, in favore di talune operazioni di ristrutturazioni di societ, all'articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, 9 aprile 1973, 73/80/CEE, che fissa le aliquote comuni dell'imposta sui conferimenti, 7 novembre 1974, 74/553/CEE, che modifica l'articolo 5 paragrafo 2, della direttiva 69/335, e 10 giugno 1985, 85/303/CEE, che modifica la direttiva 69/335, va interpretata nel senso che non si applica ad un'imposta nazionale che colpisca l'eventuale incremento di valore di un immobile constatato RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 66 all'atto del conferimento del medesimo ad una societ di capitali. La direttiva 69/335, come modificata, si applica viceversa all'imposta di registro, all'imposta ipotecaria ed all'imposta catastale; 2. -l'art. 12 della direttiva 69/335, come modificata, va interpretato nel senso che autorizza uno Stato membro, in deroga al divieto previsto all'art. 10 della detta direttiva, a riscuotere, all'atto dell'aumento del capitale sociale di una societ di capitali attuato mediante conferimento di immobili, imposte quali l'imposta di registro, l'imposta ipotecaria e l'imposta catastale, a condizione che imposte siffatte non siano superiori a quelle applicabili alle operazioni similari nello Stato membro che le riscuote. -16 dicembre 1997, nella causa C-316/96, Commissione c. Italia, con la quale la Corte ha dichiarato che non avendo adottato entro i termini stbiliti le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alle direttive del Consiglio 24 giugno 1993, 93/53/CEE, recante misure comunitarie minime di lotta contro talune malattie dei pesci, 14 dicembre 1993, 93/113/CE, relativa all'utilizzazione e alla commercializzazione degli enzimi, dei microorganismi e di loro preparati nell'alimentazione degli animali, e 14 dicembre 1993, 93/114/CE, che modifica la direttiva 70/524/CEE relativa agli additivi dell'alimentazione degli animali, la Repubblica italiana venuta meno agli obblighi che le incombono ai sensi degli artt. 20, n. 1, primo comma, della direttiva 93/53, 8, n. 1, primo comma, della direttiva 93/113 e 2, n. 1, primo comma, della direttiva 93/114. Invero, con il d.P.R. 3 luglio 1997, n. 263, era stata attuata, nelle more del giudizio, la prima delle suddette direttive, ma la Commissione non si era premurata, contrariamente alla prassi costante, di rinunciare per tale parte al ricorso per la sostanziale cessazione della materia del contendere. Le tre sentenze del Tribunale di primo grado sono tutte in data: -24 ottobre 1997, nelle cause T-239/94, EISA, T-243/94, British Steel, e T -244/94, Wirtschaftsvereinigung Stahl, con le quali il Tribunale ha respinto i ricorsi proposti da alcune imprese siderurgiche europee contro la Commissione, appoggiata dall'Italia, per l'annullamento delle decisioni con le quali l'esecutivo comunitario aveva autorizzato la concessione di aiuti di Stato ad altre imprese siderurgiche di vari Stati membri, fra le quali il gruppo italiano IL V A. Il Tribunale ha riconosciuto il legittimo uso da parte della Commissione del potere attribuitole dall'art. 95 del trattato CECA di concedere deroghe individuali al principio del divieto generale degli aiuti enunciato all'art. 4 lett. c) del trattato stesso, al di fuori del cosiddetto codice degli aiuti, per motivi eccezionali ed una tantum, in quanto ritenuti necessari per raggiungere gli obiettivi del trattato, nell'ambito di un programma globale di ristrutturazione dell'industria siderurgica e di riduzione della capacit di produzione nella Comunit, secondo valutazioni di merito della Commissione non sindacabili dal giudice comunitario. OSCAR FIUMARA PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE I CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT EUROPEE, Plenum, 14 gennaio 1997, nella causa C-124/95 -Pres. Rodrguez Iglesias -Rel. Kapteyn -A vv. Gen. Jacobs -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (England and Wales) nella causa CentroCom s.r.l. c. HM Treasury e Bank of England. Interv.: Governi belga (ag. Devadder), britannico (ag. Collins), italiano (avv. Stato Braguglia), olandese (ag. Lammers) e Commissione delle C.E. (ag. Gilsdorf e Bury). Comunit Europee -Politica commerciale comune -Divieto di scambio con la Repubblica federale di Jugoslavia -Limiti. (Trattato C.E., artt. 113 e 234; reg. CEE del Consiglio 20 dicembre 1969, n. 2603; reg. CEE del Consiglio 1giugno1992, n. 1432). La politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato CEE, come attuata con il regolamento (CEE) del Consiglio 1 giugno 1992, n. 1432, che proibisce il commercio tra la Comunit economica europea e le repubbliche di Serbia e Montenegro, e con il regolamento (CEE) del Consiglio 20 dicembre 1969, n. 2603, relativo all'instaurazione di un regime comune applicabile alle esportazioni, osta a che uno Stato membro A, per garantire l'efficace applicazione della risoluzione 757 (1992) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, emani provvedimenti i quali vietano che fondi serbi o montenegrini depositati nel suo territorio siano sbloccati ai fini del pagamento di merci esportate da un cittadino di uno Stato membro B da questo Stato in Serbia o in Montenegro per il motivo che lo Stato membro A consente il pagamento solo se l'esportazione avviene dal suo territorio ed previamente autorizzata dalle sue autorit competenti ai sensi del regolamento n. 1432192, laddove le merci di cui trattasi siano qualificate dal comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite prodotti ad uso strettamente medico e siano provviste di un'autorizzazione all'esportazione rilasciata dalle autorit competenti dello Stato membro B conformemente al regolamento n.1432192. Dei provvedimenti nazionali che risultano contrastare con la politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato e con i regolamenti comunitari che attuano tale politica sono giustificati con riguardo all'art. 234 del Trattato CEE soltanto se sono necessari per consentire allo Stato membro interessat.o di adempiere nei confronti di paesi terzi obblighi derivanti da una convenzione stipulata prima dell'entrata in vigore del Trattato o dell'adesione di tale Stato membro (1). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO II CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Plenum, 27 febbraio 1997, nella causa C-177/95, Pres. Rodrguez Iglesias -Rei. K.apteyn-Aw. Gen. Jacobs -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato italiano nella causa Ebony Maritime SA, Loten Navigation Co. Ltd c. Prefetto della Provincia di Brindisi ed altri -Interv.: Governi italiano (aw. Stato Fiorilli), francese (ag. Dobelle), del Regno Unito (ag. Collins), e Commissione delle C.E. (ag. Gussetti). Comunit Europee -Corte di giusti.zia delle Comunit europee -Rinvio pregiudiziale -Regolamento CEE del Consiglio 26 aprile 1993, n. 990 -Divieto di scambi con la Repubblica federale di Jugoslavia -Comportamenti posti in essere in alto mare -Applicabilit -Confisca carico -Compatibilit. (Reg. CEE del Consiglio 26 aprile 1993 n. 990, artt. 1 e 10; decisione 26 aprile 1993, n. 93/235/CECA; d.!. 15 maggio 1993, n. 144, conv. in legge 16 luglio 1993, n. 230). L'art. 1, n. l, lett. c) ed), del regolamento (CEE) del Consiglio 26 aprile 1993, n. 990, relativo agli scambi tra la Comunit economica europea e la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro), vieta non soltanto l'ingresso effettivo del traffico di natura commerciale nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia, bens anche i comportamenti posti in essere in alto mare che lasciano ragionevolmente supporre che la nave considerata si diriga in tali acque territoriali a fini di traffico commerciale. E' compatibile con il regolamento, e in particolare con l'art 1 O del medesimo, una nonna nazionale che prevede, in caso di accertata violazione di uno dei divieti di cui all'art. 1, la confisca del carico trasportato da uno dei mezzi di trasporto contemplati dall'art. 10, secondo comma, del regolamento (2). I (omisiss) 1. Con ordinanza 27 maggio 1994, pervenuta in cancelleria 1'11 aprile 1995, la Court of Appeal (England and Wales), ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, due questioni pregiudiziali vertenti (1-2) L'embargo nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia nel diritto comunitario. Le due sentenze della Corte di Giustizia delle Comunit Europee affrontano il delicato tema dell'embargo adottato nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro). In entrambi i giudizi -aventi ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dai giudici nazionali ai sensi dell'art. 177 del trattato CE sull'interpretazione di diversi regolamenti CEE relativi al blocco degli scambi tra la Comunit economica europea e la Repubblica federale di Iugoslavia(sulla seconda v. ordinanza del Consiglio PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 69 sull'interpretazione degli artt. 113 e 234 dello stesso Trattato nonch del regolamento (CEE) del Consiglio 1 giugno 1992, n. 1432, che proibisce il commercio tra la Comunit economica europea e le Repubbliche di Serbia e di Montenegro (GU L 151, pag. 4; in prosieguo: il regolamento sulle sanzioni). 2. Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di un ricorso proposto dalla Centro-Com s.r.l. (in prosieguo: la Centro-Com), societ di diritto italiano, contro il mutamento della prassi seguita dalla Bank of England e quattro decisioni con cui questa, agendo per conto del Treasury, ha negato alla Barclays Bank di Londra l'autorizzazione a versare alla Centro-Com, prelevandole da un conto iugoslavo, le somme necessarie per pagare taluni presidi medici e diagnostici esportati dall'Italia in Montenegro. di Stato in data 8 maggio 95 n. 327/95, in Consiglio di Stato, 1995, I, 613) -viene prospettata, quale questione di fondo, l'estraneit del diritto comunitario a materia che, in quanto concernente la politica estera e di sicurezza delle nazioni, rimane circoscritta alla competenza degli Stati. Verso tale obiettivo si dirigono, invero, sia l'argomento sollevato, nella prima causa, in merito al rapporto tra le misure di politica estera e di sicurezza e la politica commerciale comune dell'Unione Europea di cui all'art. 113 del trattato, sia quello, proposto nel secondo giudizio dal Governo italiano e dagli Stati intervenuti (specificamente dal Regno Unito), concernente l'inapplicabilit del regolamento comunitario in una fattispecie in cui non si rinviene alcun elemento di collegamento tra Comunit e violazione dell'embargo -trattandosi di nave che al momento della violazione si trovava in alto mare, batteva bandiera di un paese terzo e apparteneva, insieme al suo carico, ad una societ non comunitaria -ed in cui lo Stato italiano agisce in esecuzione diretta degli obblighi su di esso gravanti in virt della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 820 del 17 aprile 1993. La Corte risolve in entrambi i casi la questione a favore dell 'applicabilit del diritto comunitario. Nel primo caso, pi diffusamente, il giudice comunitario afferma che le competenze in materia di politica estera e sicurezza, pur essendo riservate agli Stati, vanno esercitate nel rispetto del diritto comunitario e comunque sono sottoposte ai principi derivanti dall'applicazione dell'articolo 113 del Trattato in materia di politica commerciale comune. Ed invero, proprio in virt di tale prlncipio gli Stati si determinano ad adottare misure comunitarie di cooperazione politica dirette ad attuare nell'ambito comunitario le sanzioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ne deriva l'obbligo per gli Stati membri di osservare le misure comunitarie pur in occasione dell'adozione di atti che abbiano lo scopo di garantire l'applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Nella seconda causa, pur senza affrontare direttamente l'argomento dell'applicabilit del diritto comunitario a questione concernente la politica estera e di sicurezza dello Stato membro (proposta con dovizia di argomenti dal Governo italiano che aveva tra l'altro ricondotto la fattispecie a quella del blocco navale -istituto tradizionale della guerra marittima applicabile, mutatis mutandis, al blocco in tempo di pace attuato attraverso le misure adottate con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) la Corte, muovendo da argomenti letterali, perviene alla conclusione che il regolamento applicabile a qualsiasi imbarcazione (quale che sia la bandiera o la nazionalit del proprietario) ed anche quando la violazione sia awenuta fuori dal territorio della Comunit. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 70 3. Il 30 maggio 1992 il Consiglio cli sicurezza delle Nazioni Unite, basandosi sul capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite, ha adottato la risoluzione 757 (1992), che stabilisce talune sanzioni nei confronti della Repubblica federale cli Iugoslavia {Serbia e Montenegro). 4. In base al paragrafo 4, lett. c), della risoluzione 757 (1992), tutti gli Stati devono impedire la vendita o la fornitura, da parte dei loro cittadini o a partire dal loro territorio, di qualsiasi prodotto base o merce, originario o no del loro territorio, a qualsiasi persona fisica o giuridica nella Repubblica federale cli Iugoslavia (Serbia e Montenegro) o a qualsiasi persona fisica o giuridica ai fini di qualsivoglia attivit commerciale svolta nel, o a partire dal, territorio di detta Repubblica. Non ricadono per sotto questo divieto le forniture di prodotti ad uso strettamente medico e di generi alimentari; tali forniture devono essere notificate al Comitato istituito ai sensi della risoluzione 724 (1991). 5. Del pari, secondo il paragrafo 5 della risoluzione 757 (1992), tutti gli Stati devono impedire ai loro cittadini e a qualsiasi persona presente nel loro II territorio cli trasferire dal loro territorio o cli mettere altrimenti a disposizione di imprese commerciali e industriali o aziende di pubblica utilit fondi o altre risorse finanziarie o economiche, nonch cli versare fondi a persone fisii'! che o giuridiche nella Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e I ili Montenegro), fatta eccezione per i pagamenti relativi esclusivamente a forni fil ture strettamente mediche o umanitarie o a forniture di generi alimentari. I & Una volta ritenuta l'applicabilit del regolamento alla fattispecie, il giudice comunitario ne fornisce un'interpretazione idonea a garantire la pi ampia operativit del I divieto nonch la possibilit per lo Stato membro di prevedere (non gi in conformit ~ con il testo della risoluzione delle Nazioni Unite, bens secondo quanto previsto dal regolamento comunitario alla luce dei testi redatti nella maggior parte delle lingue uffi I ciali) la confisca per il carico della nave autrice della violazione e lascia infine al giudice nazionale il compito di stabilire se la sanzione presenti un carattere dissuasivo, effettivo e proporzionale tenuto conto della finalit di interesse generale del regolamento. La pronuncia si allinea, nella sostanza, alla precedente sentenza 30 luglio 1996 in causa C-84/95, Bosphorus (ln Racc., 1996, I, 3953) in cui era gi stato affermato come il regolamento 990/93 andasse interpretato conformemente al contenuto delle risolu I zioni del Consiglio di Sicurezza, tenuto conto dell'identico interesse perseguito dai provvedimenti, consistente nella fine dello stato di guerra e delle violazioni dei diritti dell'uomo. I Dunque, se da una parte la Corte non accetta (e lo dimostra in entrambe le deci ~ sioni riportate) una limitazione all'applicazione del diritto comunitario in base al ~ richiamo ad obblighi di diritto internazionale (nonostante l'operativit di tali obblighi, ~= pur se conf)iggenti con il diritto comunitario e -nello sforzo di renderli con esso com! patibili, sia tuttavia riconosciuta dallo stesso art. 234 del Trattato) dall'altra deve considerarsi come essa pervenga ad una perfetta equiparazione della portata delle norme comunitarie rispetto alle misure adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I FRANCESCA QUADRI I PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 6. Nella Comunit il Consiglio ha attuato la risoluzione 757 (1992) emanando il regolamento sulle sanzioni. 7. Ai sensi dell'art. l, lett. b), di detto regolamento, dal 31maggio1992 vietata l'esportazione nella Repubblica di Serbia e di Montenegro di qualsiasi prodotto originario o proveniente dalla Comunit. 8. A tenore dell'art. 2, lett. a), dello stesso regolamento, tale divieto non si applica tuttavia all'esportazione verso le Repubbliche di Serbia e di Montenegro di prodotti destinati a scopi strettamente medici e derrate alimentari, notificati al comitato istituito a norma della risoluzione 724 (1991) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (in prosieguo: il Comitato per le sanzioni). 9. L'art. 3 dispone inoltre che le esportazioni verso le Repubbliche di Serbia e di Montenegro di prodotti destinati a scopi strettamente medici e derrate alimentari sono soggette ad un'autorizzazione preventiva di esportazione da rilasciarsi dalle competenti autorit degli Stati membri. 10. Il 4 giugno 1992, in conformit all'art. 1 dello United Nations Act 1946, il governo del Regno Unito ha emanato il Serbia and Montenegro (United Nations Sanctions) Order, il quale fa divieto a chiunque non sia munito di un'autorizzazione rilasciata dal Secretary of State di fornire o consegnare merci di qualsiasi genere a persone aventi legami con la Serbia o con il Montenegro. 11. L'art. 10 dello stesso Order stabilisce poi che, tranne che su autorizzazione del Treasury o a nome di questo, nessuno pu effettuare pagamenti o cedere oro, azioni o altri valori mobiliari qualora tali pagamenti o cessioni possano servire a mettere a disposizione di persone aventi legami con la Serbia o con il Montenegro fondi o altre risorse finanziarie o economiche oppure a trasferire fondi a tali persone o a loro beneficio. 12. Con un comunicato 8 giugno 1992, la Bank of England precisava, a nome del Tesoro, che avrebbe esaminato le domande di autorizzazione ad effettuare addebiti su conti bancari serbi e montenegrini per pagamenti a fini di carit o umanitari. La sua prassi consisteva segnatamente nell'autorizzare addebiti sui conti serbi e montenegrini per il pagamento delle esportazioni, dal Regno Unito o da altri paesi, di prodotti d'indole medica e umanitaria in Serbia o in Montenegro approvate dalle Nazioni Unite. 13. Dopo aver ottenuto l'approvazione del Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite e l'autorizzazione previa delle autorit italiane prescritta dall'art. 3 del regolamento sulle sanzioni, la Centro-Com esportava dall'Italia, tra RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 72 il 15 ottobre 1992 e il 6 gennaio 1993, quindici partite di medicinali e di attrezzature per l'analisi del sangue destinate a due grossisti aventi sede nel Montenegro. 14. Poich le somme destinate al pagamento di tali forniture dovevano essere prelevate da un conto vincolato intrattenuto dalla Banca nazionale di Iugoslavia presso la Barclays Bank, quest'ultima chiedeva alla Bank of England, per ciascuna partita, l'autorizzazione ad addebitare il conto suddetto. Il 23 febbraio 1993 undici delle quindici domande erano state accolte dalla Bank. of England e quindi la Barclays Bank aveva pagato alla CentroCom le relative somme. 15. Dopo aver ricevuto rapporti in cui si denunciavano abusi relativi alle autorizzazioni rilasciate dal Comitato per le sanzioni per le esportazioni di merci in Serbia e in Montenegro -descrizione inesatta di merci e inattendibilit dei documenti rilasciati, o apparentemente rilasciati, dal detto Comitato -, il Treasury decideva di modificare la sua prassi e di autorizzare il pagamento di merci esonerate dalle sanzioni, come i presidi medici, mediante fondi serbi o montenegrini solo nei casi in cui tali merci fossero esportate dal territorio del Regno Unito. 16. Come emerge dall'ordinanza di rinvio, uno dei motivi principali della nuova prassi risiedeva nel fatto che essa consentiva alle autorit britanniche di esercitare un efficace controllo sulle merci esportate in Serbia e in Montenegro onde accertarsi che queste corrispondessero effettivamente alla loro descrizione e che non venissero autorizzati addebiti su conti intrattenuti presso banche britanniche per pagare forniture di prodotti non destinati a scopi di natura medica o umanitaria. 17. Di conseguenza, con lettera 25 febbraio 1993, la Bank of England faceva sapere alla Barclays Bank che in avvenire non avrebbe pi riservato esito positivo alle domande di autorizzazione ad addebitare su conti serbi e montenegrini intrattenuti presso banche britanniche somme destinate al pagamento di merci esportate in Serbia o in Montenegro da paesi diversi dal Regno Unito. Essa respingeva quindi, con quattro distinte decisioni, le domande della Barclays Bank ancora pendenti. 18. La Court of Appeal, alla quale stata sottoposta la conseguente controversia, nutre dubbi sulla compatibilit del suddetto mutamento di prassi con l'art. 113 del Trattato e con il regolamento sulle sanzioni. Pertanto, essa ha sospeso il procedimento ed ha sottoposto alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1) Se sia conforme alla politica commerciale comune della Comunit e, in particolare, all'art. 113 del Trattato CE e al regolamento (CEE) del PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE Consiglio 1 giugno 1992, n. 1432, che proibisce il commercio tra la Comunit economica europea e le Repubbliche di Serbia e di Montenegro (GU L 151, del 3.6.92, pag. 4), il fatto che uno Stato membro A adotti misure nazionali che vietano lo sblocco di fondi depositati nel medesimo Stato membro, ma appartenenti a persone residenti in Serbia o in Montenegro, nel caso in cui: 1) lo sblocco dei fondi sia richiesto al fine di pagare un cittadino di uno Stato membro B per le merci da lui esportate dallo stesso Stato in Serbia o in Montenegro; 2) a} le merci siano state riconosciute, nelle debite forme, come aventi finalit rigorosamente mediche dal Comitato delle Nazioni Unite per le sanzioni, conformemente alla risoluzione n. 757 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; b) esse siano state esportate in base a previa autorizzazione all'esportazione rilasciata dalle competenti autorit dello Stato membro B in conformit al regolamento n. 1432/92; 3) le misure nazionali consentano lo sblocco di fondi per il pagamento di merci di tal genere esportate dallo Stato membro A qualora l'autorizzazione all'esportazione di cui al precedente punto 2, lett. b), sia stata rilasciata dalle competenti autorit dello Stato membro A; e 4) lo Stato membro A abbia deciso che l'adozione di misure nazionali di tal genere necessaria od opportuna per far s che la risoluzione n. 757 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite trovi effettiva applicazione. 5) Se sulla soluzione della questione 1 incidano le disposizioni dell'art. 234 del Trattato CE. Sulla prima questione 19. Con la prima questione il giudice di rinvio chiede in sostanza se la politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato CE, come attuata con il regolamento sulle sanzioni, osti a che uno Stato membro A, per garantire l'efficace applicazione della risoluzione 757 (1992) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, emani provvedimenti i quali vietano che fondi serbi o montenegrini depositati nel suo territorio siano sbloccati ai fini del pagamento di merci esportate da un cittadino di uno Stato membro B da questo Stato in Serbia o in Montenegro, per il motivo che lo Stato membro A consente il pagamento solo se l'esportazione avviene dal suo territorio ed previamente autorizzata dalle sue autorit competenti ai sensi del regolamento sulle sanzioni, laddove le merci interessate siano qualificate dal Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite prodotti ad uso strettamente medico e siano provviste di un'autorizzazione all'esportazione rilasciata dalle autorit competenti dello Stato membro B conformemente al regolamento sulle sanzioni. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 74 20. Con tale questione il giudice di rinvio solleva due problemi relativi all'interpretazione delle norme vigenti in materia di politica commerciale comune. 21. Il primo problema concerne il rapporto tra le misure di politica estera e di sicurezza, come le misure che mirano a garantire l'efficace applicazione della risoluzione 757 (1992), e la politica commerciale comune. 22. Il secondo problema attiene alla portata della politica commerciale comune e degli atti pertinenti emanati in base all'art. 113 del Trattato. nrapporto tra le misure di politica estera e di sicurezza e la politica commerciale comune 23. Il governo del Regno Unito sostiene che i provvedimenti nazionali controversi nella causa principale sono stati emanati in forza della sua competenza nazionale in materia di politica estera e di sicurezza, in cui si iscrivono i suoi obblighi derivanti dalla Carta e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. La validit dei detti provvedimenti non sarebbe scalfita dalla competenza esclusiva della Comunit in materia di politica commerciale comune n dal regolamento sulle sanzioni, che, dal canto suo, costituirebbe soltanto l'esplicazione, a livello comunitario, della competenza nazionale nel campo della politica estera e di sicurezza. 24. A questo proposito va rilevato che gli Stati membri hanno conservato le loro competenze nel campo della politica estera e di sicurezza. Ali'epoca dei fatti della causa principale la loro reciproca collaborazione in materia era disciplinata segnatamente dalle disposizioni del titolo III dell'Atto unico europeo. 25. Si deve ricordare, per, che gli Stati membri sono tenuti ad esercitare le competenze da loro conservate nel rispetto del diritto comunitario (v. sentenze 10 dicembre 1969, cause riunite 6/69 e 11/69, Commissione/Francia, Racc. pag. 523, punto 17; 7 giugno 1988, causa 57/86, Grecia/Commissione, Racc. pag. 2855, punto 9; 21 giugno 1988, causa 127/87, Commissione/ Grecia, Racc. pag. 3333, punto 7, e 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a., Racc. pag. 1-3905, punto 14). 26. Del pari, essi non possono stabilire che provvedimenti nazionali aventi l'effetto di impedire o di limitare l'esportazione di taluni prodotti esulino dall'ambito della politica commerciale comune per il motivo che perseguono scopi di politica estera e di sicurezza (v. sentenza 17 ottobre 1995, causa C70/ 94, Werner, Racc. pag. I-3189, punto 10). PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 27. Di conseguenza, anche se spetta agli Stati membri adottare, nell'esercizio della loro competenza nazionale, misure di politica estera e di sicurezza, tali misure devono rispettare le norme emanate dalla Comunit nel campo della politica commerciale comune contemplata dall'art. 113 del Trattato. 28. Proprio nell'esercizio della loro competenza nazionale in materia di politica estera e di sicurezza gli Stati membri si sono espressamente pronunciati a favore dell'adozione di una misura comunitaria, che si concretata nel regolamento sulle sanzioni, basato sull'art. 113 del Trattato. 29. Infatti, come emerge dai suoi 'considerando', il regolamento sulle sanzioni fa seguito ad una decisione della Comunit e dei suoi Stati membri, che stata presa nell'ambito della cooperazione politica e che manifestava la volont di emanare un atto comunitario per attuare nella Comunit taluni aspetti delle sanzioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti delle Repubbliche di Serbia e di Montenegro. 30. Risulta da quanto precede che, anche se nell'esercjzio della competenza nazionale in materia di politica estera e di sicurezza sono stati emanati taluni prowedimenti, come quelli di cui si discute nella causa principale, essi devono rispettare le norme comunitarie che rientrano nella politica commerciale comune. La portata della politica commerciale comune e degli atti pertinenti emanati in base all'art. 113 del Trattato 31. Il governo del Regno Unito considera che, in ogni caso, prowedimenti nazionali che, come quelli controversi nella causa principale, comportano restrizioni dello sblocco di fondi non costituiscono misure di politica commerciale e quindi esulano dalla politica commerciale comune. 32. Si deve ricordare a questo proposito che, anche se siffatti prowedimenti non costituiscono misure di politica commerciale, essi possono nondimeno contrastare con la politica commerciale comune attuata nella Comunit qualora disattendano la normativa comunitaria emanata nell'ambito di tale politica. 33. Occorre pertanto accertare se dei prowedimenti come quelli contestati nella causa principale siano compatibili non solo con il regolamento sulle sanzioni, ma anche con il regolamento (CEE) del Consiglio 20 dicembre 1969, n. 2603, relativo all'instaurazione di un regime comune applicabile alle esportazioni (GU L 324, pag. 25; in prosieguo: il regolamento sulle esportazioni). 76 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 34. Il regolamento sulle sanzioni non contiene espresse disposizioni sui pagamenti relativi ad esportazioni da esso autorizzati. 35. Tale regolamento, in quanto vieta, nell'art. 1, lett. b), le esportazioni in Serbia e in Montenegro, deroga al regolamento sulle esportazioni. 36. Tuttavia, questa deroga non si estende all'esportazione in Serbia e in Montenegro di prodotti destinati a scopi strettamente medici che soddisfano i requisiti stabiliti negli artt. 2, lett. a), e 3 del regolamento sulle sanzioni. Ne consegue.che l'esportazione di tali prodotti resta soggetta al regime comune previsto dal regolamento sulle esportazioni. 37. Ai sensi dell'art. 1 del regolamento sulle esportazioni, le esportazioni della Comunit economica europea verso i paesi terzi sono libere, vale a dire non soggette a restrizioni quantitative, ad eccezione di quelle applicate in conformit delle disposizioni del presente regolamento. 38. L'art. 11 dello stesso regolamento prevede una deroga del genere disponendo che, senza pregiudizio di altre disposizioni comunitarie, il presente regolamento non di ostacolo all'adozione od all'applicazione, da parte degli Stati membri, di restrizioni quantitative all'esportazione giustificate da motivi di moralit pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della propriet industriale e commerciale. 39. Il governo del Regno Unito dubita, anzitutto, che le restrizioni dello sblocco di fondi depositati in una banca possano costituire restrizioni quantitative delle esportazioni in paesi terzi ai sensi dell'art. 1 del regolamento sulle esportazioni. 40. A tale proposito si deve ricordare che l'art. 1 del detto regolamento attua il principio della libert d'esportazione a livello comunitario e quindi dovrebbe essere interpretato nel senso che si riferisce anche ai provvedimenti degli Stati membri i cui effetti equivalgono ad una restrizione quantitativa qualora la loro applicazione possa risolversi in un divieto di esportazione (v. sentenza Werner, gia citata, punto 22, e sentenza 17 ottobre 1995, causa C83/ 94, Leifer e a., Racc. pag. 1-3231, punto 23). I 41. Orbene, i provvedimenti di uno Stato membro che subordinano lo sblocco di fondi serbi o montenegrini per il pagamento di merci legittimamente esportabili in Serbia e in Montenegro alla condizione che le merci I siano esportate dal territorio del detto Stato pongono restrizioni al pagamento del prezzo delle merci che, come la fornitura dei beni, costituisce un I elemento essenziale dell'operazione di esportazione. ~ r: I i: PARTE I, SEZ. II, GIURlSPRUDENZA COMUNITARlA E INTERNAZIONALE 42. Siffatti prowedimenti nazionali, che limitano la libert di esportazione sul piano comunitario, equivalgono a una restrizione quantitativa poich la loro applicazione osta al pagamento di somme come corrispettivo di merci spedite da altri Stati membri e quindi impedisce tali operazioni di esportazione. 43. Il governo del Regno Unito sostiene poi che l'obbligo di esportare i prodotti dal suo territorio giustificato da motivi di pubblica sicurezza. Date le difficolt connesse all'applicazione del regime delle autorizzazioni rilasciate dal Comitato per le sanzioni, tale obbligo sarebbe necessario per garantire l'effettiva applicazione delle sanzioni stabilite dalla risoluzione 757 (1992) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite poich consentirebbe alle autorit britanniche di verificare direttamente la natura delle merci esportate in Serbia e in Montenegro. 44. Riguardo a questo argomento occorre ricordare che la nozione di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 11 del regolamento sulle esportazioni comprende tanto la sicurezza interna degli Stati membri quanto la loro sicurezza esterna e che, di conseguenza, il rischio di perturbazioni gravi dei rapporti internazionali o della coesistenza pacifica dei popoli pu minacciare la sicurezza esterna di uno Stato membro (v. citate sentenze Werner, punti 25 e 27, e Leifer e a., punti 26 e 28). 45. Pertanto, un prowedimento inteso all'applicazione delle sanzioni stabilite da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite allo scopo di pervenire a una soluzione pacifica della situazione esistente in Bosnia-Erzegovina, che costituisce una minaccia per la pace e per la sicurezza internazionali, rientra nell'eccezione prevista dall'art. 11 del regolamento sulle esportazioni. 46. Tuttavia, non pi giustificato awalersi dell'art. 11 del regolamento sulle esportazioni quando una normativa comunitaria preveda misure necessarie per garantire la tutela degli interessi menzionati nel detto articolo (v., a proposito dell'applicazione dell'art. 36 del Trattato CEE, sentenza 10 luglio 1984, causa 72/83, Campus Oil e a., Racc. pag. 2727, punto 27). 47. Orbene, il regolamento sulle sanzioni, che mira ad attuare uniformemente nell'intera Comunit taluni aspetti delle sanzioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, precisa i presupposti sussistendo i quali le esportazioni di presidi medici nelle Repubbliche di Serbia e di Montenegro sono consentite, vale a dire la notifica di tali operazioni al Comitato perle sanzioni e il rilascio di un'autorizzazione all'esportazione da parte delle autorit competenti degli Stati membri. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 78 48. Di conseguenza, i provvedimenti nazionali di uno Stato membro che consentano lo sblocco di fondi serbi o montenegrini a fronte dell'esportazione di merci nelle dette Repubbliche soltanto se le autorit di tale Stato membro abbiano previamente verificato la natura delle merci e rilasciato l'autorizzazione all'esportazione non sono giustificabili, giacch l'efficace applicazione delle sanzioni pu essere garantita dalla procedura di autorizzazione attuata, conformemente al regolamento sulle sanzioni, negli altri Stati membri, in particolare nello Stato membro dal quale le merci sono esportate. 49. A questo proposito, deve regnare fra gli Stati membri una fiducia reciproca per quanto concerne i controlli effettuati dalle autorit competenti dello Stato membro dal quale le merci considerate sono spedite (v. sentenze 25 gennaio 1977, causa 46/76, Bauhuis, Racc. pag. 5, punto 22, e 23 maggio 1996, causa C-5/94, Hedley Lomas, Racc. pag. 1-2553, punto 19). 50. Inoltre, niente consente di ritenere che il sistema di autorizzazioni degli Stati membri previsto dall'art. 3 del regolamento sulle sanzioni non abbia funzionato correttamente nel caso di specie. 51. Infine, si deve ricordare che, in ogni caso, l'art. 11 del regolamento sulle esportazioni, in quanto eccezione al principio della libert di esportazione enunciato nell'art. 1 dello stesso regolamento, dev'essere interpretato in modo da non estenderne gli effetti oltre quanto necessario per la protezione degli interessi che esso mira a tutelare (citata sentenza Leifer e a., punto 33). 52. Nella fattispecie uno Stato membro pu garantire la tutela degli interessi di cui trattasi attraverso misure meno restrittive per la libert di esportazione rispetto all'obbligo di esportare le merci dal suo territorio. Cos, lo Stato membro che nutra precisi dubbi sull'esattezza della descrizione delle merci menzionate in un'autorizzazione all'esportazione rilasciata dalle competenti autorit di un altro Stato membro pu, in particolare, prima di autorizzare l'addebito di conti intrattenuti nel suo territorio, avvalersi della reciproca collaborazione istituita dal regolamento (CEE) del Consiglio 19 maggio 1981, n. 1468, relativo alla mutua assistenza tra le autorit amministrative degli Stati membri e alla collaborazione tra queste e la Commissione per assicurare la corretta applicazione della regolamentazione doganale o agricola (GU L 144, pag. 1). 53. Alla luce delle considerazioni sopra svolte, si deve dichiarare che la politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato, come attuata con il regolamento sulle sanzioni e con il regolamento sulle esportazioni, osta a che uno Stato membro A, per garantire l'efficace applicazione della risoluzione 757 (1992) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, emani provvedimenti i quali vietano che fondi serbi o montenegrini depositati nel PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE suo territorio siano sbloccati ai fini del pagamento di merci esportate da un cittadino di uno Stato membro B da questo Stato in Serbia o in Montenegro per il motivo che lo Stato membro A consente il pagamento solo se l'esportazione avviene dal suo territorio ed previamente autorizzata dalle sue autorit competenti ai sensi del regolamento sulle sanzioni, laddove le merci di cui trattasi siano qualificate dal Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite prodotti ad uso strettamente medico e siano provviste di un'autorizzazione all'esportazione rilasciata dalle autorit competenti dello Stato membro B conformemente al regolamento sulle sanzioni. Sulla seconda questione 54. Con la seconda questione il giudice nazionale chiede in sostanza se dei provvedimenti nazionali che risultano contrastare con la politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato e con i regolamenti comunitari che attuano tale politica siano nondimeno giustificati con riguardo all'art. 234 del Trattato CEE giacch lo Stato membro interessato intendeva conformarsi, con tali provvedimenti, agli obblighi derivanti da una convenzione stipulata con altri Stati membri e con paesi terzi prima dell'entrata in vigore del Trattato CEE o dell'adesione del detto Stato membro. 55. Il detto art. 234 dispone, nel primo comma, che le norme del Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse prima dell'entrata in vigore del Trattato stesso fra uno o pi Stati membri da una parte e uno o pi Stati terzi dall'altra. 56. Secondo una costante giurisprudenza, tale disposizione diretta a precisare, conformemente ai principi di diritto internazionale, che l'applicazione del Trattato non pregiudica l'impegno dello Stato membro interessato di rispettare i diritti degli Stati terzi derivanti da una convenzione anteriore e di adempiere gli obblighi corrispondenti (sentenza 28 marzo 1995, causa C324/ 93, Evans Medicale Macfarlan Smith, Racc. pag. 1-563, punto 27). 57. Conseguentemente, per stabilire se una norma comunitaria possa essere resa inoperante da una convenzione internazionale anteriore, necessario esaminare se questa imponga allo Stato interessato obblighi il cui adempimento pu essere ancora preteso dagli Stati terzi che sono parti contraenti della convenzione (sentenza Evans Medicale Macfarlan Smith, citata, punto 28). 58. Tuttavia, non spetta alla Corte, nell'ambito di un procedimento pregiudiziale, bens al giudice nazionale accertare quali siano gli obblighi imposti da una convenzione internazionale anteriore allo Stato membro interes RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 80 sato e definirne i limiti in modo da stabilire in quale misura tali obblighi ostino all'applicazione delle norme di diritto comunitario di cui trattasi (sentenza Evans Medical e Macfarlan Smith, citata, punto 29). 59. Pertanto il giudice nazionale deve accertare se, nelle circostanze della fattispecie sottoposta al suo esame, in cui le esportazioni sono state approvate dal Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite e autorizzate dalle competenti autorit del paese esportatore, tanto il mutamento di prassi quanto le quattro decisioni che vietano lo sblocco di fondi siano necessari per consentire allo Stato membro interessato di adempiere gli obblighi ad esso incombenti in base alla Carta delle Nazioni Unite ed alla risoluzione 757 (1992) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. 60. Occorre inoltre rilevare che, quando una convenzione internazionale consente a uno Stato membro di adottare un provvedimento che appare contrario al diritto comunitario, senza tuttavia obbligarlo in tal senso, lo Stato membro deve astenersi dall'adottarlo (sentenza Evans Medical e Macfarlan Smith, citata, punto 32). 61. Si deve pertanto dichiarare che dei provvedimenti nazionali che risultano contrastare con la politica commerciale comune prevista dall'art. 113 del Trattato e con i regolamenti comunitari che attuano tale politica sono giustificati con riguardo all'art. 234 del Trattato soltanto se sono necessari per consentire allo Stato membro interessato di adempiere obblighi nei confronti di paesi terzi derivanti da una convenzione prima dell'entrata in vigore del Trattato o dell'adesione di tale Stato membro (omisiss). II (omisiss) 1. Con ordinanza 11 aprile 199 5, pervenuta in cancelleria il successivo 6 giugno, il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, tre questioni pregiudiziali relative all'interpretazione degli artt. 1, n. 1, lett. c) ed), e 10 del regolamento (CEE) del Consiglio 26 aprile 1993, n. 990, relativo agli scambi tra la Comunit economica europea e la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro) (GU L 102, pag. 14; in prosieguo: il regolamento), e degli artt. 1, lett. c) ed), e 10 della decisione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio 26 aprile 1993, 93/235/CECA, relativa agli scambi tra la Comunit europea del carbone e dell'acciaio e la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro) (GU L 102, pag. 17). 2. Tali questioni sono sorte nell'ambito di un ricorso d'annullamento proposto dalla Ebony Maritime, societ di diritto liberiano, e dalla Loten PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE Navigation, societ di diritto maltese, contro la decisione del Prefetto della provincia di Brindisi 22 luglio 1994, che disponeva il sequestro della nave Lido II, in applicazione del decreto legge 15 maggio 1993, n. 144, convertito nella legge 16 luglio 1993, n. 230, recante: Embargo nei confronti degli Stati della ex Iugoslavia (GUR!I n. 166 del 17 luglio 1993). 3. Secondo quanto risulta dal preambolo, il regolamento ha lo scopo di dare attuazione nella Comunit a taluni aspetti delle sanzioni decise nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il quale, sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ha adottato le risoluzioni 713 (1991), 752 (1992), e 787 (1992), e ne ha rafforzato le sanzioni con la risoluzione 820 (1993). 4. All'art. 1, n. 1, lett. c) ed), il regolamento prevede quanto segue: 1. A decorrere dal 26 aprile 1993, sono vietati: (...) e) l'ingresso di qualsiasi forma di traffico commerciale nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro); d) qualsiasi attivit avente per oggetto o effetto, diretto o indiretto, la promozione delle transazioni di cui alle lettere a), b) oc); ( ... ). 5. Ai sensi dell'art. 9 del regolamento, tutte le imbarcazioni, veicoli da trasporto, materiale rotabile, aeromobili e aerei da carico sospettati di aver violato o di violare il regolamento vengono trattenuti dalle autorit competenti degli Stati membri durante le indagini. 6. L'art. 10 del regolamento formulato nei seguenti termini: Ciascuno Stato membro determina le sanzioni da imporre in caso di violazione delle disposizioni del presente regolamento. Qualora sia accertato che imbarcazioni, veicoli da trasporto, materiale rotabile, aeromobili e aerei da carico hanno violato il presente regolamento, tali mezzi di trasporto possono essere confiscati dallo Stato membro le cui autorit competenti li hanno(... ) trattenuti. 7. Ai sensi dell'art. 11, il regolamento applicabile nel territorio della Comunit, ivi compreso il suo spazio aereo, e a bordo di qualsiasi aeromobile o imbarcazione soggetti alla giurisdizione di uno Stato membro, o a qualsiasi cittadino di uno Stato membro altrove stabilito o a qualsiasi organismo stabilito altrove registrato o costituito ai sensi della legge di uno Stato membro. 8. In Italia i provvedimenti adottati in attuazione delle disposizioni comunitarie succitate si trovano in particolare all'art. 2, nn. 2 e 3, lett. b), del decreto legge n. 144, convertito, con talune modifiche, nella legge n. 230, citata. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 82 9. In forza del detto articolo, i mezzi di trasporto indicati dall'art. 9 del regolamento possono essere trattenuti e ispezionati a fini di indagine dalle autorit doganali. Qualora dalla ispezione risulti accertata la violazione del regolamento, l'autorit competente confisca sia i mezzi di trasporto sia il carico colpito dall'embargo. Nel caso in cui il mezzo di trasporto non batta bandiera italiana e non appartenga a un soggetto di cittadinanza o nazionalit italiana, viene dapprima posto sotto sequestro, e confiscato soltanto se lo Stato interessato non l'abbia ritirato entro un determinato termine. 10. La Lido II, nave cisterna appartenente alla societ Loten Navigation e battente bandiera maltese, era salpata dal porto tunisino di La Skhira in direzione di Fiume (Croazia), con un carico di prodotti petroliferi appartenenti alla societ Ebony Maritime. 11. Dopo aver subito un'ispezione nel porto di Brindisi (Italia), nell'ambito delle operazioni di vigilanza sul rispetto delle sanzioni nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia, la nave ripartiva il 30 aprile 1994, in direzione del porto di Fiume. Quando, durante il tragitto, la nave iniziava ad imbarcare acqua, il comandante lanciava segnali di soccorso, comunicando che modificava la rotta in direzione della costa montenegrina pi vicina, con lo scopo dichiarato di farla arenare. Tuttavia, prima che la nave entrasse nelle acque territoriali iugoslave, un elicottero delle forze NATO-UEO atterrava sul ponte e un commando militare olandese assumeva il controllo della nave, che veniva in seguito rimorchiata fino al porto di Brindisi, dove veniva posta a disposizione delle autorit italiane. 12. Con provvedimento 22 luglio 1994 il Prefetto della provincia di Brindisi ordinava il sequestro della nave e la confisca del carico, in applicazione dell'art. 2, n. 3, lett. b), del decreto legge n. 144, convertito nella legge n. 230. 13. La Ebony Maritime e la Loten Navigation chiedevano l'annullamento del provvedimento prefettizio al Tribunale amministrativo regionale della Puglia. Il ricorso veniva respinto dal TAR con sentenza 6 dicembre 1994, che veniva impugnata dalle due societ dinanzi al Consiglio di Stato, il quale disponeva la sospensione del procedimento e deferiva alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: l) Se l'art. 1, lett. c), della decisione 93/235/CECA dei rappresentanti degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio del 26 aprile 1993, relativa agli scambi tra la Comunit europea del carbone e dell'acciaio e la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro), e l'art. 1, lett. c), del regolamento (CEE) n. 990/93 del Consiglio del 26 aprile 1993, relativo agli scambi tra la Comunit economica europea e la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro), debbano essere interpretati nel senso che costituisce violazione del divieto ivi enunciato il solo comportamento consistente nel-I -i= ~I ! &V&.,,~..,.Wi&tL&&.eM:...,......,,,........,....f&;@@.;"f:.....,.y .......,......,..,.. W.,U,...,.,...y.,xJflL .....,......,,,..,,....y,,,.. .... .,.. . -1'.--1tllj:~111... PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE l'effettivo ingresso nelle acque territoriali della Repubblica federale di Jugoslavia di una nave o altro mezzo di trasporto recante merci destinate a traffico commerciale nelle dette acque territoriali, o se invece rientri nella previsione normativa anche un comportamento posto in essere in acque internazionali che, per le concrete modalit di ideazione e realizzazione, lasci fondatamente presumere che la nave o altro mezzo di trasporto sia in rotta verso le acque territoriali suddette, a fini di traffico commerciale. 2) Se l'art. 1, lett. d), della decisione e del regolamento sopra citati, nella parte in cui vietano qualsiasi attivit avente per oggetto o per effetto, diretto o indiretto, la promozione delle transazioni di cui alla lett. c), includa o meno nella propria previsione anche la navigazione in acque internazionali di una nave o altro mezzo di trasporto che rechi merci destinate presumibilmente a traffico commerciale nelle acque territoriali nella Repubblica federale di Iugoslavia. 3) Se sia, o meno, compatibile con la normativa comunitaria, ed in particolare con l'art. 10, primo e secondo comma, della decisione e del regolamento sopra citati, una norma nazionale che preveda espressamente, in caso di accertata violazione di taluno dei divieti di cui al precedente art. 1, la confisca -obbligatoria owero facoltativa -del carico trasportato da taluno dei mezzi di trasporto indicati nello stesso art. 10, secondo comma. 14. Va anzitutto rilevato che gli scambi di prodotti petroliferi non rientrano nell'ambito di applicazione del Trattato CECA. Poich la causa principale, come descritta nell'ordinanza di rinvio, verte esclusivamente su tali scambi, la decisione 93/235 non trova applicazione. Occorre quindi limitarsi a precisare la portata delle norme del regolamento. Sull'ambito di applicazione del regolamento 15. In via preliminare il governo del Regno Unito come pure i governi francese e italiano sottolineano che il regolamento, ai sensi dell'art. 11 del medesimo, applicabile soltanto nel territorio, comprensivo delle acque territoriali, degli Stati membri, alle imbarcazioni soggette alla giurisdizione di uno Stato membro, ai cittadini di uno Stato membro e alle imprese costituite in societ o in altra forma ai sensi della legge di uno Stato membro. Il regolamento, pertanto, non sarebbe applicabile in un caso quale quello oggetto della causa a qua, dal momento che la nave di cui trattasi, al momento del1' assunzione di controllo da parte delle forze NATO-UEO, si trovava in alto mare, batteva bandiera di un paese terzo e apparteneva, come pure il carico, ad una societ non comunitaria. 16. Va rilevato in proposito che l'art. 9 del regolamento, in combinato con l'art. 1, n. 1, lett. c), impone alle autorit competenti degli Stati membri di trattenere, in attesa delle indagini, tutte le imbarcazioni e i carichi sospet RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO tati di aver violato il divieto d'ingresso nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia a fini di traffico commerciale. Ai sensi del-r 1'art. 10, lo Stato membro interessato pu, una volta accertato che le imbarcazioni e i carichi hanno violato il divieto, procedere alla loro confisca. -: :: 17. Dal tenore di tali norme si desume che i provvedimenti di sequestro e di confisca riguardano qualsiasi imbarcazione a prescindere dalla bandiera o dal proprietario della medesima. Inoltre, l'applicazione di tali misure non subordinata alla condizione che la violazione dei divieti sanciti dal regolamento avvenga nel territorio della Comunit. Una violazione del divieto d'ingresso nelle acque territoriali della Repubblica federale di V2Iugoslavia, previsto all'art'art, 1, n. 1, lett. c.), del regolamento, pu peraltro prodursi soltanto fuori del territorio comunitario. 18. Le autorit competenti dello Stato membro interessato devono pertanto, in forza dell'art. 9 del regolamento, trattenere tutte le imbarcazioni sospettate di aver violato le sanzioni adottate nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia,. anche qualora battano bandiera di un paese terzo, appartengano a cittadini o societ non comunitari o l'asserita violazione delle sanzioni sia avvenuta fuori del territorio della Comunit. Del pari, le autorit nazionali possono, ai sensi dell'art. 10, secondo comma, del regolamento, confiscare le dette imbarcazioni e i loro carichi, qualora la violazione risulti accertata. 19. Poich, in forza dell'art. 11, il regolamento si applica nell'intero territorio comunitario, gli artt. 9 e 10 trovano applicazione non appena le imbarcazioni si trovino nel territorio di uno Stato membro e dunque nella sfera territoriale di questo, anche se l'asserita violazione sia avvenuta fuori del suo territorio. 20. Questa interpretazione avvalorata dalla lettera e dallo scopo della risoluzione 820 (1993) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il quale, per rafforzare le sanzioni gi decise, ha previsto all'art. 28 il divieto di ingresso nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro) di tutto il traffico marittimo commerciale, disponendo all'art. 25 che tutti gli Stati tratterranno, in attesa di un'inchiesta, qualsiasi nave ( ... ) e carico trovato sul loro territorio e che si sospetta sia stato o sia impiegato in violazione delle risoluzioni 713 (1991), 757 (1992) o 787 (1992), o della presente risoluzione, e, se risultano in infrazione, tali navi ( ... ) saranno sequestrate e, eventualmente, potranno essere confiscate unitamente al loro carico dallo Stato che le trattiene. 21. Dunque l'art. 25, cui gli artt. 9 e 10 del regolamento hanno dato attuazione nella Comunit, prevede espressamente che tutte le imbarcazioni sospettate di violazione che si trovino nel territorio di uno Stato vengano trattenute e, eventualmente, confiscate da tale Stato. PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE Sulle questioni prima e seconda 22. Con la prima e la seconda questione il giudice a quo intende sostanzialmente chiarire se l'art. 1, n. 1, lett. c) ed), del regolamento vieti soltanto l'ingresso effettivo del traffico commerciale nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia o anche i comportamenti posti in essere in alto mare che lasciano ragionevolmente supporre che l'imbarcazione interessata si diriga verso tali acque territoriali a fini di traffico commerciale. 23. A questo proposito va rilevato che l'art. 1, n. 1, lett. c), del regolamento vieta l'ingresso del traffico commerciale nelle acque territoriali iugoslave. 24. Questa disposizione intesa ad impedire ogni effettivo ingresso del traffico commerciale in tali acque. Essa stata introdotta a seguito della risoluzione 820 (1993), che aveva lo scopo di rafforzare le sanzioni decise nei confronti della Repubblica federale di Iugoslavia con le precedenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per garantire l'efficacia delle dette sanzioni in effetti sembrato indispensabile vietare ogni forma di traffico commerciale nelle acque territoriali iugoslave. 25. Ebbene, per l'efficace prevenzione di qualsiasi traffico commerciale nelle acque territoriali iugoslave necessario che il divieto sancito dall'art. 1, n. 1, lett. c), del regolamento si applichi non solo ai casi di ingresso effettivo, bens anche ai tentativi di ingresso nelle dette acque territoriali da parte delle navi che si trovano in alto mare. Ogni altra interpretazione rischierebbe di privare il divieto di ogni effetto utile. 26. Inoltre, l'art. 1, n. 1, lett. d), del regolamento, che vieta qualsiasi attivit avente per oggetto la promozione, diretta o indiretta, dell'ingresso nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia di ogni forma di traffico commerciale, conferma che un comportamento posto in essere in alto mare pu configurare violazione delle sanzioni istituite dal regolamento. 27. Occorre pertanto risolvere la prima e la seconda questione dichiarando che l'art. 1, n. 1, lett. c) ed), del regolamento vieta non soltanto l'ingresso effettivo del traffico di natura commerciale nelle acque territoriali della Repubblica federale di Iugoslavia, bens anche i comportamenti posti in essere in alto mare che lasciano ragionevolmente supporre che la nave considerata si diriga in tali acque territoriali a fini di traffico commerciale. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Sulla terza questione 28. Con la terza questione, il giudice a quo intende stabilire se sia o meno compatibile con il regolamento, e in particolare con l'art. 10, una norma nazionale che prevede, in caso di violazione accertata di taluno dei divieti di cui all'art. 1 del regolamento, la confisca del carico trasportato da uno dei mezzi di trasporto indicati nell'art. 10, secondo comma, del regolamento stesso. 29. Va rilevato anzitutto che la versione in lingua italiana dell'art. 10, secondo comma, del regolamento non prevede che gli Stati membri possano confiscare il carico. 30. Tuttavia, come la Corte ha gi ripetutamente affermato, la necessit che i regolamenti comunitari siano interpretati in modo uniforme esclude la possibilit di prendere in considerazione un solo testo ed impone invece, in caso di dubbio, d'interpretarlo e di applicarlo alla luce dei testi redatti nelle altre lingue ufficiali (sentenza 17 ottobre 1996, causa C-64195, Lubella, Racc. pag. I-0000, punto 17). 31. Ebbene, fatta eccezione per le versioni italiana e finlandese, tutte le versioni linguistiche dell'art. 10, secondo comma, del regolamento prevedono che, in caso di accertata violazione del regolamento, i carichi possono essere confiscati dallo Stato membro interessato. Questa formulazione corrisponde a quella dell'art. 25 della risoluzione 820 (1993), citato al punto 20 della presente sentenza. Oltre ai mezzi di trasporto, il detto articolo menziona espressamente, tra i beni che possono essere confiscati in caso di violazione delle misure decise con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i carichi. E' pertanto chiaro che la versione italiana del regolamento, che contiene l'espressione aeromobili e aerei da carico anzich l'espressione aeromobili e carichi, inficiata da un errore materiale. 32. In ogni caso, l'art. 10, secondo comma, del regolamento non pu essere interpretato nel senso che limiti la facolt generale degli Stati membri di determinare le sanzioni da imporre in caso di violazione delle disposizioni del regolamento, prevista all'art. 10, primo comma. 33. Il regolamento non osta pertanto all'applicazione di una norma nazionale che prevede la confisca del carico in caso di violazione del regolamento. 34. Nondimeno, le ricorrenti nella causa principale sostengono che la norma nazionale adottata in attuazione dell'art. 10, secondo comma, del regolamento disconosce il principio nulla poena sine culpa, nei limiti in cui prevede la confisca del carico senza esigere la prova della colpa del suo proprietario e istituisce quindi un regime di responsabilit penale oggettiva. ! E I ,, I' I i PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE Inoltre, il principio di proporzionalit risulterebbe leso in quanto il proprietario del carico sarebbe sanzionato in misura pari all'armatore, a prescindere dal grado della rispettiva partecipazione all'infrazione. 35. Occorre ricordare in proposito che, secondo una giurisprudenza costante, qualora un regolamento comunitario non contenga alcuna disposizione specifica che preveda una sanzione in caso di trasgressione o faccia rinvio, al riguardo, alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nazionali, l'art. 5 del Trattato CE impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l'efficacia del diritto comunitario. A tal fine, pur mantenendo la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo (sentenze 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia, Racc., pag. 2965, punti 23 e 24; 10 luglio 1990, causa C-326/88, Hansen, Racc. pag. I-2911, punto 17, e 26 ottobre 1995, causa C-36/94, Siesse, Racc. pag. I-3573, punto 20). 36. D'altro canto, la Corte ha gi ammesso che un sistema di responsabilit penale oggettiva che sanzioni la violazione di un regolamento non , di per s, incompatibile con il diritto comunitario (v. sentenza Hansen, citata, punto 19). 37. Di conseguenza, anche supponendo che, come sostengono le ricorrenti, la norma italiana che prevede la confisca del carico istituisca un sistema di responsabilit penale oggettiva o non tenga conto del grado di coinvolgimento dei diversi operatori interessati, spetta al giudice nazionale valutare se tale sanzione sia rispettosa dei principi della giurisprudenza citata e, in particolare, se presenti un carattere dissuasivo, effettivo e proporzionale. 38. Procedendo a tale valutazione il giudice nazionale deve segnatamente tenere conto del fatto che l'obiettivo perseguito dal regolamento, consistente nel porre fine allo stato di guerra nella regione interessata nonch alle massicce violazioni dei diritti dell'uomo e del diritto umanitario internazionale nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina, presenta un interesse generale fondamentale per la comunit internazionale (sentenza 30 luglio 1996, causa C-84/95, Bosphorus, Racc. pag. I-3953, punto 26). 39. La terza questione va dunque risolta dichiarando che compatibile con il regolamento, e in particolare con l'art. 10 del medesimo, una norma nazionaVzle che prevede, in caso di accertata violazione di uno dei divieti di cui all'art. 1, la confisca del carico trasportato da uno dei mezzi di trasporto contemplati dall'art. 10, secondo comma, del regolamento (omisiss). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 88 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT EUROPEE, 6a sez., 23 gennaio 1997, nella causa C-181195 -Pres. Mancini -Rel. Hirsch -Aw. Gen. Fennelly -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal de commerce di Nivelles nella causa Biogen Inc. c. Smithkline Beecham Biologicals Sa - Interv.: Governi francese (ag. de Salins), svedese (ag. Brattgrd) e italiano (aw. Stato Fiumara) e Commissione delle C.E. (ag. Nolin e Drijber). Comunit europee -Tutela della propriet intellettuale -Brevetti -Certificato protettivo complementare per i medicinali -Possibilit di concedere pi certificati: limiti -Rifiuto del titolare dell'autorizzazione all'immissione in commercio di fornirne copia a chi richiede il certificato. (Reg. CEE del Consiglio 18 giugno 1992, n. 1768). Allorch un medicinale protetto da pi brevetti base, il regolamento (CEE) del Consiglio 18 giugno 1992, n. 1768, sull'istituzione di un certificato protettivo complementare per i medicinali, non osta a che sia concesso un certificato protettivo complementare a ciascun titolare di un brevetto base. Il regolamento stesso non impone al titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio di fornire al titolare di un brevetto copia della detta autorizzazione, menzionata all'art. 8, n. 1, lett. b), ma qualora il titolare del brevetto base e il titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio del prodotto in quanto medicinale siano persone diverse e il titolare del brevetto base non sia in grado di Eomire copia di tale autorizzazione, la domanda di certificato non deve, per questo motivo, essere respinta (1). (Omissis) 1. -Il tribunal de commerce di Nivelles ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, quattro questioni pregiudiziali relative all'interpretazione del regolamento (CEE) del Consiglio 18 giugno 1992, n. 1768, sull'istituzione di un certificato protettivo complementare per i medicinali (GU L 182, pag. 1, in prosieguo: il regolamento). (1) Il certificato protettivo complementare per i medicinali: condizioni per il rilascio. 1 -Il regolamento CEE del Consiglio 18 giugno 1992, n. 1768, sull'istituzione di un certificato protettivo complementare per i medicinali, consente agli uffici nazionali dei brevetti di prolungare la durata di un brevetto, concedendo un certificato di protezione complementare (C.C.P.), qualora oggetto del brevetto sia un principio attivo che abbia dato luogo ad un medicinale. Il certificato consente nella sostanza di prolungare la dura ta del brevetto in relazione a quel medicinale per un periodo rapportato a quello in cui la specialit medicinale non stata commercializzata, con alcuni limiti temporali. Si voluto cos assicurare una protezione pi efficace ed effettiva del brevetto riconoscendogli una durata ritenuta sufficiente ad ammortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca, attraverso il recupero da parte del titolare del brevetto, entro certi limiti, del periodo intercorrente fra il deposito della domanda di brevetto e l'autorizzazione di immissione in commercio del medicinale. PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 89 2. -Tali questioni sono state sollevate nell'ambito di una controversia sorta tra la Biogen Inc. (in prosieguo: la Biogen) e la Smithkline Beecham Biologicals SA (in prosieguo: la SKB) in ordine al rifiuto di quest'ultima di fornire alla Biogen, al fine di completare una domanda di certificato protettivo complementare, copie delle autorizzazioni belghe di immissione in commercio di un vaccino combinato contro l'epatite B, denominato Engerix-B. 3. -La Biogen titolare di due brevetti europei del 21 dicembre 1979 e del 19 novembre 1985, riferentisi a medicinali o, pi precisamente, sequenze e mediatori ADN, usati per la produzione di vaccini contro l'epatite B. L'art. 2 del regolamento prevede che ogni prodotto protetto da un brevetto e soggetto, in quanto medicinale, prima dell'immissione in commercio, ad una procedura di autorizzazione amministrativa pu formare oggetto di un certificato alle condizioni e secondo le modalit dettate negli articoli seguenti. L'art. 3 dispone che il certificato viene rilasciato se: a) il prodotto (cio il principio attivo o la composizione di principi attivi di un medicinale) protetto da un brevetto di base in vigore; b) per il prodotto in quanto medicinale stata rilasciata un'autorizzazione in vigore di immissione in commercio (A.I.C.); c) il prodotto non stato gi oggetto di un certificato; d) l'A.I.C. di cui sopra la prima A.I.e. del prodotto in quanto medicinale. L'art. 4 precisa che nei limiti della protezione conferita dal brevetto di base, la protezione conferita dal certificato riguarda il solo prodotto oggetto dell'A.I.C. del medicinale corrispondente, per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia stato autorizzato prima della scadenza del certificato. E l'art. 8 aggiunge che la domanda di certificato deve contenere, fra l'altro, a) una richiesta per il rilascio di un certificato che contenga in particolare ....... il numero e la data della prima A.I.e. del prodotto in quanto medicinale ....... ; b) una copia dell'A.I.C. di cui sopra, da cui risulti l'identit del prodotto e che contenga, tra l'altro, il numero e la data dell'autorizzazione, nonch il riassunto delle caratteristiche del prodotto..... 2 -Con riferimento a questo quadro normativo il Tribunale di commercio di Nivelles aveva posto alla Corte di Giustizia alcuni quesiti, con i quali si prospettavano, nella sostanza, due problematiche: una prima, relativa alla ampiezza del diritto al C.P.C. spettante al titolare del brevetto di base e alla possibilit di farlo valere in caso di mancato spontaneo rilascio di copia dell'A.l.C. da parte del titolare di quest'ultima; una seconda relativa all'eventuale concorrenza di due richieste di C.P.C. avanzate da diversi titolari di due brevetti di base in relazione allo stesso medicinale. La Corte ha pienamente condiviso le considerazioni svolte dal Governo italiano intervenuto in giudizio. 3 -Quanto alla prima problematica (sostanzialmente unica, che la Corte affronta nella risposta alle questioni prima, terza e quarta), occorre partire dalla enunciazione del diritto al C.P.C. fatta dall'art. 6 del regolamento 1768/92. La norma, in collegamento con il precedente art. 4, attribuisce al titolare di un brevetto base utilizzato per un determinato medicinale il diritto ad una protezione complementare del brevetto stesso, in relazione alla sua utilizzazione per quello stesso medicinale: dato lo stretto ed esclusivo collegamento fra il brevetto base e il medicinale, necessario che, prima della concessione della protezione complementare, sia verificata la sussistenza di tale collegamento mediante l'esibizione dell'autorizzazione all'immissione in commercio del medicinale, la quale contiene anche gli estremi per l'esatta identificazione del prodotto di base. La norma intende tutelare il titolare del brevetto, assicurandogli uno sfruttamento pi lungo. Solo eventualmente questa protezione pu risolversi in un vantaggio RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 90 4. -La SKB produce e mette in commercio, in varie forme di condizionamento e/o indicazione, l'Engerix-B, il cui principio attivo I'HBsAG (antigene di superficie purificato del virus dell'epatite B).A tal fine, la SKB, si avvale delle licenze di brevetti concessele dai titolari di brevetti o dai loro aventi causa. Secondo gli accertamenti del giudice nazionale, l'Engerix-B risulta dall'applicazione congiunta di pi brevetti di cui sono titolari, in particolare, la Biogene l'Istituto Pasteur. 5. -In forza di un contratto di licenza stipulato il 28 marzo 1988, la SKB versa alla Biogen diritti per la durata di validit dei brevetti. anche per il titolare dell'autorizzazione all'immissione in commercio del medicinale (diverso dal titolare del brevetto e titolare a sua volta di una licenza rilasciatagli da quest'ultimo), potendo egli godere di un supplemento di validit della licenza esclusiva di sfruttamento: ma un vantaggio solo eventuale, perch la durata della licenza potrebbe essere contrattualmente delimitata e non estesa automaticamente all'intero periodo di validit del brevetto e perch comunque la prosecuzione della licenza implica di norma il pagamento da parte del licenziatario dei compensi in favore del titolare del brevetto. L'interesse protetto dalla regolamentazione comunitaria dunque solo quello del titolare del brevetto sul prodotto di base del medicinale. Il diritto riconosciuto dalla norma pu essere esercitato dal titolare del brevetto con l'adempimento di alcune formalit, fra le quali la produzione dell'autorizzazione all'immissione in commercio, che consente l'identificazione del prodotto di base utilizzato per il medicinale di cui si tratta. Poich, al di fuori del caso di coincidenza nella stessa persona della titolarit sia del brevetto che dell'A.I.C. (nel qual caso non si pone alcun problema), l'esercizio del diritto del titolare del brevetto implica la produzione di un documento rilasciato ad altri, si posto il problema se il titolare dell'autorizzazione sia obbligato a consegnare copia del documento al titolare del brevetto ovvero se, in caso di insussistenza dell'obbligo o di inadempimento ad esso, il titolare del brevetto possa richiederne l'acquisizione all'organo amministrativo che lo ha rilasciato, direttamente o attraverso l'organo competente al rilascio del C.P.C. Un obbligo di consegna del documento da parte del titolare dell'A.I.C. pu sussistere, al di fuori di un impegno contrattuale -come hanno osservato sia la Commissione che tutti gli Stati membri intervenuti -solo se espressamente previsto dalla norma. E la norma nulla prevede. Ma un problema si porrebbe in ogni caso, anche se sussistesse un obbligo legale o convenzionale, ove l'obbligato si rifiutasse di adempiere o ritardasse o ponesse ostacoli ad un tempestivo adempimento. Poich per impensabile un diritto sfornito di una tutela e poich in definitiva il documento necessario all'esercizio del diritto rilasciato da una pubblica autorit nell'interesse della collettivit e non certo nell'interesse -se non quello strumentale -della persona alla cui attivit inerisce, ragionevole e logico interpretare la norma, il cui silenzio non appare impeditivo di una siffatta interpretazione, nel senso che, a richiesta del titolare del brevetto di base che intende esercitare il suo diritto al C.P.C. -ed eventualmente per il tramite dell'autorit competente al rilascio di quest'ultimo -debba l'autorit (sanitaria) che ha rilasciato l'A.l.C. provvedere al rilascio di una copia di essa per completare la documentazione necessaria al rilascio del C.P.C. L'art. 6 del reg. 1768/.92 parla esplicitamente di un diritto al certificato che spetta al titolare del brevetto di base. Questo diritto attribuito al titolare del brevetto, quale che possa essere l'interesse del titolare dell'A.I.C. Esso dunque si sovrappone al secondo, che perde qualsiasi rilevanza. Se v' un diritto non pu non esservi anche PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 91 6. -La SKB a sua volta titolare di quattro autorizzazioni di immissione in commercio dell'Engerix-B nel mercato belga. La pi remota, risalente al 14 novembre 1986, stata la prima autorizzazione di immissione in commercio per questo vaccino nella Comunit. 7. -Il 30 giugno 1993 la Biogen presentava all'Office de la proprit industrielle del ministero degli Affari economici belga domande di certificato protettivo complementare relative ai suoi due brevetti europei. Poich a tali domande dovevano essere accluse copie delle autorizzazioni di immissione in commercio dell'Engerix-B, la Biogen si rivolgeva pi volte alla SKB per ottenere da quest'ultima simili copie, ma questa si rifiutava. Per contro, la SKB trasmetteva una copia della sua prima autorizzazione di immissione in commercio all'Istituto Pasteur, con il quale aveva stipulato il suo primo contratto di licenza, e che poteva pertanto ottenere un certificato relativo al suo brevetto. una tutela dello stesso correlata alla norma costitutiva del diritto. Se per l'esercizio del diritto necessaria la produzione di un documento rilasciato dalla pubblica autorit, non si vede come al rilascio di un tale documento possa non essere tenuta la stessa pubblica autorit, se non nelle possibilit giuridiche e di fatto dell'interessato di procurarselo. La logica della norma comunitaria appare nel senso che l'obbligo di rilascio da parte dell'autorit amministrativa scaturisca da essa stessa senza la mediazione di una norma nazionale pi esplicita. Non sembrato ostare ad una siffatta soluzione -proposta dal Governo italiano nella perplessit degli altri intervenuti e condivisa poi dalla Corte -una esigenza di riservatezza del documento e dei dati in esso contenuti. L'art. 8 del reg. 1768/92 richiede una copia dell'autorizzazione di immissione in commercio ..... da cui risulti l'identit del prodotto e che contenga, fra l'altro, il numero e la data dell'autorizzazione, nonch il riassunto delle caratteristiche del prodotto...... Trattasi di dati che non presentano alcuna segretezza o riservatezza, quantomeno nei rapporti fra gli operatori del settore. Secondo le direttive in materia di specialit medicinali (65/65/CEE, 75/319/CEE, 83/570/CEE, 87/21/CEE, attuate in Italia da ultimo con decreto legislativo 29 maggio 1991, n. 178) il documento autorizzativo di immissione in commercio deve approvare le etichette, le quali devono sempre indicare il numero di autorizzazione, ed i fogli illustrativi delle specialit medicinali, nonch il riassunto delle caratteristiche del prodotto: e mentre l'etichetta e il foglio illustrativo fanno parte addirittura della confezione medicinale offerta al pubblico, il riassunto delle caratteristiche del prodotto rientra necessariamente quantomeno nella pubblicit del medicinale presso gli operatori sanitari (cfr. la direttiva 92/28/CEE concernente la pubblicit dei medicinali per uso umano, attuata in Italia con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541). Tutto ci prescinde dalle disposizioni nazionali, a quanto pare non omogenee, circa la pubblicit del documento di A.I.e. In Italia, invero, il gi citato decreto legislativo 29 maggio 1991, n. 178, prevede la pubblicazione del decreto di autorizzazione all'immissione in commercio nella Gazzetta Ufficiale nazionale, ma la pubblicazione viene fatta per estratto, contenente gli estremi di identificazione e le indicazioni essenziali sulle caratteristiche del prodotto, senza gli allegati approvati con il provvedimento stesso. Non v', per, alcun ostacolo alla acquisizione d'ufficio al fascicolo degli atti inerenti la richiesta di un C.P.C. di una copia integrale del provvedimento medesimo (anche se non espressamente prevista da alcuna norma), pur senza il consenso del titolare dell'autorizzazione stessa. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 92 8. -Il ministero della Sanit belga si rifiutava del pari di fornire alla Biogen, senza il consenso della SKB, copie delle autorizzazioni di immissione in commercio. 9. -Conseguentemente, il 16 settembre 1994 la Biogen intentava un'azione nei confronti della SKB dinanzi al tribuna! de commerce di Nivelles, al fine di sentir dichiarare che la SKB, rifiutandosi di fornirle copie certificate conformi alle sue autorizzazioni di immissione in commercio relative al vaccino Engerix-B, pur avendole trasmesse all'Istituto Pasteur, aveva commesso un atto discriminatorio nei suoi confronti, che sarebbe contrario agli usi onesti commerciali ai sensi dell'art. 93 della legge belga 14 luglio 1991 sulle pratiche del commercio e sull'informazione e la tutela del consumatore. La Biogen chiede quindi la cessazione immediata dell'asserito atto discriminatorio e, di conseguenza, la condanna della SKB a fornirle, sotto pena di sanzioni, copie certificate conformi delle pertinenti autorizzazioni di immissione in commercio. Per queste ragioni, quindi, si era proposto di rispondere ai quesiti numeri 1, 3 e 4 posti dal giudice remittente nel senso che l'autorit nazionale competente ad emettere il prowedimento autorizzativo all'immissione in commercio di un medicinale tenuta a rilasciare copia integrale del prowedimento stesso a richiesta dell'autorit competente al rilascio dei certificati protettivi complementari per i medicinali di cui al reg. CEE n. 1768/92, attivata in tal senso dal titolare di un brevetto di base che abbia prodotto domanda per il rilascio del certificato stesso. E la Corte ha condiviso appunto questa soluzione. 4 -Con l'altro quesito il giudice nazionale aveva chiesto se possano essere rilasciati pi certificati protettivi complementari quando Un unico prodotto protetto da pi brevetti base appartenenti a vari titolari. Il dubbio era sorto perch l'art. 3 del regolamento 1768/92 dispone che il C.P.C. viene rilasciato se ....... c) il prodotto non gi stato oggetto di un certificato. Invero tale norma va collegata con la definizione di prodotto dettata dal precedente art. 1, secondo cui .... b) prodotto, il principio attivo o la composizione di principi attivi di un medicinale. Orbene possibile che un brevetto riguardi non solo un prodotto che costituisce un principio attivo, ma anche un prodotto che la composizione di pi principi attivi: in ogni caso unico il titolare del brevetto. Ma altres possibile che il medicinale sia non solo il frutto di un unico brevetto (con uno o pi principi attivi), ma anche il frutto di pi brevetti appartenenti eventualmente a due titolari diversi. Orbene in quest'ultimo caso il medicinale si fonda su due o pi prodotti protetti da altrettanti brevetti di base, sicch per ciascun brevetto si pu chiedere o ottenere autonomamente la protezione complementare indipendentemente dalla richiesta per l'altro o per gli altri brevetti. E non osta a ci la disposizione dell'art. 3 del regolamento, la quale vieta la reiterazione della protezione per lo stesso prodotto, cio in relazione ad un unico brevetto, e non il rilascio di due certificati uno per ciascun brevetto base, pur in relazione allo stesso medicinale. Si era quindi proposto (sia da parte italiana che da parte della Commissione e degli altri Stati intervenuti) di rispondere alla seconda questione posta dal giudice nazionale nel senso che quando un medicinale protetto da pi brevetti base, il reg. 1768/92 non osta al rilascio di un certificato protettivo complementare per ciascuno di essi. E la Corte ha sostanzialmente aderito. OSCAR FIUMARA .....,.,...1111--~ PARTE I, SBZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA EINTERNAZIONALE !O; >-La SKB; fondandosi sul regolamento, sostiene di avere diritto di consegnare un solo certificato per prodotto, che la validit dei brevetti della Biogen era incerta e che la disparit di trattamento tra . quest'ultima e l'Istituto Pasteur si giustificava, sul piano economico, con il differente livello dei diritti percepiti;. :.. :::::::.::: U. ~ lUsul~ dal. terzo edalquarto/considerando' delregolamento che, ptima dellasua adozione; la durata della protezione effettiva conferita dal brevtto perr:tul:tortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca farmaceutia era. insiifficierite/ n. regolamento mira .per l'appunto a. ovviare a tale carenza con l'istihtzione dl un certificato protettivo .complementare per i rnedicinalt (omissis) . Slla.secondtil questione: ZO .... Con la seconda questione, che occorre esaminare in primo luogo, il giudice nazionale chiede in sostanza se,. allorch un medicinale protetto da pi brevetti base, il regolamento osti a che un certificato protettivo complementare sia ooncesso a ciascun titolare di brevetto base. 21. ~ La Biogen,. i governifrancese e italiano, nonch la Commissione, ritengono che il regolamento non osti a che, inuna situazione quale quella oggetto della controversia a.qua, sia concesso un certificato protettivo complementare ciascun titolare di brevetto base; 22. -La Biogen sostiene in particolare che, avuto riguardo all'obiettivo perseguito dal regolamento; vale a dire il miglioramento della protezione in modo da ammortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca farmaceutica, inconcepible che; allorch un medicinale protetto da pi.. brevetti base appartenenti a diversititolari, le ricerche delfono o dell'altro titolare di brevett base siano escluse dalla tutela connessa al sistema di certificato protettivo complementare, nel caso in cui, come nella fattispecie, tali ricerche siano pervenute, ciascuna separatamente, a innovazioni brevettate:. 23, Il governo italiano e la Commissione sottolineano come l'art. 3 del regolamento, che vietala proroga della protezione per lo stesso prodotto, vale a dire relativamente ad un unico brevetto, non osti tuttavia al rilascio di due certificati (uno per ciascun brevetto base) anche in relazione al medesimo medicinale. 24 -Secondo il governo francese, interpretare l'art. 3, lett. c), del regolamento nel senso che esso riservi il diritto al certificato protettivo complementare al primo titolare di brevetto che ne faccia domanda porterebbe a RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 94 scegliere arbitrariamente il beneficiario della proroga del periodo di protezione tra societ che, alla luce degli obiettivi e dell'oggetto del regolamento, vi hanno parimenti diritto. 25. -La SKB ritiene, al contrario, che nel sistema istituito possa essere rilasciato soltanto un unico certificato per prodotto, ossia per principio attivo identico, anche qualora pi brevetti siano alla base del prodotto in questione. A suo parere, il regolamento non si prefigge di ricompensare tutti i titolari di brevetti base, bens, in modo ben pi generale, di salvaguardare e promuovere lo sviluppo di medicinali in Europa e, pi in particolare, nella Comunit. Tale sviluppo di nuovi medicinali sarebbe, nella specie, in gran parte riconducibile agli sforzi di ricerca e investimento compiuti da chi ha ottenuto alla fine un'autorizzazione di immissione in commercio. L'obiettivo perseguito dal regolamento verrebbe pienamente raggiunto se il titolare del!' autorizzazione di immissione in commercio fosse disposto a collaborare con il titolare del singolo brevetto, con il quale tratter le condizioni di una collaborazione che includano il rilascio di una copia dell'autorizzazione di immissione in commercio, la quale consenta al detto titolare di brevetto di ottenere un certificato protettivo complementare. 26. -Va ricordato, al riguardo, che l'adozione del regolamento viene motivata, al terzo e al quarto 'considerando', con l'insufficiente durata della protezione effettiva conferita dal brevetto per ammortizzare gli investimenti effettuati nella ricerca farmaceutica. Il regolamento mira dunque a colmare tale insufficienza mediante la creazione di un certificato protettivo complementare per i medicinali che pu essere ottenuto dal titolare -di un brevetto nazionale o europeo alle stesse condizioni in ciascuno Stato membro. 27 -L'art. 6 del regolamento conferma che il diritto al certificato spetta al titolare del brevetto base o al suo avente causa. L'art. 1, lett. c), menziona i brevetti base che possono essere designati ai fini della procedura di rilascio del certificato, vale a dire quelli che proteggono un prodotto in quanto tale, un processo di fabbricazione o un impiego di un prodotto. Il regolamento ha quindi lo scopo di far s che i titolari di tali brevetti si giovino della protezione complementare, senza stabilire ordini preferenziali tra loro. 28. -Ne consegue che, allorch un prodotto protetto da pi brevetti base in vigore, eventualmente appartenenti a pi titolari, ciascuno di questi brevetti pu essere designato ai fini della procedura di rilascio del certificato. Ai sensi dell'art. 3, lett. c), del regolamento, non pu tuttavia essere rilasciato pi di un certificato per ciascun brevetto base. 29. -Peraltro, come emerge dall'art. 13 del regolamento, la durata di questi certificati calcolata in maniera uniforme in funzione della data della prima autorizzazione di immissione in commercio nella Comunit. PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 30. -Occorre pertanto risolvere la seconda questione nel senso che, allorch un medicinale protetto da pi brevetti base, il regolamento non osta a che sia concesso un certificato protettivo complementare a ciascun titolare di un brevetto base. Sulle questioni prima e terza 31. -Con la prima e la terza questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice nazionale chiede in sostanza se il regolamento imponga al titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio di fornire al titolare del brevetto una copia della detta autorizzazione, menzionata all'art. 8, n, 1, lett. b), dello stesso regolamento. 32. -La Biogen sostiene che iltitolare dell'autorizzazione di immissione in commercio, allorch gli richiesto dal titolare del brevetto base il rilascio di una copia certificata dell'autorizzazione destinata a regolarizzare una domanda di certificato protettivo complementare, non pu rifiutarsi di fornire tale copia. Infatti, il titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio non potrebbe ostacolare l'esercizio del diritto di cui all'art. 6 del regolamento. 33. -La SKB, i governi francese e italiano, nonch la Commissione, ritengono che il regolamento non imponga al titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio alcun obbligo specifico di fornirne una copia al titolare del brevetto, richiedente il certificato. 34. -La SKB sottolinea in particolare come, nel sistema del certificato, l'autorizzazione di immissione in commercio abbia il valore di un titolo autonomo connesso al medicinale e costituisca una componente essenziale del nuovo sistema di protezione istituito dal regolamento. Spetterebbe quindi al possessore di tale titolo decidere liberamente a chi rilasciarne copia e a quali condizioni. Un'interpretazione del regolamento che imponga al titolare dell'autorizzazione obblighi a vantaggio del titolare di un brevetto, dei quali le parti, come nella fattispecie di cui al procedimento a quo, non abbiano potuto tener conto al momento della stipulazione dei contratti di licenza (il 28 marzo 1988) recherebbe grave pregiudizio al principio della certezza del diritto. 35. -I governi francese e italiano, nonch la Commissione, ritengono che un obbligo di rilascio del documento da parte del titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio pu sussistere, al di fuori di un impegno contrattuale, solo se esso sia espressamente previsto dalla norma in questione la quale, tuttavia, nulla disporrebbe al riguardo. Il problema sollevato andrebbe quindi risolto nell'ambito dei rapporti contrattuali tra il titolare del brevetto e il titolare dell'autorizzazione. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 36. - sufficiente rilevare, al riguardo, che sebbene in forza dell'art. 8, n. l, lett. b), del regolamento la domanda di certificato debba contenere una copia dell'autorizzazione di immissione in commercio del medicinale, nessuna disposizione del regolamento impone al titolare dell'autorizzazione di fornirne copia al titolare del brevetto base. Invero, l'esercizio del diritto al certificato di cui all'art. 6 del regolamento non dipende affatto da un atto di volont del titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio. 37. -Il regolamento non osta tuttavia a che, avuto riguardo alle circostanze del caso di specie, simile obbligo sia considerato inerente ai rapporti contrattuali tra le parti. 38. -Occorre pertanto risolvere le questioni prima e terza nel senso che il regolamento non impone al titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio di fornire al titolare di un brevetto copia della detta autorizzazione, menzionata all'art. 8, n. 1, lett. b), dello stesso regolamento. Sulla quarta questione 39. -Tenuto conto della struttura e degli obiettivi del regolamento, per fornire una soluzione utile al giudice nazionale, occorre intendere la quarta questione nel senso che essa mira in sostanza ad accertare se, nel caso in cui il titolare del brevetto base e il titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio siano persone differenti e il titolare del brevetto non sia in grado di fornire una copia dell'autorizzazione conformemente all'art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento, la domanda di certificato non debba per questo solo motivo essere respinta. 40. -La Biogen e il governo italiano sostengono che l'autorit amministrativa che ha concesso l'autorizzazione di immissione in commercio non pu sic et simpliciter rifiutarsi di fornirne copia al titolare del brevetto base che ne faccia richiesta al fine di completare una domanda di certificato. 41. -La Biogen osserva in particolare che, tenuto conto del fatto che la valutazione dell'opportunit di una domanda di certificato va riservata al titolare del brevetto base, l'autorit amministrativa non pu addurre nei confronti del titolare del brevetto motivi diversi dal carattere riservato dell'autorizzazione di immissione in commercio. Nel caso in cui un'ipotetica riservatezza dell'autorizzazione di immissione in commercio dovesse precludere la sua comunicazione al titolare del brevetto base, esisterebbero altre possibilit di contemperare l'esigenza di riservatezza dell'autorizzazione con la realizzazione degli obiettivi del regolamento. In particolare, l'autorit amministrativa che dispone di una copia certificata dell'autorizzazione potrebbe vuoi fornire al titolare del brevetto base una copia nella quale venga cancellato PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE ogni dato quantitativo, non essendo tali informazioni indispensabili per identificare il medicinale al quale la domanda di certificato si riferisce, vuoi trasmettere la copia certificata dell'autorizzazione direttamente all'autorit incaricata di trattare le domande di certificato, senza farla transitare per il titolare del brevetto base. La riservatezza delle informazioni contenute nel!' autorizzazione di immissione in commercio sarebbe in tal modo rispettata. 42. -Secondo la SKB, i governi francese e svedese, nonch la Commissione, il regolamento non prevede alcun obbligo per un'autorit amministrativa di fornire una copia dell'autorizzazione al titolare del brevetto. 43. -La SKB sostiene in particolare che consentire all'amministrazione di disporre di questo titolo, senza alcun fondamento giuridico, a favore di un terzo titolare di un brevetto base equivarrebbe a spogliare definitivamente il titolare dell'autorizzazione, senza contropartita n giustificazione, di entrate su cui esso ha diritto di contare come compensazione per gli sforzi e i costi delle ricerche sostenuti per ottenere l'autorizzazione. 44. -Al riguardo, occorre ricordare che la prescrizione di cui all'art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento, di accludere una copia dell'autorizzazione di immissione in commercio alla domanda di certificato protettivo complementare, ha lo scopo di identificare il prodotto e di verificare l'osservanza del termine massimo per il deposito della domanda, nonch, eventualmente, la durata della protezione complementare. Si tratta pertanto di una condizione di forma finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di un'autorizzazione di immissione in commercio del prodotto in quanto medicinale. 45. -Orbene, qualora il titolare del brevetto base e il titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio siano persone differenti e il titolare del brevetto base non sia in grado di fornire alle autorit nazionali competenti, in conformit dell'art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento, una copia di questa autorizzazione concessa di autorit di questo stesso Stato membro, la domanda di certificato non deve per questo solo motivo essere respinta. Invero, una semplice collaborazione consente all'autorit nazionale che rilascia il certificato di procurarsi copia dell'autorizzazione di immissione in commercio presso l'autorit nazionale competente per il rilascio di quest'ultima (v. in tal senso sentenza 12 novembre 1996, causa C-201/94, Smith e Nephew, Racc. pag. 0000, punto 28). In caso contrario, il diritto al certificato conferito al titolare del brevetto base dall'art. 6 del regolamento sarebbe privato del suo effetto utile. 46. -Per quanto riguarda gli argomenti della SKB, va peraltro ricordato che, ai sensi dell'art. 5 del regolamento, il certificato conferisce gli stessi diritti che vengono attribuiti dal brevetto base ed soggetto alle stesse limitazioni e agli stessi obblighi. 98 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO '47. -Conseguentemente si deve risolvere la quarta questione nel senso che, qualora il titolare del brevetto base e il titolare dell'autorizzazione di immissione in commercio del prodotto in quanto medicinale siano persone diverse e il titolare del brevetto base non sia in grado di fornire una copia di questa autorizzazione in conformit dell'art. 8, n. l, lett. b), del regolamento, la domanda di certificato non deve, per questo solo motivo, essere respinta (omissis). I'. ' . CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT EUROPEE, 5a sez., 7 maggio 1997, nelle cause riunite C-321-324/94 -Pres. Moitinho de Almeida -Rel. Gulmann -Avv. Gen. Jacobs -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte di cassazione francese nei procedimenti penali contro J. Pistre ed a. -Interv.: Governi italiano (avv. Stato Braguglia), francese (ag. Belliard e Martinet), ellenico (ag. Georgakopoulos) e Commissione C.E. (ag. Buhigues). Comunit europee -Libera circolazione delle merci -Protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine -Denominazione montagna per prodotti agricoli e alimentari. (Trattato C.E., artt. 30 e 36; reg. CEE del Consiglio n. 2081192 del 14 luglio 1992, art. 2). nregolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli ed alimentari, non osta all'applicazione di una normativa nazionale, come quella prevista dall'art. 34 della legge 9 gennaio 1985, n. 8530 e dal decreto 26 febbraio 1988, n. 88-194, che stabilisce i requisiti perl'uso della denominazione 0montagna222 per i prodotti agricoli e alimentari. L'art. 30 del Trattato CE osta all'applicazione di una normativa nazionale, come quella prevista dall'art. 34 della legge n. 85-30 e dal decreto n. 88-194, che riserva l'uso della denominazione montagna ai soli prodotti fabbricati nel territorio nazionale ed elaborati a partire da materie prime nazionali (1). (omissis) 1. -Con sentenze 3 ottobre 1994, pervenute in cancelleria il 9 dicembre successivo, la Cour de Cassation francese ha sottoposto a questa Corte, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, una questione pregiudiziale rela( 1) Si tratta della prima causa relativa all'interpretazione del regolamento (CEE) n. 2081del1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli ed alimentari. Anche se i quesiti proposti dalla Corte di Cassazione francese non erano espliciti sul punto, si poteva ipotizzare che la Corte di giustizia si occupasse anche dell'ambito d'applicazione del suddetto regolamento, con particolare riferimento alla sorte delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine nazionali, rilasciate dagli Stati membri prima dell'entrata in vigore del regolamento stesso. PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 99 tiva all'interpretazione dell'art. 2 del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli ed alimentari (GU L 208, pag. 1), nonch degli artt. 30 e 36 del Trattato CE. 2. -Tale questione stata sollevata nell'ambito di azioni penali promosse nei confronti della signora Michle Barthes e dei signori Jacques Pistre, Yves Milhau e Didier O berti (in prosieguo: gli imputati), perseguiti a causa di etichettature atte a indurre in errore il consumatore sulla qualit o sull'origine dei prodotti. 3. -Gli imputati, cittadini francesi, amministrano societ stabilite in Lacaune, nel dipartimento del Tarn in Francia, che producono e mettono in commercio prodotti di salumeria. Essi sono stati perseguiti penalmente, nel 1991, per aver posto in commercio salumi la cui etichetta conteneva le denominazioni montagna o Monts de Lacaune, senza aver ottenuto, per i detti prodotti, l'autorizzazione all'uso delle indicazioni riservate alle zone montane prescritta dall'art. 34 della legge 9 gennaio 1985, n. 85-30, relativa allo sviluppo e alla protezione delle zone montane (JORF 10 gennaio 1985, pag. 320, in prosieguo: la legge n. 85-30) e dal decreto 26 febbraio 1988, n. 88-194, che stabilisce i requisiti per l'uso dell'indicazione di provenienza montagna per i prodotti agricoli e alimentari (JORF 27 febbraio 1988, pag. 2747, in prosieguo: il decreto n. 88-194). 4. -Con sentenze 26 maggio 1992, il tribunal de police di Castres ha assolto gli imputati, rilevando che la normativa sull'indicazione di provenienza montagna era incompatibile con il principio della libera circolazione delle merci sancito dal Trattato CEE, divenuto Trattato CE, e inapplicabile anche nei confronti dei produttori nazionali, stante il rischio di una discriminazione alla rovescia. 5. -In seguito all'appello interposto dal pubblico ministero, la cour d'appel di Tolosa ha annullato le sentenze pronunciate dal tribunal de police di Castres, dichiarando gli imputati colpevoli dei fatti loro contestati. Essi sono L1talia -ed altri Stati membri -hanno nel tempo costituito un rilevante patrimonio di diritti a protezioni esclusive, sia in ambito nazionale che internazionale. La preoccupazione che la pronuncia richiesta alla Corte di giustizia potesse giungere a stabilire il rapporto tra le discipline nazionali anteriori ed il regolamento (CEE) n. 2081/92 ha indotto il Governo italiano ad intervenire per sostenere che il suddetto regolamento non ha reso inapplicabili, a livello nazionale, le discipline statali anteriori. Tuttavia, l'importante questione non stata affrontata dalla Corte nella sentenza in rassegna. Di conseguenza, essa stata riproposta per il Governo italiano in altre cause (cause riunite C-129 e C-130/97) tuttora pendenti. l.M.B. a RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 100 stati condannati al pagamento di ammende di diversa entit. La cour d'appel di Tolosa ha considerato che le disposizioni di cui trattasi, che riservavano l'uso dell'indicazione di provenienza montagna ad alcuni prodotti nazionali e miravano a garantire la tutela degli interessi dei produttori contro la concorrenza sleale nonch quella dei consumatori contro indicazioni atte a indurli in errore, non erano, ad onta della disparit di trattamento che da esse deriva tra prodotti nazionali ed importati, di natura tale da ostacolare le importazioni. 6. -Awerso tali sentenze gli imputati hanno presentato un ricorso dinanzi alla Cour de cassation,f facendo valere, in particolare, che le disposizioni controverse, le quali subordinano la messa in vendita di un prodotto al previo rilascio di un'autorizzazione amministrativa, costituiscono misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative agli scambi tra gli Stati membri, vietate dagli artt. 30 e 36 del Trattato. 7. -Nelle sentenze di rinvio la Cour de cassation osserva, da una parte, che le disposizioni pertinenti della legge n. 85-30 e del decreto n. 88-194 prevedono che la delimitazione delle aree di montagna si estende alle zone montane, a quelle caratterizzate dalla presenza di rilievi di una certa entit nonch alle zone dei dipartimenti d'oltremare situate ad un'altezza superiore ai 100 metri, e comportano deroghe rilevanti all'obbligo di localizzazione del processo di produzione, ammettendo in particolare che la materia prima rientrante nella composizione del prodotto non provenga dall'area geografica considerata o che il prodotto non sia interamente fabbricato in tale area. 8. -D'altro canto, essa rinvia al regolamento n. 2081/92 rilevando come quest'ultimo, entrato in vigore il 26 luglio 1993, circoscriva la tutela delle indicazioni di provenienza ai soli prodotti originari di una regione delimitata, rispetto ai quali una determinata qualit o un'altra caratteristica pu attribuirsi all'origine geografica e la cui produzione avviene in loco, istituendo uno speciale procedimento di registrazione comunitaria delle denominazioni esistenti. 9. -La Cour de cassation, ritenendo che si ponga, conseguentemente, la questione della compatibilit della legge n. 85-30 e del decreto n. 88-194 con le disposizioni, apparentemente pi restrittive, del regolamento n. 2081/92, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale: Se il combinato disposto degli artt. 30 e 36 del Trattato CE e 2 del regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, osti o meno all'applicazione di una normativa nazionale come quella risultante dalla legge 9 gennaio 1985, n. 85-30, e dal suo decreto di attuazione 26 febbraio 1988, n. 88-194. PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 101 1O. -Per risolvere la questione posta dal giudice a quo, occorre in primo luogo, dopo aver ricordato le principali disposizioni della normativa nazionale di cui trattasi, procedere all'interpretazione del regolamento n. 2081192 che, pur essendo entrato in vigore posteriormente al verificarsi dei fatti all'origine delle azioni promosse nell'ambito dei procedimenti principali, potrebbe incidere sull'esito degli stessi in forza del principio riconosciuto dal diritto nazionale in argomento che sancisce la retroattivit della norma penale pi favorevole. Qualora, al termine di questo primo esame, emerga che il detto regolamento non osta all'applicazione di una normativa nazionale come quella in esame nelle cause principali, si dovr valutare la compatibilit della stessa con gli artt. 30 e 36 del Trattato. La normativa nazionale controversa 11. -Ai sensi dell'art. 1 della legge n. 85-30, La montagna costituisce un'entit geografica, economica e sociale in cui i rilievi, il clima e il patrimonio naturale e culturale richiedono la definizione e l'attuazione di una politica mirata di sviluppo, di assetto del territorio e di tutela(... ). La legge contempla diversi interventi in tal senso tra cui la previsione di una protezione della denominazione montagna. 12. -Gli artt. 3-4 della legge n. 85-30 circoscrivono le zone montane. L'art. 3 dispone infatti quanto segue: Le zone montane sono caratterizzate dall'esistenza di svantaggi significativi che comportano condizioni di vita pi disagevoli e limitano l'esercizio di determinate attivit economiche. Esse comprendono, nel territorio metropolitano, i comuni o le parti dei comuni caratterizzati da una notevole limitazione delle possibilit di utilizzazione delle terre e da un incremento consi- derevole dei costi di lavoro derivanti: 1) dalla presenza, dovuta all'altitudine, di condizioni climatiche molto difficili che si riflettono nella particolare brevit del periodo di vegetazione; o, 2) dalla presenza, a bassa quota, nella maggior parte del territorio, di pendii ripidi che non consentono la meccanizzazione o che richiedono l'utilizzazione di macchinari specifici particolarmente costosi; o, 3) dalla combinazione di questi due fattori quando l'entit dello svantaggio derivante da ciascuno di essi, considerato separatamente, risulti meno accentuata; in tale ipotesi, lo svantaggio derivante da questa combinazione deve essere equivalente a quello prodotto dalle situazioni descritte sopra ai nn. 1e2. La determinazione di ciascuna zona avviene con decreto ministeriale. 13. -L'art. 4 circoscrive le zone montane nei dipartimenti d'oltremare. 102 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 14. -L'art. 34, collocato nella Sezione IV del Titolo III della legge relativa allo sviluppo dei prodotti agricoli e alimentari di qualit, era, nella stesura vigente all'epoca dei fatti, del seguente tenore: L'indicazione di provenienza montagna ed i riferimenti geografici specifici alle zone montane come definite dalla presente legge, quali i nomi di un massiccio, di una vetta, di una valle, di un comune o di un dipartimento, sono tutelati. L'uso dell'indicazione di provenienza e dei riferimenti sopra menzionati subordinato al rispetto, per tutti i prodotti immessi sul mercato, delle condizioni stabilite con decreto emanato previa consultazione del Conseil ci'Etat e sentito il parere delle organizzazioni professionali rappresentative in materia di certificazione di qualit. Tale decreto determina in particolare le tecniche di fabbricazione, il luogo di fabbricazione e la provenienza delle materie prime che consentono l'uso dei riferimenti geografici sopramenzionati. 15. -Il decreto n. 88~194 precisa i requisiti cui devono rispondere.i prodotti, le loro materie prime ed i metodi applicati nella loro fabbricazione per poter fruire di indicazioni che facciano riferimento alla montagna o ad una zona geografica determinata. l; ~ 16. -Ai sensi dell'art. 2 di tale decreto, la zona geografica di produzione, f: allevamento, ingrasso, macellazione, preparazione, fabbricazione, affinatura . e condizionamento dei prodotti di cui trattasi, nonch il luogo di provenien' .' za delle materie prime utilizzate per la fabbricazione dei prodotti trasformati, devono essere situati nelle zone montane come definite nelle condizioni ~ fissate dagli artt. 3 e 4 della legge. I Ifil 17. -L'art. 3 del decreto n. 88-194 prevede talune deroghe all'art. 2. Cos, l'obbligo di provenienza da zone montane non si applica alle materie prime ili che, per ragioni naturali, non vengono prodotte nelle dette zone e il luogo di I I ru macellazione del bestiame utilizzato per la fabbricazione dei prodotti a base di carne trasformati, nonch il luogo di macellazione e condizionamento della carne venduta allo stato fresco, possono non essere situati nelle zone montane come definite dagli artt. 3 e 4 della legge n. 85-30. I 18. -Ai sensi dell'art. 4 del decreto n. 88-194, i prodotti in argomento devono essere prodotti, preparati o elaborati conformemente ai procedimenI ti di fabbricazione stabiliti con decreto emanato congiuntamente dal ministro dell'agricoltura e dal ministro per la tutela dei consumatori, previo parere della commissione nazionale dei marchi e delle commissioni regionali dei I j prodotti alimentari di qualit. \i \:o r 19. -L'art. 5 del decreto n. 88-194 dispone che L'autorizzazione all'uso dell'indicazione provenienza montana o di ogni altro riferimento geografi-j, f: f: !if: f: fil !' ~ !i PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 103 co specifico alle zone montane rilasciata con decreto emanato congiuntamente dal ministro dell'agricoltura e dal ministro incaricato della tutela dei consumatori, previa consultazione della commissione regionale dei prodotti alimentari di qualit. previsto inoltre che Il beneficiario dell'autorizzazione deve apporre sui suoi prodotti un segno distintivo definito dal ministro dell'agricoltura. 20. -I partecipanti al procedimento svoltosi dinanzi alla Corte e, in particolare, gli imputati, il governo francese e la Commissione si sono espressi in merito alla qualificazione della normativa nazionale di cui trattasi. 21. -Gli imputati fanno valere che le condizioni cui subordinato l'uso della denominazione montagna sono troppo generiche e flessibili perch questa possa considerarsi alla stregua di un'indicazione geografica ai sensi dell'art. 2 del regolamento n. 2081192. Tale denominazione non troverebbe giustificazione nelle qualit intrinseche dei prodotti; si tratterebbe esclusivamente di una dicitura informativa che fa riferimento alla forma di un rilievo caratterizzato da un'altitudine pi o meno elevata. Il termine sarebbe meramente descrittivo, generico e non circoscritto. Gli imputati affermano inoltre che, in realt, la normativa nazionale mira a garantire uno sbocco ai prodotti originari delle zone montane riservando loro una protezione mediante una denominazione di fantasia. 22. -Il governo francese osserva che la denominazione montagna si avvicina maggiormente ad una denominazione di qualit che non ad un'indicazione di provenienza. Esso sottolinea come le condizioni oggettive e alquanto rigorose relative alla preparazione e alla fabbricazione dei prodotti alimentari che possono recare la dicitura montagna sull'etichettatura rivelino che lo scopo della normativa quello di garantire al consumatore, mediante quella dicitura, il rispetto di determinate prescrizioni relative alla qualit dei prodotti. Le condizioni poste dall'art. 2 del decreto n. 88-194 sarebbero dirette, in particolare, ad assicurare al consumatore che il prodotto recante la denominazione montagna presenti effettivamente le qualit attribuite dal consumatore ai prodotti provenienti dalle zone montane. La normativa nazionale subordinerebbe quindi il rilascio dell'autorizzazione per l'uso della denominazione alle caratteristiche intrinseche dei prodotti. Si tratterebbe in realt di una normativa che mira ad un'informazione leale del consumatore, cercando nel contempo di promuovere in una certa misura i prodotti provenienti dalle zone montane. 23. -La Commissione condivide nella sostanza l'opinione del governo francese relativa alla qualificazione della normativa nazionale. A suo parere, la denominazione montagna pu essere assimilata ad una indicazione di provenienza semplice che, alla luce delle disposizioni del decreto n. 88/194, 104 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO costituisce un marchio di qualit diretto a promuovere i prodotti delle zone montane, posto che tale origine atta a valorizzare i prodotti agli occhi dei consumatori. Il regolamento n. 2081192 24. -Poich la questione sollevata in relazione a tale regolamento diretta ad accertare se esso osti all'applicazione di una normativa nazionale come quella in. esame nei presenti procedimenti, occorre ricordare l'obiettivo e le principali disposizioni del regolamento stesso. 25. -Il regolamento n. 2081192 ricorda, nel settimo e nel nono 'considerando', -che le prassi nazionali di elaborazione e di attribuzione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche sono attualmente eterogenee; che necessario prevedere un'impostazione comunitaria; che, in effetti, un quadro normativo comunitario recante un regime di protezione favorirebbe la diffusione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d' origine poich garantirebbe, tramite un'impostazione pi uniforme, condizioni di concorrenza uguali tra i produttori dei prodotti che beneficiano di siffatte diciture, ci che farebbe aumentare la credibilit dei prodotti in questione agli occhi dei consumatori; -che il campo d'applicazione del regolamento si limita ai prodotti agricoli e alimentari in ordine ai quali esiste un nesso fra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica. 26. -Ai sensi dell'art. 2, n. 2, del regolamento n. 2081192, si intende per a) denominazione d'origine: il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: -originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e -la cui qualit o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all'ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'a~ rea geografica delimitata; b) indicazione geografica: il nome di una regione, di un luogo deter I minato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare -originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e I -di cui una determinata qualit, la reputazione o un'altra caratteriI f stica possa essere attribuita all'origine geografica e la cui produzione e/o ?: ~ ~ ~ PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 105 trasformazione e/o elaborazione avvengano nell'area geografica determinata . 27. -L'art. 4, n. l, del regolamento n. 2081/92 dispone che Per beneficiare di una denominazione d'origine protetta (DOP) o di un'indicazione geografica protetta (IGP), i prodotti devono essere conformi ad un disciplinare. Risulta dal n. 2 della medesima disposizione che il disciplinare comprende, in particolare, gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare originario della zona geografica ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera a) o b), a seconda dei casi. 28. -In forza dell'art. 8 del regolamento, Le menzioni DOP, IGP o le menzioni tradizionali equivalenti possono figurare solo su prodotti agricoli ed alimentari conformi al(... ) regolamento. 29. -Secondo l'art. 13 le denominazioni, registrate dalla Commissione, sono tutelate, in particolare, contro qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l'uso di tale denominazione consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta. 30. -L'art. 13, n. 2, stabilisce che gli Stati membri possono tuttavia, sempre che siano rispettate talune condizioni, mantenere le misure nazionali che autorizzano l'impiego delle espressioni di cui al n. 1, lett. b), per un periodo massimo di cinque anni dalla data di pubblicazione del presente regolamento. 31. -Risulta quindi dal regolamento n. 2081/92 che la protezione delle denominazioni d'origine e delle indicazioni geografiche presuppone una registrazione la quale implica che i prodotti considerati soddisfino le condizioni poste dal regolamento, e in particolare quelle relative al nesso diretto fra la qualit o le caratteristiche del prodotto per il quale richiesta l'autorizzazione e la sua origine geografica specifica. 32. -I partecipanti al procedimento dinanzi alla Corte osservano che la normativa nazionale in esame nelle cause principali non subordina il rilascio dell'autorizzazione all'uso della denominazione montagna all'esistenza di un nesso del genere, di modo che le denominazioni da essa tutelate non corrispondono ad alcuna delle definizioni figuranti nell'art. 2 del regolamento n. 2081/92. 33. -Secondo gli imputati, ne consegue che tale regolamento osta all'applicazione della normativa nazionale di cui trattasi. Essi ritengono infatti che RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 106 uno Stato membro non possa consentire che permanga la possibilit per un prodotto di fluire di un'indicazione di provenienza che non trova giustificazioni in base al regolamento. 34. -Il governo francese e la Commissione considerano per contro che una normativa come quella in esame nelle cause principali non sia in contrasto con il regolamento n. 2081/92 in quanto esula dal suo ambito di applicazione. 35. -A tale riguardo, si deve constatare che una normativa nazionale come quella in esame nelle controversie principali, che stabilisce le condizioni per l'uso della denominazione montagna per i prodotti agricoli e alimentari, non pu essere considerata applicabile ad una denominazione d'origine o a un'indicazione geografica ai sensi del regolamento n. 2081/92. Infatti, la denominazione montagna riveste un carattere del tutto generico che trascende le frontiere nazionali, mentre, secondo l'art. 2 del regolamento n. 2081/92, deve esistere un nesso diretto tra la qualit o le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica specifica. 36. -In termini pi generali, la denominazione montagna non costituisce neppure un'indicazione di provenienza, nel senso in cui tale nozione stata definita dalla Corte nella sua giurisprudenza relativa agli artt. 30 e 36 del Trattato. Infatti, secondo quest'ultima, le indicazioni di provenienza sono destinate ad informare il consumatore del fatto che il prodotto che le reca proviene da un luogo, da una regione o da un paese determinati (sentenza 10 novembre 1992, causa C-3/91, Exportur, Racc. pag. I-5529, punto 11). 37. -In queste circostanze, occorre constatare che, com' stato rilevato dal governo francese e dalla Commissione, una normativa nazionale, quale quella in esame nelle cause principali, la quale si limita a dare una protezione di carattere generale a una denominazione che evoca nel consumatore qualit legate in astratto alla provenienza dei prodotti da zone montane, troppo lontana dall'ambito di applicazione ratione materiae del regolamento n. 2081/92 perch questo possa opporsi al suo mantenimento in vigore. 38. - irrilevante, al riguardo, che la normativa nazionale di cui trattasi tuteli non solo la denominazione geografica generale montagna in quanto tale, ma anche, e alle medesime condizioni, i riferimenti geografici specifici alle zone montane, come il riferimento Monts de Lacaune. 39. -Come ha rilevato l'awocato generale al paragrafo 30 delle sue conclusioni, bench il riferimento Monts de Lacaune indichi una zona montana specifica e potrebbe di conseguenza costituire oggetto di registrazione ai ~ ~= i: !l PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 107 sensi del regolamento n. 2081/92 qualora i legami tra le caratteristiche del prodotto di cui trattasi e la detta zona soddisfacessero i requisiti posti dal regolamento, legami del genere non sono necessari per ottenere l'autorizzazione all'uso di tale denominazione ai sensi della normativa nazionale controversa. Risulta, infatti, che quest'ultima tutela i riferimenti geografici di tal genere soltanto nei limiti in cui essi evochino una provenienza montana e non in quanto siano rapportabili a zone montane determinate. 40. -Occorre dichiarare conseguentemente che il regolamento n. 2081/92 non osta all'applicazione di una normativa nazionale, come quella prevista dall'art. 34 della legge n. 85-30 e dal decreto n. 88-194, che stabilisce i requisiti per l'uso della denominazione montagna per i prodotti agricoli e alimentari. Gli artt. 30 e 36 del Trattato 41. -Quanto alla seconda parte della questione, il governo francese e la Commissione osservano, in via preliminare, che i fatti delle cause principali sono circoscritti al territorio nazionale, dato che le azioni penali sono state esercitate nei confronti di cittadini francesi, in relazione a prodotti francesi messi in commercio nel territorio francese. Secondo il governo francese, tali azioni penali non rientrano pertanto nell'ambito di applicazione degli artt. 30 e 36, che riguardano la libera circolazione delle merci tra Stati membri, e non occorrerebbe quindi risolvere la questione della compatibilit con le dette disposizioni di una normativa nazionale come quella di cui trattasi nelle cause principali. 42. -Questa tesi non pu essere accolta. 43. -Infatti, per giurisprudenza costante (sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, Dassonville, Racc. pag. 837, punto 5), il divieto sancito dall'art. 30 del Trattato riguarda ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari. 44. -Pertanto, se vero che l'applicazione di un prowedimento nazionale che non riguarda in alcun modo l'importazione delle merci non rientra nella sfera dell'art. 30 del Trattato (sentenza 15 dicembre 1982, causa 286/81, Oosthoek's Uigeversmaatschappij, Racc. pag. 4575, punto 9), ci nondimeno quest'ultima disposizione non pu essere disattesa per il solo fatto che, nella fattispecie concreta sottoposta all'esame del giudice nazionale, tutti gli elementi si collocano all'interno di un solo Stato membro. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 108 45. -Infatti, in una situazione del genere l'applicazione del provvedimento nazionale pu altres incidere sulla libera circolazione delle merci tra gli Stati membri, in particolare quando tale provvedimento agevoli l'immissione in commercio delle merci di origine nazionale a scapito delle merci importate. In simili circostanze, l'applicazione del provvedimento, sia pure limitatamente ai soli produttori nazionali, fa sorgere e mantiene di per s una differenza di trattamento tra queste due categorie di merci, ostacolando, per lo meno potenzialmente, gli scambi intracomunitari. 46. -Nel caso di specie, il governo francese sottolinea come la normativa nazionale di cui trattasi nelle cause principali non viene applicata dalle autorit francesi ai prodotti importati dagli altri Stati membri. Sin dalla sua entrata in vigore nel 1988, non stata esercitata alcuna azione penale riguardante prodotti importati dagli Stati membri e recanti la dicitura montagna. Alla luce di quanto sopra, non si potrebbe sostenere che la normativa in esame costituisca attualmente una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa ai sensi dell'art. 30 del Trattato. Il governo francese riconosce tuttavia che la lettera dell'art. 34 della legge n. 85-30 non esclude espressamente dalla sua sfera di applicazione i prodotti importati da altri Stati membri e che, di conseguenza, pu essere formulata l'ipotesi che l'immissione in commercio di prodotti importati, recanti diciture che facciano riferimento alla montagna, sia considerata contrastante con la normativa in esame, non avendo essi ottenuto l'autorizzazione prevista. 47. -Il governo francese afferma inoltre che, nei limiti in cui l'applicazione della normativa nazionale fosse idonea a costituire un ostacolo alla libera circolazione delle merci, quest'ostacolo sarebbe giustificato da motivi connessi alla tutela dei consumatori e alla lealt dei negozi commerciali. 48. -Poich il governo francese ha ammesso che la normativa nazionale in esame pu essere applicata ai prodotti importati da altri Stati membri, si deve anzitutto constatare che essa costituisce un ostacolo agli scambi intracomunitari ai sensi dell'art. 30 del Trattato. 49. -Si deve poi rilevare che una normativa come quella in esame nelle cause principali discriminatoria nei confronti delle merci importate dagli altri Stati membri in quanto riserva l'uso della denominazione montagna ai soli prodotti fabbricati nel territorio nazionale e elaborati. a partire da materie prime nazionali (v., in tal senso, sentenza 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers, Racc. pag. 1935, punto 25). 50. -Infatti, risulta dall'art. 2 del decreto n. 88-194 nonch dagli artt. 3-5 della legge n. 85-30 che un prodotto pu beneficiare della denomina PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 109 zione montagna o dei riferimenti geografici specifici alle zone montane a condizione che la produzione, la preparazione, la fabbricazione e il condizionamento di tale prodotto vengano effettuati in zone montane situate nel territorio francese. Emerge quindi che la normativa esclude che i prodotti importati possano soddisfare i requisiti cui subordinato il rilascio del!' autorizzazione all'uso della denominazione montagna. 51. -Del pari, il rilascio della detta autorizzazione subordinato, ai sensi dell'art. 2 del decreto n. 88-194, all'uso, nel procedimento di fabbricazione dei prodotti trasformati, di materie prime provenienti da zone montane situate nel territorio francese. Ai termini di tale normativa, i prodotti importati non possono quindi rientrare nel procedimento di fabbricazione dei prodotti trasformati recanti la denominazione montagna. 52. -Per giurisprudenza costante, una normativa nazionale di tal genere, poich ha carattere discriminatorio, pu trovare una giustificazione, se del caso, soltanto in uno dei motivi previsti dall'art. 36 del Trattato (v., in tal senso, sentenza 17 giugno 1981, causa 113/80, Commissione/Irlanda, Racc. pag. 1625, punti 8-11). 53. -Nel caso di specie, si deve constatare che nessuno dei motivi elencati nell'art. 36 consente di giustificare la normativa considerata. Infatti, tra i detti motivi, soltanto la tutela della propriet industriale e commerciale, vale a dire, nella specie, la protezione delle indicazioni di provenienza, pu essere presa in considerazione. Ebbene, risulta dal punto 36 della presente sentenza che la denominazione montagna, come protetta dalla normativa nazionale di cui trattasi, non pu essere qualificata alla stregua di un'indicazione di provenienza. 54. -La seconda parte della questione posta dev'essere pertanto risolta dichiarando che l'art. 30 del Trattato osta all'applicazione di una normativa nazionale) come quella prevista dall'art. 34 della legge n. 85-30 e dal decreto n. 88-194, che riserva l'uso della denominazione montagna ai soli prodotti fabbricati nel territorio nazionale ed elaborati a partire da materie prime nazionali. 55. -Alla luce di quanto sopra, non occorre esaminare la questione diretta ad accertare se -e, eventualmente, a quali condizioni -una normativa nazionale analoga alla normativa francese in esame, ma che non comporti discriminazioni nei confronti dei prodotti importati dagli altri Stati membri, possa essere conforme a quanto prescritto dagli artt. 30 e 36 del Trattato (omissis). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 110 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT EUROPEE, la sez., 17 luglio 1997, nella causa C-17 /96 -Pres. Svon -Rel. Wathelet -Avv. Gen. Elmer -Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundesvetwaltungsgericht nella causa Badische-Er&ischungs-Getranke GmbH c. Land Baden Wilrttemberg -lnterv.: Governi francese (ag. Salins), irlandese (aw. O' Reilly), italiano (aw. Stato Fiumara) e del Regno unito (aw. Ridly) e Commissione delle C.E. (ag. Schmidt). Comunit europee -Ravvicinamento delle legislazioni -Acque minerali naturali -Nozione -Acque con propriet salutari. (Direttiva CEE del Consiglio 15 luglio 1980, n. 80/777; decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 105). n combinato disposto dell'art. 1, n. 1, e dell'allegato I, parte I, punti 1 e 2, della direttiva del Consiglio 15 luglio 1980, n. 801 777/CEE, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sull'utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali, va interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro esiga che un acqua abbia propriet salutari per poter essere riconosciuta come acqua minerale naturale (1). (omissis) 1. -Con ordinanza 31 agosto 1995, giunta alla Corte il 19 gennaio 1996, il Bundesvetwaltungsgericht ha sollevato, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, tre questioni concernenti l'interpretazione della direttiva 15 luglio 1980, 80/777/CEE, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sull'utilizzazione e la commercializzazione delle acque minerali naturali (GU L 229, pag. 1; in prosieguo: la direttiva). 2. -Le questioni sono sorte nell'ambito di una controversia fra la Badische Er&ischungs-Geriinke GmbH & CO. KG, societ per lo sfruttamen( 1) Dall'incerto testo della direttiva, le cui diverse versioni linguistiche autorizzavano pi interpretazioni, la Corte ha tratto la soluzione meno rigida, negando che un'acqua per dirsi minerale (a prescindere da quelle preesistenti alla direttiva stessa) debba avere, oltre che determinate caratteristiche di provenienza, di composizione e di igiene, anche propriet favorevoli alla salute: escluso, del resto, che queste possano identificarsi in propriet di prevenzione, cura o guarigione di una malattia -intesa questa come una condizione patologica e abnorme dell'organismo, un'alterazione pi o meno grave della salute-, nel qual caso l'acqua viene classificata fra i medicinali, riuscirebbe difficile individuare oggettivamente e realmente diverse propriet favorevoli in generale alla salute -intesa questa come lo stato fisiologico di benessere fisico e di armonico sviluppo dell'organismo. La normativa italiana di attuazione che considera acque minerali naturali le acque che, avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, provengono da una o pi sorgenti naturali o perforate e che hanno caratteristiche igieniche particolari e propriet favorevoli alla salute (art. 1, n. 1, decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 105), va quindi ridimensionata per l'ultimo requisito richiesto. O.F. PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 111 to di acque minerali, e il Land del Baden-Wiirttemberg in ordine al diniego da parte di quest'ultimo del riconoscimento come acqua minerale naturale dell'acqua di una delle sorgenti della societ. 3. -Verso la fine degli~'80 la Badische Erfrischungs-Getrlinke rinveniva una sorgente. Dall'analisi e dagli esami degli effetti fisiologico-nutrizionali dell'acqua che ne proveniva risultava un contenuto ridotto di sodio e di cloruro, cosa che secondo la Badische Erfrischungs-Getrlinke la rendeva particolarmente indicata nelle diete povere di sodio e per combattere l'ipertensione. 4. -La Badische Erfrischungs-Getranke presentava al Land del BadenWiirttemberg una domanda di riconoscimento dell'acqua come acqua minerale naturale. 5. -Con provvedimenti 28 novembre 1989 e 2 aprile 1990, il Land del Baden-Wiirttemberg la respingeva per il motivo che l'acqua non poteva avere gli effetti fisiologico-nutrizionali richiesti dalla normativa tedesca senza un certo contenuto positivo di componenti essenziali. 6. -Infatti, l'art. 2, punto 2, della Mineral-und Tafelwasser Verordnung (decreto sulle acque minerali e da tavola) dispone quanto segue: Si intende per acqua minerale naturale l'acqua che possieda i requisiti seguenti (. .. ) 2. - caratterizzata dalla purezza originaria ed ha determinati effetti fisiologico-nutrizionali a causa del contenuto di minerali, oligoelementi o altri componenti. 7. -La Badische Erfrischungs-Getranke presentava un ricorso al Verwaltungsgericht di Karlsruhe, che lo ha respinto con sentenza 8 novembre 1991. Tale pronuncia stata confermata il 30 novembre 1993 dal Verwaltungsgerichtshof del Baden-Wilrttemberg in quanto la societ non aveva provato che l'acqua aveva effetti fisiologico-nutrizionali risultanti dai suoi componenti, come esige la disciplina tedesca. Secondo il giudice d'appello, l'assenza o il contenuto estremamente ridotto di talune sostanze non sono sufficienti a conferire la qualit di acqua minerale naturale. 8. -Adito con ricorso per cassazione (Revision), il Bundesverwaltungsgericht ha confermato che la disciplina tedesca doveva interpretarsi nel senso che deve esistere un nesso di causalit'tra il contenuto di componenti dell'acqua e i suoi effetti fisiologico-nutrizionali. 9. -Il Bundesverwaltungsgericht si interroga per sulla compatibilit di tali requisiti con la direttiva, la quale armonizza la definizione di acque minerali naturali e i presupposti del loro riconoscimento nonch il regime di sfruttamento e distribuzione. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 112 10. -L'art. l, n. l, della detta direttiva dispone: La presente direttiva riguarda le acque estratte dal suolo di uno Stato membro e riconosciute dall'autorit responsabile di tale Stato membro come acque minerali naturali conformi alle norme contenute nell'allegato I, parte I. I punti 1 e 2 dell'allegato I, parte I (Definizione) recitano: l. Per acqua minerale naturale si intende, ai sensi dell'articolo 5, un'acqua batteriologicamente pura, la quale abbia per origine una falda o un giacimento sotterranei e provenga da una sorgente con una o pi emergenze naturali o perforate. L'acqua minerale naturale si distingue nettamente dall'acqua ordinaria da bere: a) per la sua natura, caratterizzata dal tenore in minerali, oligoelementi o altri costituenti ed eventualmente per taluni suoi effetti; b) per la sua purezza originaria; caratteristiche, queste, rimaste intatte data l'origine sotterranea dell'acqua che stata tenuta al riparo da ogni rischio di inquinamento. 2. Queste caratteristiche, che sono tali da conferire all'acqua minerale naturale le sue propriet salutari, devono essere state valutate: a) sui piani 1) geologico e idrologico, 2) fisico, chimico e fisico-chimico, 3) microbiologico, 4) se necessario, farmacologico, fisiologico e clinico; b) secondo i criteri indicati nella parte II; c) secondo i metodi scientificamente riconosciuti dall'autorit responsabile. (...). 11. -Il Bundesverwaltungsgericht nutre dubbi in ordine alla questione se la direttiva subordini il riconoscimento della qualit di acqua minerale naturale al possesso di propriet salutari e, eventualmente, se le dette propriet debbano essere comprovate. In tal caso, esso si domanda se le propriet salutari possano risultare dall'assenza di un componente nell'acqua di cui trattasi ovvero dalla presenza ridotta di tale componente. Infine, tenuto conto dell'uso delle parole effetti fisiologico-nutrizionali nella normativa tedesca, il Bundesverwaltungsgericht si interroga sulla portata delle nozioni di effetti e di propriet salutari di cui ai punti 1 e 2 dell'allegato I, parte I, della direttiva. 12. -Il Bundesverwaltungsgericht ha pertanto sospeso il procedimento al fine di sottoporre alla Corte le seguenti questioni: 1) Se il combinato disposto dell'art. 1, n. 1, e dell'allegato I (parte I, Definizione) della direttiva del Consiglio 15 luglio 1980, 80/777/CEE, debba PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 113 essere interpretato nel senso che -a prescindere dal gruppo delle acque preesistenti di cui all'allegato I, parte I, Definizione, punto 2, secondo comma -un'acqua pu essere riconosciuta come acqua minerale naturale solo se ha propriet salutari e, in caso affermativo, che tali propriet devono essere dimostrate. 2) Se le propriet salutari eventualmente richieste possano risultare anche dal basso tenore o dall'assenza dei costituenti indicati nel titolo I, punto 1, lett. a) dell'allegato I (ad esempio acque a basso tenore di sodio). 3) In che modo le nozioni di propriet salutari di cui alla parte I, punto 2, dell'allegato I e di taluni(... ) effetti di cui alla parte I, punto 1, lett. a), dell'allegato I (v. anche parte II, punto 1.4.1 dell'allegato I) debbano essere distinte l'una dall'altra. Sulla prima questione 13. -Il Land del Baden-Wilrttemberg, sostenuto dai governi francese e italiano, afferma che un'acqua pu essere riconosciuta come acqua minerale naturale solo se abbia propriet salutari. L'acqua minerale naturale non verrebbe definita unicamente con riferimento alla sua origine, al suo tenore e al suo stato, bens anche con riferimento ai suoi effetti fisiologico-nutrizionali, i quali risultano dal contenuto di minerali, oligoelementi o altri componenti che determinano la natura dell'acqua. Dall'allegato I, parte I, punto 2, risulterebbe che le propriet salutari dell'acqua devono essere comprovate. La disposizione del punto 2 integrerebbe e chiarirebbe il punto 1 esigendo una valutazione delle caratteristiche elencate al punto 1 al fine di accertare concretamente l'esistenza di propriet salutari. 14. -La Commissione ritiene che i punti 1 e 2 dell'allegato I, parte I, che costituiscono ambedue elementi della definizione di acqua minerale naturale, vadano letti nel loro complesso. Le versioni tedesca, inglese, olandese e danese del punto 2 sarebbero simili e tutte equivoche per quanto riguarda la questione sollevata. Invece le versioni francese, italiana e spagnola del punto 2 non lascerebbero emergere dubbi sul fatto che l'acqua minerale naturale deve sempre possedere siffatte propriet. 15. -Va rilevato anzitutto che il punto 1 dell'allegato I, parte I, che definisce l'acqua minerale naturale, non menziona le propriet salutari. Infatti, il primo comma del punto 1 definisce l'acqua minerale naturale come un'acqua batteriologicamente pura di origine sotterranea. Quanto al secondo comma, esso si limita a precisare che l'acqua minerale naturale si distingue dall'acqua ordinaria da bere per due caratteristiche, e cio in primo luogo per la sua natura, caratterizzata dal tenore in minerali, oligoelementi o altri costituenti ed eventualmente per taluni suoi effetti e in secondo luogo per la sua RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 114 purezza originaria, oltre al fatto che l'origine sotterranea consente di conservarle intatte. La nozione di propriet salutari viene menzionata solo nel punto 2 dell'allegato I, parte I. 16. -A questo proposito il Consiglio non ha seguito la proposta di direttiva della Commissione (GU 1970, C 69, pag. 14), che conteneva il requisito inerente alle propriet salutari nel punto 1. Tale mutamento di collocazione induce a ritenere che il Consiglio non intendesse subordinare il riconoscimento di un'acqua come acqua minerale naturale al possesso di propriet salutari. 17. -Quest'interpretazione corroborata dal fatto che la direttiva non contiene una definizione della nozione di propriet salutari. Se il Consiglio avesse voluto che il possesso di propriet salutari costituisse una caratteristica delle acque minerali naturali, la direttiva, che precisa e particolareggiata, avrebbe contenuto norme su tale punto, come ha giustamente osservato l'avvocato generale nel paragrafo 18 delle conclusioni. 18. -Infine, la frase che sono tali da conferire all'acqua minerale naturale le sue propriet salutari si limita a citare un possibile effetto delle caratteristiche dell'acqua. La sua portata meramente descrittiva contrasta in modo netto con il contenuto vincolante della proposizione principale della frase, in forza della quale le caratteristiche dell'acqua minerale, di cui al punto 1, devono essere state valutate su diversi piani, secondo determinati criteri e secondo i metodi scientificamente riconosciuti dall'autorit responsabile (v. l'allegato I, parte I, punto 2, prima frase). 19. -Alla luce delle considerazioni sin qui svolte si deve risolvere la prima questione dichiarando che il combinato disposto dell'art. 1, n. 1, e dell'allegato I, parte I, punti 1 e 2, della direttiva va interpretato nel senso che osta a che uno Stito membro esiga che un'acqua abbia propriet salutari per poter essere riconosciuta come acqua minerale naturale. Sulla seconda e terza questione 20. -Tenuto conto della soluzione della prima questione, non occorre risolvere la seconda e la terza questione (omissis). SEZIONE TERZA GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CMLE CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 17 gennaio 1997 n. 464 -Pres. Lipari -Rel. Rordorf-P.M. Di Zenzo (conf.) -A.N.A.S. (avv. Stato Baglietto) c. Russo (avv. Amato). Espropriazione per pubblica utilit -Occupazione appropriativa di terreni Danni -Prescrizione quinquennale -Decorrenza. (cod. civ., art. 2947). n termine quinquennale del diritto al risarcimento dei danni per occupazione appropriattiva d'un terreno irreversibilmente trasformato dopo lo spirare del termine di occupazione legittima decorre dalla data della radicale modificazione delle caratteristiche strutturali dell'immobile, restando irrilevanti la data della formale ultimazione dell'opera o quella del suo collaudo (1). (omissis) 1.-I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza debbono essere riuniti, a norma dell'art. 335 c.p.c. 2. -Il ricorso principale avanzato dall'ANAS appare fondato. Com' ben noto, dopo alcune incertezze interpretative, questa Corte ha ripetutamente avuto modo di chiarire che l'azione del privato, volta ad ottenere il pagamento di una somma di denaro corrispondente al valore del fondo perduto a seguito di occupazione illegittima e d'irreversibile trasformazione dello stesso fondo in opera pubblica, soggiace al termine quinquennale di prescrizione stabilito dall'art. 2947, primo comma, e.e. L'acquisto a titolo originario della propriet in capo alla pubblica amministrazione effetto dell'impossibilit di restituzione del bene, ma questa a propria volta dipende da un comportamento illecito dell'amministrazione medesima, consistente nella realizzazione dell'opera pubblica con violazione delle norme che fissano i casi ed i modi per il sacrificio della propriet privata ai fini di interesse generale. Donde consegue che la suddetta azione inerisce non ad un credito di controvalore, rispondente ad un lecito acquisto della propriet a titolo originario, bens ad un vero e proprio credito risarcitorio per fatto illecito. Nulla perci consente di sottrarre tale credito alla regola fissata, in tema (1) Nello stesso senso, ex multis, Cass. 12 aprile 1994 n. 3403, in Riv. giur. edilizia 1994, I, 753; e, specificamente per l'irrilevanza della data del collaudo Cass. 13 luglio 1994 n. 6561. 116 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO di prescrizione dell'azione aquiliana, dal primo comma del citato art. 2497 (cfr., tra le altre, Cass., sez. un., 25 novembre 1992, n. 12546; Cass., sez. un., 2 ottobre 1993, n. 9826; Cass. 14 giugno 1994, n. 5748; Cass., sez. un., 6 dicembre 1994, n. 10467; Cass. 4 maggio 1995, n. 4853; Cass. 4 maggio 1995, I n. 4862; e Cass. 4 giugno 1996, n. 5130). Da tale ormai consolidato orientamento non v' motivo di discostarsi nel presente caso. L'impugnata sentenza della Corte d'appello di Napoli, nella parte in cui ha invece ritenuto applicabile il pi lungo termine di prescrizione decennale, dev'essere perci annullata. 3. -Quanto appena osservato rende per necessario esaminare anche il ricorso incidentale (implicitamente condizionato all'accoglimento di quello principale) con cui la Societ intimata ha censurato l'impugnata sentenza della Corte napoletana per aver fatto decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni di cui si discute dalla data del compimento dell'opera pubblica implicante l'irreversibile trasformazione del suolo privato. A parere della ricorrente incidentale, viceversa, la prescrizione avrebbe dovuto essere computata a partire da un momento successivo, e, se cos avesse fatto, la corte si sarebbe agevolmente resa conto che, quando la societ Russo richiese giudizialmente i danni conseguenti alla perdita della disponibilit del fondo, neppure il termine quinquennale era ancora scaduto. La doglianza appare peraltro formulata in modo tale da suggerire che essa si articoli in un duplice profilo: giacch, per un verso, la ricorrente incidentale afferma che i lavori per la realizzazione dell'opera sarebbero stati terminati nel 1982; e, per altro verso, sostiene che solo l'accertamento in sede di collaudo dell'idoneit dell'opera a soddisfare l'interesse pubblico accertamento in concreto verificatosi nel 1983 -determinerebbe l'irreversibilit della modificazione impressa al suolo di propriet privata e causerebbe, quindi, l'effetto ablativo della propriet medesima in favore della pubblica amministrazione. Ragion per cui la domanda proposta nel dicembre 1986 sarebbe valsa ad interrompere tempestivamente detto termine. Nessuno dei due indicati profili di doglianza (il primo dei quali, oltre tutto, collide con il diverso accertamento insindacabilmente compiuto al riguardo, in punto di fatto, dal giudice di merito) coglie per nel segno. Nel caso di opera eseguita sul presupposto di una dichiarazione di pubblica utilit, ma dopo lo spirare del termine di occupazione legittima del suolo, il fenomeno della cosiddetta accessione invertita -per effetto del quale la pubblica amministrazione acquisisce la propriet del terreno su cui I l'opera insiste -si verifica non appena tale opera, nel modificare radical ~ mente la situazione del suolo ed impedirne ogni altra autonoma utilizzazio@ t ne, abbia assunto caratteristiche strutturali tali da far s che essa sia tipoloi gicamente riconducibile al relativo progetto e non sia pi eliminabile senza ~ I I: un'ulteriore rilevante trasformazione di quanto gi costmito. questo, infat I ' ti, che consente di parlare di una trasformazione del suolo, ormai divenuto I PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 117 parte integrante della struttura su di esso eretta, ed al medesimo tempo rende tale trasformazione irreversibile, a cagione della prevalenza che dev'essere accordata ad un'opera destinata a soddisfare ragioni di pubblica utilit e del peculiare regime da cui, di conseguenza, l'opera pubblica connotata. Non assumono perci rilievo, in tale contesto, n la data della formale ultimazione dell'opera, se successiva a quella in cui essa ha ormai acquisito i suindicati connotati strutturali, n, tanto meno, quella del suo collaudo: perch anche prima di questi momenti non sarebbe ipotizzabile, in presenza di un'irreversibile trasformazione gi verificatasi (nel senso sopra chiarito) del fondo occupato, un provvedimento che, ordinando la restituzione al privato della disponibilit di detto fondo, per ci stesso attribuirebbe a quanto ivi realizzato una destinazione diversa da quella impressagli dalla pubblica amministrazione in conformit all'originaria dichiarazione di pubblica utilit (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 gennaio 1997, n. 546. -Pres. Borruso Est. Rovelli -P.M. Martone (conf.) -Commissario ad acta del Ministero dei Lavori Pubblici per la disciolta Agenzia per la promozione e sviluppo del Mezzogiorno (avv. Stato G. Arena) c. COGIELTE S.p.a. (avv. Felisari) e Comune di Seulo (avv. Menghini e Murgia). Procedimento civile -Garanzia impropria -Scindibilit del rapporto -Effetti (c.p.c., artt. 106, 324, 329, 332, 342; cod. civ., art. 2969). L'azione principale e quella di garanzia impropria sono autonome e scindibili, cos che il rapporto di subordinazione logica o pregiudizialit fra le stesse pu venir meno nel giudizio di gravame. Peraltro, il giudicato formatosi sul rapporto principale non estende i suoi effetti al chiamato in garanzia, che pu impugnare la sentenza di primo grado sul rapporto principale limitatamente all'ambito del rapporto di garanzia e solo per i riflessi che detta decisione pu avere su di esso.(1) (omissis) Con l'atto introduttivo, la Societ COGIELTE evocava in giudizio il Comune di Seulo, per sentirlo condannare al pagamento del residuo prezzo di alcune opere eseguite dall'impresa attrice per ordine dell'ente pub (1) La sentenza annotata, riaffermando il principio della scindibilit in sede di gravame delle cause connesse per garanzia impropria, nonch affrontando la questione degli effetti di detta scindibilit sulla legittimazione e l'interesse ad impugnare, offre lo spunto per sintetizzare i principi fondamentali cui improntato l'ormai consolidato indirizzo della Suprema Corte sull'argomento. Gi dal 1981 (Cass. S.U. 24 luglio 1981 n. 4779, in Giust. Civ. 1982, I, pp. 989 ss. e giurisprudenza ivi richiamata), le Sezioni Unite hanno avuto modo di ricondurre ad unit i due principali orientamenti espressi sulla questione dalle singole sezioni. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 118 blico. Si costituiva il Comune assumendo che i corrispettivi dovuti alla societ appaltatrice dovevano essere eseguiti dalla CASMEZ -ente finanziatore -chiedendone la chiamata in causa per la manleva. La CASMEZ, ritualmente evocata, eccepiva, in principalit l'incompetenza per territorio del Tribunale, in subordine, l'inesistenza del debito essendo stati riscontrati vizi di esecuzione delle opere appaltate. L'adito Tribunale di Milano rigettava l'eccezione d'incompetenza territoriale, condannava il Comune di Seulo a pagare all'attrice la somma capitale di L. 19.211.193 e la CASMEZ a manlevare il Comune. Avverso tale sentenza proponeva appello la sola Agenzia per la Promozione dello Sviluppo nel Mezzogiorno (gi CASMEZ) eccependo l'intervenuta decadenza di COGIELTE a pretendere (oltre al saldo) l'importo della revisione prezzi, richiesta oltre il termine di decadenza di cui all'art. 2 decr. leg. C.p.S. 6 dicembre 1947 n. 1501, nonch il difetto di giurisdizione Da un lato, vi un indirizzo secondo cui -in presenza di un rapporto di garanzia impropria, nel quale l'azione principale e quella accessoria sono fondate su titoli distinti -esiste fra le stesse una relazione di accessoriet, tale da legittimare il chiamato in garanzia allo svolgimento delle sole attivit processuali rientranti nell'ambito delle eccezioni e domande riconvenzionali proposte dal convenuto chiamante, con conseguente esclusione di un'autonoma legittimazione del chiamato in garanzia ad impugnare le statuizioni sul rapporto principale. Dall'altro, vi l'impostazione -diametralmente opposta -secondo cui il chiamato in garanzia, bench la sua posizione sia accessoria e subordinata a quella dell'obbligato principale, pu esercitare autonomamente tutti i poteri della parte principale, ivi compreso quello di appellare le statuizioni sul rapporto principale, seppure limitatamente all'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la decisione pu avere su di esso. In definitiva, secondo questa tesi, l'interdipendenza fra le cause trattate unitariamente in primo grado pu venir meno per gli effetti processuali nella fase di impugnazione, cos che la decisione di primo grado, pur passando in giudicato rispetto alle parti del rapporto principale, non estende i suoi effetti rispetto al chiamato in garanzia ed al rapporto di questi con il chiamante. Dal punto di vista logico, quest'ultima impostazione sembra senz'altro la pi corretta, sol che si consideri che il chiamato in garanzia ha un autonomo interesse a contestare la sentenza che condanni l'obbligato principale. Ci in quanto -rimuovendo tale condanna -egli fa venir meno il presupposto della responsabilit di colui che stato chiamato dal convenuto stesso soltanto in garanzia impropria (Cass. sez. I, n. 5151 del 27 luglio 1983 in Mass. Foro it. 1983, 1060). Il fatto che la posizione del chiamato tragga comunque origine da un titolo diverso rispetto a quello posto a base dell'obbligazione principale, peraltro, non privo di rilevanza neppure secondo tale ultimo indirizzo giurisprudenziale. Infatti, l'autonoma legittimazione ad impugnare i capi di sentenza che statuiscono sul rapporto principale giustificata dalla S. C. solo ove ricorrano certe situazioni, e cio se il chiamato in garanzia non si sia limitato a contestare detto rapporto, ma abbia partecipato al dibattito sullo stesso (Cass. sez. I, n. 807 del 20 febbraio 1978, in Mass. Foro it. 1978, 158), oppure se la chiamata in causa del garante non sia avvenuta solo in vista della rivalsa, ma anche in virt di una strettissima connessione tra rapporto accessorio e principale, tale da renderne imprescindibile la trattazione unitaria. Tale ultima situazione ravvisata ad esempio quando il fatto generatore dell'obbligazione principale sia addebitato esclusivamente ~terzo chiamato, oppure quest'ultimo non si limi PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 119 dell'A.G.O., non essendo stato adottato dal Comune il provvedimento formale di concessione della revisione stessa, quale presupposto dell'insorgenza del diritto soggettivo; rilevava, infine, l'esistenza di vizi nell'esecuzione dell'appalto. La Corte d'appello di Milano, con sentenza depositata il 17 dicembre 1993, rigettava l'appello. Osservava che la sentenza del Tribunale passata in giudicato rispetto alle statuizioni della causa principale fra le parti originarie. Quanto al rapporto di garanzia impropria, rilevava che la decadenza doveva essere eccepita dal Comune, nella causa principale, e non poteva essere rilevata d'ufficio dai primi giudici; che anche la questione di giurisdizione preclusa dal giudicato, mentre infondata la doglianza relativa ai vizi. Avverso detta sentenza, il Commissario ad acta del Ministero dei LL.PP. (per la disciolta Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno) proponeva ricorso per cassazione, affidato a due mezzi di annullamento. Resistevano le parti intimate, notificando controricorso. MOTM DELLA DECISIONE Con il primo motivo, la ricorrente Amministrazione, deducendo violazione degli artt. 106. 324, 329, 332, 342 c.p.c., 2969 e.e. e vizio di motivazione, osserva che, la Corte di merito, rilevando l'omessa deduzione da parte del Comune -convenuto principale -delle questioni relative al decorso del termine di decadenza dal difetto di giurisdizione, ha omesso di' decidere sui motivi di appello, in proposito formulati dalla Cassa, erroneamente ritenendo che le questioni fossero coperte dal giudicato. Con il secondo motivo, deducendosi vizio di mqtivazione, si rileva che la Corte non ha accertato che l'appaltatrice era risultata inadempiente, essendo emerse, in sede di collaudo, gravi deficienze in ordine all'esecuzione di alcune opere. Tali motivi non appaiono fondati alla stregua delle osservazioni che seguono. ti a contestare il rapporto di garanzia, ma, come accade anche nella sentenza in commento, estenda la contestazione alla stessa esistenza di quello principale (Cass. s.u. 4779/81 cit.). Invero, la decisione che qui si commenta risolve un caso nel quale tutti i presupposti ed i limiti individuati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite con riferimento al potere di impugnativa del chiamato in garanzia impropria relativamente a statuizioni sul rapporto principale, indiscutibilmente ricorrono: tanto ci vero, che il rigetto del ricorso proposto dall'Agenzia non viene dalla Corte fondato sulla reiezione del motivo riguardante l'erronea statuizione della Corte d'Appello in ordine alla pretesa formazione del giudicato, bens solo sull'osservazione che l'intervenuto riconoscimento del diritto dell'attore ad opera dell'obbligato principale preclusivo rispetto alla maturazione della decadenza invocata dal chiamato in garanzia. M.R. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 120 Devesi rammentare che, nel caso di chiamata in causa per garanzia impropria -che si verifica allorch colui che sia stato convenuto in giudizio dall'attore intende essere rilevato dal garante di quanto sia eventualmente condannato a pagare -l'azione principale e quella di garanzia sono fondate su titoli diversi, con la conseguenza che le due cause sono distinte e scindibili, sussistendo fra loro un vincolo di subordinazione logica o di pregiudizialit- dipendenza che, in quanto tale, pu venir meno nella fase di gravame (v. Cass. 22 gennaio 1987 n. 577; 22 gennaio 1985 n. 376). Qualora pertanto, come nella specie, manchi, da parte del convenuto rimasto soccombente, l'impugnazione della pronuncia sulla causa principale, la definizione di tale causa, con il passaggio in giudicato della decisione in essa resa tronca ogni relazione processuale tra la causa principale e quella dipendente. Peraltro, data la autonomia dei due rapporti, il giudicato formato sul rapporto principale, tra le parti di questo, non estende i suoi effetti al chiamato in garanzia impropria, nel rapporto con il soggetto garantito, s che resta consentito contestare l'esattezza di detta decisione di merito, nel limitato ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la stessa decisione pu avere su di esso. Pertanto l'appello del solo chiamato in garanzia ha implicato il passaggio in giudicato della sentenza nel rapporto fra le parti della causa principale, ma il giudicato che si forma sulla stessa non estende i suoi effetti al chiamato in garanzia impropria in ordine al rapporto col chiamante, ed il chiamato pu impugnare la statuizione sul rapporto principale solo nell'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la decisione pu avere su di esso (v. Cass. 9 aprile 1990 n. 2943; 27 aprile 1981 n. 4779). Peraltro, per quanto concerne l'eccepito difetto di giurisdizione dell'A.G.O. -nella controversia fra il Comune e l'impresa appaltatrice (in ordine alla spettanza della revisione prezzi) -, devesi rilevare che I'eccezione non attiene alla sostanza del rapporto: non implica contestazione della debenza di tale voce di corrispettivo, ma si esaurisce sul piano processuale (non essendo peraltro in questione la giurisdizione in ordine alla decisione di merito sul rapporto di garanzia). Dovendosi, comunque, ribadire che la Corte d'appello, ha fatto riferimento alla sentenza del Tribunale -secondo cui il Comune ha esercitato il proprio potere discrezionale riconoscendo il diritto dell'attrice alla revisione prezzi. Per quanto si riferisce alla eccepita decadenza del diritto dell'appaltatore a pretendere (oltre al saldo del prezzo pattuito), l'importo della revisione prezzi, richiesta oltre il termine decadenziale di cui all'art. 2 D. Leg. C.p.S. n. 1501 del 194 7, essa introduce una questione che concerne lentit dell'importo dovuto; e la decisione, sfavorevole per il garantito, nella causa principale, non pu di per s pregiudicare la rilevabilit della questione nel rapporto di garanzia. Al riguardo, la sentenza impugnata, inesattamente osserva che il Comune convenuto non ha eccepito la decadenza e che la stessa non poteva essere rilevata ex officio. A tale riguardo, in considerazione della possibilit di rilievo officioso, data la rilevanza pubblicistica degli interessi coinvolti, PARTE I, SEZ. lii, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 121 anche il chiamato in garanzia impropria, al solo fine di far escludere il proprio obbligo di manleva legittimato a far valere le eccezioni inerenti il rapporto principale. vero che, in primo grado la Cassa non ha sollevato l'eccezione preclusiva (essendosi limitata ad eccepire l'esistenza di vizi), ma essa era processualmente legittimata a proporre appello sul punto, data la rilevabilit, ex officio, della decadenza. Senonch, come emerge dalla medesima sentenza d'appello attraverso il richiamo a quella di primo grado, anche su tale punto la Pubblica Amministrazione interessata (vale a dire il Comune committente) aveva gi esercitato il proprio potere discrezionale con il riconoscere (lettera 25 ottobre 1983) il diritto dell'impresa appaltatrice alla revisione prezzi. Riconoscimento che, non tanto vale, sul piano sostanziale a impedire la decadenza ex art. 2966 e.e., quanto costituisce legittimo esercizio, da parte del soggetto nei cui confronti fatto valere il diritto soggetto a decadenza, di una facolt spettantegli come pubblico amministratore. Dovendosi, comunque, rilevare che il motivo di ricorso non censura la sentenza perviolazione dell'art. 2966 e.e. (su cui la sentenza della Corte ha espressamente fondato, in alternativa alla preclusione da cosa giudicata, la propria decisione in ordine all'infondatezza dell'eccezione di decadenza sollevata dal garante). Il secondo motivo appare destituito di fondamento, avendo il giudice di merito motivatamente escluso la sussistenza di vizi nell'esecuzione dell'opera, in base al rilievo che: nel verbale di collaudo, eseguito da un tecnico di nomina della Cassa, in data 16 dicembre 1982, si conclude positivamente il collaudo stesso, il che importa accettazione da parte della Cassa che ha fatto eseguire il collaudo (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. lavoro, 14 febbraio 1997 n. 1359 -Pres. Rapone -Rel. Ianniruberto -P.M. Fedeli (conf.) -Istituto provinciale del lavoro di Salerno (avv. Stato Patierno) c. Comune di Agropoli (avv. Acone). Procedimento civile -Notificazione -Residenza, domicilio, dimora -Ufficio del destinatario ex art. 139, primo comma cod. proc. civ. -Notifiche Notificazione a persona investita di funzione di amministratore municipale -Idoneit. (cod. proc. civ., artt. 139, 140, 156; legge 689/1981, artt. 6 e 14). In tema di notificazione a norma dell'art. 139 cod. proc. civ., per ufficio del destinatario deve intendersi non soltanto quello da lui creato, organizzato o diretto per la trattazione di propri affari, ma anche quello dove svolga attivit lavorativa o presti servizio, come la casa comunale, nel caso di per 122 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO sona investita di funzioni di amministratore municipale, con la conseguenza che l'essere destinatario dell'atto non quale sindaco ma quale comune cittadino, non esclude la regolarit della notiBca effettuata presso il Comune (1). (omissis) Con distinti ricorsi al Pretore di Vallo della Lucania, sezione distaccata di Agropoli, il Comune di Agropoli in persona del dr. Paolo Caputo ed Angelo Buccino proponevano opposizione avverso l'ordinanza-ingiunzione n. 1682 del 27 luglio 1991, con la quale l'Ispettorato Provinciale del Lavoro di Salerno aveva loro ingiunto il pagamento di L. 25.000.000, quale sanzione amministrativa per violazione degli artt. 11, 13 e 18 1. 264/1949 e successive modifiche, 15, 16 e 261. n 56/87, 4 d p r. n. 494/87. (1) Con la sentenza sopra riportata, la Corte affronta nuovamente la questione del significato da attribuire al termine ufficio, ai fini della notifica ai sensi dell'art. 139 c.p.c., confermandone ancora una volta l'ampia accezione gi individuata in precedenti decisioni (Cass. 19 febbraio 1976 n. 543, in Mass. Foro it., 1976, 121; Cass. 19 marzo 1990 n. 2201, in Giust. Civ., 1990, I, 2374 con nota di Ennio Mazzocco). Peraltro, prima di commentare la scelta in tal senso operata dalla S.C., sembra opportuno compiere un passo indietro, brevemente richiamando i principali orientamenti della Cassazione a proposito della notificazione ai sensi dell'art. 139 c.p.c. Deve infatti in primo luogo evidenziarsi che la stessa Corte ha pi volte sottolineato (Cass. 23 ottobre 1984 n. 5385, in Mass. Foro it. 1984, 1062; Cass. 23 febbraio 1985 n. 1621, in Mass. Foro it. 1985, 311) come la citata norma stabilisca una Successione preferenziale solo tra i luoghi di residenza, dimora e domicilio del destinatario dell'atto da notificare mentre -una volta individuato quello fra detti luoghi in cui la notifica deve awenire -la scelta dell'ufficiale giudiziario tra casa di abitazione ed ufficio del tutto libera. Trattasi di un orientamento senz'altro condivisibile, sol che si consideri come lo scopo della notificazione sia quello di determinare una situazione di astratta e presumibile conoscibilit dell'atto (in dottrina si veda MANDRIOLI Corso di diritto processuale civile, I, par. 70, 390 ss) da parte del destinatario, situazione pienamente realizzata nel momento in cui l'atto portato nella sfera di disponibilit del destinatario (in dottrina, PUNZI Delle Comunicazioni e notificazioni, in Commentario al c.p.c. diretto da E. ALLORIO, I, Torino, 1973, 1455) a prescindere dall'effettiva conoscenza che questi ne abbia o meno. Orbene, la sfera di disponibilit del destinatario pu ritenersi individuata tanto dalla casa di abitazione, quanto dall'ufficio, luoghi -questi -perfettamente succedanei e, all'atto pratico, tra loro equivalenti. quindi corretto ritenere che l'ufficiale giudiziario non sia in alcun modo tenuto a recarsi prima in un luogo, e solo in caso di insuccesso nell'altro, potendo egli, al contrario, scegliere in assoluta discrezionalit dove tentare prima la notificazione. Risolto il problema -logicamente anteriore -della successione preferenziale fra i luoghi elencati all'art. 139 c.p.c. -la Corte viene chiamata ad affrontare la questione del significato da attribuire al termine ufficio e -come gi detto sopra -riconferma un'interpretazione lata gi resa in passato, secondo la quale la categoria in parola comprensiva sia dell'ufficio creato dal destinatario dell'atto per lo svolgimento di attivit propria.sia del luogo di abituale prestazione del servizio. bene sottolineare che il precedente sopra richiamato (Cass. 2201/90), appare confermato pienamente dalla decisione della S.C. oggetto del presente commento, trattandosi in entrambi i casi di Ufficio costituito dalla casa comunale e di atto destinato ad un amministratore comunale (il sindaco), non in quanto tale, bens quale privato cittadino. ! . II - PARTE I, SEZ. ID, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 123 Il .Pretore adito, riunite le cause, accoglieva le opposizioni ed annullava le ordinanze ingiunzioni. Per quanto rileva ai fini del presente giudizio, osservava il Pretore che si era verificata restinzione dell'obbligazione di pagamento della sanzione irrogata in quantola notificazione al Buccino era da ritenersi nulla, perch eseguita irregolarmente presso il Comune Agropoli, laddove, trattandosi di una obbligazione. derivante da una responsabilit personale e non nella qualit di Sindaco di quel Comune, la notifica andava eseguita a m.ani proprie o nella sua casa di abitazione o dove aveva l'ufficio o esercitava l'industria o il commercio, ovvero negli ulteriori modi previsti dagli artt. 140 e segg. c.p.c. Quanto poi all'opposizione proposta dal Comune di Agropoli, riteneva il Pretore che l'estinzione dell'obbligazione per il Buccino si estendeva anche all'altro opponente. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'Ispettorato Provinciale del Lavoro di Salerno con un unico motivo. Il Comune di Agropoli ha depositato procura. Il Buccino non si costituito. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico articolato motivo il ricorrente chiede l'annullamento della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 14 1. 689/1981 e degli artt. 139, 140, 156 c.p.c., nonch omessa, erronea ed illogica Ma v' di pi: non solo la S.C., con la presente decisione e con i richiamati precedenti in termini, ha rep:utato idonea la notifica presso l'ufficio inteso quale sede di prestazione di attivit lavorativa o di servizio nel senso ampio sopra riportato, ma ha anche avuto modo di precisare che, atteso ch -ove la notifica sia effettuata in tale luogo -l'atto pu essere consegnato a persona addetta all'ufficio, deve intendersi per addett.o all'ufficio chiunque ivi presti attivit lavorativa subordinata o servizio. Per completezza bene sottolineare che, naturalmente, l'onere della eventuale prova dell'insussistenza del rapporto di lavoro subordinato o del servizio, ai fini dell'invalidazione della notifica, a carico del destinatario dell'atto (Cass. lav. n. 1907 del 22.2.1988, in Mass. Foro it., 1988, 280). Da ultimo, opportuno evidenziare un'altra importante statuizione contenuta nella decisione in esame, e gi anticipata in alcuni precedenti (Cass., Sez. I, n. 2184 del 22.2.1992, in Archivio Giuridico della Circolazione e Sinistri Stradali, 1992, fase. 7, pag. 662; Cass., Sez. I, n. 2099 del 13 marzo 1996, ibidem, 1996, fase. 7, pag. 530), secondo la quale il regime di sanatoria delle nullit (per conseguimento dello scopo), sancito dagli artt. 156-160 c.p.c. si estende anche al procedimento di ingiunzione e relativa opposizione ex 1. 689/81. Tale estensione viene dalla S.C. giustificata in base al richiamo che detta normativa compie alla disciplina delle notifiche contenute nel c.p.c. Ne discende che l'intervenuta tempestiva opposizione alla ingiunzione ex 1. 689/81 idonea a sanare eventuali vizi di nullit della notifica. M.R. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 124 motivazione in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., in quanto la notificazione dell'illecito amministrativo avvenuta nel termine di 90 giorni, nel rispetto dell' art. 139 c.p.c., presso l'ufficio del Buccino ed a persona addetta all'ufficio; in ogni caso, la notifica aveva prodotto i propri effetti, in quanto questi, non solo negli scritti ex art. 18 1. 689/81, aveva chiesto di essere sentito di persona ma aveva proposto rituale opposizione dinanzi al giudice competente. Del resto, aggiunge il ricorrente, il fatto, che ha dato luogo alla emissione della ordinanza-ingiunzione, imputabile al sindaco, quale capo dell'amministrazione comunale, che pertanto assume la responsabilit personale degli atti posti in essere per conto dell'ente. Con un ulteriore profilo di censura si assume che, anche a voler ritenere avvenuta l'estinzione dell'obbligazione del Buccino, tale effetto non si sarebbe verificato nei confronti del Comune di Agropoli. 2. La censura fondata. Il problema sollevato se, ai sensi e per gli effetti dell'art. 139 c.p.c., possa considerarsi ufficio, ove consentito effettuare la notifica degli atti giudiziari, il comune, quando destinatario degli atti sia il sindaco, anche per affari che non attengano a tale sua funzione: il Pretore, infatti, partendo dal presupposto che la responsabilit ex lege 689/1981 personale e che la qualit di rappresentante di una persona giuridica rileva solo ai fini dell'eventuale responsabilit solidale di quest'ultima, ne ha tratto la conseguenza che era ininfluente, ai fini della notificazione dell'ordinanza-ingiunzione, la qualit di sindaco. Questa Corte (Cass. 19 febbraio 1976 n. 543, 19 marzo 1990 n. 2201) ha avuto gi modo di occuparsi del problema ed ha ritenuto che per ufficio del destinatario, secondo la lettera dell'art. 139 c.p.c., deve intendersi non solo quello da lui creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri, ma anche quello dove egli presta comunque servizio o svolga una sua attivit, con la conseguenza che l'essere destinatario dell'atto non quale sindaco, ma quale comune cittadino, non esclude la regolarit della notifica effettuata presso il comune. Del resto, il termine ufficio nella sua estrema genericit sta ad indicare il luogo in cui il soggetto, al quale indirizzato l'atto, svolga un qualunque servizio ed a qualunque titolo -quindi anche se si tratti di un'attivit per la quale non sia previsto un corrispettivo -senza che rilevi il fatto che si tratti di attivit privata o pubblica o che il rapporto, in forza del quale l'attivit sia svolta, abbia carattere stabile (Cass. 5 luglio 1993 n. 7329). appena il caso di aggiungere che la censura fondata anche nella parte con la quale si assume che, in ogni caso la eventuale nullit si sarebbe sanata per aver raggiunto il suo scopo: in effetti, questa Corte (Cass. 22 febbraio 1992 n. 2184, 13 marzo 1996 n. 2099) ha avuto modo di affermare che la legge 689 prevede che la notificazione dell'ordinanza-ingiunzione eseguita. secondo le modalit previste dal codice di procedura civile, il che rende applicabili gli artt. 156 e 160 c.p.c., con la conseguenza che la proposizione di una PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 125 tempestiva e rituale opposizione ha efficacia sanante delle nullit della notifica dell'atto opposto. In questa situazione, la ritenuta nullit della notifica non ha ragion d'essere, per cui la sentenza impugnata, che ha deciso la controversia sulla base di quella sola nullit deve essere cassata, rendendosi in questa sede superfluo l'esame di ogni altra argomentazione prospettata dal ricorrente. 3. La questione della estensione della estinzione della sanzione al coobbligato resta ovviamente assorbita, una volta ritenuto che la regolarit della notificazione al Buccino non abbia fatto venir meno l'ordinanza-ingiunzione (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. un., 18 febbraio 1997 n. 1479, -Pres. !annotta -Rei. Varrone -P.M. Morozzo Della Rocca (conf.) Ministero Difesa (aw. Stato Gentili) c. Scimia (aw. Lopardi). Prescrizione e decadenza -Risarcimento danni da illecito -Fatto costituente reato -Cause di interruzione o sospensione della prescrizione relativa al reato -hrilevanza. (cod. civ., art. 2947) Quando il fatto dannoso considerato dalla legge come reato e per il reato stabilita una prescrizione pi lunga, quest'ultima si applica anche all'azione civile, ma le eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato non rilevano ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno (1). (omissis) Con il primo mezzo i ricorrenti, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2947, 3 co., e.e. e l'omesso esame di un punto decisivo della controversia prospettato nei gradi di merito, in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., lamentano che il giudice dell'appello non abbia rilevato che alla data della costituzione di parte civile dello Scimia nel processo a carico del Caolino (20/6/77) era gi trascorso anche il maggior termine (quinquennio) di prescrizione del reato di lesioni colpose rispetto al giorno dell'evento infortunistico (18/8171). La censura coglie nel segno. Va al riguardo premesso che, pacifiche essendo le date di cui sopra nonch della richiesta formale dei danni, rivolta dal procuratore dello Scimia ai responsabili, con telegramma del 3-4/10/80, il (1) Il principio enunciato a composizione del contrasto interpretativo manifestatosi a riguardo dell'art. 2947, terzo co., cod. civ. -La sentenza 22 gennaio 1968 n. 175, richiamata in motivazione, si legge in Foro it. 1968, I, 977. 126 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO giudice del gravame ha correttamente richiamato il principio giurisprudenziale alla stregua del quale se la costituzione di parte civile nel processo penale d luogo a vera e propria proposizione di domanda risarcitoria, la quale comporta l'interruzione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per tutta la durata del processo penale sino alla data in cui diviene irrevocabile la sentenza che definisce il procedimento, tale interruzione, tuttavia si verifica solo se, iniziatosi il procedimento penale e non ancora esaurito il termine prescrizionale, la parte lesa abbia realmente esercitato la facolt di costituirsi come parte civile (Cass. 21aprile1976 n. 1421 ex plurimis). Ma ha aggiunto che tale essendo il quadro di riferimento normativo, occorreva vedere Se il diritto vantato dall'appellante si era prescritto alla data del 3 e 4 ottobre 1980, cio alla data di costituzione in mora dei debitori . Invece, secondo i ricorrenti, doveva accertarsi se alla data del 20 giugno 1977 di costituzione di parte civile, il termine quinquennale di prescrizione dell'azione risarcitoria fosse gi trascorso, a nulla rilevando eventuali cause di interruzione della prescrizione relative al reato (art. 160 c.p.). Ora questa prospettazione, da un lato deve ritenersi ammissibile ancorch sia stata adottata specificatamente solo nel giudizio di appello, perch proprio in quel grado -acquisita la prova della costituzione di parte civile non offerta in prime cure -era sorto l'interesse degli appellati a dedurla; dal-Jj 1'altro, ripropone il problema se gli atti interruttivi della prescrizione interve:::; nuti in sede penale spieghino influenza o meno sulla permanenza in vita del diritto al risarcimento del danno al fine dell'applicabilit dell'art. 2947, 3 co., y; I e.e., riguardo al quale esiste un contrasto nella giurisprudenza di questa 1:: Corte. Ed infatti, come indicato nell'ordinanza 24 novembre 1995 di rimesi:~ sione degli atti al Primo Presidente, ad un'isolata affermazione secondo la I i:= quale l'art. 2947 e.e., nel disporre che, in ogni caso, se il fatto considerato fil ~ dalla legge come reato e per il reato stabilita una prescrizione pi lunga, i:= questa si applica anche all'azione civile, recepisce -sia per l'ampiezza della i:: formula del richiamo, sia per la ratio di fare effettivamente corrispondere, nel ~ concreto, la prescrizione dell'azione civile a quella del reato -l'intera normativa della prescrizione del reato, compresa quella parte di essa concernen I te l'efficacia degli atti interruttivi ex art. 160 c. p. ( Cass. 14 febbraio 1987 n. ili 1636), si contrappongono altre due pronunce, nelle quali si ritenuto che ~ Iili non assumono rilievo eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato, essendo ontologicamente diversi l'illecito civile e quello penale (Cass. 29 marzo 1990 n. 2585 e 1 marzo 1994 n. 2012). I . . In realt quest'ultimo indirizzo era stato per la prima volta affermato a ' chiare lettere nella sentenza 22 gennaio 1968 n. 175 (ancorch la relativa . massima ufficiale non ne evidenzi tutta la portata pur sottolineando, signifi Icativamente, la mancanza, nel nostro sistema normativo, di una norma generale che importi la sospensione del termine di prescrizione dell'azione civile fino a quando in vita l'azione penale od in corso il processo penale), con una motivazione cos esaustiva d'avere convinto anche la dottrina interessa- fil Ii= ~i " ~ ~ ,.,,.,,,,,,,,jflll''''''.''.,l., PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CMLE 127 ta all'argomento (ivi compreso, chi, da ultimo, si indotto ad aderirvi, pur rilevandone il contrasto con la presumibile ratio dell'art. 2947 e.e. volta ad evitare che, dichiarata la responsabilit penale, resti escluso l'obbligo di risarcimento della vittima del reato, in conseguenza della maturata pi breve prescrizione civile). Ed allora proprio tale motivazione va richiamata e ribadita, rilevando che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato dal reato, sebbene raccordata sotto il circoscritto profilo del periodo di durata, alla disciplina della prescrizione dettata per il reato, si inserisce nel quadro generale dell'istituto della prescrizione civile, senza comprometterne la sostanziale autonomia rispetto all'analogo istituto regolato nel sistema penale. Se si eccettua tale collegamento, ciascuno dei due istituti costituisce un c9mplesso normativo in s chiuso e perfetto, con la conseguenza che, ai fini del diritto al risarcimento, operano esclusivamente le cause di interruzione previste nella disciplina civilistica, senza possibilit di mutua integrazione o di interferenze fra le due discipline. A tacere delle innumerevoli complicazioni che, in via teorica e nell'applicazione pratica, sorgerebbero dall'esigenza di comporre, in un'opera di difficile coordinamento, un sistema unificato, ma indubbiamente composito ed eterogeneo, delle cause interruttive previste in ognuna delle due discipline, l'esposta opinione trae in primo luogo conferma dal rilievo che gli atti interruttivi della prescrizione della presa punitiva dello Stato, in quanto hanno per punto di obiettiva incidenza una materia diversa dal diritto al risarcimento del danno e non provengono dal titolare di quest'ultimo diritto, non possono direttamente influire sulla sua persistenza. Ove, poi, si potesse prescindere dal computo dei termini di prescrizione sulla base della pena edittale stabilita per il reato (costituente, nel contempo, titolo per il risarcimento) e dare rilievo, invece, ai sopravvenuti atti interruttivi di cui all'art. 160 c.p., non si avrebbe un unico termine di prescrizione, ma una variabile molteplicit di termini per un solo tipo di reato, a seconda delle diverse vicende processuali verificatesi, in relazione a ciascun caso pratico, in sede penale. Ora, non si pu sottovalutare l'evidente pregiudizio per le parti private, le quali non potrebbero contare, al fine di vigilare sulle proprie pretese o di difendersi da quelle avverse, su di un preciso ed immutabile dato di riferimento (salvo l'intervento delle ordinarie cause interruttive di cui agli artt. 2943 e ss. e.e.) ma dovrebbero tenere conto di atti ed eventi la cui esistenza potrebbero persino ignorare. Vi , infine, da ritenere fondatamente che, in coerenza con quanto stabilito dai primi due commi del1' art. 2947, il legislatore abbia voluto accogliere un criterio fondato sull'unicit del termine prescrizionale per ogni tipo di reato. Del resto, l'incompleta parificazione dei termini di prescrizione dell'azione civile e di quella penale ammessa anche dalla relazione ministeriale al codice civile e trova ulteriore conforto nel vigente codice di procedura penale, che ha dettato una disciplina volta ad accentuare l'autonomia del processo civile da quello penale. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Concludendo e componendo il contrasto giurisprudenziale, va affermato che quando il fatto dannoso considerato dalla legge come reato e per il reato stabilita una prescrizione pi lunga, quest'ultima si applica anche all'azione civile, ma le eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato non rilevano ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Orbene, applicando l'esposto principio al caso di specie, agevole rilevare che la motivazione adottata nell'impugnata sentenza non vi si uniformata dal momento che -pur senza un'espressa statuizione sul punto -ritenendo che all'atto di costituzione di parte civile -non essendosi prescritto reato -non si era neppure prescritto il diritto al risarcimento del danno, ha implicitamente esteso la rilevanza degli eventuali atti interruttivi della prescrizione del reato anche alla prescrizione dell'azione civile. Il primo mezzo va, pertanto, accolto, restando assorbito l'altro motivo, che attiene esclusivamente alle vicende del processo penale. Peraltro, stante l'irrilevanza ai fini della interruzione della prescrizione civile degli atti di instaurazione del processo penale ed essendo pacifico che l'unico atto in tesi rilevante ai fini della prescrizione civile , nella specie, la costituzione di parte civile, pacificamente avvenuta il 20 giugno 1977, rispetto all'evento lesivo del 18 agosto 1971, risulta certo, senza necessit di ulteriori accertamenti di fatto, che alla predetta data del 20 giugno 1977 il diritto era gi prescritto per decorrenza del maggior termine (quinquennale) previsto per il reato. La Corte quindi, decidendo nel merito ex art. 384, 1 co., c.p.c. novellato, rigetta la domanda risarcitoria proposta dallo Scimia, essendo estinto il relativo diritto per prescrizione (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 25 marzo 1997, n. 2605 -Pres. Grossi -Est. M. Finocchiaro -P.M. Dettori (conf.) -Ministero della pubblica istruzione (avv. Stato Tortora) c. Pastorello e altro (avv. Palermo, Scrivano). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Atti del dipendente Danno a terzi -Atti dolosi o colposi estranei ai fini istituzionali Responsabilit solidale della p.a. -Esclusione. (Art. 28 cost.; art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; art. 59, d.lvo 3 febbraio 1993 n.29). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Danno ad alunno -Culpa in vigilando del docente -Docenti di Istituto tecnico professionale con personalit giuridica -Legittimazione passiva della p.a. -Ministero della pubblica istruzione -Sussiste -Istituto tecnico -Non sussiste. (Art. 28 cost.; art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; art. 59, d.lvo 3 febbraio 1993 n. 29). Istruzione e scuole -Istituto tecnico professionale -Personalit giuridica Rapporti con Ministero della pubblica istruzione -Autonomia amministrativa. (legge 15 giugno 1931 n. 889). PARTE I, SEZ. ill, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CMLE 129 Ai sensi della vigente normativa (art. 28 cast.; art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3; art.59, d.lvo 3 febbraio 1993 n.29), la pubblica amministrazione risponde dei danni arrecati a terzi dai propri dipendenti, salvo che il comportamento dell'agente, doloso o colposo, non sia diretto al conseguimento dei flni istituzionali propri dell'ufficio o del servizio di appartenenza, ma sia determinato da motivi strettamente personali ed egoistici, tanto da escludere ognicollegamento di occasionalit necessaria tra le incombenze affidategli e l'attivitproduttiva del danno (l). In caso di danno patito da un alunno di un istituto tecnico professionale dotato di personalit giuridica a causa della omessa vigilanza di un insegnante statale, sussiste la legittimazione passiva del Ministero della pubblica istruzione a cui il docente legato da rapporto di servizio e non gi la legittimazione dell'istituto tecnico, a cui il docente legato da mero rapporto organico (2). Gli istituti tecnico professionali, pur godendo di personalit giuridica ex I. 15 giugno 1931 n.889, sono sottoposti a vigilanza del Ministero della pubblica istruzione e godono di mera autonomia amministrativa da quest'ultimo. (omissis) l. I diversi ricorsi, tutti proposti avverso la stessa sentenza devono riunirsi, ai sensi dell'art. 335 c.p.c. 2. Come accennato in parte espositiva la Corte di appello di Bologna ha ritenuto che un incidente verificatosi il 23 gennaio 1981 all'interno dell'Istituto Tecnico Industriale Odone Belluzzi di Bologna allorch il minore Gieri Mauro era stato sgambettato e fatto cadere dai compagni di classe Pastorello Daniele e Raisi Daniele, cos riportando gravi danni, poich imputabile a difetto di vigilanza di un insegnante -dipendente dello Stato [non identificato] il quale, essendo gi concluso l'intervallo e ripresa l'attivit didattica, aveva omesso di controllare l'accesso della scolaresca nell'aula delle proiezioni, dove egli attendeva gli allievi per iniziare la lezione, fosse direttamente riferibile alla responsabilit della Amministrazione dello Stato, con conseguente legittimazione passiva al giudizio del Ministero [della Pubblica Istruzione] appellato, ancorch il detto Istituto tecnico fosse dotato di propria personalit giuridica, distinta da quella dello Stato, atteso -in sintesi che tale circostanza non escludeva la sua qualit di istituto pubblico dello Stato, integralmente inserito nell'organizzazione statale. (1) Principio pacifico. Ex pluribus cfr. Cass., sez. III, 3 dicembre 1991 n. 12960, in Rass. Avv. Stato, 1991, I, 3, 525. (2) In terminis per la legittimazione passiva del Ministero della pubblica istruzione Cass. 17 gennaio 1996 n. 341, inedita, ma in CED Cassazione, RV 495460. Contra, per la legittimazione passiva dell'istituto tecnico industriale avente personalit giuridica autonoma, e del quale l'insegnante diviene organo, Cass., 30 maggio 1969 n. 1931, in Foro amm. 1970, I, 1, 81. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 130 3. La riassunta statuizione censurata -in questa sede -dal Ministero della Pubblica Istruzione con un unico motivo, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 Costituzione, dei principi generali in tema di responsabilit della Pubblica Amministrazione e della legge 15 giugno 1931, n. 889. Osserva il ricorrente, in particolare, che la sentenza gravata, ponendosi consapevolmente in contrasto coll'assolutamente pacifico orientamento della Suprema Corte in materia ... perviene ad affermare la responsabilit risarcitoria del Ministero della Pubblica Istruzione sul presupposto della natura statale dell'Istituto di istruzione secondaria. In realt, osserva l'Amministrazione ricorrente, l'Istituto nel cui ambito si verificato l'infortunio in questione persona giuridica pubblica, distinta dallo Stato, e costituente, come tale, autonomo centro di imputazione di interessi, di diritti, di obblighi e di responsabilit, non solo per quel che attiene all'attivit lecita, ma anche in caso di attivit illecita, fonte di responsabilit extracontrattuale. Quanto -in particolare -al personale di ruolo, direttivo, insegnante, amministrativo, tecnico e di vigilanza in servizio presso gli Istituti di istruzione secondaria che siano anche persona giuridica -prosegue il Ministero ricorrente - vero che o stesso qualificato, legislativamente, come statale, ma esso deve considerarsi anche e in primo luogo, come appartenente e dipendente dagli istituti, facendo parte dei rispettivi organici tenuto presente che tale personale in r~pporto organico con l'Istituto scolastico, senza che rilevi, chi eroghi la retribuzione o eserciti il potere disciplinare su tale personale. 4. Nel resistere alla riassunta censura i controricorrenti e ricorrenti incidentali Pastorello e Raisi oppongono, in limine, l'inosservanza -da parte del Ministero -in occasione della sua costituzione in causa nel corso del giudizio di primo grado, del precetto di cui all'art. 4, legge 25 marzo 1958 n. 260, atteso che la P.A. allorch rileva un vizio di carenza di legittimazione passiva, nel formulare la relativa eccezione deve indicare, contemporaneamente, il diverso ente pubblico, a proprio dire legittimato e ove ci non accada... il vizio resta sanato. 5. Tale ultima eccezione infondata, sotto due, concorrenti, profili. 5 .1. In primis si osserva che gi nel corso del giudizio di primo grado con la comparsa di risposta in data 17 dicembre 1984 (e, quindi, con il primo atto difensivo) il Ministero convenuto ha eccepito, in via preliminare (pag. 2 -3 della comparsa), il proprio difetto di legittimazione passiva a subire l'azione risarcitoria, atteso che l'I.T.I.S. Odone Belluzzi Istituto Tecnico Industriale avente propria personalit giuridica fornito di autonomia patrimoniale .e assoggettato a mera vigilanza del Ministero della P.I. ... . PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CMLE 131 5.2. In secondo luogo, anche a prescindere da quanto precede erroneamente nella specie invocata l'applicabilit dell'art. 4, della legge 25 marzo 1958, n. 260 (secondo cui l'errore di identificazione della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall'Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l'atto doveva essere notificato ), atteso che tale ultima disposizione deve essere letta con riferimento all'eventualit nell'evocare in giudizio una Amministrazione dello Stato, l'atto relativo sia notificato a mani di altra Amministrazione. Diversamente, nella specie, la questione non nei detti termini, atteso che il ricorrente principale non censura alcun errore in cui controparte sarebbe incorsa in sede di notifica dell'atto introduttivo del giudizio, ferma la titolarit del rapporto controverso in capo allo Stato, ma oppone -in radice -che lo Stato estraneo alle vicende che hanno condotto alla presente controversia, attesa la personalit giuridica dell'Istituto Tecnico Industriale Odone Belluzzi, totalmente distinta rispetta a quella dell'Amministrazione statale e, in particolare, del Ministero della Pubblica Istruzione, cui in alcun modo sarebbero riferibili le condotte -sia lecite che illeciti -dei suoi insegnanti (Sempre in questa ottica, cfr., del resto, Cons. Stato, sez. VI, 7 luglio 1986 Il. 489). 6. Pur se in rito ammissibile, la censura svolta dal Ministero con il proprio ricorso principale, peraltro, comunque infondata, in base alle osservazioni che seguono. 6.1. Si ricava -oltre che dalla legislazione speciale in tema (cfr., artt. 20 -23, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e, ora, art. 59, comma 1, d.lg. 3 febbraio 199 3, n. 2 9, come sostituito dall'art. 2 7, d.lg. 23 dicembre 199 3, n. 546) dallo stesso art. 28 cost., che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti e che In tali casi la responsabilit civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Ne deriva, pertanto, salvo che il comportamento dell'agente, doloso o colposo, non sia diretto al conseguimento dei fini istituzionali propri dell'ufficio o del servizio al quale addetto, ma sia determinato da motivi strettamente personali ed egoistici, tanto da escludere ogni collegamento di necessaria occasionalit tra le incombenze affidategli e l'attivit produttiva del danno (cfr., ad esempio, Cass. 3 dicembre 1991 n. 12960), che la Pubblica Amministrazione risponde dei danni arrecati a terzi dai propri dipendenti, in forza del rapporto di impiego che sussiste, tra la stessa e questi ultimi. Pacifico e non controverso che nella fattispecie ora in esame il Ministero della Pubblica Istruzione stato evocato in giudizio nella sua qualit di datore di lavoro degli insegnanti che sono venuti meno ai loro doveri di sorve RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 132 glianza degli alunni, cos rendendo possibile il fatto illecito in cui rimasto coinvolto il minore Gieri Mauro, e pacifico, altres, che il Ministero ricorrente in alcun modo nega l'esistenza di tale rapporto di lavoro, palese che irrilevante -al fine del decidere -che detti insegnanti, anzich svolgere la propria attivit didattica presso un istituto statale, fossero -da un punto di vista organico -inseriti in un istituto tecnico professionale dotato di una propria personalit giuridica. In altri termini nel rapporto d'impiego degli insegnanti di tali istituti pu -in tesi -operarsi una distinzione (non diversamente, ad esempio, da quanto si verifica in tema di segretari comunali), fra rapporto di servizio e rapporto organico, il primo svolgentesi con l'amministrazione statale (della quale sono impiegati) che la sola competente in merito ai provvedimenti di stato che li riguardano (disciplinati direttamente dal legislatore), il secondo svolgentesi con l'amministrazione dei singoli istituti tecnici nella quale essi sono funzionalmente inseriti. Con l'ulteriore corollario che la responsabilit del Ministero della Pubblica Istruzione, per eventuali fatti illeciti posti in essere, a danni di terzi, da tali insegnanti rimane ferma, anche se gli stessi esercitano le loro funzioni inseriti in una struttura amministrativa (l'Istituto Tecnico Industriale) dotata di propria personalit giuridica. 6.2. In termini opposti -ancora -rispetto a quanto si assume in ricorso, deve escludersi che esista, in tema, un orientamento assolutamente pacifico di questa Corte regolatrice nel senso che il Ministero della Pubblica Istruzione non risponda dei fatti illeciti posti in essere dai propri dipendenti -insegnanti ove questi prestino la propria attivit presso istituti tecnici industriali dotati, in quanto tali, di personalit giuridica, a norma della legge 15 giugno 1931, n. 889. A quel che risulta, infatti, il problema specifico risulta affrontato -dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte -unicamente in due occasioni. In una prima-abbastanza remota (Cass. 30 maggio 1969 n. 1931)-si affermato che il personale statale, destinato a svolgere compiti di insegnamento negli istituti tecnici industriali, centri dotati di personalit giuridica, continua a dipendere organizzativamente dallo Stato, che conserva i poteri disciplinari ed amministrativi, ma tuttavia inserito in un centro di funzioni di competenza dei detti istituti, i quali si avvalgono del personale predetto per esercitare i loro compiti istituzionali, con la conseguenza che gli insegnanti ne divengono organi. In termini opposti, in altra occasione, molto pi vicina nel tempo (Cass. 17 gennaio 1996 n. 341) si affermato -invece -che il personale docente degli istituti professionali di Stato -che costituiscono organi dello Stato muniti di personalit giuridica ed inseriti nella organizzazione statale -si trova in rapporto organico con la Amministrazione della Pubblica Istruzione dello Stato e con i singoli istituti, che sono dotati di mera auto PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 133 nomia amministrativa per la realizzazione dei fini di istruzione pubblica e, pertanto, gli atti, anche illeciti, posti in essere dal menzionato personale sono riferibili direttamente al ministero della Pubblica Istruzione e non ai singoli istituti. 6.3. La tesi di parte ricorrente (fatta propria -come accennato -da Cass. 30 maggio 1969 n. 1931) prende le mosse da due presupposti, assolutamente inaccettabili, a giudizio di questo Collegio. 6.3. 1. Precisa, in particolare la ricordata pronuncia del 1969 il t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 disciplina il pubblico impiego in generale ed ha riguardo pertanto unicamente al rapporto di dipendenza non all'inserimento del dipendente in un centro di funzioni (rapporto organico), mentre d'altra parte, non ha alcuna rilevanza, ai fini del decidere, stabilire a chi spetti il potere disciplinare o quello amministrativo contabile in quanto tali poteri vanno riferiti tutti al rapporto di dipendente (o di lavoro in senso lato) e non al rapporto organico, per cui, sussistendo nel caso concreto un rapporto di organico [esclusivamente] tra gli insegnanti di cui si discute e gli Istituti tecnici professionali, solo questi ultimi rispondono dei fatti illeciti di costoro. Come anticipato l'assunto -in contrasto con la chiara lettera della norme positive -in materia non pu seguirsi. L'art. 28 cost. menziona da una parte i funzionari, dall'altra i dipendenti dello Stato e prevede che sia per i primi che per i secondi sussiste, per gli atti dagli stessi compiuti in violazione dei diritti, la [diretta] responsabilit civile dello Stato e degli enti pubblici datori di lavoro (in perfetto pendant, del resto con l'art. 2049 e.e.) e pacifico, come si osservato sopra che gli insegnanti degli istituti tecnici professionali in primis dipendenti del Ministero della Pubblica Istruzione, palese che assolutamente irrilevante la circostanza che tali insegnanti siano in rapporto organico non con il Ministero, ma con i singoli Istituti. Contemporaneamente non pu non sottolinearsi che se -come riconosce anche il Ministero ricorrente -il Ministero della Pubblica Istruzione conserva integri, nei confronti degli insegnanti in questione, i propri compiti disciplinari e di controllo (non diversamente che per gli insegnanti di altri tipi di scuole) del tutto irrazionale affermare che lo stesso Ministero -che ove avesse esercitato adeguatamente la vigilanza del caso su quei dipendenti avrebbe evitato la lesione dei diritti dei terzi -non risponde di quei fatti illeciti che doveva e poteva impedire. 6.3.2. Al riguardo, infine, non pu tacersi che la legge 15 giugno 1931 n. 889 nel prevedere (art. 3) che le scuole e gli istituti di istruzione tecnica ivi indicati sono riconosciuti come enti dotati di personalit giuridica e di auto giudici che ove opportunamente vagliato avrebbe potuto condurre ad una diversa conclusione della lite (omissis). giudici che ove opportunamente vagliato avrebbe potuto condurre ad una diversa conclusione della lite (omissis). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 134 nomia nel loro funzionamento e sono sottoposti alla vigilanza del Ministero ... della Pubblica Istruzione lungi dall'istituire dei nuovi enti pubbli:i in contrapposizione con lo stesso apparato dello Stato e cui sia demandato -in via esclusiva -il compito di diffondere l'insegnamento (come si adombra nella pi volte citata Cass. 30 maggio 1969, n. 1931), attua -molto pi semplicemente -un mera autonomia amministrativa di tali istituti che se rileva per alcuni aspetti (ad esempio quanto al reperimento delle sedi ed alle altre funzioni rimesse agli enti pubblici locali cfr., artt. 22-24 della legge, nonch Cass. sez. un., 11 aprile 1995, n. 4150) non incide in alcun modo sulla posizione degli insegnanti. Precisa, infatti, l'art. 34 della legge che agli insegnanti di ruolo degli istituti di istruzione tecnica si applicano, in quanto non sia diversamente stabilito ... le disposizioni dello stato giuridico degli insegnanti degli istituti di istruzione media classica, scientifica e magistrale e il successivo art. 45 avverte, ancora, che il personale di ruolo direttivo, insegnante ... degli istituti di istruzione tecnica, che non sia fornito dagli enti pubblici locali, personale statale ..., espressioni queste tutte incompatibili con la invocata esistenza, per i fatti illeciti eventualmente posti in essere da tali insegnanti, di una responsabilit dell'istituto in alternativa a quella del Ministero della Pubblica Istruzione come la regola per tutto il personale insegnante statale. 7. Con l'unico motivo del ricorso incidentale i controricomenti denunciano la sentenza gravata a mente dell' art. 360 c.p.c. per omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della sentenza. Si osserva, in particolare, che in effetti bilanciando la responsabilit collegata alla grave negligenza dell'insegnante, rispetto a quella legata al comportamento ludico ed al limite tacciabile appena di vivacit dei giovanetti, appare immotivatamente riduttivo non ritenere assorbente la colpa dell'adulto contrattualmente e professionalmente tenuto alla sorveglianza degli allievi. 8. Il motivo non pu trovare accoglimento, attesa la sua estrema genericit ed apoditticit. A prescindere da quelli che sono i limiti del giudizio di legittimit -che non un giudizio di merito di terzo grado e nel quale, pertanto, preclusa qualsiasi doglianza diretta ad ottenere una nuova valutazione delle risultanze di fatto, diversa da quella compiuta dai giudici di merito -la laconicit della censura non permette neppure di comprendere in quale contraddizione logica siano incorsi i giudici del merito nel motivare il proprio convincimento, n quale elemento di causa sia stato totalmente pretermesso da quei PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 135 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 13 maggio 1997, n. 4181 -Pres. Borruso - Rel. Milani -P.M. Maccarone (diff.) -Telespazio spa ( avv. D'Ercole) c. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero Coordinamento e Protezione civile (avv. Stato Cosentino). Opere pubbliche -Revisione prezzi e prezzo chiuso -Determinazione Meccanismo della maggiorazione del 5% in ragione della durata dei lavori -Computabilit anche nel primo anno -Sussistenza. (legge 28 febbraio 1986, n. 41, art. 33). Il c.d. prezzo chiuso, rispondendo a finalit diverse rispetto all'istituto della revisione prezzi, un sistema alternativo edincompatibile rispetto a quest'ultimo. In particolare attraverso il prezzo chiuso si realizza un meccanismo che opera ex ante, sulla base del duplice presupposto dell'importo netto dei lavori e della durata contrattuale prevista perla loro esecuzione. Ne deriva che fin dalla stipulazione del contratto si determina un prezzo unico composto dal prezzo base d'asta aumentato tante volte del 5% per quanti sono gli anni contrattualmente previsti per l'esecuzione del contratto. Detto aumento annuale, pertanto, entra a far parte del corrispettivo dell'appalto. La maggiorazione del 5% va, quindi, applicata includendo nel calcolo l'intera durata contrattuale prevista per l'esecuzione dei lavori, ivi compreso il primo anno (1). (omissis) Preliminarmente, deve procedersi alla riunione dei ricorsi, ex art. 335 c.p.c. 1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 14 delle preleggi, 33 della legge 28 febbraio 1986 n. 41, nonch omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censura l'interpretazione fornita dalla Corte d'appello circa i presupposti ed il funzionamento del prezzo chiuso, interpretazione che, escludendo il primo anno dall'applicazione della maggiorazione del 5%, urta -secondo la ricorrente -contro il tenore letterale della norma ed estende indebitamente all'ipote.i del prezzo chiuso la disciplina prevista per la diversa ipotesi della revisione prezzi. (1) Non constano precedenti sul punto. Sull'istituto della revisione prezzi in generale si veda CIANFLONE, L'appalto di opere pubbliche, Giuffr, 1993, 709 ss.; STECCANELLA -ROBALDO La legge quadro in materia di lavori pubblici, Giuffr, 1995, 21 ss., con particolare riferimento ai successivi provvedimenti legislativi che hanno soppresso l'istituto. Sulla nuova disciplina introdotta dall'art. 26 della legge 109 del 1994 si veda CARULLO -CLARIZIA, La legge quadro in materia di lavori pubblici, Cedam, 1994, 534 ss.; STECCANELLA -ROBALDO op. cit., 105 ss. L'istituto del prezzo chiuso ha avuto scarsa elaborazione giurisprudenziale. Si segnalano Corte Conti, 9 luglio 1987, n. 812, in Cons. Stato, 1987, II, 1576; Cons. Stato, III sez., parere 12 maggio 1987, n. 540, in Cons. Stato, 1987, I, 1707. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Per valutare la fondatezza o meno di questo motivo e per rispondere agli interrogativi posti dalla presente e dalle successive censure, occorre procedere ad una analisi dell'istituto del prezzo chiuso, introdotto dal comma 4 dell'art. 5 della legge finanziaria 1986 (legge 28 febbraio 1986 n. i= @ 41), nei seguenti termini: Per i lavori di cui al comma secondo introdot-: ta altres la facolt, esercitabile dall'amministrazione, di ricorrere al prezzo chiuso, consistente nel prezzo del lavoro al netto del ribasso di asta, aumentato del 5 per cento per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori. Nel caso di contratto a prezzo chiuso non ammesso il ricorso alla revisione prezzi. Il richiamato comma 2 cos redatto: Per i lavori relativi ad opere pubbliche da appaltarsi, da concedersi o da affidarsi dalle amministrazioni e dalle aziende dello Stato, anche con ordinamento autonomo, dagli enti locali o da altri enti pubblici, aventi durata inferiore all'anno, non ammessa la facolt di procedere alla revisione dei prezzi. Il primo problema che si pone il rapporto tra prezzo chiuso e revisione prezzi. Sembra evidente come tale rapporto si presenti in termini di assoluta altemativit, desumibile, oltre che dall'incompatibilit logica tra prezzo chiuso e revisione dei prezzi, dalla stessa lettera della legge, che esclude espressamente la facolt di procedere alla revisione dei prezzi quando si sia adottato il contratto a prezzo chiuso. In tale prospettiva, il richiamo al precedente comma 2 non pu che essere limitato alla elencazione dei lavori cui applicabile il contratto a prezzo chiuso, con esclusione del dettato normativo, attinente esclusivamente alla diversa ipotesi della revisione prezzi. Non avrebbe senso, infatti, richiamare, in materia di prezzo chiuso, il divieto di procedere alla revisione prezzi per i contratti di durata inferiore all'anno, quando la possibilit di ricorrere alla revisione prezzi gi in ogni caso esclusa, e, per i contratti di durata inferiore all'anno, non possibile neppure la maggiorazione del 5% prevista per il prezzo chiuso, che applicabile soltanto per ogni anno intero. I due istituti, del resto, rispondono a finalit ed esigenze diverse. Mentre la revisione prezzi tende a ristabilire il rapporto sinallagmatico tra prestazione dell'appaltatore e contro-prestazione dell'amministrazione, adeguando il corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora superino la soglia prevista dell'alea contrattuale, il prezzo chiuso risponde al criterio di un'alea convenzionale e forfettizzata che, mentre assicura all'amministrazione certezza dei bilanci, cristallizzando il corrispettivo dell'appalto in una cifra fissa e predeterminata, indennizza, anche se parzialmente, l'appaltatore della svalutazione monetaria intervenuta nel corso del rapporto contrattuale (all'epoca, il tasso reale di svalutazione annuale era decisamente superiore al 5%), e, se non perviene all'adeguamento in termini reali del corrispettivo, evita d'altra parte i rischi relativi alla revisione prezzi (alea elevata al 10%, congelamento del primo anno). PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 137 Configurato quindi il contratto a prezzo chiuso come alternativo ed incompatibile rispetto al sistema della revisione prezzi, occorre interpretarne le disposizioni in maniera autonoma, senza riferimento alla diversa disciplina regolante il sistema revisionale. Riprendendo quindi la definizione normativa, il prezzo chiuso deve intendersi come prezzo del lavoro, al netto del ribasso d'asta, aumentato del 5% per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori. Tenute presenti le finalit perseguite dall'istituto, sembra potersi ritenere che l'interpretazione pi aderente alla lettera e alla ratio della legge sia quella (condivisa dalla pi autorevole dottrina) di un meccanismo che opera ex ante, sulla base del duplice presupposto dell'importo netto dei lavori e della durata contrattualmente prevista per la loro esecuzione. Fin dalla stipulazione del contratto viene quindi a determinarsi un prezzo unico, composto dal prezzo base d'asta aumentato tante volte del 5% per quanti sono gli anni contrattualmente previsti per l'esecuzione dei lavori: il prezzo cos determinato resta chiuso, cio fisso ed invariabile per tutta la durata del contratto, insensibile alle successive vicende del medesimo. La maggiorazione del 5% per ogni anno entra pertanto a far parte del corrispettivo dell'appalto, quale componente intesa ad indennizzare forfettariamente e convenzionalmente l'appaltatore degli aumenti dei prezzi di mercato durante il periodo di esecuzione dei lavori. Cos disegnate le linee strutturali dell'istituto, pu ora rispondersi ai vari quesiti sorti nell'interpretazione del contratto d'appalto oggetto del presente giudizio. Con riferimento al problema sollevato nel primo motivo di ricorso, deve ritenersi che la maggiorazione del 5% vada applicata includendo nel calcolo l'intera durata contrattualmente prevista per l'esecuzione dei lavori, ivi compreso il primo anno. Non infatti ravvisabile ragione alcuna per escludere dal computo il primo anno: la norma non prevede tale esclusione, che non pu essere consentito introdurre in via d'interpretazione, utilizzando un meccanismo previsto esclusivamente per la revisione prezzi, non applicabile -per le ragioni sopra illustrate -alla diversa ed incompatibile ipotesi del prezzo chiuso. Del resto, una volta considerata la maggiorazione del 5% come compo nente del corrispettivo dell'appalto, da calcolarsi ex ante, l'inclusione anche del primo anno ne deriva come logica conseguenza, del tutto conforme alla disciplina ed alle finalit dell'istituto. La prima censura risulta dunque fondata. 2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia un vizio di extrapetizione e di omesso esame nella sentenza della Corte d'appello che, nel fissare alla stipulazione del contratto (6 aprile 1987) anzich all'apertura del cantiere (24 luglio 1986) il momento iniziale del rapporto, non aveva considerato: a) che la stessa amministrazione aveva abbandonato l'eccezione avanzata in tal senso, accettando l'impostazione della Telespazio circa la durata ultraquin RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 138 quennale dell'appalto (essendo il termine di ultimazione previsto per il settembre 1991); b) che l'esecuzione anticipata dei lavori, rispetto alla formale stipulazione del contratto, era stata concordata con l'amministrazione, in osservanza dei tempi stabiliti dalla delibera del CIPE. Anche questo problema va impostato e risolto alla luce delle considerazioni svolte crca le linee da seguire nell'interpretazione dell'istituto del prezzo chiuso. Preliminarmente, peraltro, va in ogni caso esclusa la possibile sussistenza del vizio di extrapetizione lamentato dalla ricorrente. La questione della durata dell'appalto materia di interpretazione ed applicazione di legge, sottratta alla disponibilit delle parti e quindi alla disciplina dell' eccezione in senso proprio: la posizione assunta dalle parti in proposito ha valore unicamente di argomentazione difensiva, che non vincola in alcun modo la decisione del giudice, il quale pu ritenere conforme a legge una tesi, anche se non sostenuta dalla parte che vi avrebbe teoricamente avuto interesse. Allo scopo, ora, di determinare in concreto nella specie la data di decorrenza per l'applicazione della maggiorazione del 5%, va considerato che il rapporto in oggetto si svolto con le modalit della trattativa privata, per cui l'incontro delle volont per la determinazione del corrispettivo va situato al momento della stipulazione del contratto, non rinvenendosi -a differenza delle procedure di gara, comportanti bando, offerta ed aggiudicazione alcun atto anteriore, giuridicamente significativo, di determinazione delle clausole contrattuali, con particolare riferimento alla fissazione del prezzo dell'appalto. E poich la maggiorazione del 5% deve essere calcolata sul prezzo contrattuale, la decorrenza non pu essere anteriore alla data in cui si venuta a creare la stessa base di calcolo, cio alla stipulazione del contratto, non essendo concepibile che la maggiorazione possa retroagire rispetto al prezzo da maggiorare, e che una componente del corrispettivo abbia una decorrenza anteriore rispetto al corrispettivo stesso. La circostanza, quindi, che nel contratto si dia atto della apertura anticipata del cantiere, in ottemperanza alla citata delibera del CIPE, non pu avere influenza sul dies a quo per il calcolo della maggiorazione, non perch venga disattesa la data di effettivo inizio dell'esecuzione dei lavori indicata nel contratto, ma perch la determinazione del corrispettivo dell'appalto, su cui applicare la maggiorazione, intervenuta con la stipulazione del contratto, e non possibile far retroagire la maggiorazione rispetto al corrispettivo da maggiorare. Del resto, da ritenere che le parti, nella determinazione del prezzo dell'appalto alla data di stipulazione del contratto, abbiano tenuto conto dei lavori precedentemente eseguiti, conglobandone il prezzo nel corrispettivo pattuito. La seconda censura risulta dunque infondata. PARTE I, SEZ. ill, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 139 3-4. Il terzo ed il quarto motivo riguardano le statuizioni adottate dalla Corte d'appello in sede rescissoria, in applicazione dei principi enunciati a sostegno della pronuncia d'annullamento: la ricorrente avanza le medesime censure gi mosse per la fase rescindente, lamentando l'erronea determinazione della durata del rapporto e della decorrenza della maggiorazione del 5%. Tali censure sono quindi da ritenersi assorbite nelle pronunce gi adottate in sede di trattazione del primo e del secondo motivo. Va ora preso in esame il ricorso incidentale condizionato. Con esso l'amministrazione contesta il criterio adottato dalla Corte, d'appello, secondo cui per il calcolo della maggiorazione del 5% doveva prendersi a base, per ogni anno, il prezzo dell'anno precedente, eventualmente comprensivo della gi operata maggiorazione. Sostiene invece l'amministrazione che la base di calcolo doveva rimanere il prezzo originario, sul quale andava applicato l'aumento del 5%, per ogni anno successivo al primo. La censura in parte fondata ed in parte infondata. Secondo i principi sopra enunciati, infatti, la maggiorazione va applicata ex ante sull'intero prezzo originario dell'appalto, in ragione del 5% per ogni anno di durata dei lavori, ivi compreso il primo anno. Il ricorso principale va dunque accolto per quanto di ragione, cos come il ricorso incidentale (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 14 maggio 1997 n. 4232 -Pres. Sciolle Lagrange Pusterla -Est. Marletta -P.M. Gambardella (conf.) -Ente poste italiane (aw. Stato N. Bruni) c. Cassa di risparmio di La Spezia (aw. Rappelli). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Atti del dipendente Danno a terzi -Atti estranei ai fini istituzionali -Responsabilit solidale della P.A. -Esclusione -Limiti. (Art. 28 eost.; art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; art. 59, d.lvo 3 febbraio 1993 n. 29). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Atti del dipendente Danno a terzi -Atto doloso (reato) -Condotta complessiva non estranea ai fini istituzionali -Responsabilit solidale della P.A. -Sussiste. (Art. 28 eost.; art. 22, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; art. 59, d.lvo 3 febbraio 1993 n. 29). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Atti del dipendente Danno a terzi -Concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 co. 2 e.e. -Ordinaria diligenza -Nozione -Condotta attiva per limitare il danno. (Art. 1227 e.e.). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 140 Ai fini della configurabilit di una responsabilit extracontrattuale diretta della pubblica amministrazione verso terzi ex art. 28 Cast., riferibile alla P.A. la condotta del proprio dipendente che sia esplicazione dell'attivit dell'ente e sia rivolta al conseguimento dei fini istituzionali di esso. Detta responsabilit va esclusa nell'ipotesi in cui il dipendente agisce fuori dalle funzioni pubbliche cui deputato e per fini del tutto personali ed egoistici che escludano il rapporto di necessaria occasionalit tra le incombenze stesse e l'attivit che ha determinato il verificarsi del danno (1). fl compimento di un fatto doloso, anche se configurante reato, da parte del pubblico dipendente non esclude la riferibilit dell'attivit alla P.A. allorquando sussista un nesso di occasionalit necessaria tra il comportamento dell'impiegato e le incombenze ad esso affidate e dunque la condotta si inserisca in una attivit che, complessivamente valutata, e avuto riguardo alla sua finalit terminale, non risulti estranea rispetto agli interessi e alle esigenze pubblicistiche (la Suprema Corte precisa che tale principio vale anche se la condotta illecita, che assurga a valenza di reato, si inserisca in attivit riconducibile a mera prassi operativa seguita dal dipendente per fini istituzionali) (2). L'art. 1227 secondo comma e.e. impone al danneggiato una condotta attiva diretta a limitare le conseguenze dannose dell'altrui fatto illecito e non solo l'astensione da attivit rivolte ad aggravare il pregiudizio gi verificatosi, alla stregua dei principi generali di correttezza e buona fede di cui all'art. 1175 e.e., con la sola esclusione delle attivit gravose o eccezionali, o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (3). (omissis) Con il primo motivo l'Amministrazione ricorrente, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2043 e.e., e violazione dei principi in tema di responsabilit della Pubblica Amministrazione, si duole che la sentenza impugnata, pur avendo accertato nei fatti del dipendente dell'Amministrazione Postale un abuso di potere, integrante gli estremi di un delitto doloso, finalizzato non al perseguimento dei fini istituzionali dello Stato, bens di finalit egoistiche dell'agente, abbia riferito tali fatti ad essa ricorrente. Accertamento, invero, che il Marsili, il quale agiva gi-per procurare liqui (1) Cass., sez. III, 27 novembre 1975 n. 3959, inedita, ma in CED Cassazione, RV 378238; id. 23 ottobre 1979 n. 5544, ivi, RV 402133; id. 17 dicembre 1986 n. 7631, ivi RV 449638; id. 3 dicembre 1991 n. 12960, in Rass. Avv. Stato, 1991, I, 3, 525. (2) L'enunciazione della Corte ridimensiona e attenua il rigore del principio, sovente rinvenibile nelle massime del giudice di legittimit, secondo cui la commissione di un reato, ove non rivolta ad interesse dell'ente, esclude senz'altro la riferibilit all'ente medesimo dell'attivit del funzionario. (3) In terminisCass., sez. III, 20 novembre 1991n.12439, in G. civile, 1992, I, 969, con nota di COSTANZA; id. 9 aprile 1996 n. 3250, in Dir. giur. agr. amb., 1996, II, 518. In dottrina BIANCA, Diritto civile, 5 La responsabilit, Milano 1994, 142 seg. Si rileva incidentalmente che l'applicabilit dell'art. 1227 e.e. anche alle ipotesi di illecito extracontrattuale discende dal richiamo a tale norma operato dall'art. 2056 e.e. G.N. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 141 dit alle casse dell'ufficio -in un Contesto istituzionale anomalo e trasgressivo -certamente non autorizzato dai superiori-, si era impossessato del denaro contante in diverse occasioni consegnatogli dall'Agenzia bancaria dietro accettazione di una ricevuta di versamento in conto corrente falsificata, era evidente che la qualit di impiegato dell'Amministrazione Postale era unicamente una condizione soggettiva dolosamente sfruttata, da considerarsi circostanza di collegamento meramente occasionale, idonea ad agevolare la condotta delittuosa, ma non ad attribuire la responsabilit alla Pubblica Amministrazione. Tale motivo privo di fondamento. Esso richiama l'orientamento tradizionale, pur autorevolmente sostenuto, per cui il requisito della riferibilit all'amministrazione del fatto del dipendente, ai fini della configurabilit di una responsabilit extracontrattuale dell'amministrazione stessa nei confronti dei terzi, ricorre quando l'attivit del dipendente consiste in una esplicazione dell'attivit dell'ente di appartenenza ed rivolta al conseguimento dei fini istituzionali di esso: solo in presenza di siffatta condizione sarebbe configurabile il rapporto di immedesimazione organica sul quale si fonda la responsabilit diretta della pubblica amministrazione a norma dell'art. 28 della Costituzione per i fatti dei dipendenti compiuti in violazione di diritti. Detta responsabilit andrebbe quindi esclusa nell'ipotesi in cui il dipendente al di fuori delle funzioni pubbliche cui deputato e per fini del tutto personali ed egoistici, s da doversi escludere ogni rapporto di necessaria occasionalit tra le incombenze stesse e l'attivit che ha determinato il verificarsi del danno (cfr. Cass. 3959/75; Cass. 5544/79; Cass. 7631186; Cass. 12960/91, etc.). Tale orientamento stato anche autorevolmente criticato, assumendosi che esso finisce con l'escludere nella maggior parte delle ipotesi di attivit dolosa, e particolare di rilevanza penale, del funzionario o comunque del dipendente pubblico la riferibilit di essa all'amministrazione, negando al danneggiato la tutela risarcitoria nei confronti di quest'ultima proprio nei casi in cui la sua posizione si rivela particolarmente meritevole di tutela. stato peraltro sottolineato da numerose decisioni che il fatto doloso del funzionario non necessariamente non riferibile alla pubblica amministrazione, dovendo ritenersene al contrario la riferibilit allorch sussista un nesso di occasionalit necessaria tra il comportamento dell'impiegato e le incombenze allo stesso affidate: nesso che va accertato -ed questo il punto di decisiva divergenza rispetto all'orientamento tradizionale -considerando non solo lo specifico comportamento dell'impiegato pubblico costituente abuso, ma il complesso dell'attivit nella quale esso si riferisce (cfr. Cass. 36121/79; Cass. 4195/83; Cass. 5333784; etc.). Allorch, infatti, il comportamento doloso si innesta nel meccanismo di una attivit complessivamente, ed avuto riguardo alla sua finalit terminale, non estranea rispetto agli interessi e alle esigenze pubblicistiche dell'amministrazione, quel collegamento non pu non essere ritenuto. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 142 In tal senso va ravvisata la connessione con le finalit istituzionali della pubblica amministrazione, che pu essere anche anomala, in presenza di un'attivit riconducibile a prassi di comportamenti distorte, ma pur sempre riconducibili ad uno specifico interesse dell'amministrazione. Una siffatta puntualizzazione dato riscontrare anche in qualche decisione recente che sembrerebbe dare adesione alla teoria tradizionale (cfr. la gi citata Cass. 12960/91; cfr. anche Cass. 7631/86, etc.) laddove si precisa che per accertare il nesso tra il comportamento del dipendente e le finalit istituzionali proprie dell'ente per il quale egli opera deve aversi riguardo allo scopo ultimo che il dipendente deve raggiungere, per cui l'abuso di potere commesso nel corso delle operazioni tendenti a quel fine non esclude il collegamento di necessaria occasionalit con le attribuzioni istituzionali del dipendente quando, quale che sia il motivo che lo ha determinato, risulti strumentale rispetto alla attivit d'ufficio o di servizio -cfr. la decisione n. 12960/91. La stessa recente decisione (n. 9935 del 1993) che nega la riferibilit all'ente dell'attivit del pubblico dipendente costituente reato, per definizione, ha riguardo ad una fattispecie nella quale l'attivit del funzionario doganale -si concretava in una collaborazione con terzi per eludere i diritti doganali, e quindi in un'ottica di evidente contrasto dell'attivit medesima con le finalit dell'amministrazione: sicch il riferimento al fatto -reato era rilevante in quanto trattavasi di reato il cui soggetto passivo era proprio l'amministrazione. Va quindi in tal senso ridimensionata la portata dell'affermazione di principio per cui la commissione di un reato, ove non sia rivolta ad interesse dell'ente, esclude senz'altro la riferibilit all'ente medesimo dell'attivit del funzionario. La questione della configurabilit di una responsabilit indiretta dell'amministrazione, a norma degli artt. 2047 e ss. e.e., per fatti dei propri dipendenti stata di recente riproposta, in relazione ad una eventuale culpa in vigilando o anche in eligendo, soprattutto in ipotesi di fatti illeciti commessi da pubblici dipendenti non titolari di organi e come tali non suscettibili di immedesimarsi nell'ente stesso: responsabilit generalmente esclusa in giurisprudenza, con particolare riguardo all'ipotesi di cui all'art. 2049 e.e. -ma non anche alle ipotesi di cui agli artt. 2047 e 2048 Nella specie, peraltro, tale ultimo aspetto non assume rilievo. Ora, la Corte di merito ha ritenuto, con accertamento di fatto congruamente e logicamente motivato e perci non sindacabile -n peraltro sindacato sul punto in esame -che l'attivit illecita svolta dal Marsili, direttore ed unico dipendente dell'Ufficio Postale di Crespiano si innestava in una prassi operativa volta ad assicurare all'Ufficio la liquidit giornalmente necessaria per l'assolvimento dei compiti istituzionali dell'Ente -pagamento di pensioni e di altri titoli, a richiesta degli utenti-; ci a causa della persistente deficienza di liquidit, dovuta a sua volta a motivi di sicurezza ed a problemi nel servizio di scorta valori. PARTE I, SEZ. ID, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 143 Ed invero, delle somme corrisposte dall'Agenzia di Licciano Nardi della Cassa di Risparmio di La Spezia, pari a complessive L. 1.565.000.000, la maggior parte e cio L. 1.005.000.000 complessivamente -era stata effettivamente utilizzata per le finalit dell'Ufficio Postale. Correttamente, quindi, la sentenza impugnata, alla stregua dei principi di diritto sopra enunciati, ha ritenuto che il Marsili, allorch nel periodo di tempo in questione -tra il maggio 1982 e il gennaio 1984 -si recava presso l'agenzia dell'Istituto di credito per acquisire denaro contante, agiva non a fini privati ed egoistici, estranei all'Amministrazione di appartenenza, ma nell'ambito delle sue attribuzioni e all'espletamento di attivit proprie dell'Ente. Che di egli, abusando della sua qualit e traendo profitto alla favorevole situazione di esser l'unico impiegato all'Ufficio I:'ostale di Crespiano senza, quindi, immediati controlli -abbia distratto a proprio profitto da parte dei fondi acquisiti anzich destinarli all'assolvimento degli scopi istituzionale dell'Ente, circostanza che non esclude come la finalit dell'operazione fosse quella di approvvigionare l'Ente di denaro liquido, e che quindi la relativa attivit non possa dirsi estranea all'amministrazione. A nulla vale in contrario addurre che la prassi con la quale il denaro liquido veniva acquisito -operazioni di versamento di denaro nel conto corrente postale intestato alla cassa di Risparmio di la Spezia, compiuto per non presso l'Ufficio Postale, bens presso i locali dell'Agenzia di Licciano Nardi dell'Istituto, distanti circa cinque chilometri dall'Ufficio Postale ove giornalmente si recava il Marsili per i prelevamenti, consegnando bollettini di versamento apparentemente regolari, anche a volte privi del numero di accettazione ed altre volte provvisti di un numero di accettazione apposto a penna -fosse anomala, ci non valendo ad escludere il rilievo dato dalla effettiva connessione di esse rispetto a finalit proprie all'amministrazione postale. Trattavasi peraltro di prassi costante e risalente nel tempo, come accertato dai giudici di merito, pur se non risultato essere stata conosciuta e autorizzata dall'amministrazione anche se di una conoscenza quanto meno effettiva, se non ufficiale, sembra far cenno la sentenza impugnata, ricavando la circostanza proprio dalla reiterazione nel tempo delle relative operazioni e dal fatto che esse surrogavano in parte l'invio di denaro liquido da parte della Direzione Provinciale (cfr. pagg. 15/16). Il che costituisce, ove mai ve ne fosse bisogno, una riprova della stretta inerenza delle operazioni suddette alle finalit dell'amministrazione postale, posto che siffatte modalit di approvvigionamento tenevano in parte luogo di quelle dirette ed ordinarie per le quotidiane necessit dell'Ufficio Postale. Con il secondo motivo, denunciandosi violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1227 e.e. e motivazione insufficiente e contraddittoria, l'amministrazione ricorrente deduce che la sentenza impugnata, dopo avere dato atto del ritardo con cui erano stati effettuati i controlli del conto corrente, avrebbe in modo semplicistico e pure contraddittorio giustificato, agli effetti dell'appli RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO cazione dell'art. 1227 e.e., il minor rigore e la minor frequenza dei controlli con il rapporto di fiducia esistente tra le parti e la legittima aspettativa di operare in un clima di correttezza e di onest. Alla luce dei principi affermati da costante giurisprudenza in tema di interpretazione della suddetta norma, avrebbe dovuto, invece, ritenersi che la Cassa di Risparmio di La Spezia era concorsa nella causazione del danno o ne aveva determinato l'aggravamento per propria condotta omissiva. Il congegno criminoso ideato dal Marsili non avrebbe, infatti, conseguito effetti se i funzionari dell'Agenzia di Licciana Nardi non avessero consentito, violando regolamenti e procedure postali noti a chiunque, di versare denaro al Marsili fuori dell'Ufficio Postale, con eccessiva e professionalmente inaccettabile fiducia nella persona, e se avessero, con un minimo di attenzione, verificato l'autenticit delle ricevute, posto che i cedolini consegnati dal Marsili erano falsi o quanto meno incompleti. Dovendosi peraltro valutare nella loro periodica attuazione le successive azioni esecutive del medesimo disegno criminoso compiute dal Marsili, per considerare in una corretta prospettiva la condotta della parte danneggiata, doveva rilevarsi che gli organi di controllo della Banca, nonostante il rilievo di ragguardevoli ammanchi nei conti di provenienza dell'Ufficio Postale di Crespiano, avevano omesso qualsiasi iniziativa, anche quella pi elementare di mettere sull'avviso l'Agenzia di Licciana Nardi, i cui versamenti in conto corrente postale presentavano cos gravi anomalie. E, posto che l'art. 1227 2 comma e.e. richiede al danneggiato non solo di astenersi dall'aggravare il danno, ma anche un comportamento positivo che possa evitare il danno o il suo aggravamento, non erano giustificabili la negligenza, l'inerzia e, in ogni caso, il grave ritardo con cui i funzionari dell'Istituto addetti a tale compito avevano affrontato il problema degli ammanchi e segnalato il fatto agli organi ispettivi dell'amministrazione postale. Anche tale motivo privo di fondamento. necessario preliminarmente sottolineare che, con riguardo alla fattispecie in esame, il problema della applicabilit in astratto dell'art. 1227 e.e. si pone con riguardo non al secondo, bens al primo comma di detto articolo. Posto, invero, che sono ravvisabili molteplici comportamenti del Marsili produttivi di danno e che il problema del concorso del fatto colposo dell'Istituto danneggiato si pone con riguardo a ciascuno di essi e per i danni che ne sono di volta in volta conseguiti, del tutto corretta e pertinente l'osservazione, contenuta nella sentenza di primo grado, per cui i ritardi e le omissioni addebitate all'Istituto non erano in grado di incidere sul danno dipendente dai pregressi comportamenti del Marsili -il quale, una volta tenuto in possesso del denaro e regolata l'operazione con il rilascio dei cedolini gi descritti, era bene in grado di appropriarsi del denaro stesso senza che i successivi comportamenti dell'Istituto potessero impedirlo in alcun modo o ridurre le conseguenze dannose delle appropriazioni -, bens pote- t ~ 1~ PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 145 vano valere a far cessare per il futuro la condotta del Marsili, prevenendo ulteriori atti di appropriazione. Il problema, quindi, si pone in termini di configurabilit di un comportamento colposo riferibile alla Cassa di Risparmio che, omettendo di attivarsi e di esperire i necessari controlli che avrebbero potuto fa individuare gli ammanchi, sarebbe stato idoneo, ad una certa fase della condotta criminosa continuata, ad impedire il protrarsi di essa. Ben si vede, quindi, come il problema attenga all'ipotizzabilit di un concorso di colpa del danneggiato nella produzione del fatto lesivo (art. 1227 1 comma e.e.) e non di una semplice omissione di diligenza idonea a dar luogo o ad aggravare il danno senza il concorso nel fatto illecito che era idoneo a produrlo (art. 1227 2 comma). In tale ottica i primi giudici hanno preso in esame tali comportamenti, positivi o negativi, addebitati dalla amministrazione postale a funzionari e impiegati della Banca, per escludere che essi, sotto il profilo della negligenza, della imprudenza o dell'imperizia, potessero configurare azioni od omissioni valutabili in termini di colpa per gli effetti di cui al primo comma del1' art. 1227 e.e. in dipendenza della loro attitudine ad inserirsi nella serie causale messa in moto dai comportamenti illeciti del Marsili, agevolandone il conseguimento dei risultati voluti dall'agente. Le valutazioni svolte dai primi giudici sono state interamente confermate dalla sentenza impugnata, la quale ha rilevato, in particolare: 1) Che nessun addebito poteva essere mosso agli impiegati dalla Agenzia di Licciana Nardi della Cassa di Risparmio di la Spezia per non essersi curati di verificare la completezza ed autenticit delle ricevute di versamento da loro accettate e per avere comunque continuato l'attuazione di operazioni fuori dall'Ufficio suddetto. 2) Che nessuna responsabilit poteva addebitarsi all'Istituto per avere ritardato il controllo del conto corrente in questione. Sotto il primo profilo, ha rilevato che le ricevute di versamento -bollettini di conto corrente postale -erano rilasciate dal Marsili nella sua qualit di direttore dell'Ufficio Postale di Crespiano ed erano munite di regolari bolli, tondo a calendario e lineare identificativi dell'Ufficio, per cui apparentemente non presentavano alcuna irregolarit -essendo peraltro autentici sia nella persona del compilatore, sia nei timbri su di essi apposti -; e che il recarsi il personale degli uffici postali presso la sede dell'agenzia di credito per approvigionarsi di denaro contante rispondeva ad una prassi costantemente seguita e <~ (o liberi nel lessico proposto da autorevole dottrina) e non si presta a sospetti di incostituzionalit, posto che, per ammissione pressoch unanime, la riserva di legge prefigurata dall'art. 23 Cost. (evocato dalle ricorrenti) ha carattere (non assoluto, ma) relativo; con la conseguenza che la supposta gratuit del servizio di cui si discute (ancorch obbligatorio) nel vigore della normativa preesistente (ampiamente scrutinata dalla sentenza n. 2203/1976 di questa stessa sezione e da altre coeve) deve intendersi, comunque, venuta meno (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 15 novembre 1997 n. 11337 -Pres. Sensale -Rel. Papa -P.M. Giacalone -Ministero del tesoro (aw. Stato Arena G.) c. Biancalani (aw. D'Ayala Valva). Titoli di credito -Importazione ed esportazione di titoli di credito Infrazioni valutarie -Violazione della disciplina di cui agli artt. 3 e 5 del d.l. n. 167 del 1990, convertito inlegge n. 227 del 1990 -Requisiti oggettivi e soggettivi. L'infrazione valutaria di cui agli artt. 3, primo comma, e 5 del d.l. n. 167 del 1990, convertito in legge n. 227 del 1990, relativa all'importazione o esportazione di titoli al portatore in lire o valute estere di importo superiore a venti milioni, postula sotto il profilo soggettivo un comportamento cosciente e volontario, ancorch non preordinato a fini illeciti, o non consapevole dell'illiceit del fatto, e sotto il profilo oggettivo, l'idoneit dei suddetti titoli alla successiva costituzione di rapporti obbligatori con soggetti non residenti nello Stato (1). (omissis) Denunzia l'Amministrazione violazione e falsa applicazione dell'art. 3 d.l. 167/1990, conv. in 1. 227/1990, in relazione agli artt. 1e2 r.d. 1736/1933, lamentando la mancata considerazione, ad opera del Pretore, (1) La decisione della Suprema Corte si segnala in quanto estende principi gi affermatisi sotto il vigore della disciplina di cui agli artt. 6 e 15 del d.l. n. 476/1956 convertito in legge 786/1996, in materia di esportazione di assegni bancari senza la prescritta autorizzazione, alle analoghe infrazioni valutarie commesse sotto il vigore della PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CMLE 175 dei seguenti rilievi: a) un titolo all'ordine pu circolare anche in bianco, purch sia munito della sottoscrizione del traente, giacch l'acquisto di un titolo incompleto conferisce al portatore i diritti propri del titolo completo; b) per questo, l'assegno senza data si considera pagabile a vista, con obbligo per l'emittente di lasciare a disposizione del prenditore la valuta sufficiente; e) l'incompletezza si ripercuote sull'efficacia esecutiva ma non sulla validit del titolo, che pu essere riempito dal prenditore, con intuibili conseguenze nei rapporti tra successivi prenditori e giratari. Puntualizza che l'obbligo di dichiarazione -mediante deposito di specifico avviso -imposto a chi sta per attraversare le frontiere finalizzato unicamente alla rilevazione dei capitali in transito, e che la sanzione correlata all'impedimento di tale rilevazione. Osserva infine che la sentenza offre un mezzo semplice per aggirare le disposizioni della legge n. 227/1990. Il controricorrente afferma l'esattezza della soluzione adottata dal giudice a quo: dopo averne richiamato le argomentazioni, insiste sulla nullit dei titoli privi di data, affermando che l'invalidit colpisce anche la mancanza della indicazione del luogo di emissione (non senza rilevare, con riferimento all'obbligo di dichiarazione per titoli di importo superiore ai 20 milioni, di cui al cit. art. 3 co. 1, che l'unico assegno privo di tale requisito soltanto era di importo inferiore). Aggiunge che i due titoli di maggiore importo recavano la clausola di non trasferibilit, onde sicuramente non erano al portatore, e conclude che, in dipendenza della rilevata invalidit, i documenti in questione non possono rientrare negli altri titoli menzionati dallo stesso art. 3, escludendo infine che possano essere sussunti nei valori mobiliari, pure inclusi nell'obbligo di dichiarazione, stante la loro qualit di documenti non immediatamente monetizzabili. Dopo aver con- nuova normativa, ove all'autorizzazione ministeriale si sostituisce la mera dichiarazione al seguito per importi superiori a venti milioni. In particolare, oltre a ribadire sotto il profilo dell'elemento soggettivo la necessaria e sufficiente presenza di un comportamento cosciente e volontario, anche se non diretto a fini illeciti, la S.C. ribadisce sotto il profilo oggettivo che l'idoneit dei titoli alla successiva costituzione dei rapporti obbligatori non esclusa dalla circostanza che i titoli manchino della data, del luogo di emissione o della firma della girata nonch dal fatto che si tratti di assegni postdatati o con data falsa, privi di copertura owero non onorabili dalla banca trattaria. Anche in questi casi la non necessit di intervento dell'emittente, stante la possibilit di successivo riempimento da parte del portatore rende astrattamente idoneo il titolo alla costituzione di rapporti obbligatori con terzi non residenti e dunque fa s che gli stessi, ai sensi dell'art. 3 co. 1 e 5 del d.l. 167/1990 rientrino tra gli altri titoli per i quali sussiste l'obbligo della dichiarazione al seguito. Tra le decisioni della Corte di Cassazione sotto il vigore della precedente disciplina si segnalano: Cass, I, 25 novembre 1980 n. 6268; Cass. I, 3 dicembre 1979 n. 6291, oltre la giurisprudenza richiamata in sentenza. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 176 testato la pertinenza di uno specifico riferimento giurisprudenziale di controparte -relativo alla normale inopponibilit del successivo riempimento ai terzi-, osserva che, a voler seguire l'opposta tesi, si giungerebbe alla conclusione della configurabilit dell'infrazione pure in caso di mancata dichiarazione da parte di chi attraversi la frontiera col libretto degli assegni in bianco. Ritiene il collegio sussistente la denunziata violazione di legge, nei termini indicati nella seconda parte della censura. L'art. 3 co. 1 d.l. 167/1990, conv. nella 1. 227/1990, dispone che l'importazione o l'esportazione al seguito ovvero mediante plico postale o equivalente, da parte dei residenti, di somme in lire o valute estere, nonch di titoli al portatore denominati in lire o valute estere, non possono essere effettuate per importo superiore a lire 20 milioni; per gli altri titoli o valori mobiliari di importo superiore a lire 20 milioni i residenti devono farne dichiarazione depositando in dogana uno specifico avviso. Si tratta, nel caso in esame -con evidente riferimento alla seconda parte della disposizione -di stabilire se l'obbligo (pacificamente non adempiuto) sussistesse in relazione a tre assegni circolari, del complessivo importo di lire 133 milioni, tutti privi della indicazione del luogo di emissione e, due (peraltro non trasferibili), altres della data. La soluzione deve essere affermativa, apparendo ininfluente il richiamo alla disciplina del r.d. 1736/1993 (1. ass.), giacch qui non si tratta di individuare la validit dei titoli nello stato in cui si trovavano ovvero, sempre in detto stato, della loro efficacia esecutiva, e nemmeno -conseguentemente -di stabilire se ed in che limiti potesse sopperirsi alle carenze cartolari in atto, ma occorre unicamente considerare se, nella richiamata previsione legislativa, anche per documenti siffatti sussistesse l'obbligo della dichiarazione al momento del transito del confine. noto che la giurisprudenza affermatasi sotto il vigore degli artt. 6 e 15 d.l. 476/1956, conv. in 1. 786/1956, in materia di esportazione o tentativo di esportazione di assegni bancari senza la prescritta atltorizzazione ministeriale, era univocamente orientata nel senso della configurabilit dell'infrazione in concorso di un comportamento cosciente e volontario (elemento soggettivo) e -sotto il profilo oggettivo, che in questa sede direttamente interessa -della idoneit dei titoli alla successiva creazione di rapporti obbligatori coi non residenti nello Stato, idoneit non esclusa dalla mancanza di indicazione della data o del luogo di emissione, ovvero dalla mancanza della firma di girata, nonch dal fatto che si trattasse di assegni postdatati o con data falsa, privi di copertura o comunque non onorabili dalla banca trattaria (Cass. 6268 e 6210/1980; 6291/1979; 5945/1978; 3370/1977). Elemento necessario e suffidente stato infatti ravvisato dalla giurisprudenza nella non necessit di intervento dell'emittente, stante la possibilit di successivo riempimento da parte del portatore. - PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 177 Che tali principi siano applicabili anche sotto il vigore della nuova disciplina, fuor di dubbio, tanto pi ove si consideri -nell'ottica segnalata anche dal la ricorrente Amministrazione -che l'adempimento omesso non inteso ad evitare illeciti trasferimenti di somme, eccedenti le lire 20 milioni, all'estero (divieto che la prima parte del co. 1 cit. limita a somme di danaro o pi in generale a titoli al portatore), ma risulta preordinato alla rilevazione globale dei movimenti di capitali verso le frontiere, imponendo l'obbligo di specifici avvisi, operazione cui non corrisponde alcun onere finanziario; a tale complessiva operazione di monitoraggio si sottraggono gli inadempienti, nei cui confronti risulta dunque applicabile la sanzione prevista nell'art. 5 co. 3 cl.I. 167/1990, senza che colga nel segno il rilievo del controricorrente circa il possesso di moduli (di titoli) in bianco, proprio alla luce della citata giurisprudenza, che consente di ravvisare l'infrazione ogni volta che non sia richiesto un ulteriore intervento dell'emittente. In dipendenza di quanto precede, ai sensi degli artt. 3 co. 1 seconda parte e 5 co. 3 cl.I. 167/1990, conv. in I. 227/1990, rientrano fra gli altri titoli , per i quali esiste l'obbligo della dichiarazione attraverso il deposito in dogana di uno specifico avviso, gli assegni bancari privi dell'indicazione della data e/o del luogo di emissione, essendo gli stessi idonei a creare rapporti obbligatori coi non residenti nello Stato, anche previo riempimento; n alla configurabilit della violazione di ostacolo la circostanza che alcuni dei titoli rechino anche la clausola di non trasferibilit, allorquando essi siano esportati al seguito dal prenditore. Da ci deriva la fondatezza, nei sensi precisati, del ricorso: alla cassazione della sentenza impugnata consegue, a norma dell'art. 384 co. 1 cod. proc. civ., la pronunzia nel merito, nel senso del rigetto dell'originaria opposizione del Biancalani (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. III, 24 novembre 1997, n. 11763 -Pres. Grossi -Rei. Perconte Licatesi -P.M. Cafiero -Panitti (avv. Colarieti) c. ANAS (avv. Stato Criscuoli). Responsabilit civile -Amministrazione pubblica -Opere pubbliche -Strade -Situazione di pericolo occulto (c.d. insidia o trabocchetto) Caratteristiche oggettive e soggettive -Responsabilit dell'ANAS Fattispecie. La responsabilit dell'Amministrazione per danni conseguenti a difetto di manutenzione delle strade configurabile quando risulti violato il limite posto alla discrezionalit amministrativa dalla normq primaria del neminem laedere e, in particolare, quando le strade presentino perl'utente che fa RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 178 ragionevole affidamento sulla loro apparente regolarit una situazione di pericolo occulto, in relazione al carattere obiettivo della non visibililt e a quello subiettivo della non prevedibilit (1). (omissis) Con l'unico motivo, denunziando carenza e contraddittoriet di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), i ricorrenti sostengono che, contrariamente all'avviso della Corte d'appello, il sinistro riconducibile a un'insidia, rappresentata dall'omessa predisposizione, in violazione del principio del neminem laedere, delle barriere protettive in un tratto stradale curvilineo, dal quale non visibile l'alveo del fiume Velino. L'ipotesi dello sbandamento, in quella curva, di un veicolo, se da un lato doveva essere prevista dall'utente, non poteva, dall'altro, essere ignorata dall'ente proprietario della strada, sicch giustamente il Tribunale ne aveva affermato la colpa concorrente. Nemmeno si considerato che, nel caso di specie, l'uscita di strada fu provocata da un malore, per cui non v' dubbio che sussista il nesso eziologico tra la negligenza dell'A.N.A.S. e il duplice evento mortale. Queste censure non hanno pregio. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte suprema, la responsabilit della pubblica amministrazione per i danni conseguiti a difetto di manutenzione delle strade configurabile solo quando risulti violato il limite posto alla discrezionalit amministrativa dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere, e particolarmente quando le strade, a causa delle condizioni nelle quali sono tenute, prestino, per l'utente che fa (1) La Cassazione con la decisione sopra richiamata torna a pronunziarsi -in conformit ai noti principi -sulla questione relativa alla responsabilit dell'ANAS, o comunque, dell'ente proprietario di una strada per danni subiti dagli utenti a causa del difetto di manutenzione della stessa (nella specie si trattava della omessa installazione di guard-rail sul ciglio di un tratto stradale in curva). La Corte respinge il ricorso presentato dagli eredi della vittima di un sinistro stradale non ravvisandosi, nel caso in esame, la sussistenza di una situazione di pericolo occulto ovvero di un'insidia o trabocchetto, situazioni queste, ritenute necessarie per poter considerare l'Amministrazione responsabile ex art. 2043 e.e. e tipizzate dalla sussistenza di un duplice requisito, oggettivo (non visibilit del pericolo) e soggettivo (non prevedibilit dello stesso). In senso conforme, tra le tante: Cass., Ili, 28 aprile 1997 n. 3630; Cass., III 17 gennaio 1996 n.340; Cass., III, 11 agosto 1995 n.8823; Cass., III, 14 agosto 1991 n. 8840. L'indirizzo giurisprudenziale, ormai affermatosi sul problema, lungi dal costituire una posizione di ingiustificato privilegio per lAmministrazione ha individuato nel principio del neminem laedere un limite alla rilevanza della discrezionalit della P.A., alla quale resta comunque riservato l'apprezzamento degli interessi e dei bisogni pubblici e la scelta dei mezzi ritenuti pi idonei per il loro soddisfacimento. In base alla giurisprudenza in esame, tale discrezionalit -e dunque la relativa insindacabilit del giudice ordinario -trova un limite invalicabile nel dovere dell'Amministrazione di osservare nella costruzione e manutenzione di strade, non solo le disposizioni di legge e di regolamento ma anche le comuni regole di prudenza e di diligenza imposte dal principio fondamentale del neminem laedere. L'Amministrazione, pertanto, potr essere ritenuta responsabile per i danni derivati agli utenti della strada a causa dell'inosservanza degli obblighi sopra descritti, semprech da tale inosservanza derivi una situazione di pericolo occulto, con i caratteri sopra descritti. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 179 ragionevole affidamento sulla loro apparente regolarit, una situazione di pericolo occulto, in relazione al carattere obiettivo della non visibilit e a quello subiettivo della non prevedibilit (Cass. 17 gennaio 1996 n. 340). Si ancora meglio precisato che costituisce insidia stradale ogni situazione di pericolo che l'utente medio, usando la normale diligenza richiesta dalla particolare situazione in cui si trova, non pu subiettivamente prevedere; onde, al fine di escludere la responsabilit risarcitoria dell'ente che abbia la gestione della strada, necessaria la dimostrazione, da parte dell'ente stesso, che, nonostante lobiettiva esistenza dell'insidia, l'utente fosse soggettivamente in grado di prevederla e di evitarla. Il relativo apprezzamento da parte del giudice di merito incensurabile in sede di legittimit, se correttamente e adeguatamente motivato (Cass. 12 gennaio 1996 n. 191). Orbene, afferma la Corte d'appello che l'alveo del fiume, scorrente al lato della strada, oltre il ciglio esterno, era facilmente visibile da chi percorreva la Via Cicolana, di guisa che la possibilit di precipitare nel fiume era prevedibile anche da un utente di diligenza inferiore alla media. Resta in tal modo accertata, in punto di fatto, l'assenza di un qualsiasi pericolo occulto e quindi di un'insidia, come dianzi definita, per cui correttamente, e pertanto insindacabilmente, stata esclusa ogni responsabilit dell'ente proprietario e il duplice evento letale stato ascritto alla sola imprudenza o negligenza del conducente. La Suprema Corte pur richiamandosi ai consolidati principi compie tuttavia una importante precisazione l dove ritiene sussistente la responsabilit per danni derivanti a terzi dall'uso di una strada solo allorquando questa nasconda un pericolo non visibile e imprevedibile, cio una vera e propria insidia e non anche una mera pericolosit (sulla necessit della sussistenza congiunta dei due profili v. anche Cass. III, 11 agosto 1995 n. 8823, Cass. III, 25 giugno 1997 n. 5670 nonch nella giurisprudenza di merito Trib. Padova 5 dicembre 1984, in Giur. merito, 1985, 431). La precisazione appare rilevante ove si consideri che da alcune parti -in dottrina -si avanzata l'ipotesi che la c.d. insidia o trabocchetto possa rappresentare la principale ma non l'unica ipotesi di responsabilit dell'Amministrazione proprietaria di strade in quanto la limitazione operata dalla giurisprudenza in esame finirebbe col creare speciali immunit a favore della P.A. (COMPORTI, Presunzione di responsabilit e danni da manutenzione stradale in Riv. circolaz. e Trasp., 1988, 591; CHIN, in nota a Cass., III, 14 agosto 1991 n. 8840, in Giur. it. 1992, I, 249 e ss.) Le rigorose conclusioni della giurisprudenza, ribadite dalla Suprema Corte, tuttavia, rappresentano un equilibrato punto di arrivo tra la discrezionalit dell'Ammi-nistrazione, deputata alla gestione e manutenzione delle strade e la responsabilit oggettiva della stessa, in cui si finisce per cadere ogniqualvolta si ritiene di dover collegare alla colpa della P.A. qualsiasi situazione di pericolo comunque verificatasi nella circolazione di veicolo. La medesima giurisprudenza, pertanto, esclude l'applicabilit della responsabilit per danni cagionati da cose in custodia ex art. 2051 e.e. nei confronti della P.A. proprietaria di strade aperte al pubblico transito in quanto l'estensione di tali beni di portata tale da non consentire una vigilanza ed un controllo idonei ad evitare l'insorgenza di situazioni di pericolo. Infine, sulla insindacabilit in sede di legittimit della sussistenza dell'insidia, semprech l'accertamento condotto dal giudice di merito sia assistito da un'adeguata e logica motivazione: Cass, III, 7 gennaio 1980 n. 91, -Cass. III, 19 settembre 1986 n. 5677; Cass., III, 11agosto1995 n. 8823; Cass. III, 28 luglio 1997 n. 7062. P.P. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 180 Occorre meglio ribadire, in risposta alle obiezioni sollevate nel ricorso, che sono ininfluenti, -di per s soli, -sia la difettosa manutenzione della strada sia il mancato rispetto dei dettami della sicurezza (che nella specie avrebbero consigliato, ma non obbligatoriamente imposto, l'apposizione delle barriere protettive nei tratti stradali maggiormente esposti al rischio di fuoriuscita); che non rileva insomma una qualunque situazione di pericolo in s e per s, essendo necessario viceversa che tale pericolo si presenti altres come Occulto, ossia connotato a un tempo, come si gi accennato, dalla obiettiva non visibilit e dalla subiettiva imprevedibilit con l'ordinaria diligenza. Ne deriva che la stessa omissione delle barriere in tanto pu costituire in colpa l'ente proprietario in quanto concreti anch'essa un pericolo Occulto (ad esempio per la presenza, sul ciglio, di erba alta che nasconda la sottostante scarpata); circostanza, come gi detto, motivatamente esclusa dal giudice di merito (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 26 novembre 1997 n. 11860 -Pres. Borruso -Rei. Oll -P.M. Arena (diff.) -Ministeri Tesoro, Finanze e Grazia e Giustizia (avv. Stato de Figueiredo) c. Sinoia Steamship Inc. (avv. Crocetta). Responsabilit civile -Danni da attivit giudiziaria del giudice -Fattispecie Regime anteriore alla legge 13 aprile 1988 n. 117 -Applicabilit esclusiva degli artt. 55 e 74 cod. proc. civ. Nel regime anteriore all'entrata in vigore della legge 13 aprile 1988, n. 117, la materia della responsabilit diretta del giudice per i danni cagionati nell'esercizio di attivit giudiziaria (nella specie: strumentale alla conservazione d'un bene sottoposto a sequestro penale) era regolata dagli artt. 55 e 74 cod. proc. civ., rimanendo perci esclusa l'applicabilit della disciplina generale in tema di responsabilit civile dei dipendenti dello Stato (1). (omissis) 2. -Ora, la Sinoia Steamship non ha proposto ricorso incidentale avverso l'affermazione della Corte del merito, pregiudizievole nei suoi confronti, secondo cui nel regime anteriore alla L. n. 117 /1988 non confi (1) La vicenda presa in esame concerneva una nave assoggettata a sequestro penale con decreto del Procuratore della Repubblica e risultata, all'atto del dissequestro, irrimediabilmente inutilizzabile a causa della negligente custodia e della sua omessa , manutenzione. Nella motivazione viene posto l'accento sulla linea di sostanziale continuit dei 111 [: principi in materia risultante dalla legge n. 117/1988, cui ascritto proprio il merito di ~: aver adottato una formulazione letterale capace di risolvere ogni dubbio in ordine alla i:= I r diversa natura delle attivit del giudice (tutte inequivocabilmente ricondotte sotto la medesima disciplina). jlli . . ~ . I ~ 94'1'".'"'.Bfrmwa"m~,,:7m=====mA"'~'2;w.r%''".,,,?1Kr,..,::~,,~,~1<''*"' :r1~?=:Y.! ~~_,,,Wl816&,,lflltrllfl'..~6llll PARTE I, SEZ. III, GlURISPRUPENZA PI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 181 gurabile una responsabilit dello Stato per I'operato dei giudici, oltre i casi in cui sussistesse una responsabilit dei giudici stessi. Detta conclusione, pertanto,. divenuta definitiva. Si tratta, comunque, diunaaffermazione affatto corretta; ed in realt del tutto coerente al pressoch consolidato orientamento di questa Corte Suprema sul punto (v. Cass., 8 maggio 1992 n. 5493, 3 aprile 1979 n. 1916, 5 novembre 1975 n. 3719) che qui si ribadisce. 3d. -Dj contro, col primo motivo di annullamento le ricorrenti Amministraiioni dello Stato contestano l'affermazione della Corte territoriale secondo cui, per il regime positivo in vigore avanti la L. n. 117/1988, la limitazione della responsabilit civile dei magistrati (e, quindi, dello Stato) circoscritta alla loro attivit giurisdizionale, e non riguarda il loro esercizio di funzioni giudiziarie a contenuto essenzialmente amministrativo; con la. conseguenza, perci, che in ordine a questa attivit la disciplina della responsabilit civile dei magistrati trova la propria fonte normativa nelle norme dettate in tema di responsabilit dei dipendenti civili dello Stato, e non gi negli artt. 55 e 74 cod. proc. civ .. Col mezzo, le Amministrazioni ricorrenti denunciano, in primo luogo, l'apoditticit di siffatta ricostruzione del regime anteriore alla L. n. 117/1988. Indi, e soprattutto, che essa ricostruzione si risolve nella violazione e falsa applicazione degli artt. 55 e 74 cod. proc. civ., in quanto in queste norme non era prevista la possibilit di distinzione dell'attivit soggettivamente giurisdizionale (in quanto esercitata nella qualit e funzione di giudice e, quindi, da un magistrato non quale responsabile di un ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia, ma quale giudice) tra attivit oggettivamente giurisdizionali e attivit oggettivamente amministrative. 3.2. -In relazione alla questione proposta col motivo, l'esegesi degli artt. 55 e 74 cod. proc. civ. rende certo che la disciplina dettata in queste norme attiene, in generale, a tutta indistintamente la attivit giudiziaria del magistrato (giudice o Pubblico ministero) e non soltanto alle sue attivit giurisdizionali1>. Quindi, regolamenta non soltanto l'attivit connessa all'esercizio di attribuzioni decisorie, ma qualunque attivit svolta dal magistrato nel campo giudiziario, a prescindere dalla natura delle funzioni esercitate (giudicante, inquirente, requirente) o dell'attivit concretamente svolta nell'esercizio di tali funzioni: ossia, tanto giurisdizionale di cognizione od esecutiva, quanto di volontaria giurisdizione o, addirittura, amministrativa, quale, ad esempio, quella del giudice delegato alle procedure concorsuali relativa alla direzione ed al controllo dello sviluppo dei procedimenti e, talora, anche alla loro gestione attiva. La conclusione imposta, innanzitutto, dal dato testuale. In particola- re: dal rilievo che nel dettato degli artt. 55 e 74 cod. proc. civ. da un canto, RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 182 non si individua alcun elemento che conforti, quanto meno indirettamente, la lettura proposta dalla Corte del merito; dalla assoluta genericit dei precetti e dal loro riferirsi, in modo onnicomprensivo ed indistinto, al giudice ed ai magistrati del Pubblico Ministero senza alcuna limitazione, il che depone in modo inequivoco per l'estensibilit del regime a tutta la loro attivit; infine, e soprattutto, dall'espressa estensione dell'ipotesi di cui al comma 1 n. 2 dell'art. 55 cod. proc. civ., agli atti ricompresi in generale nel ministero del giudice. Inoltre, dalla considerazione che le ragioni che impongono una limitazione positiva della responsabilit civile del magistrato non ineriscono esclusivamente all'esercizio della funzione ontologicamente giurisdizionale, ma si attagliano, in generale, all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Infine, dalla difficolt di scindere, nell'ambito di taluna delle attivit devolute al ministero di un giudice, quella giurisdizionale e quella priva del requisito minimo di giurisdizionalit, in senso oggettivo; nonch, in ogni caso, di enucleare un criterio atto ad individuare concretamente queste ipotesi, specie allorquando, come nel caso del sequestro per il processo penale con la nomina del custode, il magistrato ha compiti, non gi attivi di amministrazione e di conservazione del bene (che ricadono invece sul custode) ma solo (e diversamente da quanto sembra ritenere la Corte del merito) di integrazione dei poteri del custode. Del resto, in tale senso l'orientamento affatto consolidato di questa Corte Suprema espresso, oltre che nelle gi richiamate sentenze n. 5493/1992, 3719/1975, e 1916/1979, anche nella sentenza 24 marzo 1982 n. 1879, valorizzata dalla controricorrente a sostegno della costruzione seguita dal giudice del merito. Per vero, in questo arresto stato affermato il principio (disatteso, peraltro, come s' detto, dall'orientaillento prevalente) che a mente dell'art. 28 Cost., l'inconfigurabilit della responsabilit civile diretta del magistrato non limita la responsabilit civile dello Stato per i danni conseguenti ad attivit colposa posta in essere da quel magistrato nell'esercizio di una attivit amministrativa nel senso ipotizzato dalla Corte di Genova: dunque, stato affermato, indirettamente, che anche siffatta attivit rimane assoggettata alla disciplina di cui agli artt. 55 e 74 cod. proc. civ., ma che ci irrilevante nei confronti dello Stato, non essendovi coincidenza, riguardo ai limiti, fra la responsabilit del funzionario e quella dello Stato per il quale egli agisce. A definitivo conforto depone l'evoluzione storica, sul punto, della disciplina positiva in tema di responsabilit diretta del giudice. In particolare, la constatazione che, proprio in funzione delle pregresse considerazioni, la L. n. 117 del 1988 ha adottato una formulazione tesa a fugare ogni possibile dubbio sulla vigenza del principio secondo cui la disciplina particolare sulla responsabilit civile dei magistrati e dello Stato in connessione all'esercizio delle funzioni giudiziarie da essa dettata, non limitata all'attivit PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 183 ontologicamente giurisdizionale dei magistrati ma riguarda indistintamente tutta la loro attivit giudiziaria, qualunque ne sia la natura. Non diversamente, infatti, si pu concludere una volta che secondo le espresse previsioni della legge: le sue disposizioni devono trovare applicazione nei confronti dei magistrati che esercitano l'attivit giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni (art. 1 c. 1); le stesse disposizioni riguardano il danno ingiusto conseguente ad un comportamento, un atto o un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia (art. 2 c. 2), diniego di giustizia che costituito dal rifiuto, omissione o ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio (art. 3 c. 1); nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, non pu dar luogo a responsabilit l'attivit di interpretazione di norme di diritto, n quella di valutazione del fatto e delle prove. 3.3. -Quindi, sotto il regime anteriore all'entrata: n vigore della L. n. 117/1988, anche la materia della responsabilit diretta dl giudice per i danni cagionati dai suoi comportamenti nell'ambito della sua attivit strumentale alla conservazione ed alla manutenzione di un bene sequestrato per il procedimento penale, rimane assoggettata alla disciplina di cui agli artt. 55 e 74 cod. proc. civ .. Vale a dire che, in forza di quel regime, per un verso, in tanto configurabile una responsabilit diretta di quel giudice nei confronti del danneggiato, solo in quanto sussistano i presupposti previsti nelle dette norme; e, per altro verso, rimane esclusa in modo radicale la applicabilit della disciplina generale in tema di responsabilit civile dei dipendenti civili dello Stato. (omissis) CORTE DI APPELLO DI NAPOLI, 9 gennaio 1997, n. 1 -Pres. Cioffi -Est. Forte -Presidenza del Consiglio dei ministri -Funzionario delegato C.I.P.E. c. Consorzio Edifer. Procedimento arbitrale -Domande nuove -Mancata fissazione di un nuovo termine per deposito di memorie e documenti in relazione ai nuovi quesiti -Violazione del principio del contraddittorio -Sussistenza. Le domande nuove proposte in corso di giudizio arbitrale sono ammissibili purch sia rispettato il principio del contraddittorio: quest'ultimo deve ritenersi violato con conseguente nullit del lodo, ai sensi dell'art. 829, 1 o., n. 9 c.p.c., allorch in relazione alle domande nuove proposte da una delle parti con rifiuto di accettare il contraddittorio da parte dell'altra, il Collegio Arbitrale le RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 184 abbia accolte senza fissare nuovi termini per il deposito di memorie e documenti e per le successive repliche, ai sensi dell'art. 816, 4 co. c.p.c. (1). (omissis) 3. Con il secondo motivo di impugnazione viene lamentata la violazione del principio del contraddittorio da parte del collegio arbitrale, in contrasto con l'art. 829 n. 9 c.p.c. per avere ammesso quesiti nuovi del Consorzio Edifar senza concedere un ulteriore congruo termine al CIPE per proporre eventuali controquesiti e depositare propria documentazione; il motivo fondato e da accogliere. (1) Domande nuove e rispetto del principio del contraddittorio nell'arbitrato rituale. La Corte di Appello di Napoli con la sentenza in parola ha esaminato e deciso un caso rientrante nell'ambito della problematica nascente dal rapporto tra proposizione di domande nuove in corso di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio. La Corte di Appello, nel ribadire che nel giudizio arbitrale, diversamente da quello civile, la proposizione delle nuove domande sempre possibile (a meno che la clausola compromissoria ovvero altro atto antecedente al giudizio arbitrale non richiamino la pedissequa applicazione delle norme del codice di rito civile) purch non venga violato il principio del contraddittorio, ha approfondito una fattispecie nella quale quest'ultimo appariva solo formalmente rispettato. Al riguardo, al fine di evidenziare la portata innovativa della pronuncia, opportuno precisare che il rispetto di tale principio stato interpretato in modo non univoco dalla giurisprudenza, anche in considerazione della libert che caratterizza il procedimento arbitrale. Alcune decisioni meno recenti, risalenti nella vigenza delle norme del codice di rito anteriore alla Novella del 5 gennaio 1994 n. 25, hanno affermato, senza riferimento alle domande nuove, che non sussiste violazione del principio del contraddittorio allorch gli arbitri abbiano concesso alle parti uno spazio temporale minimo per la illustrazione delle proprie difese e delle repliche a quelle avversarie, anche se non stato concesso un formale termine a difesa (cfr. Corte di Cassazione 18 marzo 1981 n. 1595) purch con altre modalit essi abbiano messo le parti in condizione di presentare osservazioni o di fare richieste (cfr. Corte di Cassazione 11 gennaio 1988 n. 64). La ratio sottesa a queste pronunce che il rispetto del principio del contraddittorio sia assicurato attraverso una applicazione non rigorosa dell'art. 816, 3 comma. (ora 4 comma.) c.p.c., riducendosi il principio in parola alla osservanza della regola audiatur et al.tera pars, per cui sarebbe sufficiente che cia~cuna parte sia messa in condizione di poter svolgere le proprie difese e di potere replicare perch possa dirsi assicurato il diritto di difesa. Tale concezione deve ritenersi messa in crisi dalla entrata .in vigore della legge 5 gennaio 1994 n. 25 Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell'arbitrato internazionale, che ha esplicitamente posto l'osservanza del principio del contraddittorio come regola centrale del procedimento arbitrale, la cui violazione costituisce motivo aggiunto di nullit del lodo (art. 829, 1 comma, n. 9 c.p.c.), mentre anteriormente la osservanza del principio in parola era desunto dal citato art. 816, 3 (ora 4) comma c.p.c. La Corte di Cassazione, in evidente sintonia con la intervenuta Novella, con la sentenzadel 22 gennaio 1996 n. 464 ha affermato che si ha violazione del principio del contraddittorio non solo quando gli arbitri decidano immediatamente dopo la chiusura dell'istruzione, senza dare alle parti la possibilit di illustrare le proprie ragioni, ma anche quando, concessa a una parte la facolt di depositare memorie e documenti, non sia data comunicazione all'altra parte dell'avvenuto deposito, n sia assegnato alla stessa un congruo termine per eventuali osservazioni, essendo necessario che sia garantita non solo un'adeguata attivit difensiva, ma anche parit delle armi tra le parti, in modo che esse possano esercitare su un piano di uguaglianza le facolt processuali concesse dagli arbitri (nella specie, per una delle parti il termine di dieci giorni per il deposito di memorie e integrazione della documenta;zione si era ridotto a soli quattro giorni PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 185 3.1. Appare anzitutto evidente la novit dei quesiti posti dal Consorzio con la prima memoria depositata entro il 31 marzo 1995, dopo l'atto di accesso notificato il 3 giugno 1994 ed entro il termine concesso al Cogefar perch ... eventualmente precisi i propri quesiti e al funzionario CIPE perch formuli eventuali controquesiti e ad ambedue, per il deposito della loro prima memoria con documenti. Era poi concesso alle parti un altro termine per la replica sulle predette memorie fino al 14 aprile 1995. In effetti, gli arbitri stessi chiariscono, alla pag. 3 del lodo, che con la prima memoria depositata entro il 31 tnarzo il Consorzio produceva un allargamento del thema decidendum attraverso la formulazione di quesiti sostanzialmente nuovi, ritenendo poi giustamente inapplicabile nel caso il divieto di mutatio libelli proprio del giudizio civile; peraltro la questione dell'ammissibilit dei quesiti nuovi esattamente risolta in senso positivo non esclude assolutamente l'evidente incongruit del termine di 15 giorni gi con- a seguito della comunicazione per posta del provvedimento di assegnazione del termine). Trovasi in tal modo affermata l'esigenza di una congruit del termine a difesa allo scopo di rendere l'attivit difensiva di ciascuna parte effettiva e paritetica. Tale principio ha ricevuto concreta applicazione ed ulteriore sviluppo ad opera della Corte di Appello di Napoli con riferimento ai quesiti nuovi proposti nel corso di un procedimento arbitrale da un consorzio di imprese, concessionario di opere pubbliche della ricostruzione di cui alla legge n. 219/81. In particolare, il Consorzio, dopo avere formulato i quesiti nell'atto di accesso ad arbitri, aveva poi aggiunto ulteriori e nuove domande in sede di prima memoria, destinata, invece, (secondo quanto fissato inizialmente dagli arbitri) alla mera precisazione dei quesiti e deposito documenti perla parte istante (e per controquesiti e documenti per l'Amministrazione), mentre era gi stato prestabilito un successivo termine per il deposito di memorie di replica con scadenza dopo quindici giorni. L'Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio per il Funzionario delegato del C.l.P.E., controdeduceva sugli originari quesiti, mentre rifiutava di accettare il contraddittorio su quelli nuovi. Con il lodo sottoscritto il 5/6/1995 gli arbitri accoglievano le nuove domande sostenendo che il principio del contraddittorio doveva ritenersi rispettato per il fatto che comunque la difesa dell'Amministrazione aveva avuto la facolt, ancorch non esercitata, di controdedurre e documentare adeguatamente nel merito. Tale tesi non stata ritenuta fondata dalla Corte di Appello di Napoli, che ha accolto la impugnazione interposta dalla Amministrazione, annullando il lodo per mancata osservanza del principio del contraddittorio. La Corte ha sostenuto la incongruit del termine di 15 giorni per replicare ai nuovi quesiti, essendo stato tale termine fissato in funzione degli originari quesiti e, inoltre, al di l del dato strettamente cronologico, ha rilevato che il comportamento degli arbitri si risolto in un trattamento non paritetico delle parti, essendosi consentito in sostanza con tale comportamento ad una sola delle parti di presentare nuovi quesiti, mentre l'altra ha potuto solo proporre controquesiti relativi e connessi a quelli originariamente proposti e non a quelli nuovi, potendo solo replicare alle nuove prospettazioni dell'altra parte In conclusione, ha affermato la Corte di Appello, gli arbitri sono incorsi nella violazione dell'art. 816, 4 comma c.p.c. per non avere assegnato al C.l.P.E. congruo termine per presentare documenti e memorie relativamente ai nuovi quesiti e altro termine ad entrambe le parti per le loro repliche. Da ci sembra lecito desumere che il rispetto del contraddittorio debba comportare che allorch una parte, in corso di procedimento arbitrale, proponga nuove domande senza che siffatta possibilit sia stata prevista e disciplinata ex ante dagli arbitri, in sede di regolazione dello svolgimento del giudizio , il collegio arbitrale debba riformulare il calendario dei termini per il deposito delle memorie e delle repliche allo RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 186 cesso per la replica sulla precisazione dei quesiti originari al fine di consentire una difesa al CIPE paritetica con quella fruita dalla controparte. Invero i quesiti proposti con la prima memoria sono nuovi sia per la causa petendi che per ilpetitum; la causa della richiesta d'arbitrato con l'atto di accesso l'interpretazione dell'originaria convenzione del 1981 e della disciplina in questa contenuta delle anticipazioni e della revisione prezzi mentre i nuovi quesiti sorgono dall'esecuzione dell'atto aggiuntivo del 1985, relativo all'integrazione delle anticipazioni e ai ritardi della stessa. All'origine si chiedeva la restituzione di una somma indebitamente trattenuta e gli interessi su questa e successivamente il Consorzio ha invece richiesto interessi su somme pagate oltre i termini fissati con l'accordo del 1985 da interpetrare al fine di chiarire il dies a quo del decorso degli interessi. 3.2. evidente quindi anzitutto, sul piano logico, che, in ordine ai quesiti originari, gli arbitri hanno ritenuto necessario un termine di ulteriori 15 giorni, da aggiungere ai gi decorsi oltre nove mesi dalla notifica dell'atto di accesso, per consentire una idonea difesa al concedente, cui stato dato lo stesso termine per la proposizione dei controquesiti, mentre per i nuovi quesiti stato dato un termine di 15 giorni soltanto, reputato congruo ai fini della mera replica e non per la proposizione di controquesiti ulteriori. Gi questa circostanza evidenzia il trattamento non paritetico delle parti nel giudizio arbitrale, essendosi consentito in sostanza con tale comportamento ad una sola delle due parti di presentare quesiti nuovi, mentre l'altra ha potuto solo proporre controquesiti relativi e connessi a quelli originariamente proposti e non a quelli nuovi, potendo solo replicare alle nuove prospettazioni dell'altra parte. Quindi gli arbitri, nonostante il loro dovere, sancito nella clausola, di osservare le norme del codice di procedura civile sull'arbitrato, hanno sicuramente disatteso nel caso l'art. 816, 4 co. c.p.c., per non avere assegnato al CIPE congruo termine per presentare documenti e memorie relativariente ai nuovi quesiti proposti per la prima volta nel corso del procedimento ed altro termine ad entrambe le parti per le loro repliche. Deve in sostanza ritenersi violato il principio del contraddittorio, perch a seguito della proposizione dei nuovi quesiti non costituenti mera precisazione di quelli originariamente contenuti nell'atto di accesso, giustamente ritenuta ammissibile, non stato assegnato congruo termine a difesa del CIPE, cosi come correttamente era stato fatto dagli arbitri con la prima ordinanza relativa ai quesiti proposti nell'atto di accesso al giudizio arbitrale. La affermata violazione del principio del contraddittorio comporta la nullit del lodo e l'accoglimento per tale profilo dell'impugnazione (omissis). scopo di ristabilire una pariteticit delle posizioni difensive delle parti. Al riguardo, andr valorizzata dagli arbitri la norma di cui all'art. 816 c.p.c. che attribuisce loro la facolt di fissare le regole del procedimento, regolando i termini per le parti in relazione anche alla eventualit di nuove domande, assicurando un sicuro e corretto svolgimento del giudizio arbitrale. GIUSEPPE ARPAIA SEZIONE QUARTA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 22 gennaio 1997 n. 3 -Pres. Laschena Est. Baccarini -Proweditorato agli Studi di Palermo (aw. Stato Arena E.) c. Trinca Cosimo (aw. S. Sangiorgi Paratore) Giustizia amministrativa -Ricorso per revocazione -Ammissibilit Condizioni (Cod. proc. civ., art. 395) Rilevato che, nel caso di omessa pronuncia, errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non sono in relazione di altemativit, ma il primo possibile fonte della seconda, l'omissione di pronuncia, su domande o eccezioni delle parti, pu ben costituire un errore di fatto revocatorio. L'errore di fatto revocatorio, dunque, pu essere configurabile anche quando cada sull'esistenza o sul contenuto di atti processuali e determini una omissione di pronuncia, purch esso sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza (1). (omissis) 1. -Dopo che con la decisione n. 3 del 1996 il ricorso in revocazione stato dichiarato ricevibile, occorre ora esaminarlo nel merito. Con un unico motivo il Prowe:litorato agli studi di Palermo deduce che la sentenza impugnata viziata da errore di fatto per essersi pronunciata in merito al terzo motivo del ricorso di primo grado, riproposto dall'appellante, accogliendolo, senza awedersi che il Proweditorato medesimo ne aveva eccepito l'inammissibilit in quanto riproposto senza alcuna censura nei confronti del capo della sentenza del TAR che lo aveva dichiarato inammissibile. Il ricorso ammissibile e fondato. (1) L'Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ha ricondotto all'errore di fatto, motivo di ricorso per revocazione, anche un errore che aveva comportato una violazione del principio di necessaria corrispondenza fra le domande e la decisione. L'errore di fatto, quindi, pu ricadere direttamente sugli atti o documenti di giudizio e costituisce una di~ergenza tra la pronuncia e la realt costituita dagli atti di causa. Si rileva al riguardo che la giurisprudenza amministrativa prevalente era, prima di tale decisione, orientata diversamente. Infatti, si riteneva che l'omessa pronuncia su una domanda o una eccezione della parte, poich si configurava come un errore di diritto, non poteva considerarsi come il frutto di un errore di fatto, e perci non poteva essere un motivo di un ricorso per revocazione: cfr., ad esempio, Ccins. Stato, sez. VI, 12 marzo 1993 n. 243, in Foro it. 1994, III, pag. 44. G.M. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 2.1. -Dalla documentazione relativa al giudizio di appello, acquisita in seguito all'istruttoria espletata, risulta che nella memoria depositata il 1 marzo 1994 il Provveditorato agli studi di Palermo aveva eccepito l'inammissibilit del motivo d'appello per genericit, in quanto proposto senza censura alcuna contro la dichiarazione di parziale inammissibilit del ricorso contenuta nella sentenza del TAR (p. 7). La sentenza d'appello impugnata ha esaminato il motivo nel merito senza pronunciare sulla eccezione d'inammissibilit proposta dall'amministrazione resistente. La questione da risolvere se l'omissione di pronuncia -su domande o eccezioni delle parti -possa costituire un errore di fatto revocatorio. 2.2. -Secondo le acquisizioni dell'orientamento prevalente nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione non costituisce un errore di fatto, ma tipico errore di diritto, per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (sez. V, 26 maggio 1990 n. 476; sez. VI; 10 maggio 1990 n. 518; sez. V, 8 febbraio 1988 n. 56, sez. VI, 21 luglio 1989 n. 904; 31 gennaio 1986 n. 81; 9 febbraio 1983 n. 71; sez. IV, 29 luglio 1980 n. 790; 24 giugno 1980 n. 686; 7 giugno 1977 n. 563; sez. VI, 30 ottobre 1973 n. 432; 15 giugno 1973 n. 278). Un manipolo di decisioni, per contro, esaminando fattispecie articolate, ha avvertito che l'omissione di pronuncia determinata da erronea percezione di atti processuali costituisce errore di fatto revocatorio: a) sez. IV, 7 luglio 1965 n. 525, secondo cui il mancato esame, dovuto a svista, di uno dei motivi del ricorso rilevante ai Eni del decidere; pertanto, il fondamento della relativa censura deve essere vagliato in sede di giudizio di revocazione; b) sez. V, 20 febbraio 1984 n. 138, che ha ricondotto l'esclusione dell'errore revocatorio alla mancanza nel caso di specie dell'erronea percezione di atti processuali; c) sez. V, 5 febbraio 1985 n. 66, secondo cui Se vero che l'omissione di pronuncia non costituisce di per s errore di fatto revocatorio, vero altres che quest'ultimo, che pu essere attinente anche ad atti processuali, motivo di revocazione anche se abbia determinato un'omissione di pronuncia; d) C.G.A., 25 febbraio 1994 n. 54, secondo cui, sull'assunto che l'omissione di pronuncia determinata non dall'ignoranza o dalla dolosa violazione dell'art. 112 c.p.c., ma dalla disattenzione, l'omesso esame di un motivo di ricorso pu dar ingresso al giudizio di revocazione della sentenza, in quanto costituisce errore di fatto di tipo revocatorio e non gi errore di diritto attinente al difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 2.3. -Analoghi percor~i argomentativi si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di cassazione.. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Secondo l'orientamento prevalente, il vizio di omessa pronuncia, in quanto pretesamente incidente sulla sentenza pronunziata dal giudice del gravame, passibile di denunzia esclusivamente col ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c., e non gi con impugnazione per revocazione ai sensi dell'art. 394 n. 4 (stesso codice) (cfr. Cass., 14 gennaio 1992 n. 369; 24 giugno 1968 n. 2119; 28 giugno 1966 n. 1675; 4 gennaio 1966 n. 48). Peraltro, gi la risalente Cass., 5 marzo 1982 n. 1390 aveva avvertito che nella nozione cli errore di fatto, previsto quale motivo di revocazione dall'art. 395 n. 4 c.p.c., va compreso non soltanto l'errore relativo ad un elemento facente parte del sostrato materiale della fattispecie di diritto sostanziale oggetto della controversia, ma altres, per identit di ratio, l'errore riguardante un elemento del sostrato materiale della fattispecie formale attinente al processo, e quindi anche quello che cada sul dettato letterale della domanda, univoco ed assolutamente incontestato. In questa prospettiva, si inscrivono: a) Cass., 4 giugno 1992 n. 6876, secondo cui ai fini della valutazione della sussistenza o meno del vizio cli omessa pronuncia, in sede di ricorso per revocazione cli sentenza della Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., come emendato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 36 del 1991, deve aversi riguardo al Capo della domanda riproposta all'esame del giudice dell'impugnazione, escludendosi il vizio suddetto quante volte la pronunzia su cli esso vi sia effettivamente stata, sia pure con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi cli censura dell'unico capo cli sentenza investito dall'impugnazione stessa; b) Cass., 30 marzo 1994 n. 3137, secondo cui l'omesso esame di atti difensivi della parte, nei cui confronti si sia regolarmente instaurato il contraddittorio, riconducibile nell'errore di fatto, denunciabile con l'impugnazione per revocazione, ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., soltanto quando si traduca in omissione di pronuncia su domande ed eccezioni della parte medesima, ovvero rispetto ad atti che non contengano o non siano idonei a contenere tali domande od eccezioni, quando si deduca che detto mancato esame abbia comportato una svista percettiva del giudice, evitabile mediante la lettura di quegli scritti, in ordine all'esistenza od inesistenza di una circostanza fattuale di natura decisiva. 2.4. In effetti, anche se non si ritenga di accedere all'autorevole opinione dottrinale secondo cui l'errore di fatto altro non che un errore di percezione degli atti o documenti di causa considerati nella loro materialit, non par dubbio che l'errore di fatto revocatorio possa cadere su atti o documenti processuali. Ci posto, l'ovvia constatazione che l'omissione di pronuncia su domande o eccezioni delle parti costituisce, di per s, violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c., o comunque difetto di motivazione, non elimina la rilevanza del processo causale che RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 190 ha determinato l'evento omissivo e non esclude che l'omissione di pronuncia possa esser fatta valere non ex se, ma come risultato di un vizio nella formazione del giudizio: il dolo del giudice o, come nella specie, lerrore di fatto revocatorio. Nel caso di omessa pronuncia, infatti, errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non sono in relazione di alternativit, ma il primo possibile fonte della seconda. La violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato pu dipendere da errore di fatto revocatorio o da altra causa. Come non esatto che, giusta l'orientamento finora prevalso, l'omissione di pronuncia non possa mai essere il risultato di un errore di fatto, cos non esatto che, secondo C.G.A., 25 febbraio 1994 n. 54, cit., l'omissione di pronuncia, inattendibile essendo l'ipotesi che il giudice ignori il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, costituisca sempre errore di fatto, salvi i casi di dolo. In verit, l'omessa pronuncia pu essere determinata non necessariamente da una improbabile ignoranza da parte del giudice del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ma da un pi verosimile difetto di motivazione della sentenza, nei casi in cui le domande o eccezioni siano state volutamente disattese, ma ne sia mancata l'enunciazione delle ragioni. Emerge in tal modo la diade: difetto di motivazione -errore di fatto revocatorio. Ai sensi dell'art. 395 n. 4) c.p.c., infatti, sussiste errore di fatto quando supposto un fatto la cui verit incontrastabilmente esclusa ovvero l'inesistenza di un fatto la cui verit positivamente stabilita: tale supposizione, per, perch l'errore possa essere riconosciuto con sicurezza, non pu essere implicita, ma deve essere espressa. L'errore di fatto, insomma, consiste in una divergenza tra la realt processuale e ci che risulta espressamente dalla sentenza. La motivazione il criterio formale di emersione dell'errore di fatto ed il crinale che separa errore di fatto e difetto di motivazione: come stato detto efficacemente, un abbaglio dei sensi incompatibile con l'omissione di motivazione, perch la motivazione che rivela l'abbaglio (Ad. plen., 30 luglio 1980 n. 36). L'errore di fatto revocatorio, dunque, pu essere configurabile anche quando cada sull'esistenza o sul contenuto di atti processuali e determini un'omissione di pronuncia, purch esso sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza. 2.5. -Applicando i suesposti principi di diritto al caso di specie, dalle risultanze processuali emerge che la sentenza impugnata: a) ha esaminato nel merito -ed accolto -il terzo motivo d'appello, di cui l'Amministrazione resistente aveva eccepito l'inammissibilit, senza motivare sull'eccezione; PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA b) nella parte in fatto della motivazione (cfr. p. 5 della sentenza), strutturata in maniera analitica, ha ricordato come difese dell'Amministrazione la memoria del 29 giugno 1990 e le difese orali dell'udienza del 16 marzo 1994, omettendo qualsiasi richiamo alla memoria del 1 marzo 1994, nella quale, per l'appunto, l'Amministrazione medesima aveva eccepito per la prima volta l'inammissibilit del motivo d'appello. Dal contenuto in fatto e in diritto della motivazione emerge con evidenza che la sentenza impugnata ha pretermesso l'eccezione di inammissibilit del terzo motivo d'appello in quanto ha supposto espressamente l'inesistenza di difese scritte ulteriori rispetto alla memoria del 29 giugno 1990 e, dunque, della memoria del 1 marzo 1994, nella quale quella eccezione era stata formulata. 2.6. -Non vi dubbio che tale errore di fatto abbia carattere decisorio, in quanto la sentenza di accoglimento dell'appello si fondava esclusivamente sul motivo la cui ammissibilit era stata eccepita ed andava quindi accertata. 2.7. - poi appena il caso di avvertire che l'esistenza della memoria dell'Amministrazione del 1 marzo 1994 non un punto controverso su cui la sentenza abbia pronunciato. 2.8. -Per le suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e va pronunciata la revocazione della sentenza impugnata. Con separata ordinanza si provvede sulla domanda incidentale di sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata. 3.1. -Occorre poi passare, nella fase rescissoria del procedimento, all'esame dell'appello del sig. Trinca contro la sentenza del TAR della Sicilia -sez. I, 30 dicembre 1990 n. 930. 3.2. -Con il terzo motivo, che conviene esaminare con priorit, l'appellante deduce l'illegittimit costituzionale dell'art. 2 comma 3 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, ora abrogato, che prescriveva il requisito della buona condotta per l'accesso al pubblico impiego. L'Amministrazione ha eccepito l'inammissibilit del motivo per generi cit, essendo stato lo stesso riproposto in appello senza alcuna censura nei confronti del capo della sentenza di primo grado che lo aveva dichiarato inammissibile per omessa impugnazione dell'O.M. 2 aprile 1976. L'eccezione fondata. La questione se la riproposizione in appello dei motivi di primo grado sia sufficiente a soddisfare l'onere di specificazione dei motivi d'appello stata, in termini generali, risolta affermativamente dalle decisioni di questa Adunanza plenaria 20 maggio 1980 n. 18 e 21ottobre1980 n. 37, sul rilievo che i motivi d'appello operano quali strumenti di determinazione del RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO quantum appellatum, in vista di che altro non occorre, al fini dell'ammissibilit dell'appello, se non la riesposizione delle ragioni fatte valere in primo grado. Qualora, peraltro, venga appellata una pronuncia di inammissibilit del giudice di primo grado, che accerta cause di inesistenza o di irregolarit di un presupposto processuale, la mera riproposizione dei motivi di primo grado senza specifiche censure alla autonoma pronuncia di inammissibilit non costituisce impugnazione della parte della sentenza in questione e non impedisce la formazione del giudicato sul punto. Nello stesso senso la pi avvertita giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha segnalato l'inammissibilit dei motivi d'impugnazione non specifici nei casi di ricorso per cassazione contro pronuncia d'inammissibilit, per difetto di specificit, di motivo d'appello (Cass., 9 marzo 1995 n. 2749) e di appello contro sentenza di primo grado che, disattendendo l'eccezione della parte, ha dichiarato la giurisdizione del giudice adito (Cass., 24 novembre 1992 n. 12518) ovvero ha dichiarato la domanda improponibile in presenza di un compromesso per arbitrato irrituale (Cass., 24 luglio 1986 n. 4737) ovvero ha dichiarato inammissibile una domanda nuova (Cass., 5 aprile 1984 n. 2219). 3.3. -Per completezza, va comunque avvertito, nel merito, che la Corte costituzionale, nel pronunciarsi su singole disposizioni di legge attinenti al requisito della buona condotta, ha affermato che il requisito della buona condotta non pu essere giudicato in se stesso lesivo di quei principi di ragionevolezza ai quali ogni ordinamento tenuto ad ispirarsi (sent. n. 440 del 1993) e che pu bens ammettersi la previsione di requisiti attitudinali o di affidabilit, per il corretto svolgimento della funzione o dell'attivit, desunti da condotte del soggetto interessato e che siano oggetto di imparziale accertamento e di ragionevole valutazione da parte dell'Amministrazione, salvo il sindacato giurisdizionale (sent. n. 311 del 1996). 4. -Con il primo motivo l'appellante censura l'impugnato provvedimento di annullamento d'ufficio dell'incarico di bidello conferitogli, per aver disposto con efficacia retroattiva. Il motivo infondato. La retroattivit del provvedimento impugnato non censurabile n di per s, in quanto inerisce alla natura dell'annullamento per vizi di legittimit, n in relazione al giudicato di annullamento cui il provvedimento medesimo era conseguente, giacch il contenuto oggettivo del giudicato di annullamento consiste soltanto nel divieto di riprodurre il vizio -nella specie, difetto di motivazione -accertato nel provvedimento dichiarato illegittimo. 5. _ Con il secondo motivo l'appellante lamenta che il provvedimento impugnato fosse viziato da intento persecutorio, in quanto le mende a lui PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA attribuite erano estranee al rapporto di servizio ed era illogico fargli carico di intenti fraudolenti per aver presentato un certificato civile del casellario giudiziale in luogo di quello penale, quando la circostanza era sfuggita all'Amministrazione medesima. Il motivo infondato. Il provvedimento impugnato era un annullamento d'ufficio dell'atto di conferimento dell'incarico di bidello per assenza del requisito della buona condotta. Come provvedimento di annullamento, dunque di riesame, esso aveva ad oggetto il provvedimento annullato, irrilevante restando, se non per quanto riguarda la valutazione dell'interesse pubblico all'annullamento, il rapporto originato dall'atto. Quanto al resto, il provvedimento era fondato sul fatto oggettivo della mancanza del requisito della buona condotta, mentre l'apprezzamento del comportamento dell'interessato rilevava soltanto ai fini della valutazione dell'interesse pubblico. Sotto quest'ultimo profilo, comunque, non costituisce eccesso di potere che l'Amministrazione, ai fini dell'apprezzamento della personalit complessiva del Trinca e del correlato interesse pubblico all'annullamento, pur prendendo atto dell'assoluzione del medesimo dall'imputazione di truffa, abbia valutato il suo comportamento, consistito nell'aver presentato ai fin del conferimento dell'incarico -lui che, avendo riportato plurime condanne penali e l'applicazione di misure di prevenzione, aveva interesse ad occultare tali fatti -un certificato civile del casellario giudiziale in luogo del prescritto certificato penale: comportamento la cui valutabilit non evidentemente esclusa per il fatto che l'Amministrazione non si sia avveduta della produzione di aliud pro alio o, pi propriamente, che gli operatori pubblici che ne avevano l'obbligo non abbiano verificato il documento presentato. 6. -Per le suesposte considerazioni, l'appello va respinto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 4 febbraio 1997 n. 5 -Pres. Laschena -Est. Salvatore C. -Cacaci (avv. D'Ottavi) c. Regione Marche (avv. Coen) Atto amministrativo -Accesso ai documenti -Diritto -Prevalenza Riservatezza dei terzi -Rapporti (Legge 7 agosto 1990 n. 241) L'interesse alla riservatezza, tutelato dalla normativa vigente mediante una limitazione del diritto di accesso di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241, recede quando l'accesso stesso sia esercitato per la difesa di un interesse RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 194 giuridico, nei limiti ovviamente in cui esso necessario alla difesa di quell'interesse (1). (omissis) 1. -La legge 7 agosto 1990 n. 241, nel disciplinare i rapporti fra cittadino e Pubblica amministrazione, delinea un ordinamento ispirato, da un lato, all'esigenza di un'azione amministrativa celere ed efficiente (art. 1), e dall'altro, ai principi di partecipazione dell'amministrato e di conoscibilit del concreto svolgimento della funzione pubblica. Ci, al fine di assicurare, attraverso la salvaguardia del valore della trasparenza, l'efficienza dell'Amministrazione e, al contempo, la garanzia del privato e la legalit dell'ordinamento nel suo insieme. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi , infatti, riconosciuto (art. 22 della legge n. 241) al fine di assicurare la trasparenza dell'attivit amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale. Il diritto di conoscibilit degli atti e documenti amministrativi, inquadrati nel contesto pi generale delle disposizioni contenute nella legge n. 241 -le quali delineano istituti (diritto di accesso, moduli di amministrazione per accordi, partecipazione procedimentale) e modalit dell'azione e dell'organizzazione amministrative (motivazione, certezza dei tempi e responsabile del procedimento, predeterminazione dei criteri per ausili economici) preordinate alla configurazione di un nuovo modello di organizzazione amministrativa e di rapporti di questa con il cittadino -mira ad assicurare la circolazione delle informazioni tra Pubbliche amministrazioni e, soprattutto, tra Amministrazione e cittadino. Il riconoscimento legislativo nel nostro ordinamento del principio di pubblicit dei documenti amministrativi segna un totale cambiamento di prospettiva, perch comporta che se finora il segreto era la regola e la pubblicit leccezione, ora vero il contrario. (1) L'Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ha espressamente affermato che l'V2accesso, qualora venga in rilievo per la cura o la difesa di propri interessi giuridici, debba prevalere rispetto all'esigenza di riservatezza del terzo e, quindi, conclude la stessa Adunanza Plenaria I'interesse alla riservatezza, tutelato dalla normativa mediante una limitazione del diritto di accesso, recede quando l'accesso stesso sia esercitato per la difesa di un interesse giuridico, nei limiti ovviamente in cui esso necessario alla difesa di quell'interesse. Come noto, nella materia in esame intervenuta la legge 31dicembre1996, n. 675 (intitolata Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali): anche dopo l'entrata in vigore di tale legge, si pu ritenere, nel senso della decisione in esame, che trovi ugualmente prevalenza la disciplina di cui alla legge n. 241 del 1990, sia per espressa disposizione normativa ( cfr. art. 43 della legge n. 675 citata) sia perch, come stato sottolineato in sede di prima interpretazione della legge n. 675, l'applicabilit della nuova normativa sulla privacy non deve far pensare a un regime di assoluta riservatezza dei dati. Infatti, ogni problema va valutato caso per caso per capire se sussistono altri diritti meritevoli di pari o superiore tutela. G.M. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Di fronte all'esercizio del diritto di accesso, la Pubblica amministrazione che deve giustificare il proprio rifiuto all'accesso, motivandolo con la necessit di proteggere mediante il segreto uno o pi degli interessi previsti dal legislatore. L'esigenza di motivazione del segreto fondata sul rapporto fra determinate informazioni (che l'Amministrazione ritiene debbano essere segrete) e determinati interessi (che il legislatore ha previsto debbano essere protetti) indica il passaggio anche nel nostro ordinamento da una concezione soggettiva e personale del segreto amministrativo ad una concezione oggettiva e reale, pi consona ad un'Amministrazione moderna. Il segreto amministrativo, cio, non pi rapportato alla qualit della persona che lo detiene, bens alla qualit delle informazioni protette dal segreto; nel segreto di nuovo tipo ci che rileva la qualit delle informazioni, cio il loro rapporto con determinati interessi, non la qualit del soggetto che le detiene, prevale in sostanza l'elemento oggettivo e reale costituito dalle informazioni oggetto del segreto e quindi, indirettamente, dagli interessi che ne formano il vero contenuto. Al rispetto di tale nuovo principio, in base al quale la regola generale l'accesso e le ipotesi in cui i documenti possono essere sottratti all'accesso sono soltanto eccezioni, informato anche l'art. 8 del regolamento per la disciplina delle modalit di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi, approvato con d.P.R. 27 giugno 1992 n. 352 in attuazione dell'art. 24 secondo comma della legge 7 agosto 1990 n. 241. La norma, che intitolata alla disciplina dei casi di esclusione all'accesso, allorch dispone (con una formulazione che contiene una doppia negazione) che i documenti non possono essere sottratti all'accesso se non quando essi siano suscettibili di arrecare un pregiudizio concreto agli interessi di cui all'art. 24 della legge n. 241del1990 (secondo comma) e che la sottrazione non pu essere opposta se la conoscibilit pu essere differita nel tempo (terzo comma), conferma chiaramente che la regola generale l'eccezionalit dei casi di esclusione. Il successivo quinto comma del citato art. 8 prevede, poi, che, nell'ambito delle categorie di documenti, normalmente non segreti e quindi accessibili, ve ne sono alcuni che, sia pure nel rispetto dei criteri di cui al secondo, terzo e quarto comma, possono essere sottratti all'accesso per una serie di ragioni specificamente indicate, fra cui quella di cui alla lett. d), che sottrae all'accesso i documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di persone fisiche ... , con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario di cui siano in concreto titolari, ancorch i relativi dati siano stati forniti all'Amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono. L'ultimo inciso della lett. d) stabilisce, per, che deve comunque essere garantita ai richiedenti la visione degli atti dei procedimenti amministrativi RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro stessi interessi giuridici. 2. -Alla stregua di tale ultima disposizione, che ribadisce quanto gi stabilito alla lett. d) del secondo comma dell'art. 24 della legge n. 241 del 1990, ritiene questa Adunanza plenaria che il quesito sottoposto dall'ordinanza di rimessione deve essere risolto nel senso che l'accesso, qualora venga in rilievo per la cura o la difesa di propri interessi giuridici, debba prevalere rispetto all'esigenza di riservatezza del terzo. Anche se la norma non prevede che i documenti arrechino o possano arrecare un pregiudizio ovvero dalla loro conoscenza possa derivare una lesione specifica ed individuata, e ritiene sufficiente, ai fini di escluderne la conoscibilit, che questi documenti riguardino, si riferiscano, in senso ampio, alla vita privata o alla riservatezza, non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra accesso e riservatezza dei terzi la normativa statale abbia dato prevalenza al primo, allorch sia necessario per curare o difendere i propri interessi giuridici. Sia la norma primaria (art. 24 secondo comma lett. d) legge n. 241 del 1990) sia la norma regolamentare (art. 8 quinto comma, lett. d) d.P.R. n. 352 del 1992) hanno cercato di contemperare esigenze diverse, stabilendo che i richiedenti, di fronte a documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di altri soggetti, non possono ottenere copia dei documenti, n trascriverli, ma possono solo prendere visione degli atti di quei procedimenti amministrativi che sono relativi ai loro interessi. Si deve, pertanto, concludere che l'interesse alla riservatezza, tutelato dalla normativa mediante una limitazione del diritto di accesso, recede quando l'accesso stesso sia esercitato per la difesa di un interesse giuridico, nei limiti ovviamente in cui esso necessario alla difesa di quell'interesse. 3. -Passando all'esame del caso che ha dato luogo alla presente controversia, si deve rilevare che il parziale rifiuto all'accesso viene giustificato dalla Regione con l'esigenza di salvaguardare la riservatezza di terzi, nella specie pazienti tossicodipendenti del Ser.T. di S. Benedetto del Tronto, al fine di non deteriorare il rapporto medico-paziente. Il diniego, cio, non riguarda i documenti e le informazioni in esso contenute, bens la qualit dei soggetti denunciati, per cui, come ha messo in luce l'ordinanza di rimessione, la Regione sembra avere esercitato, sia pure per ragioni di rilevante valore sociale, un potere discrezionale di diniego che la legge non le conferisce. Ove poi si consideri che i sottoscrittori dell'esposto, denunciando le disfunzioni del servizio, hanno dato luogo all'apertura del procedimento, nel quale l'appellante parte sostanziale, che quest'ultimo, nella sua qualit di responsabile del servizio gi a diretta conoscenza della particolare situazione in cui versano i vari pazienti, e, infine, che il contenuto del documento ,,,.......,,.,,,.,,.I PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA attiene alle modalit di esplicazione delle funzioni connesse alla qualifica del richiedente, investono cio la sfera giuridico-professionale del medesimo, si deve concludere che il caso di specie non appare riconducibile alle ipotesi di salvaguardia della riservatezza disciplinate dall'art. 8 quinto comma del d.P.R. n. 352 del 1992. L'appellante ha, quindi, diritto di prendere visione dei documenti rifiutati dalla Regione n vi ragione per ritenere che da tale conoscenza possano derivare possibili ritorsioni nei confronti dei pazienti tossicodipendenti. Alle pur apprezzabili preoccupazioni espresse al riguardo dall'Amministrazione regionale si gi opposto che l'insistenza del ricorrente nell'acquisire la conoscenza dei documenti e soprattutto dell'identit dei loro autori, esibita nel corso del procedimento amministrativo e di due gradi di giudizio, ha un carattere cos singolarmente indiziante da costituire per gli interessati un autentico salva-condotto, con la conseguenza che ogni comportamento nei loro confronti difforme dalla normalit statistica determinerebbe, in fatto, una sorta di presunzione di discriminazione, attirando sul suo autore pesanti e plurime responsabilit. A tali considerazioni si pu aggiungere che la cura o la difesa dei propri interessi giuridici costituiscono sia il presupposto per il diritto di prendere visione degli atti, altrimenti non accessibili, che il limite della loro utilizzabilit, che non pu andare oltre le finalit previste dalla normativa per la deroga alla sottrazione dall'accesso. Si vuole, cio, dire che, anche in considerazione della peculiare qualit dei pazienti assistiti e dei rapporti che per tale motivo devono intercorrere fra questi ed i sanitari preposti, la conoscenza dei documenti non pu non essere finalizzata alla responsabile valutazione delle lamentele espresse dai sottoscrittori e all'adozione dei conseguenti rimedi che appariranno utili ed opportuni sia per il miglioramento delle prestazioni erogate dal servizio sia per riportare il rapporto medico-pazienti al clima di serenit e comprensione, che il particolare status dei soggetti beneficiari del servizio impone. Di ci consapevole la stessa difesa dell'appellante la quale sottolinea (pag. 4 punto VI della memoria depositata il 22 ottobre 1996) che la conoscenza di tali atti permetterebbe al ricorrente non soltanto di difendere le proprie ragioni ma anche di comprendere quali migliorie dei servizi resi potrebbero essere realizzate a vantaggio degli stessi utenti. In nessun caso, pertanto, la conoscenza di tali atti e documenti potr determinare nei confronti degli utenti comportamenti discriminatori o ritorsivi, i quali, ove posti in essere, integrerebbero gravi violazioni dei doveri che fanno capo al responsabile del servizio e giustificherebbero l'immediato interyento repressivo da parte dell'autorit deputata alla vigilanza del Ser.T. L'appello deve, pertanto, essere accolto e in riforma della sentenza appellata, deve essere ordinato alla Regione Marche di consentire all'appellante di prendere visione dei documenti parzialmente rifiutati (omissis). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 198 CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 6 marzo 1997 n. 8 -Pres. Laschena -Est. Patroni Griffi-Luigi Cosentino (avv. Carrozzo) c. Ministero dell'Interno (avv. Stato Del Gaizo). Impiego pubblico -Sospensione cautelare dal servizio -Cessazione dall'im piego nelle more del procedimento penale per dispensa per inidoneit fisica -Successiva condanna penale -Mancato inizio del procedimento disciplinare -Decadenza ex tunc degli effetti della sospensione. (Testo Unico 10 gennaio 1957, n. 3 art. 91.). La sospensione cautelare dall'impiego, per la natura interinale e prowisoria, destinata a produrre effetti solo fino a quando non intervenga un prowedimento definitivo, rawisabile esclusivamente in quello adottato al termine del procedimento disciplinare. rimesso all'amministrazione di valutare se iniziare o meno il procedimento disciplinare nei termini e secondo le modalit per esso previsti, in seguito a condanna penale del dipendente pubblico quando, nelle more del processo penale, sia intervenuta la cessazione dall'impiego. Il mancato inizio del procedimento disciplinare comporta il venir meno con effetto ex tunc del prowedimento di sospensione cautelare (1). (omissis) 1. Vanno richiamati, in punto di fatto, gli elementi salienti della vicenda procedimentale. (1) La decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato risolve un contrasto giurisprudenziale in ordine al problema degli effetti della sospensione cautelare nel caso di estinzione del rapporto di servizio precedentemente alla emissione di sentenza di condanna. Secondo un minoritario orientamento (cfr. CdS, Sez. V, 11 aprile 1995; CdS, Sez. V, 22 marzo 1995 n. 455; CdS, Sez. VI, 10 aprile 1989 n. 243 ed, in epoca risalente ed anteriore alla dichiarazione della illegittimit costituzionale della destituzione di diritto, CdS, Sez. VI, 24 ottobre 1972 n. 595), stante la previsione, a norma dell'art. 97 del T.V. 10 gennaio 1957 n. 3, del diritto del dipendente sospeso cautelarmente dal servizio di conseguire gli .emolumenti non percetti nel solo caso in cui il procedimento penale si concluda con sentenza di proscioglimento con formula piena, la risoluzione del rapporto di impiego anteriore ad una sentenza di condanna determinerebbe l'esaurimento della sospensione cautelare, ma non il suo venir meno ex tunc. Verrebbe inoltre meno il potere dell'Amministrazione di instaurare o proseguire il procedimento disciplinare, per la mancanza di qualsiasi effetto concreto ricollegabile all'irrogazione della sanzione. Ne consegue l'impossibilit del dipendente sospeso cautelarmente dal servizio di richiedere la corresponsione degli emolumenti non percetti durante la sospensione. Tale orientamento poggia, tra l'altro, sul rilievo che, ove la sospensione venisse meno ex tunc tutte le volte in cui non sfociasse in un provvedimento sanzionatorio per il caso di estinzione del rapporto di impiego, ci consentirebbe irragionevolmente al dipendente incorso in responsabilit penale di neutralizzare i negativi effetti economici della sospensione cautelare mediante la cessazione volontaria dal servizio. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 199 Il Cosentino stato sospeso cautelarmente dal servizio in relazione a un procedimento penale; poi stato dispensato dal servizio per inidoneit fisica; successivamente stato condannato, con sentenza passata in giudicato, in sede penale. Egli ha pertanto chiesto all'amministrazione -che all'esito del giudizio penale non ha intrapreso il procedimento disciplinare -che, previa declaratoria di decadenza della sospensione cautelare, gli sia corrisposta la differenza tra la retribuzione e l'assegno alimentare percepito, per il periodo intercorrente tra la sospensione cautelare e la dispensa dal servizio. L'amministrazione ha obiettato di non poter intraprendere un'azione disciplinare nei confronti di un dipendente cessato dal servizio e che la situazione scaturente dalla sospensione cautelare doveva intendersi oramai cristallizzata. Di segno opposto sono quelle decisioni (cfr. Cds, Sez. V, 11dicembre1992 n. 1424 e CdS, Sez. V, 23 aprile 1993 n. 504 citate nella stessa sentenza, nonch CdS, IV Sez., 13 novembre 1995 n. 924) che riconoscono la possibilit di prosecuzione (o di inizio) del procedimento disciplinare pur posteriormente alla cessazione del rapporto di impiego, in applicazione in via estensiva dell'art. 118 d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (concernente il diritto al trattamento di quiescenza e di previdenza) ove sussista un interesse pubblico o del dipendente, quale certamente quello ad ottenere somme di denaro maturate nel corso del rapporto. In particolare, secondo CdS n. 924/95, stante lo stretto legame logico e giuridico tra sospensione cautelare e procedimento disciplinare, specie dopo l'espunzione dall'ordinamento della destituzione di diritto, non sarebbe ammissibile un consolidamento degli effetti della sospensione in assenza, per decadenza dai trmini, di un processo disciplinare. Tale orientamento viene ora confermato dalla decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che prende le mosse dalla natura interinale della sospensione cautelare, destinata a produrre effetti solo fino al provvedimento definitivo idoneo a sorreggere stabilmente il rapporto tra amministrazione e impiegato, individuato in via esclusiva in quello scaturente dal provvedimento del procedimento disciplinare. Ne discende che, in assenza di un provvedimento sanzionatorio definitivo -adottato secondo le regole e nei termini perentori dettati per il procedimento disciplinare -ad ottenere il quale sussiste un interesse per l'amministrazione anche dopo la cessazione del rapporto di impiego agli evidenziati scopi di salvare gli effetti della sospensione cautelare, questa viene meno ex tunc, con il conseguente obbligo per l'amministrazione di restituire le retribuzioni non percepite dall'impiegato durante il periodo di sospensione cautelare. Nonostante non ne venga fatto cenno in sentenza, non pu trascurarsi di considerare come il risultato cui perviene lAdunanza Plenaria debba considerarsi strettamente collegato con l'abrogazione della destituzione di diritto nel pubblico impiego (su cui vedasi C. Cost. 12 ottobre 1988 n. 971 che dichiara l'incostituzionalit degli art. 85 lett. a) del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 e 236 d. l.p. reg. sic 29 ottobre 1955 n. 6 per contrasto con gli artt. 4, 35, 97 e 3 della Costituzione nella parte in cui non previsto l'esperimento del procedimento disciplinare a seguito di condanna per i delitti specificatamente indicati; ad essa sono seguite C. Cost. 31 gennaio 1990 n. 40 sulla automatica destituzione del notaio; C. Cost. 19 marzo 1990 n. 158 sulla radiazione automatica dall'albo dei commercialisti; C. Cost. 595190 sulla sospensione dello spedizioniere doganale; C. Cost. 17 ottobre 1990 n. 363 sui militari. noto come la successiva legge 7 feb RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 200 Il Tribunale amministrativo, nell'annullare il provvedimento, ha ritenuto: a) che, nonostante la cessazione del rapporto di impiego, la potest disciplinare pu nondimeno essere esercitata, sia pure con effetti limitati alle conseguenze economiche che ne discendono; b) che l'azione disciplinare, peraltro, non soggetta a termini perentori e va intrapresa su iniziativa dell'interessato, essendo prevalente l'interesse di questi, e non dell'amministrazione, alla definizione del procedimento cautelare, al fine di rimuovere gli effetti della sospensione cautelare. 2. La questione di diritto rimessa dalla Sezione a questa Adunanza generale consiste nello stabilire se e con quali modalit l'amministrazione debba iniziare un procedimento disciplinare nei confronti di un ex impiegato, a suo tempo sospeso cautelarmente dal servizio in relazione a un procedimento penale e poi dispensato dal servizio, ove, dopo l'estinzione del rapporto di impiego, intervenga il giudicato penale di condanna. 3. In linea generale, va ricordato che la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ammette l'esperibilit del procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente cessato dal servizio nelle ipotesi in cui sussista in concreto un interesse giuridicamente qualificato, dell'impiegato o della stessa amministrazione, a una valutazione sotto il profilo disciplinare del comportamento tenuto in servizio dal dipendente. Si cosi riconosciuto l'interesse dell'ex impiegato a proseguire il giudizio contro la sospensione cautelare, pur dopo la cessazione dal servizio per dimissioni, al fine di ottenere la corresponsione della parte di retribuzione non percepita (V, 11 dicembre 1992 n. 1424; V, 23 aprile 1993 n. 504). Con affermazione di principio di pi ampia portata si affermato che spetta all'amministrazione il potere di attivare il procedimento disciplinare anche braio 1990 n. 19 abbia reso obbligatorio, a seguito della condanna penale, l'espletamento di procedimento disciplinare anche per le posizioni gi definite con provvedimento di destituzione automatica nel caso di domanda di riammissione in servizio del destituito (art. 10). A seguito della introduzione da parte dell'art. 15, comma 4 octies della legge 18 gennaio 1992 n. 16, nel quadro della lotta alla mafia, della decadenza dal servizio del dipendente pubblico condannato per talune specie di reati, la Corte Costituzionale nuovamente intervenuta con sentenza 19 aprile 1993 n. 197 dichiarativa dell'illegittimit incostituzionale della norma). Essendo venuta meno, invero, in ogni caso di condanna penale, la possibilit di rendere definitivi gli effetti anticipatori della sospensione se non attraverso un provvedimento sanzionatorio adottato al termine del procedimento disciplinare e non potendosi considerare ad esso equipollente la cessazione dell'impiego per motivi diversi, ne consegue l'interesse dell'amministrazione ad intraprendere detto procedimento anche al solo scopo di evitare l'annullamento ex tunc degli effetti della sospensione e la restituzione degli emolumenti non percetti. F.Q. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA nei riguardi dei sospesi dal servizio, dimessisi e collocati in quiescenza, proprio allo scopo di valutare la sorte di una possibile reintegrazione patrimoniale per il periodo di sospensione cautelare (IV, 24 maggio 1995 n. 360; III, par. 3 ottobre 1989 n. 1064/89). 4. L'Adunanza plenaria ritiene che il problema di fondo sia quello della sorte della sospensione cautelare: si tratta di stabilire quale sia il titolo giuridico idoneo a sorreggere la sospensione, che per definizione interinale, a seguito dell'estinzione del procedimento penale. Le conseguenze del giudicato penale sulla sospensione cautelare sono positivamente disciplinate dall'articolo 97 del testo unico n. 3 del 1957, con riferimento all'assoluzione dell'impiegato perch il fatto non sussiste o perch l'imputato non lo ha commesso, nel qual caso la sospensione revocata di diritto con effetto ex tunc; nelle altre ipotesi di assoluzione, l'amministrazione tenuta a iniziare in tempo debito il procedimento disciplinare: se questo si conclude con la destituzione, il periodo di sospensione cautelare resta assorbito nel prowedimento espulsivo, che retroagisce al momento della sospensione. Uno stretto collegamento tra sospensione cautelare e sanzione disciplinare posto dall'articolo 96 del testo unico n. 3 del 1957, a norma del quale, a fronte di sanzioni non espulsive di durata inferiore a quella della sospensione cautelare, la misura provvisoria non pu eccedere quella irrogata in via definitiva e si determina quindi un effetto reintegratorio parziale. Dallo stretto collegamento positivamente posto tra sanzione disciplinare e sospensione cautelare nonch dalla natura interinale della sospensione medesima si evince il principio che la sospensione cautelare per sua natura produce effetti solo fino a quando non intervenga un prowedimento definitivo che sia idoneo a sorreggere stabilmente il rapporto tra amministrazione e impiegato In altri termini, gli effetti prodottisi in virt del prowedimento di sospensione cautelare sono per loro natura provvisori; non pu quindi determinarsi -contrariamente a quanto assume l'amministrazione -alcuna cristallizzazione della sospensione in conseguenza della cessazione dal servizio nel corso del procedimento penale; all'esito di questo occorre individuare un procedimento amministrativo idoneo a costituire un titolo giuridico che sostituisca il prowedimento di sospensione cautelare, il quale, con la definizione del procedimento penale, privato della sua causa tipica. Tale procedimento non pu che essere quello disciplinare, al cui esito come si detto - strettamente correlata la sorte del periodo di sospensione cautelare. Dalla necessit che gli effetti interinalmente prodotti dalla sospensione cautelare trovino un assetto stabile e definitivo discende la conseguenza che, all'esito del procedimento penale, rimesso all'amministrazione di valutare se iniziare o meno il procedimento disciplinare. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 202 La legge, infatti, ricollega effetti tipici al solo comportamento dell'amministrazione. Questa pu iniziare un procedimento penale e allora la sorte della sospensione cautelare seguir le evenienze del procedimento, come sopra descritte. Ovvero l'amministrazione riterr di non dar corso al procedimento disciplinare, e allora gli effetti del provvedimento di sospensione cautelare verrnno meno per il venir meno del titolo giuridico che provvisoriamente li sosteneva. 5. Dal delineato contesto di diritto derivano, con riferimento alla fattispecie in esame, le seguenti conseguenze: a) l'ordinamento richiede, nell'interesse al definitivo assetto dei rapporti giuridici, e attesa la durata interinale degli effetti del provvedimento di sospensione cautelare, che, all'esito del procedimento penale, il provvedimento di sospensione cautelare sia sostituito da un diverso titolo giuridico che disponga. degl effetti prodotti dalla sospensione; b) la sorte del provvedimento di sospensione e degli effetti dallo stesso prodotti non pu che essere rimessa all'iniziativa dell'amministrazione al cui comportamento soltanto la legge collega effetti tipici; c) a questa, infatti, va riconosciuto, pur essendo intervenuta la cessazione del rapporto, il potere di valutare il comportamento dell'impiegato, proprio al fine di regolare in maniera definitiva l'assetto degli interessi provvisoriamente determinato dal provvedimento di sospensione cautelare; e) tale valutazione non pu che costituire estrinsecazione del potere disciplinare, non rinvenendosi nell'ordinamento altro procedimento amministrativo a ci preordinato; f) attesa la natura disciplinare, il procedimento non pu che essere assoggettato alle modalit per lo stesso previste, in particolare ai termini per l'inizio del procedimento posti dalla legge, termini questi che, pacificamente, hanno natura perentoria e che, nella specie, non sono stati rispettati. Non pu quindi ritenersi -contrariamente a quanto affermato dal Tribunale amministrativo -che il procedimento disciplinare sia rimesso all'inizitiva della parte privata interessata e non sia soggetto a termini. Tale considerazione -per quanto si detto -contrasta con la ineludibile necessit che l'assetto degli interessi definiti provvisoriamente con il provvedimento di sospensione cautelare trovi una sistemazione definitiva per effetto di un comportamento tipicamente valutabile dell'amministrazione. La sorte della sospensione cautelare non pu invece essere rimessa all'iniziativa, del tutto eventuale, dell'interessato. 6. Inconclusione, deve ritenersi che, all'esito del giudicato penale di condanna, l'amministrazione possa iniziare un procedimento disciplinare al fine di regolare gli effetti della sospensione cautelare disposta nei confronti del PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 203 pubblico dipendente, ancorch questi sia cessato dal servizio anteriormente al giudicato penale. Tale potere va esercitato nei termini previsti per l'esercizio dell'azione disciplinare nei confronti degli impiegati in servizio. Il mancato inizio dell'azione disciplinare nei termini comporta il venir meno con effetto ex tunc del prowedimento di sospensione cautelare. 7. L'appello principale deve essere, pertanto, integralmente accolto, con la conseguente riforma della sentenza del Tribunale amministrativo. L'appello incidentale dell'amministrazione va invece respinto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 19 maggio 1997 n. 9 -Pres. Laschena -Est. Baccarini -Fraticelli Giulio (aw. C. Schwarzenberg) c. Ministero della Difesa (aw. Stato de Figueiredo). Giustizia amministrativa -Ricorso per ottemperanza -In.ammissibilit Fattispecie. (Legge 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 37, comma 3). inammissibile il ricorso in ottemperanza nei confronti di una decisione del Consiglio di Stato nei cui confronti stato proposto ricorso per cassazione; tra l'altro, tale affermazione ha la sua base normativa nel disposto dell'art. 37, comma 3, legge 6 dicembre 1971 n. 1034, che richiama la nozione di giudicato degli organi di giustizia amministrativa, corrispondente a quella di giudicato dell'autorit giudiziaria ordinaria di cui al comma 1 e, invero, non dato comprendere come a proposizioni analoghe contenute nella medesima disposizione normativa possano attribuirsi significati difformi (1). (omissis) 1. La definizione del ricorso rimesso dalla sezione IV dipende dalla soluzione della seguente questione: se sia ammissibile il ricorso in ottemperanza in ordine ad una decisione del Consiglio di Stato nei cui confronti stato proposto ricorso per cassazione. Nella specie, nelle more del giudizio di ottemperanza intervenuta anche la sentenza di cassazione (Cass., sez. un., 8 gennaio 1997 n. 91), che ha annullato senza rinvio la decisione impugnata nella parte in cui, ai fini dell'ulteriore attivit discrezionale della p.a., ha dichiarato l'obbligo della C.S.A. (1) L'Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ribadisce il suo orientamento nel senso che il ricorso per lottemperanza non ammissibile se ;non per sentenze gi passate in giudicato formale, ai sensi dell'art. 324 cod. proc. civ. (cfr. Ad. Plen., 23 marzo 1979 n. 12, in Cons. Stato 1979, I, 321; Ad. Plen. 1 aprile 1980 n. 10, in Cons. Stato 1980, I, 411). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 204 di porre in ogni caso il ricorrente in posizione poziore rispetto ai pari grado di riferimento. Tale annullamento, in quanto soltanto parziale, non fa venir meno l'interesse del ricorrente all'esecuzione del giudicato, nel contenuto conformativo residuato in esito alla sentenza di cassazione. 2. La questione in esame era stata risolta affermativamente da questa Adunanza plenaria, nel periodo precedente alla legge n. 1034 del 1971 sull'istituzione dei TAR, con il parametro normativo dell'art. 27 n. 4 del t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 ed in contrasto con l'orientamento della Corte di cassazione, con decisione 21 marzo 1969 n. 10, sul rilievo che, riferendosi la fattispecie legale al giudicato dei tribunali ordinari, non potevano estendersi all'ottemperanza delle decisioni del giudice amministrativo i criteri di cui all'art. 324 c.p.c. sul giudicato formale. 3. Entrata in vigore, peraltro, la legge 6 dicembre 1971 n. 1034, il cui art. 37 fa riferimento all'obbligo dell'autorit amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa, questa Adunanza plenaria ha mutato orientamento, avvertendo che ai sensi del combinato disposto degli artt. 33 e 37 legge 6 dicembre 1971 n. 1034, l'ambito della esecutivit delle decisioni, in primo grado o in appello, non coincide con quello del giudizio di ottemperanza, potendo quest'ultimo condurre all'inserimento della determinazione concreta del giudice amministrativo nel contesto amministrativo, ond' che la sua esperibilit subordinata al massimo grado di certezza; pertanto, inammissibile il ricorso per ottemperanza, ove la decisione (di T.A.R. o del Consiglio di Stato) non sia passata in giudicato a norma dell'art. 324 c.p.c. (giudicato formale) (Ad. plen., 23 marzo 1979 n. 12 e 1 aprii. e 1980 n. 10). La giurisprudenza successiva si uniformata (sez. V, 24 maggio 1983 n. 172; 26 gennaio 1985 n. 43; sez. VI, 3 febbraio 1988 n. 155), con la sola eccezione di sez. IV, 26 giugno 1992 q. 645, che si richiamata all'orientamento precedente. 4. L'ordinanza di rimessione propugna un ritorno alla giurisprudenza degli anni '60, ma le sue argomentazioni non sono persuasive. Che il sistema processuale civile contempli istituti non tutti identici a quelli del sistema processuale amministrativo cosa di tutta evidenza, atteggiandosi i rapporti tra diritto processuale civile e diritto processuale amministrativo secondo lo schema: diritto generale-diritto speciale. Che peraltro il sistema processuale civile conosca soltanto il ricorso per cassazione per i motivi di cui all'art. 360 c.p.c. e che da ci si possano trarre argomenti contrari all'applicabilit al processo amministrativo della nozione di giudicato in senso formale, non esatto: l'art. 362 c.p.c., infatti, prevedeva il ricorso in cassazione contro le sentenze di un giudice speciale per motivi PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 205 attinenti alla giurisdizione del giudice stesso, fino all'entrata in vigore dell'art. 111 Cost., che ha esteso l'ambito del ricorso in cassazione contro le sentenze dei giudici speciali alla violazione di legge, salvo che per il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. In ogni caso, nel processo amministrativo non vi sono disposizioni sul giudicato formale in deroga all'art. 324 c.p.c. 5.1. Non giova altres argomentare che il giudizio di ottemperanza delle sentenze amministrative si muoverebbe nell'ambito dell'esecutivit e non del giudicato. Tale considerazione trova ostacolo testuale nel disposto dell'art. 37 comma 3 legge 6 dicembre 1971 n. 1034, che richiama la nozione di giudicato degli organi di giustizia amministrativa, corrispondente a quella di giudicato dell'autorit giudiziaria ordinaria di cui al comma 1: invero, non dato comprendere come a proposizioni analoghe contenute nella medesima disposizione normativa possano attribuirsi significati difformi. 5.2. Nemmeno giova argomentare dalla progressiva estensione nel processo civile dell'ambito della esecutivit della sentenza soggetta ad impugnazione. In primo luogo va rilevato che tale orientamento non di portata generalissima nell'ordinamento processuale: nel processo contabile, infatti, l'appello alle sezioni giurisdizionali centrali della Corte dei conti sospende l' esecuzione della sentenza impugnata (art. 1 comma 5 ter del d.l. 15 novembre 1993 n. 453 conv. dalla legge 14 gennaio 1994 n. 19, mod. dall'art. 1 del d.l. 23 ottobre 1996 n. 543 conv. dalla legge 20 dicembre 1996 n. 639). Pi in generale, vero che nel processo civile l'art. 337 c.p.c., come novellato dall'art. 49 della legge 26 novembre 1990 n. 353, stabilisce che l'esecuzione della sentenza non sospesa per effetto dell'impugnazione di essa, salva la sospensione ope judicis, cos come, del resto, previsto per le sentenze dei tribunali amministrativi regionali dall'art. 33 legge n. 1034/1971. Ma tale esecutivit coercibile in virt dell'art. 474 c.p.c., secondo cui l'esecuzione forzata non pu avere luogo che in virt di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile e sono titoli esecutivi, tra l'altro, le sentenze e i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Nel processo ammistrativo l'esecuzione della sentenza esecutiva incide sugli interessi pubblici, primario e secondari, implicati dal procedimento amministrativo e pu incidere sugli interessi di parti private plurime, in base ad atti suscettibili di essere posti nel nulla dalla riforma o dalla cassazione della sentenza dalla quale dipendono (art. 336 cpv. c.p.c.). L'autorit amministrativa, inoltre, dispone spesso di poteri discrezionali in ordine al modo di eseguire la sentenza. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 206 Vi sono, pertanto, interessi, contrapposti a quelli della parte vincitrice alla immediata attuazione coattiva della sentenza esecutiva, alla non modificazione della realt giuridica e fattuale se non in presenza di un giudicato. Il bilanciamento di questi contrapposti interessi rientra nella discrezionalit del legislatore ordinario, il quale pu stabilire per l'esecuzione delle sentenze amministrative, cos come ha stabilito con l'art. 37 legge 1034/1971, una regola difforme da quella delle sentenze civili. Ci non toglie che, de jure condendo, nella prospettiva di un rafforzamento de.Ila tutela processuale della parte vincitrice, la modifica della regola predetta sia possibile o auspicabile, come gi nel parere di Ad. gen., 8 febbraio 1990, n. 16, nella prospettiva peraltro di un ritorno alla clausola di provvisoria esecuzione. 5.3. Nessun pregio ha, poi, l'argomento della dissuasione dall'uso a fini dilatori del ricorso per cassazione. A parte il fatto che, nella specie, questa evenienza non ricorre, atteso che il ricorso per cassazione proposto contro la sentenza di cui si chiede l'ottemperanza stato accolto, va rilevato che, nel contesto interpretativo qui ricostruito, tale argomentazione ha carattere pratico e non giuridico e, come tale, inidonea a risolvere la questione. 6. Per le suesposte considerazioni, non essendosi formato il giudicato al momento della proposizione del ricorso, quest'ultimo va dichiarato inammissibile (omissis). CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 4 settembre 1997 n. 20 -Pres. Laschena Est. Allegretta -PreV2%sidenza del Consiglio dei Ministri (aw. Stato Caputi) c. Monterossi (aw. Carratelli). hnpiego pubblico -Svolgimento di fatto di mansioni superiori -Rilevanza Esclusione. Nel pubblico impiego, nei casi di sostituzione vicaria del titolar,e di una posizione funzionale superiore ed in genere in quelli concementi posizioni non immediatamente disponibili, nei quali sussiste la necessit e l'urgenza di assicurare la continuit dell'esercizio della funzione, come nelle ipotesi di impedimento o assenza del titolare del posto per malattia, ferie, congedo, missione, motivi di famiglia e simili, l'attivit svolta, siccome espressione di un dovere istituzionale gravante in capo al sostituto, compresa tra quelle astrattamente esigibili rispetto alla qualifica di appartenenza del titolare della posizione funzionale inferiore e, pertanto, rientra per legge tra i suoi PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 207 compiti. In tali ipotesi, conB.gurandosi come attribuzione propria della qualifica rivestita, lo svolgimento di mansioni superiori non pu dar luogo ad alcuna variazione del trattamento economico (1). (omisiss) Viene in esame, nella specie, la posizione dell'appellato, funzionario di ottava qualifica funzionale del personale di segreteria del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali, il quale dal 15 marzo 1992 al 16 gennaio 1993 ha svolto le funzioni di segretario generale, a norma dell'art. 37 della legge 27 aprile 1982, n. 186, a seguito dell'aspettativa concessa al segretario generale titolare, nominato amministratore straordinario presso una Unit sanitaria locale. Nella sentenza appellata si perviene al riconoscimento del titolo alla retribuzione superiore, attraverso un iter argomentativo che si sviluppa nei seguenti passaggi: -la fattispecie non rientra in alcuna delle ipotesi contemplate nel citato art. 37 della legge n. 186 del 1982 (assenza, impedimento, temporanea vacanza del posto), nelle quali le funzioni di segretano generale dei Tribunali amministrativi regionali (demandate ad un dirigente) possono essere esercitate dall'impiegato presente nell'ufficio che ricopre la pi elevata qualifica funzionale e, in caso di parit, che abbia maggiore anzianit nella qualifica stessa; -si verte invece in ipotesi di svolgimento di funzioni di supplenza, di durata non predeterminata, involgenti l'attribuzione di un ambito mansionistico di livello superiore al compendio di funzioni normativamente rimesse alla posizione organico-retributiva (VIII qualifica funzionale) rivestita; -non applicandosi l'art. 37 citato, trovano piena espansione i postulati civilistici relativi alla retribuibilit dello svolgimento di mansioni superiori, posto che esse concretano un indiscutibile aggravio dell'impegno lavorativo e delle correlate responsabilit; -il mancato riconoscimento del relativo trattamento economico confi gura un indebito arricchimento dell'Amministrazione; -esiste dunque uno spazio normativo, per quanto concerne la fattispecie all'esame, che consente di escludere lo svolgimento mansionistico di che trattasi dall'ambito delle attribuzioni (anche eventualmente) facenti capo al profilo professionale del ricorrente, al quale risultano addirittura estranee in quanto di esclusiva pertinenza delle posizioni dirigenziali. (1) L' Adunanza Plenaria, con la sentenza in esame, ha accolto l'appello della Presidenza del Consiglio dei Ministri ribadendo degli importanti principi in materia'di svolgimento di mansioni superiori svolte dai dipendenti pubblici. In particolare, il Consiglio di Stato ha specificamente affermato che lo svolgimento di mansioni superiori del dipendente pubblico, in mancanza di espressa previsione normativa, non pu dar luogo ad alcuna variazione del trattamento economico. Sull'argomento, cfr., in termini, Cons. Stato, Ad. Plen. 16 maggio 1991 n. 2, in Il Cons. Stato, 1991, I, 825 ss. lfatfllllllllllllllllllllllJlllllllllllllllllllllll~;I RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 208 L'Amministrazione appellante, invece, sostiene che il temporaneo svolgimento delle funzioni di segretario generale di T.A.R. trova compiuta disciplina nell'art. 37 della legge 27 aprile 1982, n. 186 e che copioso e consolidato orientamento giurisprudenziale nega il diritto dei dipendenti pubblici alla retribuzione delle mansioni svolte in assenza di atti formali di assegnazione ed in particolare il diritto alla retribuzione delle funzioni di supplenza. Nell'ordinanza con cui la IV Sezione ha deferito il giudizio all'Adunanza plenaria alcuni spunti contenuti nelle argomentazioni del giudice di primo grado sono ritenuti meritevoli di approfondimento. Si d soluzione positiva alla preliminare questione se anche l'ipotesi di aspettativa per nomina ad amministratore di una U.S.L. possa essere ricompresa nella previsione dell'art. 37 della legge n. 186 del 1982, dal momento che nelle ipotesi di assenza, impedimento e temporanea vacanza del posto (richiamate dalla disposizione legislativa) appaiono ricomprensibili anche le supplenze per aspettativa del titolare, le quali implicano comunque un impedimento all'esercizio della funzione o un'assenza del titolare. Si rappresentano, tuttavia, alcuni dubbi interpretativi, che riguardano soprattutto i casi di sostituzione di un impiegato di qualifica superiore avente diritto alla conservazione del posto e pi in generale i casi in cui l'Amministrazione non pu provvedere alla copertura del posto vacante in tempi brevi, considerato che nella specie viene in rilievo un'ipotesi in cui lo svolgimento di mansioni superiori stato attivato per un periodo di tempo indeterminato e di fatto protrattosi per circa dieci mesi. Una situazione analoga si ravvisa, senza che possano configurarsi comportamenti omissivi o illegittimi dell'Amministrazione in ordine alla copertura del posto, negli altri casi di aspettative del titolare per lunghi periodi (ad es. per mandato amministrativo ex lege 27 dicembre 1985, n. 816 o per la nomina a direttore generale di una U.S.L.) oppure, in caso di vacanza del posto, in relazione ai tempi necessariamente lunghi per espletare le procedure concorsuali, talora anche in conseguenza di blocchi legislativi nelle assunzioni o dell'esigenza di effettuare preliminarmente scelte riorganizzative laboriose e difficili (ad es. la ridefinizione delle piante organiche). Almeno in questi casi, ad avviso della IV Sezione, un'interpretazione della normativa, che porti ad escludere il diritto al trattamento economico corrispondente alle mansioni esercitate sembra prospettare i profili di incostituzionalit in via indiretta emergenti da quelle pronunce della Corte costituzionale, secondo le quali l'art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina, in via definitiva, l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente pubblico nella misura corrispondente alla qualit del lavoro effettivamente prestato (sentenze n. 57 in data 23 febbraio 1989 e n. 296 in data 19 giugno 1990, nonch ordinanza n. 337 del 23 luglio 1993; cfr. altres con riferimento ad altra fattispecie la sentenza n. 488 del 29 dicembre 1992), dal momento che nelle ipotesi considerate l'im PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA piegato sarebbe obbligato a svolgere mansioni superiori, con le relative responsabilit, per periodi di tempo lunghi e talora (come nella specie) a tempo indeterminato, senza alcuna corrispondenza con il trattamento economico percepito. Nel caso in esame, si aggiunge, si tratta di esercizio di funzioni dirigenziali da parte di un impiegato dell'ottava qualifica funzionale e quindi di esercizio di funzioni sostanzialmente diverse da quelle spettanti in base alla propria qualifica funzionale; n, per altro, rileva il difetto di un provvedimento formale di attribuzione delle funzioni, sia perch lo svolgimento delle predette funzioni stato formalmente attestato dall'autorit competente, sia perch la loro attribuzione discende direttamente dalla legge (art. 37 della legge n. 186 del 1982). Pur considerando la complessit e la delicatezza della problematica sottoposta all'esame dell'Adunanza plenaria, si ritiene, tuttavia, che l'appello dell'Amministrazione debba essere accolto. Valgano in proposito le seguenti considerazioni. principio generale del nostro ordinamento, valido per ogni tipo di rapporto di lavoro subordinato, sia pubblico che privato, quello secondo il quale non costituisce esercizio di mansioni superiori la sostituzione di personale di posizione funzionale pi elevata, qualora la sostituzione rientri tra gli ordinari compiti della posizione funzionale del sostituto. Nel pubblico impiego, in particolare, nei casi di sostituzione vicaria del titolare di una posizione funzionale superiore ed in genere in quelli concernenti posizioni non immediatamente disponibili, nei quali sussiste la necessit e l'urgenza di assicurare la continuit dell'esercizio della funzione, come nelle ipotesi di impedimento o assenza del titolare del posto per malattia, ferie, congedo, missione, motivi di famiglia e simili, l'attivit svolta, siccome espressione di un dovere istituzionale gravante in capo al sostituto, compresa tra quelle astrattamente esigibili rispetto alla qualifica di appartenenza del titolare della posizione funzionale inferiore e, pertanto, rientra per legge tra i suoi compiti. (C. S. Ad. plen. 16 maggio 1991 n. 2). In tali ipotesi, configurandosi come attribuzione propria della qualifica rivestita, lo svolgimento di mansioni superiori non pu dar luogo ad alcuna variazione del trattamento economico. , dunque, improponibile ogni questione di retribuibilit ulteriore dell'attivit esplicata nell'esercizio della funzione vicaria, trovando essa il suo corrispettivo gi nella retribuzione annessa alla qualifica propria del vicario. Ogni altra eventuale riflessione sull'argomento, che ben potrebbe prendere le mosse da una diversa concezione dei rapporti tra la pubblica Amministrazione ed i suoi dipendenti, non pu che essere lasciata alla discrezionalit del legislatore, come, del resto, emerge dalle vicende relative all'entrata in vigore dell'art. 57 del D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, pur inteso a dare una disciplina meno episodica del fenomeno del mansionismo. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 210 Tornando al caso in esame, deve convenirsi che esso non si sottrae all'applicazione dei principi ora enunciati. Si tratta, invero, alla stregua dell'art. 37, comma 3, della legge 27 aprile 1982, n. 186, di un'ipotesi tipica di sostituzione vicaria per assenza temporanea del titolare della posizione funzionale superiore. La norma dettata da questa disposizione, infatti, contempla i casi dell'assenza o dell'impedimento dell'impiegato con qualifica di dirigente titolare delle funzioni di segretario generale (che sono sicuramente casi nei quali ha luogo la sostituzione vicaria) e vi aggiunge anche l'ipotesi di Vacanza temporanea del posto (che a rigore da quella figura fuoriesce), prevedendo in tali circostanze che legittimato all'esercizio della funzione sia l'impiegato presente nell'ufficio con la qualifica pi elevata. Lo svolgimento delle mansioni di segretario generale del Tribunale amministrativo regionale, quindi, costituisce un'evenienza che per espressa previsione di legge integra il contenuto mansionistico ordinario di tutte le qualifiche impiegatizie presenti nel ruolo del personale di segreteria degli organi di giustizia amministrativa. Ma anche prescindendo da siffatta costruzione, che nega la qualificazione di mansioni superiori a quelle svolte nella specie, evidente che, in concreto, l'assetto organizzativo delineato dalla disposizione citata stato voluto dal legislatore per sopperire alla necessit di evitare soluzioni di continuit nel funzionamento dei menzionati organi giurisdizionali. In ci avvalendosi dell'art. 97 della Costituzione, che, secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale (sent. n. 236 del 27 maggio 1992), reca limiti all'incondizionata applicazione dell'art. 36 Cost. tali da autorizzare anche norme di organizzazione dei pubblici uffici che, per esigenze eccezionali di buon andamento dei servizi, consentono l'assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza diritto a variazioni del trattamento economico. Per le considerazioni che precedono l'appello in epigrafe dev'essere accolto e, per l'effetto, dev'essere annullata la sentenza impugnata e respinto il ricorso proposto in primo grado (omisiss). CONSIGLIO DI STATO, Ad. plen., 17 novembre 1997, n. 21 -Pres. Laschena -Rei. Santoro " Girardello ed altri c. Ministero del Tesoro (avv. Stato Criscuoli) ed altri. Impiego pubblico -Stipendi, assegni ed indennit -Interessi e rivalutazione su crediti previdenziali -Rapporti pendenti ed ambito applicativo delle leggi n. 412/1991 e n. 724/1994. PARTE I; SEZ. lV> GIUlUSPRUI!ENZA AMMINISTRATIVA 211 < 11 divieto delctJmWo di interessi e rivalutazione110sto dalfart, 16, comma W1 de11a legge 11. A121199lpericreditiprevidenz:ilitardivamente adempiuti si app#~ ~ncheai rapwrti in o:rsJ?xal.momentodclla sua entrata in vigore~ mtr~t;!lo lirJtat~ente ai ratei maturatidopo il J"geMaio J.992 (1), (~~J$is)lricorrenti.sono.e~dipendentl.dell~cassa.fuut.aprovincialedi m~~#~gi ):tolzano, trasferiti all'entti diJ>revidenza resfate{lt~JNPSindata l~ ~~nnai i98l.,a seguito dlla rifonna sanitaria, Con la.sentenza da eseguire (1)~~~!ttJM.\f~i..~diti.p~AAi~~;ub~licj.wpenden / / J, Conla decl~i~~ehi~~segna; l'Adunanza Plenaria affronta ilproblema del ritar dato adel'l1pb:nep,to dei.q:editi. preVidenziali dei pubblici . dipendenti, . con particolare ... ti,glJ.i;;l:g:> a:tl~ qu~sdPne .4t;ll .mlllo .di. interessi ~ rivaluta~ione e alla pQrtata . delle . noin:\.e c<>riiel1u~e ti.ella legge ~i;ui.a11; 412/199ksui rapporti.pendenti/ n, OU~sfo il easQ, . Nell'ambito di un giudizio per l' esecuZione: del . giudicato; l'A~a~~n~aaveyaricnosciuto {conla sentenza tk8/1994 del23 giugno 1994) il diBU:o dei ricofrenti al pagamento di $omme aggiuntive per il ttiitttn:iento. di fine rap~ pono;:ohterivalutazionem6netariaedinteressj legali,adecorrere. dal 29 novembre 1988. Il Mini.Stero del Tesoro aveva invece versato all'ente. di preVidenz resiStente. la sola somma capitale e ci induceva i :dconenti a promuovere il. giudizio di ottemperanza per il pa~entodi.interessi e rivalutazione (dal 29 nQvembre .1988 al 30 settembre 1997). Ma cQm computare interessi e rivalutazione? Come si applicain concreto . .._ ove operativa;.,;...; la regola del cumulo: conteggiando gli interessi sulla somma integra]. mente rivalutata Q sulla somma. Via Via rivalutata? Come si risolve la.questione di dirittintertemporale dell'art. 16, commaVI; legge n. 412/91, con riguardQai rapporti in corso.; ai crediticio sorti anteriormente al1'entrata in vigore della legge che esclude il cumulm>? m. L'Adunanza Plenaria avrebbe potuto Sfruttare l'occasione per CircumnaVigare l'unive;r:sQ della quantificazione del danno da ritardato adempimento delcredito previdenziale. (e retributivo in genere) del pubblico dipendente. Del resto, pochi mesi prima, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con una puntualee approfondita decisione del 6agosto1997, n; 881 (in Foro it.;.1991, n. 10, III, 473, on nta di PARDOLESI) aveva rimesso proprio all'.Adunanza :Plenaria una serie di questioni che oggi solo in parte trovano risposta nella decisione che si pubblica. Innanzitutto, era stata affermata la tesi.che rivalutazione ed interessi debbano essere accordati d'ufficio, senza bisognQ di.domanda .di parte, con la connessa statui ziOp;e\dell'amrrtlssibilit qella loro richiesta nel giudizio di ottempra:tlza. Veniva intal modo. confermato, ma con diverse argomentazioni -., cio cori:eggei:ldQne il fonda~ mento argomentativo alla luce degli intei.Venti.legislatM del 1991 e del 1994 ~un:indi rizzo ermeneutico incontrastato, che aveva trovato nella. decisione dell'Adunanza Plenaria n. 19/1985 (in Por. it; 1985; ID, 413) la sua espressione pi compiuta: ove non ci sia stata apposita statuizione su interessi e rivalutazione non si forma .un giudicato di rigetto sfavorevole al dipendente, che pu chiedereil pagamento con domanda autQ noma per la prima volta anche in sede di ottemperanza. Ma la Quinta Sezione dopo aver risolto questa.prima questione, attraversQ la rimeditazione del collaudato indirizw giurisprudenziale delineatosi sul ptinto; .aveva rimesSQ all'Adunanza Plenaria la soluzione .di due delicati problemi. nprimo investiva l'annosa questione di .diritto intertemporale posta dai due interventi legislatiVi del 1991 e del 1994 che, nel superare la regQla del cumulo di interes RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 212 era stato accertato il diritto dei ricorrenti ad ottenere la differenza tra quanto accantonato dall'ente di provenienza, ai fini del trattamento di fine rapporto, e quanto loro spettante ai sensi del regolamento di previdenza e quiescenza del personale dell'ente di previdenza resistente alla data del 31 dicembre 1989. Era stato anche accertato il diritto dei medesimi alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali su tali differenze di trattamento di fine rapporto, a decorrere dal 29 novembre 1988. Con ricorso depositato il 21 marzo 1977, i signori in epigrafe indicati chiedevano l'esecuzione della suindicata decisione di questa sezione, ed, in si e rivalutazione di applicazione, lasciavano aperti i dubbi sull'applicabilit (e sui limiti) del divieto per i rapporti pendenti. Il secondo problema interpretativo rimesso all'Adunanza Plenaria riguardava la concreta determinazione della rivalutazione e degli interessi sulla somma capitale. Sul punto, la Quinta Sezione suggeriva una soluzione estremamente rigorosa, che propone di abbandonare sia la tesi per la quale gli interessi vanno calcolati sulla somma capitale integralmente rivalutata (secondo un indirizzo giurisprudenziale fatto proprio da Cass., Sez. Un., n. 9205/1990), sia l'altra tesi che li calcola sulla somma via via rivalutata (sulla scorta di un indirizzo tralaticiamente espresso dalla giurisprudenza giuslavoristica: ex plurimis, Cass. 29 settembre 1988, n. 5299 e Cass. 3 febbraio 1989, n. 688, avallato da Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1712, in Corr. Giur., 1995, 462, con nota di Dr MAJo ed accolto anche dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con sent. 10 luglio 1996, n. 931, in Foro it., Rep., 1996, voce Imp. dello Stato, n. 704). Infatti, la Quinta Sezione -tenuto conto che nel periodo dal 1991 al 1996 il tasso legale di interessi stato raddoppiato e che perci ogni forma di cumulo si traduce in pratica in un ingiustificato privilegio per il dipendente non rapportato a reali esigenze di salvaguardia della retribuzione reale -propone di aderire a quell'indirizzo minoritario della Cassazione (espresso dalle sentenze 26 gennaio 1995, n. 907 e 19 maggio 1995), secondo il quale gli interessi legali si computano sull'importo originario del credito al suo valore nominale e non su quello risultante dalla rivalutazione o sulle somme via via rivalutate. L'Adunanza Plenaria risolve ora solo il problema di diritto intertemporale sottoposto al suo esame, mentre non affronta -data l'economia della controversia -l'ultima e pi spinosa questione. Ma procediamo con ordine, ricostruendo sinteticamente i termini dell'annoso problema, che come noto ha conosciuto un importante sussulto con la legge n. 412/1991. IV. Nel corso degli anni Ottanta, la Corte Costituzionale aveva sempre escluso la possibilit di estendere la tutela privilegiata dei crediti di lavoro ex art. 429 terzo comma c.p.c. ai crediti previdenziali, dichiarando prima l'infondatezza (sent. n. 162 del 1977 e sent. n. 408 del 1988) e poi l'inammissibilit della questione posta al suo esame (con le sentt. n. 350 e n. 585 del 1990, che per gi lasciavano prevedere un mutamento di indirizzo). La tesi faceva leva sulla non onnicomprensivit del richiamo dell'art. 442 c.p.c. a tutte le norme sulle controversie di lavoro, con il corollario costituito dalla normale irrisarcibilit della svalutazione e la limitazione dei danni per il ritardo agli interessi moratori, all'epoca fissati nella misura legale del 5% (salvo naturalmente il caso in cui si riuscisse a fornire prova del maggior danno, onere che la giurisprudenza aveva giustamente agevolato: si ricordi Cass., SS. UU., 4 luglio 1979, n. 3 77 6, in Foro it. 1979, I, 1668). Pi tardi, in qualche decisione della Suprema Corte (Cass. 9 settembre 1988, n. 5135, in Foro it, 1989, 2892), si arriv ad affermare la cumulabilit dei due accessori, ma il tentativo fu respinto dalle Sezioni Unite (Cass., SS. UU., 1 dicembre 1989 n. 5299, in Foro it, 1990, I, 427, con note di PARDOLESr e Dr MAJo). PARTE I;SEZ. N, GIURISii'RODENZAAMMINISTRATNA 213 particolare, che fosse ordinato alle ammistrazioni intimate di versare ai ricorrenti le differenze di trattamento difine rapporto, secondo gli importi calcolati nelprospetto allegato all'atto d diffida del22 aprile 1996, con interessi e rivalutazione monetaria al 31 marzl:J 1996; . nministerodeltesoro, quale sucessore della disciolta cassa mutua provinciale malattie dfBolzano; comunicava di avere versato all'ente di previdenza reS:istentevin esecuzione della decisione di questa adunanza plenaria, la somma di lire 141 milioni 198 mila 870, corrispondente al solo capitale dovuto. Ma proprio quandosi cominciava ad approfondire il tema delle conseguenze sulla finanza pubblica delle pronunce della Corte Costituzionale (nel 1991 ci fu un apposito Seminario; organizzato al Palazzo della Consulta, su Corte costituzionale e finanza pubblica;.i cui atti conclusivi furono poi raccolti in un apposito volume: AA. W., Le sentenze della Corte costituzionale e l'art. 81, ult. comma, della Costituzione, Milano, 1993) e sebbene per (;}ffetto dell'art. 1 della legge di riforma del processo civile n. 353/1990 fosse stato rinalzato il tasso legale degli interessi dal 5 al 10%, paradossalmente intervenne la 11.entenza C. cost. n. 156/1991 (Pres. Gallo, rei. Mengoni: in Giust. civ;, 1991, 1,. 809{ con nota di Izzo, oppure in Foro it., 1991, I, 1321, con note di PARDOLE$I e di TARTAG1JA), che sanciva una quasi completa equiparazione dei crediti previdenziali ai crediti di lavoro ai fini dell'applicazione della disciplina prevista dall'art. 429 c;p.c .. Ma a distanza di pochi mesi il criterio giurisprudenziale veniva ribaltato dal legislatore; con una norma inserita tra le Disposizioni in materia di finanza pubblica della legge.n. 412/1991 (il famoso comma 6 dell'art. 16), che escludeva espressamente per i crediti previdenziali la cumulabilit di interessi legali e rivalutazione; Con il dichiarato intento di attenuare gli effetti della pronunzia della Corte sulla finanza pubblica, fu infatti introdotta una disciplina che in sostanza escludeva l'ulteriore operativit della regola del cumulo prevedendo la corresponsione dei soli interessi legali, ce>n la rivalutazione dovuta solo se superiore all'importo di questi e limitatamente alla differenza (per un maggiore approfondimento si vedano: DE FELICE, Rivalutazione dei crediti di lavoro, in Enc. giur., vol. XXVII, 1991; nonch il pi recente contributo di MAGRJNI, Rivalutazione e interessi (crediti di lavoro e previdenziali), in Enc. giur., vol. XXVII,. 1995). V. La netta separazione che veniva in tal modo sancita tra crediti previdenziali (per i quali era stato escluso il cumulo) e crediti di lavoro (per i quali era ancora ammesso dall'art. 429 terzo comma c.p.c.) port ad un nuovo giudizio di legittimit costituzionale. I giudici remittenti osservarono che, soprattutto dopo l'aumento al 10% del tasso degli interessi legali; appariva dubbia la correttezza dell'interpretazione giurisprudenzi; tle dell'art. 429,terzo comma; c.p.c., cui si era uniformata la sentenza della Corte n. 156/1991; perch essa finiva per attribuire al titolare di crediti di lavoro una posizione del tutto privilegiata, che gli procura una rendita ben superiore anche ad ogni investimento finanziario>>. Pertanto, la norma impugnata, ripristinando sostanzialmente la disparit di trattamento dei crediti previdenziali rispetto ai crediti di lavoro, appariva in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. Con la sentenza n. 394/1992, la Corte costituzionale (Pres. Corasaniti, Rei. Mengoni: in Lav. e Ptev. Oggi, 1992, 2288) dichiar inammissibile la questione di legittimit costituzionale dell'art. 16, sesto comma, legge n. 412/1991, osservando che la norma impugnata non era in realt applicabile nei giudizi a quibus. Per la Corte la norma in questione non aveva ripristinato la disciplina dei crediti previdenziali dichiarata costituzionalmente illegittima, atteso che gli effetti del ritardo nel pagamento del debito previdenziale non sono quelli previsti dalla disciplina comune, sia per il carat 214 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Con memoria del 6 ottobre 1997 i ricorrenti facevano presente che erano ancora dovuti gli importi per interessi legali e rivalutazione monetaria dal 29 novembre 1988 al 30 settembre 1997. Tale somma ancora dovuta, pertanto, sarebbe pari a lire 176 milioni 533 mila 403. Da ultimo l'l.N.P.S. confermava che era stato emesso mandato di versamento sul proprio c/c 20350 presso la Tesoreria centrale dello Stato per lire 141.198.870 a titolo di conguaglio delle indennit di buonuscita maturate dai ricorrenti per il servizio prestato presso la cassa mutua provinciale di malattie di Bolzano. tere automatico della rivalutazione (operata di ufficio dal giudice, ai sensi dell'art. 150 disp. att. c.p.c., senza bisogno della domanda dell'interessato e di provare il maggior danno), sia per la decorrenza (non dalla maturazione del credito, ma dalla scadenza del termine previsto per l'adozione del prowedimento dell'ente). Osservava, tuttavia, che lesclusione del cumulo della rivalutazione con gli interessi produce un mutamento di natura del credito previdenziale, tale da assoggettarlo a una norma speciale che si colloca all'interno del sistema dell'art. 1224 cc., posto che gli interessi si calcolano sulla somma nominale e la rivalutazione spetta a titolo di maggior danno, eccezionalmente ritenuto in re ipsa, per il solo fatto della svalutazione della moneta in misura superiore al tasso legale degli interessi. I VI. Con la sentenza n. 207 del 1994 (C. cost., 23 maggio 1994, n. 207, Pres. Casavola, I Rei. Mengoni: in Cons. Stato, 1994, II, 823; Giust. Civ., 1994, I, 2102; Dir. Lav., 1994, II, 167; Giur. Cast, 1994, 1753) l'ipotesi di un'eventuale declaratoria di incostituzionalit dell'art. 429 c.p.c., diretta a riavvicinare crediti di lavoro e crediti previdenziali (ed assistenziali), fu fermamente respinta dalla Corte Costituzionale, che ribadi la necessit di una tutela privilegiata dei crediti di lavoro giustificata dalla loro rilevanza costituzionale. Prendendo in esame la diversit dei regimi giuridici cui risultano assoggettati i crediti previdenziali (e assistenziali, sui quali era intervenuta ad estendere i principi fissati nel '91 per i crediti previdenziali: C. Cost. 27 aprile 93, n. 196, Pres. Casavola, Rei. Mengoni, in Foro lt. 1993, I, 2425, con nota di CARINGELLA), rispetto a quelli di lavoro per effetto della soluzione adottata con il citato art. 16 sesto comma, la Corte osserv che alla categoria dei crediti di cui all'art. 442 c.p.c. non risultava applicabile l'art. 36 Cost. se non per il tramite e nella misura dell'art. 38, comma secondo, Cost., cio con un limite che vale a conferire una ratio autonoma al bilanciamento degli interessi attuato con l'art. 16. Infatti, rientra nella discrezionalit politica del legislatore stabilire se, dopo l'aumento del saggio dell'interesse, introdotto dalla legge n. 353/1990, nella realizzazione dei crediti di lavoro la rivalutazione monetaria sia da inglobare oppure da cumulare con gli interessi legali rivalutati; pertanto, fu considerata inammissibile la questione di legittimit costituzionale dell'art. 429 comma terzo c.p.c., sollevata per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'irragionevolezza, nella parte in cui consente il cumulo della svalutazione monetaria e degli interessi legali, nella liquidazione dei crediti di lavoro, dopo che la legge n. 353/1990 ha elevato il saggio dell'interesse legale. VII. Il problema di fondo rimaneva perci irrisolto, perch si sanciva in tal modo la legittimit del trattamento deteriore riservato al datore di lavoro (cui era imposto il cumulo) rispetto ai debitori comuni, sebbene la stessa Corte non perse l'occasione di offrire al legislatore un importante spunto per una revisione dell'art. 1284 e.e., spiegando che la misura del 10 % adottata nel 1990 in contrasto con l'odierna tendenza al ribasso dei tassi di interesse, appare inopportuna in un'economia fluida come quella attuale, caratterizzata da continui mutamenti dei parametri economici e finanziari, concludendo con una valutazione di irrazionalit del sistema del cumulo di interessi e rivalutazione ex art. 429 terzo comma c.p.c. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 215 Alla cc. del 20 ottobre 1997 la causa passava in decisione, uditi i difensori delle parti. DIRITTO Le Amministrazioni intimate hanno comunicato che stata corrisposta la somma capitale -pari a lire 141milioni198 mila 870-dovuta ai ricorrenti in forza della decisione di questa A.P. del Consiglio di Stato n. 8/94 del 23 giugno 1994. Il legislatore ha risposto all'invito della Corte e, continuando ad utilizzare la tecnica dell'interpolazione, intervenuto ancora una volta con una norma contenuta in una legge finanziaria, volta ad eliminare il regime privilegiato dei crediti di lavoro, quella cio del notissimo art. 22, trentaseiesimo comma, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, con la quale la disciplina del sesto comma dell'art. 16 legge n. 412/91 stata estesa a tutti i crediti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale dei dipendenti pubblici e privati in attivit di servizio o in quiescenza, ma limitatamente a quelli per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31dicembre1994 (di modifica legislativa clandestina parla DE ANGELIS, in Rivalutazione e interessi sui crediti di lavoro: una modifica clandestina?, in Riv. it dir. lav., 1995, I, 439, che, prendendo spunto dagli obiter dieta contenuti in un'ordinanza della Corte costituzionale ed in una coeva sentenza della Cassazione, approfondisce l'esame della norma, giungendo alla conclusione che essa riguardi solo i crediti retributivi attinenti ai rapporti di lavoro con la P.A., nonr ch i crediti pensionistici ed assistenziali inerenti a tali rapporti. Altri dubbi sono posti da DONDI, fl ritardato adempimento dei crediti di lavoro, previdenziali ed assistenziali tra vecchia e nuova disciplina, in Dir. lav. 1995, I, 43 e MAGRINI, Rivalutazione monetaria ed interessi peri crediti di lavoro, in Giur. lav. Lazio, 1996, 287). Quel che certo che comunque, per effetto della norma del trentaseiesimo comma dell'art. 22, l'art. 429 c.p.c. risulta modificato, valendo ora la regola dell'assorbimento della rivalutazione negli interessi: in tal senso, la norma stata intesa dalla Corte costituzionale, con ord. 27 aprile 1995, n. 139 (in Mass. giur. lav., 1995, 281, dove si accenpa al superamento del regime del cumulo tra interessi e rivalutazione). Peraltro, la stessa norma condiziona criteri e modalit di applicazione di tale modifica ad un decreto ministeriale. Orbene, sullo schema di regolamento predisposto dal Ministero del Tesoro, si espresso il Consiglio di Stato, con parere reso nell'Adunanza Generale del 26 settembre 1996, n. 135/96, che fornisce utili indicazioni applicative (sulle quali l'economia del presente lavoro non consente alcun approfondimento, per cui si rinvia alla lettura del parere), consapevole che l'ambito estremamente ampio della norma pone evidenti problemi di coordinamento. Va rimarcato in ogni caso che al Collegio non sfugge l'importanza della norma, che evidenza l'intento legislativo di affermare la generalizzazione della nuova regola del divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione. VIII. Invertendo il nuovo trend legislativo e giurisprudenziale il Pretore di Parma ha sollevato questione di legittimit costituzionale dell'art. 16, comma VI, della legge n. 412/91, avendo la norma ripristinato per i crediti previdenziali quel divieto di cumulo che la sentenza della Corte n. 156/1991 aveva ritenuto illegittimo. La Corte, con un sostanziale revirement rispetto a quella decisione, con la sentenza 24 ottobre 1996, n. 361 (in Giur. Cast., 1996, 3167, ma anche in Foro it. 1996, I, 3266) ha ritenuto infondata la questione evidenziando che i crediti previdenziali si differenziano sotto diversi profili dai crediti di lavoro, individuandosi il fondamento costituzionale della loro corresponsione nel disposto dell'art. 38 c. 2 Cast. (e non direttamente nel disposto dell'art. 36 Cost.). 216 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Di tale adempimento occorre pertanto dare atto in questa sede di esecuzione del giudicato. Tuttavia i ricorrenti, con memoria del 6 ottobre 1997, hanno fatto presente che sarebbero ancora dovuti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria -dal 29 novembre 1988 al 30 settembre 1997 -sui singoli importi, e che la somma ancora dovuta, pertanto, sarebbe pari a lire 176 milioni 533 mila 403. La difesa dell'I.N.P.S., alla cc. del 20 ottobre 1997, ha ammesso la persistente inesecuzione del giudicato limitatamente a tali competenze accessorie. Il fatto che i crediti previdenziali abbiano pur sempre la funzione di assicurare al lavoratore un'esistenza libera e dignitosa, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, non implica pertanto la necessit di una piena equiparazione degli stessi ai crediti di lavoro. La previsione di cui all'art. 38, secondo comma Cost., nella interpretazione seguita dalla Corte costituzionale, implica infatti il necessario riconoscimento di prestazioni previdenziali, ma, essendo il sistema previdenziale finanziato anche dalle pubbliche finanze, le esigenze di contenimento della spesa pubblica possono giustificare criteri di determinazione della prestazione meno favorevoli di quelli previsti per i crediti di lavoro. La Corte ha ritenuto giustificata la disciplina differenziata dei crediti previdenziali ed assistenziali rispetto a quella dei crediti di lavoro perch tra tali due categorie di crediti vi una diversit strutturale, che in realt la Corte stessa (C. cost. n. 156/1991 cit.) gi aveva ritenuto come implicita premessa nell'affermare viceversa l'analogia strutturale delle situazioni poste in comparazione. E la differenza costituita essenzialmente dal necessario contemperamento della tutela del pensionato con le disponibilit del bilancio pubblico, a carico del quale finanziato in buona parte il sistema previdenziale (conf. C. cost. n. 220 del 1988 e C. cost. n. 119 del 1991); sicch l'esigenza di contenimento della spesa pubblica pu ridurre in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante (C. cost. n. 240 del 1994 e C. cost. n. 822 del 1988). IX. L'intero quadro legislativo dei rapporti di lavoro risulta in tal modo profondamente modificato. Il principio del cumulo di interessi e rivalutazione sul quale si sono versati fiumi di inchiostro viene definitivamente abbandonato e sostituito dal medesimo criterio applicabile per i crediti di valuta (originariamente pecuniari). Il sistema di favore del cumulo automatico fondato sull'art. 429 terzo comma c.p.c. rimane pertanto applicabile solo ai crediti sorti precedentemente all'entrata in vigore delle due leggi finanziarie del 1991 e del 1994. L'Adunanza Plenaria, con la decisione che si pubblica, risolve il problema di diritto intertemporale relativo all'operativit del divieto sui rapporti in corso, allineandosi all'indirizzo giurisprudenziale che prevalso nella giurisprudenza della Cassazione, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite che, con la nota sentenza 26 giugno 1996, n. 5895 (richiamata espressamente dall'Adunanza Plenaria) hanno ricostruito puntualmente i diversi e contrastanti orientamenti delineatisi (la sentenza pubblicata in Foro it, 1996, I, 3027, con nota critica di PARDOLESI). In particolare, esclusa sia dalla giurisprudenza sia dalla stessa Corte costituzionale, con una successiva sentenza interpretativa di rigetto (C. Cost. n. 39!1/1992), la legittimit di un'applicazione integrale della nuova disciplina normativa all'inadempi0 mento pregresso anche per il periodo anteriore al 31 dicembre 1991, rimanevano teo ~: ricamente prospettabili tre diverse soluzioni: a) secondo la tesi pi garantista, seguita dalla giurisprudenza prevalente, lo ius i: superveniens non tocca i casi di mora maturati in precedenza, per cui il pieno cumulo i dovrebbe applicarsi comunque e integralmente quando l'inadempimento dell'obbligazione sia iniziatq prima dell'entrata in vigore della legge n. 416/91, anche per il perio-~ 1: 1! 1: @ f: PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 217 La domanda di interessi e rivalutazione, ad avviso della Adunanza plenaria, fondata entro i limiti di seguito chiariti. Secondo la legge 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l'adozione del provvedimento sulla domanda. L'importo dovuto a titolo di interessi portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subto dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito. do di ritardo successivo al 31 dicembre 1991; l'ambito di applicazione della legge n. 412/91 sarebbe pertanto limitato alla sola ipotesi di mora iniziata dopo l'entrata in vigore della legge stessa (tale orientamento giurisprudenziale, iniziato con la sentenza Cass. 10 giugno 1992, n. 7114, stato confermato dalle numerose pronunzie citate dalle Sezioni Unite, cui va aggiunta Cass., 1 settembre 1995, n. 9243, in Rep. Foro it., 1995, voce Previdenza sociale, n. 975); b) secondo un indirizzo pi rigoroso, quando l'inadempimento dell'obbligazione sia iniziato prima del 31 dicembre 1991 e proseguito dopo tale data, dovrebbe applicarsi la regola del cumulo pieno di interessi e rivalutazione, ma limitatamente al solo periodo di inadempimento anteriore. al 31 dicembre 1991, mentre per il periodo di ritardo successivo troverebbe applicazione il divieto di cumulo introdotto dalla legge n. 412/91 (cfr. Cass. 10 agosto 1995, n. 8801; Cass., 21 gennaio 1995, n. 680; Cass., 27 ottobre 1994, n. 8826; Cass. 6 novembre 1992, n. 12038); la legge n. 412/91 sarebbe pertanto applicabile anche nel caso di inadempimento iniziato prima di tale data, limitatamente per al solo periodo di ritardo successivo alla sua entrata in vigore (31dicembre1991); c) la soluzione intermedia ha finito per prevalere (sulla quale si veda in dottrina: CAPONI, In tema di ius superveniens sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali, in Foro it, 1992, I, 131): la legge n. 416/91 si applica solo al ritardato pagamento di ratei maturati successivamente al 31 dicembre 1991, essendosi in tal caso in presenza di nuove obbligazioni sorte sotto la vigenza della nuova normativa (in tal senso: Cass. 1 settembre 1995, n. 9239; Cass., 8 settembre 1995, n. 9498; Cass. 6 novembre 1995, n. 11534). Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 5895/1996, hanno infatti risolto il contrasto aderendo alla tesi mediana, volta a limitare l'applicazione dell'art. 16, per quanto riguarda i rapporti pendenti, ai soli ratei resisi esigibili dopo la sua introduzione. A tale soluzione la sentenza perviene sulla base di un articolato iter argomentativo, che, per un verso, individua le premesse teoriche del principio di diritto enunciato e, per altro verso, si distingue per ampiezza e completezza argomentativa. La sentenza (per quel che qui interessa) affronta la questione teorica dell'applicabilit o meno dello ius superveniens per disciplinare gli effetti attuali di fattispecie realizzatesi anteriormente alla sopravvenienza normativa, aderendo alla teoria del c.d. fatto compiuto, per cui una legge nuova pu applicarsi ad effetti non ancora esauriti di un rapporto giuridico sorto anteriormente, soltanto quando la norma sia diretta a regolare tali effetti, indipendentemente dall'atto o fatto giuridico che li gener (cfr. in tal senso da ultimo Cass. 11giugno1992, n. 7221; Corte cast., 17 dicembre 1985, n. 349; Cass., 27 febbraio 1987, n. 2118). La legge sopravvenuta non trova, invece, applicazione con riguardo agli effetti non esauriti di fattispecie pregresse, allorch non si limiti a disciplinare diversamente gli effetti della fattispecie, ma definisca diversamente gli stessi elementi della fattispecie generatrice degli effetti (ad es. introducendo nuovi presupposti, condizioni o facolt per il riconoscimento di diritti od obblighi, o sopprimendo requisiti precedentemente richiesti). ..,.., RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 218 La Corte costituzionale, con sentenza 24 ottobre 1996 n. 361, ha ritenuto infondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 16, 6 comma, legge 412/91, nella parte in cui non prevede, per il caso di tardivo adempimento di crediti previdenziali, il cumulo degli interessi legali con la rivalutazione monetaria, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. Ora, posto che dal rapporto previdenziale e da quello assistenziale deriva una serie di obbligazioni a cadenza periodica, ciascuna delle quali realizza l'intera prestazione dovuta in quel determinato periodo, all'inadempimento di ogni singolo rateo deve ritenersi conseguire il risarcimento del danno da mora previsto dalla legislazione vigente al momento della sua maturazione; s che, mentre per i ratei maturati anteriormente al 1 gennaio 1992 dev'essere corrisposto, oltre agli interessi legali, il maggior danno da svalutazione, a quelli maturati dopo tale data si applica la disciplina introdotta dall'art. 16, 6 comma, legge 412/91, a tenore della quale l'importo dovuto a titolo di interessi -secondo i vari tassi in vigore alla scadenza dei singoli ratei - portato in detrazione alle somme eventualmente spettanti a titolo di maggior danno da svalutazione (Cass. sezioni unite civili, sentenza 26 giugno 1996 n. 5895). Ed, in quanto volto ad incidere sugli effetti (e non sulla fattispecie generatrice), l'art. 16, 6 comma, legge 412/91, ove prevede, per i crediti previdenziali tardivamente corrisposti, che l'importo degli interessi sia portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a titolo di rivalutazione, si applica anche ai rapporti pendenti al momento della sua entrata in vigore (Cass. sezione lavoro, sentenza 21 gennaio 1995 n. 680). Le Sezioni Unite risolvono poi la questione della natura giuridica dei crediti previdenziali e assistenziali a maturazione periodica, aderendo alla tesi per cui i rapporti assistenziali e previdenziali non si sostanziano in un'unica obbligazione avente ad oggetto una prestazione unitaria da assolvere ratealmente, bens in una pluralit di obbligazioni a cadenza periodica, ciascuna delle quali realizza l'intera prestazione dovuta in quel determinato periodo. Pertanto, all'inadempimento di ogni singolo rateo consegue il risarcimento del danno da mora previsto dalla legislazione vigente al momento della sua maturazione, e ci porta a limitare l'applicazione dell'art. 16, per quanto riguarda i rapporti pendenti, ai soli ratei resisi esigibili dopo la sua introduzione. X. L'Adunanza Plenaria con la sent. n. 21/1997 ha recepito la soluzione indicata dalle Sezioni Unite (gi condivisa dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 13 novembre 1996, n. 1558). Ma non ha preso posizione su altre delicate questioni e, in particolare, non ha affrontato il nodo posto dalle modalit concrete di computo di interessi e rivalutazione, nei casi in cui -come si detto -il cumulo ancora possibile. Si attende pertanto una nuova presa di posizione, che valorizzi la complessa e faticosa ricostruzione operata dalla Quinta Sezione con la decisione 6 agosto 1997, n. 881, accogliendo la tesi che suggerisce di calcolare gli interessi sull'importo originario del credito e non su quello risultante dalla sua rivalutazione, n su quello originario via via rivalutato, apparendo questi ultimi criteri di calcolo che si traducono in ingiustificate locupletazioni. FEDERICO BASILICA PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Pertanto, nel caso in esame, la domanda di interessi e rivalutazione, per i ratei maturati dal 29 novembre 1988 al 1 gennaio 1992, va interamente accolta, con la corresponsione, oltre agli interessi legali, del maggior danno da svalutazione, mentre per i ratei maturati dopo tale ultima data, va accolta solo in parte, secondo la disciplina introdotta dall'art. 16, 6 comma, legge 412/91, in base alla quale l'importo dovuto a titolo di interessi -secondo i vari tassi in vigore alla scadenza dei singoli ratei - portato in detrazione alle somme eventualmente spettanti a titolo di maggior danno da svalutazione. Per l'ipotesi di persistente inesecuzione del giudicato, trascorsi 60 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente decisione, si nomina sin d'ora commissario ad acta il direttore generale della Previdenza e Assistenza Sociale del Ministero del Lavoro e della P.S., con facolt di delegare un dirigente della medesima direzione. Le spese e gli onorari di giudizio debbono essere posti a carico del Ministero del Tesoro, e liquidati in complessivi diecimilioni di lire. P.Q.M. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, definitivamente pronunciando sul ricorso per l'esecuzione del giudicato indicato in epigrafe: -d atto del pagamento della somma capitale dovuta ai ricorrenti; -accoglie per quanto di ragione la domanda di rivalutazione ed interessi, nei limiti indicati in motivazione; -nomina sin d'ora commissario ad acta il direttore generale della Previdenza ed Assistenza Sociale del Ministero del Lavoro e della P. S., con facolt di delegare un dirigente della medesima direzione, nell'ipotesi di persistente inesecuzione del giudicato trascorsi 60 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente decisione; -condanna il ministero del tesoro al pagamento delle spese e degli onorari di giudizio, che liquida in complessive lire diecinilioni. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorit amministrativa (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 3 marzo 1997, n. 173 -Pres. Buscema -Est. De Lipsis -Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica (aw. Stato Palmieri G.) c. Rugg Maura ed altri (aw. Ripoli). Impiego pubblico -Atti amministrativi della Presidenza della Repubblica Dipendenti del Segretariato Generale della Presidenza -Giurisdizione giudice amministrativo -Sussistenza. Impiego pubblico -Legittimazione alla tutela giurisdizionale -Interesse morale al corretto esercizio del potere di nomina a scelta -Sufficienza Fattispecie. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO. 220 Impiego pubblico -Revoca o riforma di atti amministrativi preesistenti Onere di ampia motivazione sulla necessit di rivalutare la situazione pregressa -Sussistenza. Diversamente da quanto awiene per le due Camere, prowiste di autodichia ai sensi dell'art. 64 della Costituzione, gli atti amministrativi emanati dalla Presidenza della Repubblica, siano essi regolamentari o adottati in forza di norma regolamentare, non sono sorretti da alcun fondamento costituzionale (implicito o espresso), trovando la loro fonte nell'art. 3 della legge n. 107711948, al quale, quindi, non va attribuita una valenza meramente ricognitiva, bens una natura attributiva del potere regolamentare. Con l'ulteriore corollario che gli atti in questione -alla pari di ogni altro atto amministrativo -sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo (1). Non pu non riconoscersi a ricorrenti appartenenti a personale di ruolo del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica (che non hanno altra via per accedere alla carriera direttiva che quella del pubblico concorso per esami e titoli) un interesse morale a non vedersi superare da un collega gi in ruolo mediante il sistema della nomina diretta, preceduta da revoca del precedente atto di nomina: tale.interesse morale (legittimante la tutela giurisdizionale) al corretto esercizio del potere di nomina a scelta, pu ritenersi soddisfatto anche attraverso il mero ripristino della vacanza del (1) La sentenza in rassegna, nel disattendere leccezione di difetto assoluto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione agli atti amministrativi (e normativi) adottati dal Presidente della Repubblica per l'organizzazione ed il funzionamento del Segretariato Generale della Presidenza e per la disciplina del rapporto di impiego dei dipendenti del Segretariato stesso, formulata dall'Avvocatura dello Stato, si muove dichiaratamente sulla scia della pronuncia della Cassazione Sez. Un. 10 maggio 1988 n. 3422 (edita, per esteso, in Foro it., 1988, I, 3603), che, in analoga controversia, aveva gi chiarito i limiti e la portata della sentenza della Corte costituzionale 1 O luglio 1981 n. 129 (in Foro it., 1981, I, 2631), anche allora addotta a sostegno della tesi della esenzione della giurisdizione dall'Amministrazione ricorrente (avverso Cons. Stato, IV, 27 maggio 1985, n. 208, in Giur. it., 1986 III, I, 16). Si in sostanza ancora una volta disattesa la tesi (che bisogna chiedersi quanto sia ancora opportuno coltivare) del fondamento costituzionale dei regolamenti presidenziali in materia di stato giuridico ed economico del personale, analogamente all'autodichia attribuita agli atti di autonomia normativa delle camere ex art. 64 1 comma Cost. (v. Corte cost. 23 maggio 1985. n. 154. in Foro it., 1985, I, 2173), in virt di un asserito principio di costante parallelismo tra i regolamenti di Camera e Senato e quelli della Presidenza della Repubblica desunto. in via ermeneutica, dalla citata pronuncia n. 129/1981 della Corte costituzionale. Va ricordato, per completezza, che in precedenza le Sezioni Unite della Cassazione (v. sentenza n. 2979/1975, in Foro it., 1976, I, 392) avevano gi avuto modo di precisare che le controversie relative ai rapporti di impiego del personale dipendente dal Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo, attesa l'inesistenza, nella specie, di una cd. giurisdizione domestica. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 221 posto, alla cui copertura, mediante concorso, di ostacolo il provvedimento impugnato (2). Tutti i provvedimenti che producono modificazione, totale o parziale, del contenuto di atti preesistenti -specie allorquando siano adottati in sede di autotutela e siano il frutto di valutazioni discrezionali -non sfuggono all'onere di enunciazione delle ragioni giustificative della necessit di riponderare la pregressa valutazione, non idonea al conseguimento dell'interesse pubblico attuale: motivazioni le quali -se possono essere attenuate nei confronti del destinatario degli effetti favorevoli del provvedimento -devono, invece, essere pienamente evidenti (ancorch in maniera sintetica) nei riguardi del terzo che subisca pregiudizio dal provvedimento medesimo (3). (omissis) La questione all'esame del Collegio concerne la legittimit di un provvedimento adottato dal Presidente della Repubblica (decreto n 48/A del 25 aprile 1992), con il quale -previa revoca del precedente atto di nomina -la dott.ssa Anna Maria Brizi stata nominata referendario in prova nel ruolo della carriera direttiva del Segretariato Generale, con effetti giudici dal 1 ottobre 1990 ed economici dal 25 aprile 1992 (data di adozione del decreto). Nell'ordine logico delle pregiudiziali sollevate dagli odierni appellanti, preliminare l'esame dell'eccezione relativa al difetto di giurisdizione formulata dal Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, in ordine al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Sostiene l'Amministrazione ricorrente che il sindacato di legittimit sugli atti amministrativi (e normativi) adottati dal Presidente della Repubblica per l'organizzazione ed il funzionamento del Segretariato (2) La giurisprudenza del Consiglio di Stato costante nell'affermare che il solo interesse morale sufficiente a legittimare la tutela giurisdizionale contro atti che si sostiene essere stati adottati contra legem ( v. per tutte Cons. Stato, IV, 5 ottobre 1991, n. 890, in Cons. Stato 1991, I, 1629; Cons. Stato, VI, 10 agosto 1988 n. 977, ivi, 1988, I 962; Cons. Stato, IV, 15 .marzo 1983. n. 119 e Cons. Stato, V, 6 maggio 1983, n. 242, ivi, 1983, I, 230). In particolare, nel caso di specie, il giudice amministrativo, oltre ad evidenziare dei profili di interesse non squisitamente morale dei ricorrenti in primo grado in quanto potenziali concorrenti alla riserva di uno dei posti vacanti, si preoccupa di sottolineare le discutibili modalit di adozione del provvedimento impugnato (preceduto da revoca di altro provvedimento di analogo contenuto, ostativo al primo, in elusione del divieto di nominare persone appartenenti al ruolo dell'Amministrazione), a maggior sostegno e giustificazione dell'interesse morale riconosciuto ai detti ricorrenti. (3) Giurisprudenza costante. In particolare la sentenza in rassegna puntualizza che l'obbligo di motivazione imposto dai principi generali per gli atti di revoca deve ritenersi esteso anche agli atti che si vogliano qualificare di riforma (in ipotesi produttivi di alcuni effetti ex tunc, quali la retrodatazione degli effetti giuridici) sussistendo la stessa esigenza di ordine generale di evidenziare le ragioni di pubblico interesse concreto ed attuale che hanno portato a rivalutare la pregressa situazione, tanto pi quando vi siano controinteressati (come nella specie) cui derivino effetti sfavorevoli dal provvedimento adottato in sede di autotutela, comunque qualificato. L.V. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 222 Generale della Presidenza e per la disciplina del rapporto di impiego dei dipendenti del Segretariato stesso sarebbe precluso al giudice amministrativo. E ci in omaggio ad un asserito principio di costante parallelismo, evidenziato anche dalla Corte Costituzionale, tra i regolamenti della Camera e Senato e quelli della Presidenza della Repubblica, in forza del quale la posizione di autonomia garantita a tali organi comporterebbe il difetto assoluto di giurisdizione del giudice amministrativo, il quale non potrebbe sindacare gli atti da questi emanati. La su esposta tesi non pu essere condivisa e la relativa eccezione va, pertanto, disattesa. Rileva al riguardo il Collegio che l'affermato principio, di carattere generale, di sottrazione degli atti amministrativi della Presidenza della Repubblica al controllo giurisdizionale non sussiste alla luce di una attenta disamina delle fonti normative vigenti in materia, nonch di una corretta interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale (la n. 129 del 10 luglio 1981) richiamata dall'appellante Amministrazione a sostegno del suo assunto. Invero, i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica sull'ordinamento interno del Segretariato (fonte degli atti amministrativi della Presidenza) sono privi di fondamento diretto in norme o principi costituzionali, atteso che il potere regolamentare attribuito dall'art. 3 della legge 9 agosto 1948, n. 1077, istitutiva del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica. In altri termini, diversamente da quanto awiene per le due Camere, provviste di autodichia al sensi dell'art. 64 della Costituzione, gli atti amministrativi emanati dalla Presidenza della Repubblica, siano essi regolamentari o adottati in forza di norma regolamentare, non sono sorretti da alcun fondamento costituzionale (implicito o espresso), trovando la loro fonte nell'art. 3 della legge n. 1077/1948, al quale, quindi, non va attribuita una valenza meramente ricognitiva, bens una natura attribuitiva del potere regolamentare. Con l'ulteriore corollario che gli atti in questione -alla pari di ogni altro atto amministrativo -sono soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo. N pu indurre a diversa conclusione la giurisprudenza costituzionale richiamata dall'appellante Amministrazione (sentenze n. 154/1985 e 129/1981). Invero la prima delle due citate decisioni non attiene all'argomento in esame avendo la Corte, in quell'occasione, ribadito il principio che alla Camera dei Deputati debba essere riconosciuta un'indipendenza costituzionalmente garantita e che, pertanto, il giudice amministrativo non pu sindacarne gli atti emanati ai sensi dell'art. 64 della Costituzione. Con la decisione n. 129/1981, poi, la Corte Costituzionale -chiamata a pronunciarsi su un conflitto di attribuzione che vedeva contrapposti la Presidenza della Repubblica, la Camera dei Deputati ed il Senato alla Corte dei Conti, la quale pretendeva di sottoporre alla sua giurisdizione contabile i tesorieri dei predetti organi -ha semplicemente affermato la sussistenza di PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA un latente parallelismo tra i regolamenti in materia contabile emanati dal menzionati organi, con la conseguente insindacabilit da parte della Corte dei Conti degli atti emessi in tale materia. D'altra parte la successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito i limiti e la portata della menzionata sentenza. Infatti, stato correttamente affermato che le controversie inerenti al rapporto di pubblico impiego del personale del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, ancorch investano i provvedimenti presidenziali di approvazione delle norme regolamentari sullo stato giuridico ed economico e sul trattamento pensionistico (ad eccezione della liquidazione della pensione), non si sottraggono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tenuto conto che quei provvedimenti integrano atti amministrativi attinenti al rapporto d'impiego e che difettano disposizioni di deroga alla suddetta giurisdizione in favore di organi interni della Presidenza della Repubblica (come, invece, previsto negli ordinamenti del personale della Camera e del Senato (Cass. SS.UU. 10 maggio 1988, n. 3422). Pertanto, l'atto di nomina impugnato, emanato dal Presidente della Repubblica nell'esercizio dello specifico potere attribuitogli dalla norma regolamentare, va ricondotto nell'ambito dell'espressione del potere organizzatorio e considerato esplicazione di funzioni amministrative, con conseguente sua assoggettabilit al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo. 2) Con una seconda eccezione di carattere preliminare, comune in entrambi gli appelli, viene dedotta la carenza di interesse a ricorrere da parte degli organi ricorrenti, i quali non avrebbero alcuna utilit concreta nella situazione giuridica e di fatto nella quale versano, dall'eventuale annulamento dell'atto gravato in primo grado; quindi, il loro interesse a ricorrere difetterebbe del requisito dell'attualit. Inoltre, essi -proprio in quanto dipendenti dell'Amministrazione non avrebbero alcuna posizione qualificata ai fini della nomina in luogo della dott.ssa Brizi tenuto altresi conto che il divieto di nominare soggetti gi appartenenti all'Amministrazione escluderebbe ogni loro aspirazione alla nomina a referendario del ruolo della carriera direttiva. Anche la su esposta eccezione priva di pregio, sotto tutti i menzionati profili. Devesi innanzi tutto evidenziare che gli odierni appellati -ai sensi del1' art. 5 del vigente regolamento sullo stato giuridico del personale di ruolo del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica (D.P. 18 giugno 1985, n. 174) -non hanno altra via per accedere alla carriera direttiva che quella del pubblico concorso per esami, eventualmente integrato da titoli. Infatti, il comma 4 del citato art. 5 testualmente stabilisce che Un terzo dei posti messi a concorso riservato al personale di ruolo del Segretariato generale, in possesso dei prescritti requisiti per l'accesso alla qualifica iniziale di ciascuna carriera. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 224 Quindi, la posizione degli originari ricorrenti differenziata rispetto a coloro che -in quanto non appartenenti al personale del Segretariato -non concorrono alla predetta riserva di 1/3 dei posti vacanti. Inoltre evidente che la copertura illegittima di un posto nell'organico pregiudica -a prescindere dalla sussistenza o meno di una procedura concorsuale in atto -la possibilit degli appartenenti all'Amministrazione di potervi accedere, onde appare innegabile il loro interesse a rimuovere il provvedimento che non ha reso disponibile quel posto in occasione del prossimo concorso. D'altra parte -come correttamente evidenziato dai primi giudici -non pu non riconoscersi in capo agli originari ricorrenti un interesse morale (legittimante la tutela giurisdizionale) al corretto esercizio del potere di nomina a scelta, che pu ritenersi soddisfatto anche attraverso il mero ripristino della vacanza del posto, alla cui copertura, mediante concorso, di ostacolo il contestato provvedimento. noto che anche il solo interesse morale sufficiente a legittimare la tutela giurisdizionale contro atti che si assumono essere stati adottati contra legem (IV Sez. 5 novembre 1991, n. 890). Nel caso di specie, le modalit di adozione del censurato decreto e le circostanze che lo hanno determinato (la previa revoca di un provvedimento avente analogo contenuto, adottato al fine di ricostruire un formalistico rispetto della lettera della legge, in un contesto comportamentale denotante la sussistenza di un chiaro atteggiamento contrario ai corretti principi di buona amministrazione cui deve essere improntato l'esercizio del potere discrezionale) rendono ammissibile l'interesse morale degli odierni appellanti a non vedersi superare da un collega gi in ruolo mediante il sistema della nomina diretta. 3) Neppure pu essere accolta la doglianza del difetto di interesse di una delle originarie ricorrenti (la dott.ssa Ruggi) sotto il profilo che la medesima non avrebbe il titolo legittimante all'accesso alla carriera direttiva del Segretariato, in quanto in possesso del diploma di laurea in scienze biologiche. Invero, ai sensi dell'art. 3 del regolamento sullo stato giuridico del personale, non sussiste alcuna limitazione circa i titoli di studio richiesti per l'accesso alla carriera direttiva, essendo all'uopo idonei tutti i tipi di laurea. 4) Con l'unico motivo di merito, sia la Brizi che l'Amministrazione sostengono la violazione e falsa applicazione dei principi generali in tema di revoca sostenendo, in sostanza, che del tutto erroneamente l'adito TAR avrebbe ritenuto, nella specie, illegittimamente esercitato il potere di revoca. Osserva al riguardo il Collegio che l'art. 1 dell'impugnato decreto contiene la revoca del provvedimento n. 32/A del 2 settembre 1990, con la quale la dott.ssa Brizi era stata nominata segretaria in prova nel ruolo della carriera di concetto di segreteria della Presidenza della Repubblica (atto presupposto la cui caducazione si rendeva necessaria per l'esercizio del potere di nomina - PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA diretto e altrimenti preclusa dal chiaro divieto contemplato nell'ultimo comma del richiamato art. 5 del Regolamento). Ora, come noto, all'istituto della revoca si ricorre allorquando sussistano fatti nuovi che hanno reso il primo provvedimento non pi conforme all'interesse pubblico attuale dell'Amministrazione e di ci deve essere data ampia e giustificata motivazione, onde fare apparire del tutto legittima la scelta di rivalutare la pregressa situazione. Nel caso di specie, nel contesto dell'atto impugnato in primo grado, non si evincono le ragioni giustificative che hanno indotto l'Amministrazione a revocare il precedente atto di nomina della Brizi nella carriera di concetto; motivazioni le quali -se possono essere attenuate nei confronti del destinatario degli effetti favorevoli del provvedimento -devono, invece, essere pienamente evidenti (ancorch in maniera sintetica) nei riguardi del terzo che subisca pregiudizio dal provvedimento medesimo. Infatti, non pu ritenersi congrua motivazione l'affermazione effettuata nella parte motiva in ordine alla circostanza che l'interessata, nell'originario inquadramento, avrebbe avuto una Valutazione non oggettivamente adeguata alle doti di esperienza, capacit professionali e culturali. N pu ritenersi valida ragione giustificativa l'accertata insussistenza di impedimenti alla nomina nella qualifica della carriera direttiva, essendo l'interessata in possesso del necessario titolo di studio (necessario presupposto logico per la nomina a refendario, ma ex se irrilevante per giustificare la disposta revoca del precedente provvedimento). La situazione non cambia se si qualifica il provvedimento de quo, nel merito, come atto di riforma del precedente decreto, produttivo, da un lato, di effetti ex tunc (retrodatando gli effetti giuridici alla data del provvedimento riformato) e, dall'altro, di effetti ex nunc (limitatamente agli effetti economici). Ci in quanto tutti i provvedimenti che producono modificazione, totale o parziale, del contenuto di atti preesistenti -specie allorquando siano adottati in sede di autotutela e siano il frutto di valutazioni discrezionali non sfuggono all'onere di enunciazione delle ragioni giustificative della necessit di riponderare la pregressa valutazione, non pi idonea al conseguimento dell'interesse pubblico attuale. Pertanto, sotto l'esaminato profilo, le peculiari modalit di adozione dell'atto contestato confermano un uso scorretto dello ius poenitendi da parte dell'Amministrazione, la cui azione appare oggettivamente sviata verso I'obiettivo di eludere -attraverso la caducazione di una precedente nomina, la quale si poneva quale elemento ostativo alla nuova statuizione -il divieto contemplato nel menzionato art. 5 del vigente regolamento sullo stato giuridico ed economico del personale di ruolo del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica. 5) Alla luce delle su esposte considerazioni gli appelli vanno respinti, con conferma dell'impugnata sentenza (omissis). 226 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 226 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 14 luglio 1997, n. 715 -Pres Pezzana -Est. Venturini -Perin Luigi Dino (avv. Alba e avv. Manzi) c. Prefetto di Vicenza e ANAS (avv. Stato Laporta.)V2 Espropriazione per pubblica utilit -Occupazione d'urgenza -Termini Norma sopravvenuta -Decreto di proroga posteriore alla scadenza illegittimit -Offerta indennit provvisoria di espropriazione -Deposito di somme non corrispondenti -Decreto di espropriazione -illegittimit. (legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865). L'estensione alle espropriazioni per la realizzazione di opere statali dei primi due commi dell'art. 20 della legge n. 86511971 ad opera dell'art. 14 della legge n. 1011977 non ha comportato la proroga automatica delle occupazioni in corso, le quali pertanto richiedono un prowedimento dell'autorit amministrativa che deve intervenire prima della scadenza del termine originario dell'occupazione (1). Il decreto di espropriazione deve essere preceduto dal pagamento dell'indennit provvisoria accettata o dal deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti di somma esattamente corrispondente a quella oggetto dell'offerta, la quale va ripetuta nel caso di rinnovo della dichiarazione di pubblica utilit (2). Sebbene la scelta delle aree da espropriare ai fini della realizzazione dell'opera pubblica sia rimessa all'apprezzamento della p.a. sindacabile in sede di legittimit la illogicit e la inutilit della scelta effettuata che risulti ictu oculi e sia dimostrata dal comportamento contraddittorio dell'amministrazione (3). (omisiss) 1. L'appello fondato. 2.1 -Contro il decreto di proroga dell'occupazione stata dedotta un'articolata censura. Se si esercitato il potere di cui agli artt. 71 e segg. della legge n. 2359/1865, l'occupazione -si sostiene -non poteva essere protrat( 1) In termini CdS, sez. IV, 14 marzo 1995 n. 173 in Rass. Consiglio di Stato, 1995, I, 316; Cass., SS.UU., 2 ottobre 1993, n. 4186, in Rass. Cons. di Stato, 1993, Il, 1500. Sulla impossibilit di proroga ex Jege, ai sensi dell'art. 14, comma Il, del d.l. 29 dicembre 1987, n. 534 conv. dalla legge 29 febbraio 1988 n. 47 che proroga le occupazioni di urgenza in corso al 1 gennaio 1988, delle occupazioni divenute sine titulo per scadenza del termine originariamente previsto cfr. CdS, sez. IV, 3 febbraio 1996 n. 102, in Rass. Cons. Stato, 1996, I, 134; CdS, sez. IV, 16 luglio 1991 n. 592 in Rass. Cons. Stato, 1996,I, 1115. (2) Giurisprudenza -cfr. CdS, sez. IV, 20 marzo 1992, n. 306 in Rass. Cons. Stato 1992, I, 398; CdS, sez. IV, 6 marzo 1996 n. 279, in Rass. Cons. Stato 1996, I, 367. (3) Sulla autonoma lesivit della determinazione di scelta delle aree da espripriare cfr. Cons. giust. amm. reg. sic. 25 giugno 1990, n. 212, in Rass. Cons. 'Stato 1990, I, 917; sulla legittimit della scelta di area a destinazione agricola per l'insediamento provvisorio di terremotati cfr. CdS, sez. IV, 7 aprile 1988 n. 308, in Rass. Cons. Stato 1988, I, 398. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA ta oltre il biennio. Se, invece, si inteso applicare l'art. 20 della legge 865/1971, l'occupazione poteva bens protrarsi per cinque anni -si sottolinea -ma il provvedimento originario di occupazione 23 febbraio 197 4 aveva perso efficacia, per non essere seguita l'ammissione in possesso nei successivi tre mesi, ma solo due anni dopo (il 24 febbraio 1978). %Nell'uno e nell'altro caso, il decreto di proroga non poteva essere adottato. Ma a prescindere da ci, il decreto di proroga era comunque illegittimo, perch adottato dopo la scadenza del termine da prorogare. 2.2 -Il Collegio osserva che quando venne adottato il decreto di occupazione d'urgenza 23 febbraio 1974 l'art. 20, 1 e 2 comma, della legge n. 865/1971 non era stato ancora reso applicabile alle opere pubbliche statali. divenuto applicabile, infatti, a tali opere solo in virt del disposto dell'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (l'art. 14 ha esteso esplicitamente il 1 comma dell'art. 20; la pi recente giurisprudenza intende esteso anche il 2 comma, stante la stretta connessione fra le due norme). Il citato decreto prefettizio 23 febbraio 1974, perci, non ha perso efficacia perch l'immissione in possesso non seguita nei tre mesi dalla sua emanazione, ma solo il 24 marzo 1976. 2.3 -L'art. 14 della legge n. 10/1977, che ha esteso alle opere statali i primi due commi dell'art. 20 della legge n. 865/1971, intervenuto quando era ancora in corso l'occupazione disposta inizialmente per non pi di due anni, a termini dell'art. 73 della legge n. 2359/1865. Questa, pertanto, poteva essere prorogata fino ad un massimo di cinque anni, in forza delle nuove norme. Le nuove norme, per, come giurisprudenza pacifica, non hanno disposto.la proroga automatica delle occupazioni in corso, ma hanno solo previsto in via generale ed astratta l'elevazione del termine massimo di occupazione (Cass. S.U. 2 ottobre 1993, n. 9826; Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 173 del 14 marzo 1995). Si richiede, perci, ai fini della proroga della singola occupazione l'intermediazione di un provvedimento della Autorit Amministrativa. 2.4. Il provvedimento dell'Autorit Amministrativa nella specie intervenuto, ma tardivamente. L'immissione in possesso, come pacifico in causa, seguito il 24 febbraio 1976. Il termine di due anni fissato nel decreto prefettizio 23 febbraio 1974, dunque, scadeva il 24 febbraio 1978. Entro tale data, perci, andava adottato il decreto di proroga. stato, invece, adottato il 25 agosto 1978, a termine ormai scaduto e, quindi, illegittimamente, secondo costante giurisprudenza. Non ha alcun rilievo che la domanda di proroga sia stata avanzata prima della scadenza del termine. Ci che conta, contrariamente a quanto sostiene RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 228 l'Awocatura Generale, che la proroga stata disposta a termine da prorogare gi scaduto. Il decreto del Prefetto di Vicenza 25 agosto 1978, pertanto, illegittimo e va annullato (ovviamente in parte qua, limitatamente alla occupazione dei beni di cui comproprietario il Sig. Perin Luigi Dino). 3.1. -Sostiene l'appellante che mancata l'offerta della indennit prowisoria di_ espropriazione, condizione di legittimit del prowedimento ablativo. Il motivo fondato. Ai sensi dell'art. 13 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, l'unico presupposto per lemanazione del decreto di esproprio costituito dalla prova, a carico dell'espropriante, di aver pagato all'espropriato l'indennit prowisoria accertata o di averla depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti se non accettata (l'art. 13 cit. applicabile alle espropriazioni per la realizzazione di opere pubbliche statali in forza dell'art. 4 del cl.I. 2 maggio 1974, n. 115, convertito, con modificazioni, nella legge 27 giugno 1974, n. 247. Nella specie il presupposto legittimante non si realizzato per due ordini di considerazioni. 3.2 -L'indennit provvisoria depositata deve essere esattamente quella offerta. Agli atti risultano due offerte di indennit provvisoria in data 1 O maggio 1978 per L. 240.000 e in data 26 settembre 1979 per L. 53.225.909. Risulta, invece, depositata quale indennit di esproprio la somma di L. 75.436.000, non corrispondente alle somme offerte. Nella sentenza appellata si afferma che la somma depositata quella offerta in data 26 settembre 1979, incrementata degli interessi maturati dalla data di occupazione. Ma non cos. Gli interessi legali dalla data della occupazione (febbraio 1976) alla data del deposito della somma (30 giugno 1980), secondo quanto calcolato dall'appellante e che non ha trovato smentita da parte dell'Amministrazione appellata, ammontano a L. 11.352.280 che, aggiunti alla somma capitale di L. 53.225.909 (offerta del 26 settembre 1979), danno L. 64.758.189: una somma del tutto diversa da quella depositata di L. 75.436.000. 3.3 -Ma l'offerta dell'indennit provvisoria mancata anche per un altro ordine di considerazioni. L'approvazione del progetto di cui al D.M. 3 ottobre 1972, comportante dichiarazione di pubblica utilit, prevedeva che le espropriazioni avessero compimento entro 7 anni dall'emanazione del prowedimento: e cio entro il 3 ottobre 1979. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Ci non essendo stato possibile, si rese necessaria una nuova approvazione del progetto, agli effetti della dichiarazione di pubblica utilit, cui si provvide con D.M. 22 gennaio 1980. La nuova dichiarazione di pubblica utilit rendeva necessaria la rinnovazione di tutti gli atti del procedimento, ivi comprese la determinazione della indennit provvisoria e della relativa offerta. Gli atti di determinazione dell'indennit provvisoria e della relativa offerta, invece, non sono stati rinnovati dopo la nuova dichiarazione di pubblica utilit. Non esatto quanto affermato in sentenza, che l'offerta stata formulata successivamente al rinnovo della dichiarazione di pubblica utilit. Dopo il rinnovo, stata depositata la somma di L. 75.436.000, ma nessuna offerta di tale importo risulta effettuata, n l'Amministrazione appellata sostiene di averla effettuata. 4.1 -Le considerazioni che precedono sono sufficienti a sorreggere una pronuncia di illegittimit del decreto del Prefetto di Vicenza 5 febbraio 1981, per la parte relativa all'espropriazione dei beni che interessano l'appellante. Ma fondata anche la seconda censura rivolta avverso il provvedimento espropriativo. Il Sig. Perin ha censurato la illogica e non necessaria espropriazione di alcuni mappali, che avrebbero potuto essere assoggettati a servit, con eguale soddisfacimento dell'interesse pubblico (che anzi l'Erario sarebbe stato gravato da minore indennit) e minore sacrificio del diritto del privato. Nella sentenza si afferma che tale censura inammissibile sotto un duplice profilo. In primo luogo, perch la doglianza non attiene al decreto di esproprio ma al provvedimento di approvazione del progetto, che ha determinato il complesso delle aree interessate dall'interv"ento. In secondo luogo, perch il motivo attiene alla scelta delle aree, che fuoriesce dai limiti del sindacato di legittimit. 4.2 -Non esatto che la determinazione dei terreni da espropriare sia avvenuta con il decreto di approvazione del progetto. A questo riguardo da sottolineare che l'intera procedura si svolta in un periodo di incertezza normativa, quando ancora la giurisprudenza non aveva chiarito la portata e l'ambito di applicabilit delle nuove norme. Nelle premesse del decreto di esproprio il Prefetto di Vicenza richiama il proprio decreto n. 697/77 del 26 settembre 1979 con il quale stata dichiarata la esecutoriet del piano. Da ci si evince che la procedura seguita non quella di cui all'art. 10 della legge n. 865/1971, legge che del resto non nel decreto prefettizio mai menzionata, in cui la approvazione del progetto, comportante la dichiarazione di pubblica utilit, segue la individuazione dei beni da espropriare. Si evince, altres, che stata seguita la procedura di cui al capo III della legge RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 230 n. 2359/1865 in cui il piano particolareggiato di esecuzione che individua i beni soggetti ad espropriazione, piano che viene redatto ed approvato dopo la dichiarazione di pubblica utilit. Il D.M. 22 gennaio 1980, contenente nuova dichiarazione di pubblica utilit, non ha fatto altro che riapprovare puramente e semplicemente il vecchio progetto, gi approvato con D.M. 3 ottobre 1972 allorquando l'art. 10 della legge n. 865/1971 non era ancora applicabile alle opere pubbliche statali (ed in effetti nel D.M. 22 gennaio 1980 si richiama l'art. 13 della legge n. 2359/1865). Il D.M. 22 gennaio 1980, pertanto, non individua i beni da espropriare. Questi sono stati individuati con altri successivi atti endoprocedimentali, impugnabili solo con il provvedimento espropriativo. Non ha, poi, rilievo che i beni espropriati fossero stati gi oggetto del provvedimento di occupazione, essendo questo preordinato a rendere possibile l'esecuzione dei lavori e potendo interessare anche beni non necessariamente da espropriare. 4.3 -La scelta delle aree da espropriare, ai fiIJ.i della realizzazione dell'opera pubblica rimessa all'apprezzamento della pubblica Amministrazione e non sindacabile in sede di legittimit. Se ci esatto, per altrettanto incontrovertibile che non impinge nel merito, ma rimane nell'ambito della legittimit, un sindacato del Giudice che si limiti a rilevare la illogicit e la inutilit ai fini dell'interesse pubblico della scelta effettuata, quando risultino ictu oculi e siano resi palesi dal comportamento contraddittorio dell'Amministrazione. Nella specie, a quanto risulta dagli atti e non smentito dall'Amministrazione appellata; la proiezione dell'impalcato nel capannone risulta in parte espropriata (mappale 1027) ed in parte assoggettata a servit (1029). Sono stati poi espropriati i mappali 1031 e 1038, che individuano lo spazio di entrata del capannone, questo solo in parte espropriato. Ci sta a significare che la scelta dell'amministrazione stata incoerente ed irrazionale e rende viziato di illegittimit per questo aspetto il provvedimento espropriativo. A questo rilievo non pu certo rispondersi nei termini della sentenza appellata. Se alcuni mappali riguardano aree di transito per l'accesso al capannone -si legge nella sentenza -la circostanza non implica che si dovesse imporre servit e non procedere ad espropriazioni. Sulle aree espropriate, rovesciando la prospettiva, ben poteva, secondo la sentenza, essere imposta una servit coattiva di transito a favore dell'espropriato. Non c' bisogno di particolari commenti, a parte il fatto che nulla si dice sul rilievo che il capannone era stato in parte espropriato e in parte asservito. 5. In conclusione l'appello va accolto e la sentenza appellata va riformata. da accogliere il ricorso in primo grado e, per l'effetto, sono da annullare i provvedimenti impugnati, limitatamente alle aree che interessano l'appellante (omissis). PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 231 CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 11 dicembre 1997 n. 1383 -Pres. Pezzana Est. Santoro -Impresa Del Favero (avv. Del Greco e Cancrini) c. Capone ed altri (avv. Abbamonte), Prefetto di Benevento, Ministero dei Beni Culturali, Ministero dei Lavori Pubblici, ANAS (avv. Stato Arena E.), Comune di Benevento (n.c.) e Provincia di Benevento (n.c.) Espropriazione per pubblica utilit -Termini -Termine ex art. 1 terzo com.ma 1. n. 1 del 1978 -Natura acceleratoria. Espropriazione per pubblica utilit -Termini -Inizio e ultimazione della procedura -Proroga -Casi di forza maggiore -Individuazione. Il termine indicato dall'art. 1, terzo comma, della legge 3 gennaio 1978, n. 1, in base al quale le dichiarazioni di pubblica utilit e di urgenza e di indifferibilit divengono inefficaci se le opere non hanno avuto inizio nel triennio successivo all'approvazione del progetto, ha natura acceleratoria, imponendo una completa rinnovazione delle valutazioni sottostanti a quelle dichiarazioni ove il termine stesso sia comunque decorso. Sotto questo profilo la disposizione ha carattere aggiuntivo e non sostitutivo dell'art. 13 legge 25 giugno 1865 n. 2359 (1). In base all'art. 13, secondo comma, della legge 25 giugno 1865, n. 2359 itermini, entro cui dovranno cominciare e compiersi le espropriazioni ed i lavori, possono essere prorogati per casi di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volont dei concessionari, dovendosi intendere come obiettive difficolt che si frappongono al compimento degli atti espropriativi e che, mentre impediscono il regolare corso del procedimento, non possono essere altrimenti superate, non offrendo l'ordinamento, a questi fini, idoneo strumento giuridico, con la conseguenza che l'interesse pubblico inerente alle acquisizioni coattive degli immobili non pu trovare soddisfacimento nei termini stabiliti (2). (omissis) 1. Gli appellati sono titolari di alcuni appezzamenti di terreno siti in Benevento lungo l'asse dell'attuale strada statale Benevento-TeleseCaianiello. (1) In tal senso si era gi orientata la giurisprudenza, cfr. le sentenze indicate pure nella motivazione della sentenza de qua, Cons. Stato, Sez. IV, 5 maggio 1981 n. 381, in Il Cons. Stato, 1981, I, 508; id., 20 aprile 1993 n. 436, ivi 1993, I, 509. Nel senso che la necessaria fissazione dei termini nel prjmo atto della procedura espropriativa attiene agli stessi presupposti di costituzionalit deffspropriazione e, quindi, da un lato, non ammissibile sanatoria con efficacia ex tunc mediante convalida dell'atto; dall'altro, una eventuale integrazione postuma ex nunc dell'atto stesso non ne elimina l'originaria illegittimit cfr. per tutte, Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 1994 n. 204, in Il Cons. Stato, 1994, I, 962; id., 5 giugno 1995 n. 416, ivi, 1995, I, 659 ; id., 15 aprile 1997 n. 395, ivi, 1997, I, 479. ' (2) Negli esatti termini in fattispecie riguardante il mancato tempestivo accordo per la cessione. volontaria che stato ritenuto non costituire valida ragione per consentire la proroga Cons. Stato, Sez. IV, 21 dicembre 1985 n. 81O, in Il Cons. Stato, 1985, I, 1550, citata anche nella sentenza de qua. Sulla ammissibilit di pi proroghe successive id., 17 luglio 1996 n. 863, ivi, 1996, I, 1111. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 232 In data 5 settembre 1991 era stato notificato ai proprietari catastali il decreto di occupazione del Prefetto di Benevento (relativo alla realizzazione del raddoppio del primo tratto della S.S. 372 Benevento Telese Caianiello), a seguito di espressa richiesta inoltrata dall'ANAS. Tale decreto era impugnato innanzi al T AR Campania. In data 24 settembre 1987 il Comune di Benevento con delibera di G.M. n. 2915 esprimeva parere favorevole al progetto di massima del raddoppio della S.S. 372, che, gi redatto dal Centro Manutentorio dell'A.N.A.S., era stato inviato dall'A.N.A.S. al Comune in data 17 settembre 1987. Il 3 aprile 1989 con delibera n. 808 la Giunta della Provincia di Benevento, chiamata ad esprimere parere sull'opera ai sensi della legge reg. 23 febbraio 1982 n. 10, deliberava il proprio assenso all'opera sul presupposto dell'inoperativit della apposita Commissione Beni Ambientali. Alla luce dei pareri sopra descritti la Regione Campania esprimeva anch'essa il proprio assenso sulla medesima richiesta dell'A.N.A.S. con delibera 3119 del 7 luglio 1989. Il 20 marzo 1990 il Ministro dei Lavori Pubblici, in qualit di Presidente dell'A.N.A.S., con decreto n. 1072 approvava il progetto dell'opera in questione redatto da libero professionista per conto dell'A.N.A.S. in data 26 aprile 1989 n. 14177 .... . Con lo stesso decreto il Ministero dei Lavori Pubblici stabiliva i termini di inizio lavori ed espropriazioni (un anno dal 21marzo1990) e termine lavori ed espropriazioni (gg. 1800 e 2520 dal 21 marzo 1990). Con successivo D.M. n. 22 dell'8 aprile 1991 venivano approvate le risultanze della gara d'appalto ed era affidata alla aggiudicataria impresa Ingg. Lino e Ito Del Favero -Impresa di costruzioni S.p.a., l'esecuzione degli espropri occorrenti. Con la sentenza appellata il TAR accoglieva il ricorso proposto dagli interessati avverso gli atti suddetti. Con atto notificato il 15 luglio 1994 propone ora appello l'impresa Ingg. Lino e Ito Del Favero -Impresa di costruzioni S.p.a. 2. In via pregiudiziale l'impresa eccepisce la mancata notifica ad essa del ricorso di 1 grado. Gli appellati sostengono viceversa il difetto di legittimazione attiva dell'appellante. Entrambe le censure sono da disattendere. Invero, come detto, l'impresa Ingg. Lino e Ito Del Favero era stata incaricata delle procedure espropriative con il decreto ministeriale n. 22 dell'8 aprile 1991. Essa pertanto sarebbe stata l'unica controinteressata rispetto al provvedimento di aggiudicazione (ma il D.M. n. 22 dell'8 aprile 1991 non era stato impugnato nella parte in cui erano state approvate le risultanze della gara d'appalto) ed era, viceversa, controinteressata, insieme con gli enti locali interessati, anche rispetto agli altri provvedimenti impugnati in 1 grado, riguardanti l'approvazione e localizzazione dell'opera in questione ed i procedimenti ablatori correlati alla sua esecuzione. -"-11=111111111111 ~ PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Il ricorso di 1 o grado non poteva conseguentemente ritenersi inammissibile sotto il profilo considerato, essendo stato appunto notificato agli enti locali e, dunque, almeno ad uno dei controinteressati, oltre che alle autorit emananti. Deve ritenersi viceversa che l'impresa Ingg. Lino e Ito Del Favero sia legittimata all'appello, in quanto dall'annullamento degli atti impugnati in questo giudizio conseguirebbe anche la caducazione del decreto ministeriale n. 22 dell'8 aprile 1991, con cui essa era appunto stata incaricata delle procedure espropriative. 3. -Nel merito l'appello peraltro fondato. Il tribunale, con la sentenza appellata, aveva accolto il secondo motivo, con cui era stato dedotto che il parere degli enti locali interessati sarebbe stato reso soltanto sul progetto redatto nel 1977 dall' Ammistrazione, mentre il progetto, al quale si riferiva la dichiarazione di pubblica utilit adottata nel 1990, era quello redatto da un professionista esterno ed approvato nel 1989. I due progetti, secondo il TAR, sarebbero stati diversi, con la conseguenza della necessit di rinnovare le intese tra Stato ed enti territoriali interessati, anche relativamente al secondo progetto. La sezione, tuttavia, condivide quanto dedotto in merito dall'appellante, secondo cui dei due progetti, identici nella localizzazione e nel tracciato, il secondo in realt l'approfondimento del primo sotto il profilo tecnologico, e precisamente nelle specifiche soluzioni tecniche costruttive, in particolare nelle pavimentazioni o nei lavori di fondazione, aspetti questi certamente non oggetto di indispensabile esame in sede di intese con gli enti territoriali interessati. Tantopi che pacificamente si ammette che tali intese possano sopraggiungere in corso di esecuzione delle opere quando, come noto, possono adottarsi varianti in corso d'opera che non alterano l'oggetto delle intese medesime, come proposte ai rispettivi organi deliberativi degli enti interessati. Quanto ora detto smentisce anche la violazione dell'art. 81 del d.P.R. n. 616 del 24 luglio 1977, dedotta dai resistenti sotto il profilo che i pareri del Comune di Benevento e della Regione Campania avrebbero avuto ad oggetto un progetto diverso da quello inizialmente redatto dall'ANAS. 4. -Con il quinto motivo, parimenti accolto dal primo giudice, era stata ritenuta l'incompetenza della giunta provinciale di Benevento nell'esprimere il parere, quale ente sub delegato -ex L. reg. Campania n. 1 O del 23 febbraio 1982 -alla tutela ambientale di cui alla delibera di giunta numero 808 del 3 aprile 1989, per incompleta formazione della Commissione tecnico-consultiva, che avrebbe dovuto esprimersi sugli aspetti ambientali degli affari ad essa sottoposti. Sarebbe avvenuto che, nel presupposto della mancanza del numero legale per tre sedute consecutive della commissione, senza la sostituzione RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 234 degli assenti ingiustificati, si era proweduto ad esprimere comunque il parere. Di qui la illegittimit del parere e, per esso, del procedimento intero. La sezione tuttavia non ritiene -conformemente al corrispondente motivo prospettato dall'appellante -che il parere in questione sia illegittimo. In base alla legge reg. Campania 23 febbraio 1982 n. 10, pubblicata tra l'altro sulla G.U. 23 giugno 1982 n. 170, la commissione per la tutela dei beni ambientali ha il compito (6 cpv. delle direttive allegate alla legge reg.): a) di esprimere parere in merito alle materie di cui all'art. 82 del d.P.R. n. 616 del 24 luglio 1977, non comprese tra quelle sub-delegate ai comuni ai sensi del 2 comma dell'art. 6 della legge regionale 1 settembre 1981 n. 65; b) di consulenza in materia di Tutela dei Beni Ambientali, Paesistici ed Architettonici e di uso di edifici di particolare pregio e, comunque, su tutte le questioni che l'Amministrazione comunitaria o provinciale interessata riterr opportuno sottoporle. Tra le funzioni sub-delegate ai comuni ai sensi del 2 comma dell'art. 6 della legge regionale 1 settembre 1981 n. 65, non vi sono quelle concernenti l'apertura di strade e cave di cui alla lett. c) dell'art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 che, viceversa, rientrano tra quelle sub-delegate alle Province giusta gli artt. 6, 3 comma, della legge reg. Campania 1 settembre 1981 n. 65 e 23 della legge reg. Campania 29 maggio 1980 n. 54. Ebbene, il parere della commissione per la tutela dei beni ambientali obbligatorio, ma la stessa legge reg. 1 O del 1982 cit. prevede un sistema per ovviare alla mancanza del numero legale della commissione ed all'impossibilit di questa di esprimere il parere, come awenuto nella specie, prescrivendo che il parere sia reso entro 1 O giorni, trascorsi i quali il Presidente della Provincia ha facolt di adottare i prowedimenti di propria competenza (26 cpv. delle direttive allegate alla legge reg.). 4. -Anche gli altri motivi, richiamati con memoria dagli appellati, non sono fondati. L'art., 1, 3 comma, legge 3 gennaio 1978 n. 1 prevede che le dichiarazioni di pubblica utilit e di urgenza ed indifferibilit divengono inefficaci se le opere non hanno avuto inizio nel triennio successivo all'approvazione del progetto. Tale termine ha natura acceleratoria, imponendo una completa rinnovazione delle valutazioni sottostanti a quelle dichiarazioni ove il termine stesso sia comunque decorso. Sotto questo profilo la previsione della citata disposizione ha carattere aggiuntivo e non sostitutivo dell'art. 13 legge 25 giugno 1865 n. 2359. Come questa sezione ha gi avuto modo di osservare, la dichiarazione di pubblica utilit deve dunque contenere i termini di inizio e di ultimazione della procedura espropriativa e dei lavori, anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 1del1978 (Cons. Stato, sezione IV, 20 aprile 1993 n. 436; 5 maggio 1981, n. 381). Tanto pi che la legge n. 2359 dei 1865 impone la fissazione di termini finali della procedura espropriativa e dei lavori, a garanzia della propriet soggetta all'espropriazione e dello stesso interesse ~= 1 PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA pubblico sotteso alla realizzazione dell'opera, mentre l'art. 1, 3 comma, legge n. 1 del 1978 nulla dispone e innova a questo riguardo. Dispone inoltre l'art. 13, 2 comma, legge 25 giugno 1865 n. 2359, che i termini, entro i quali dovranno incominciarsi e compiersi le espropriazioni ed i lavori, possono essere prorogati per casi di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volont dei concessionari. Va ricordato che, ai sensi della richiamata norma, costituiscono valide ragioni che non dipendono dalla volont dell'ente espropriante quelle aventi il loro fondamento in obiettive difficolt che si frappongono al compimento degli atti espropriativi, nel senso che tali ragioni, mentre impediscono il regolare corso del procedimento, non possono essere altrimenti superate, non offrendo l'ordinamento, a questi fini, idoneo strumento giuridico, con la conseguenza che l'interesse pubblico inerente alle acquisizioni coattive degli immobili non pu trovare soddisfacimento nei termini prestabiliti (cfr. sez. IV 21dicembre1985, n. 810). Nella specie con il D.M. del Ministro dei LL.PP. 22 ottobre 1992 n. 2955 si proceduto ad una nuova approvazione del progetto, ai fini della dichiarazione di p.u., con l'indicazione di nuovi termini (360 gg. per l'inizio delle espropriazioni; 1080 gg. e 1800 per il compimento dei lavori e delle espropriazioni), questa volta osservati. I motivi addotti per la proroga (difficolt connesse all'aggiudicazione dei lavori) non sembrano insussistenti n tantomeno irrilevanti od illogici e, pertanto, sorreggono adeguatamente il decreto in argomento, contrariamente a quanto sostenuto dai deducenti. L'appello deve dunque accogliersi per quanto di ragione ed in riforma della sentenza appellata, i ricorsi di 1 grado devono essere respinti (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 11dicembre1997, n.1386 -Pres. Pezzana Est. Santoro -Ministero dell'Interno (avv. Stato Aiello) c/ Bertinato Giulio ed altri. Elezioni comunali -Dimissioni consiglieri comunali ultra dimidium -Non simultaneit -Scioglimento Consiglio comunale -Esclusione. (legge 8 giugno 1990 n. 142, artt. 31 e 39). Le disposizioni di cui ai decreti-legge 30 agosto 1996, n. 452 e 23 ottobre 1996, n. 550, non convertiti, ma i cui oggetti sono stati fatti salvi dall'art. 1 comma 171 della legge 23 dicembre 1996 n. 662, non hanno carattere interpretativo e dunque sono inapplicabili a prowedimenti ad esse anteriori. L'art. 31 della legge 8 giugno 1990, n. 142 come modificato dall'art. 7 della legge 15 ottobre 1993 n. 415 e l'art. 39 della stessa legge n. 142 del 1990 vanno interpretati nel senso di riconoscere efficacia differita, con conse 236 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO guente surrogazione, alle dimissioni infra dimidium ed efficacia immediata, con conseguente scioglimento del Consiglio comunale, alle dimissioni ultra dimidium simultanee, cio presentate lo stesso giorno (1). (omisiss) 1. -In ordine alle questioni prospettate dall'appellante, la Sezione ritiene di dovere seguire la soluzione data dall'Adunanza plenaria (dee. n. 15 del 24 luglio 1997) che ha ormai chiarito come era stato chiesto l'ordinanza di questa Sezione n. 1329/96 del 20 dicembre 1996, il rapporto fra dimissioni ultra dimidium dei consiglieri presentate in tempi diversi, loro surrogazione e scioglimento dei consigli degli enti locali, alla stregua del rapporto tra l'art. 39, 1 comma, lett. b), n. 2, della legge 8 giugno 1990, n. 142 (I consigli comunali... vengono sciolti... quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi... per le seguenti cause: 2. dimissioni o decadenza di almeno la met dei consiglieri;), l'art. 22, 1 comma della stessa legge n. 142 ( l. Nei consigli ... comunali... il seggio che durante il quadriennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto) e l'art. 31, commi 2 e 2 bis, ripetuta legge, quest'ultimo nel testo aggiunto dall'art. 7 legge 15 ottobre 1993 n. 415 (2. I consiglieri entrano in carica all'atto della proclamazione, ovvero, in caso di surrogazione, non appena adottata dal consiglio la relativa deliberazione. 2-bis. Le dimissioni dalla carica di consigliere sono presentate dal consigliere ai rispettivi consigli. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e diventano efficaci una volta adottata dal consiglio la relativa surrogazione che deve avvenire entro venti giorni dalla data di presentazione delle dimissioni). Il problema aveva dato luogo a contrasti giurisprudenziali fra la I Sezione (parere 5 giugno 1956, n. 1058) ed alcune ordinanze cautelari di V e IV Sezione. L'appello propone la questione dei presupposti per lo scioglimento dei consigli comunali per dimissioni di almeno la met dei consiglieri. La questione, che nelle sue linee generali di antica data, involge il coordinamento tra due istituti diversi: quello (attualmente previsto dall'art. 22 della legge 25 marzo 1993 n. 81) della surrogazione dei consiglieri cessati dalla carica e quello (attualmente previsto dall'art. 39 comma 1 lett. b) n. 1) della legge 8 giugno 1990 n. 142) dello scioglimento dei consigli quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per dimissioni di almeno la met dei consiglieri. Per la verit, il tipo di coordinamento tra i due istituti non sembra suscitare, di per s, perplessit. 1: (1) Conferma A.P. 24 luglio 1997 n. 15 (in Rassegna Consiglio di Stato 1997, I, i 988) nonch Cons. Stato, Sez IV, 1 ottobre 1997 n. 1062 (in Rassegna Consiglio di Stato, 1997, I, 1335). ! PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Sembra chiaro che il principio dello scioglimento del consiglio dimidiato si pone come limite al principio della surrogazione, nel senso che si fa luogo a surrogazione a meno che non ricorrano gli estremi per lo scioglimento dell'organo. Quel che ha determinato gi in passato problemi interpretativi stata piuttosto la definizione di una fattispecie -quella delle dimissioni ultra dimidium -a forma libera. Nel previgente sistema della presa d'atto delle dimissioni, si sono avute risalenti acquisizioni giurisprudenziali secondo cui nell'ipotesi in cui la met dei consiglieri si dimetta contemporaneamente, i seggi rimasti vacanti non possono essere attribuiti ai candidati che seguono i dimissionari nella medesima lista, ai sensi dell'art. 81 t.u. 16 maggio 1960 n. 570, ma si deve procedere all'integrale rinnovazione del consiglio, a nonna dell'art. 8 lett. b) del citato testo unico (sez: I, par. 4 dicembre 1970, n. 2736) e, per contro, la cessazione anticipata del consiglio comunale prevista dall'art. 8 t.u. 16 maggio 1960 n. 570 non pu essere pronunziata se le dimissioni dei consiglieri siano state presentate in momenti successivi e di esse sia stato preso atto in momenti diversi, sicch si sia gi prodotta la surrogazione dei consiglieri dimissionari dal primo momento (sez. I, par. 23 febbraio 1973 n. 2309). La presa d'atto delle dimissioni -e la conseguente surrogazione dei dimissionari -costituiva pertanto, nell'ordinamento previgente, un parametro sufficientemente certo, per l'interprete, per discrimare surrogazione dei consiglieri e scioglimento del consiglio. La linearit del sistema, peraltro, era soltanto apparente, giacch i consigli, manipolando sapientemente i tempi delle prese d'atto e delle conseguenti surrogazioni, determinavano nei singoli casi il risultato politico -surrogazione o scioglimento -voluto. La legge 8 giugno 1990 n. 142 aveva inteso innovare nella materia eliminando la presa d'atto delle dimissioni, come rilevato da questa Adunanza plenaria con la decisione 5 agosto 1993 n. 10. L'efficacia immediata delle dimissioni, peraltro, che ne comportava l'irrevocabilit, se per un verso faceva giustizia di ogni possibile pratica negoziale intorno ad esse, per altro verso aveva obiettivamente l'effetto di agevolare, con le dimissioni collettive, lo scioglimento del consiglio. cos che il legislatore della legge 15 ottobre 1993 n. 415 introduceva con l'articolo 7, nel testo dell'art. 31 della legge 8 giugno 1990 n. 142, un comma 2-bis del seguente tenore: le dimissioni dalla carica di consigliere sono presentate dal consigliere medesimo ai rispettivi consigli. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e diventano efficaci una volta adottata dal consiglio la relativa surrogazione che deve awenire entro venti giomi dalla data di presentazione delle dimissioni. In tal modo, differita al momento della surrogazione l'efficacia delle dimissioni, il problema del coordinamento tra surrogazione dei consiglieri e scioglimento del consiglio si poneva su nuove basi e creava nuovi interrogativi. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 238 2. Va precisato che, nelle more del giudizio, stato adottato il d.l. 30 agosto 1996 n. 452, il cui art. 1 cos dispone al comma 1: Il comma 2-bis dell'art. 31 della legge 8 giugno 1990 n. 142 sostituito dal seguente: 2bis: Le dimissioni dalla carica di consigliere, indirizzate al rispettivo consiglio, devono essere assunte al protocollo dell'ente nella medesima giornata di presentazione. Esse sono irrevocabili, non necessitano di presa d'atto e sono immediatamente efficaci. Il consiglio deve procedere alla relativa surrogazione entro venti giorni dalla data della presentazione delle dimissioni. Non si fa luogo alla surrogazione qualora, ricorrendone i presupposti, si debba procedere allo scioglimento del consiglio a norma dell'art. 39, comma 1, lettera b), n. 2), della presente legge. Decaduto il decreto-legge per mancata conversione in legge, tale disposizione stata reiterata con l'art. 1 del d.l. 23 ottobre 1996 n. 550, anch'esso non convertito in legge. Successivamente, l'art. 1 comma 171 della legge 23 dicembre 1996 n. 662 ha disposto che restano validi gli atti e provvedimenti adottati e sono fatti salvi i procedimenti instaurati, gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge 30 agosto 1996, n. 452 e 23 ottobre 1996, n. 550. Tali disposizioni non sono applicabili nel caso di specie, in quanto successive alla data di emanazione dei provvedimenti impugnati. N fondatamente sostenibile una loro efficacia interpretativa. Va riconosciuto, infatti, carattere interpretativo soltanto ad una legge che, fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisca il significato ovvero privilegi una tra le tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo espresso dalla coesistenza delle due norme (quella precedente e l'altra successiva che ne esplicita il significato), le quali rimangono entrambe in vigore e sono quindi idonee ad essere modificate separatamente (cfr. Corte cost., sent. n. 155 del 1990). Qui, invece, il testo della disposizione viene completa~ente modificato, con proposizioni nuove ed in parte anche contrastanti con i precetti della norma precedente: in particolare, in punto di efficacia immediata delle dimissioni, che si sovrappone alla precedente efficacia differita. Nemmeno vi elemento alcuno a sostegno di una presunta efficacia retroattiva. Tale, in carenza di espressioni esplicite, non il richiamo all'esigenza di assicurare la certezza dei rapporti tra gli organi di comuni e provincie, con tenuto nella motivazione dei decreti-legge: infatti, tale motivazione, che preordinata ad esternare le ragioni di necessit ed urgenza, non fa alcun riferimento ai rapporti pendenti n alle controversie in atto, n comunque ad alcun altro elemento da cui possa desumersi l'efficacia ex tunc della disposizione. La fattispecie dissolutoria andrebbe definita in base a criteri procedimentali. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Secondo sez. I, par. 12 febbraio 1997 n. 209 e 5 marzo 1997 n. 358, la novella del 1993 sarebbe diretta ad evitare lo scioglimento anticipato del consiglio quante volte il quorum delle dimissioni si raggiunga esclusivamente per effetto di nuove dimissioni presentate quando gi avviato, nei termini, il procedimento di surrogazione. In questo orientamento si inscrive anche la sentenza appellata secondo la quale sarebbe il termine di venti giorni per le surrogazioni a costituire elemento di qualificazione della fattispecie dissolutoria, che si realizzerebbe soltanto in presenza di dimissioni simultanee, cio presentate sotto la stessa data. 4. da osservare, in primo luogo, che la novella del 1993, come risulta dal mancato richiamo alla fattispecie dissolutoria di cui all'art. 39 e dai lavori parlamentari, di cui si dir appresso, non ha inteso soppri:tnere in toto lo scioglimento del consiglio comunale per dimissioni ultra dimidium, il che, del resto, avrebbe comportato un riesame complessivo del rapporto tra continuit e rappresentativit dell'organo, del tutto assente dall'intenzione dei conditores legis quale emerge dai lavori parlamentari. Essa ha inteso assicurare maggiore stabilit ai consigli favorendo le surrogazioni. La questione del coordinamento tra i due istituti, surrogazioni e scioglimento, dunque tuttora attuale. Il fatto, che con la novella del 1993 si sia introdotta una nuova disciplina dagli effetti immediati -la cessazione dalla carica -di una delle fattispecie alternative -le dimissioni infra dimidium, divenute atti ad efficacia differita -comporta, a ben vedere, una conseguenza implicita ulteriore: le fattispecie, producendo effetti immediati differenti, si sono trasformate da aperte in chiuse. Le dimissioni, nel momento in cui vengono poste in essere, se infra dimidium vanno assoggettate al regime giuridico dell'art. 31 (efficacia differita, surrogazione), ovvero, se ultra dimidium vanno assoggettate al regime giuridico dell'art. 39 (efficacia immediata, sospensione e scioglimento del consiglio) e ci dipende dall'appartenenza al rispettivo tipo strutturale originario. In mancanza di un'articolazione specifica, l'unit di tempo cui va riferita, secondo i principi generali, la qualificazione differenziale delle fattispecie delle dimissioni il giorno (artt. 1187 e 2963 e.e.). Le dimissioni, pertanto sono ultra dimidium, e danno luogo allo scioglimento del consiglio, se simultanee, cio se presentate nello stesso giorno; sono infra dimidium negli altri casi. A nulla rileva che dimissioni non dissolventi presentate in giorni diversi raggiungano successivamente la soglia di depauperamento della met dei consiglieri: infatti, in presenza di tipi strutturali diversi anche RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 240 nella produzione degli effetti immediati, dimissioni originariamente oggetto di qualificazione come infra dimidium non mutano successivamente qualificazione e regime giuridico per divenire elementi di una unitaria fattispecie dissolutoria. Le esposte conclusioni trovano qualche conforto anche nei lavori preparatori della legge n. 415 del 1993. Nella seduta del 6 ottobre 1993 dell'assemblea della Camera, il deputato Novelli, confirmatario dell'emendamento Piscitello 7.2, nello spiegare il funzionamento dell'efficacia differita delle dimissioni cos si esprimeva: In tal modo si evita il rischio che una minoranza possa aggregarsi ad un consigliere della maggioranza e determinare cos lo scioglimento del consiglio. Trasferito il discorso del terreno politologico: maggioranza-minoranza a quello della struttura delle dimissioni, se quel che rileva nello scopo pratico perseguito dal legislatore la concertazione delle dimissioni, la simultaneit delle stesse che ne costituisce, secondo l'id quod prelumque accidit, l'elemento presuntivo di concertazione e realizza l'intento pratico di escludere dall'ambito della fattispecie dissolutoria l'azione di maggioranze inopinate. Nella specie, le dimissioni in questione erano state presentate in giorni diversi e, come tali, non erano idonee a determinare lo scioglimento del consiglio. Per le suesposte considerazioni, l'appello deve essere respinto, essendo il dispositivo dell'appellata conforme a legge, e dovendosene soltanto modificare la motivazione nel senso sopra descritto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 3 febbraio 1997 n. 137 -Pres. Calabr -Est. Patroni Griffi -Raffaele Barbuto (avv. Luciani, Sorrentino e Panedigrano) c. Commissione elettorale di Catanzaro (avv. Stato Cesaroni). Elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale -Liste dei candidati Presentazione -Certificato elettorale dei sottoscrittori -Esibizione -Necessit. (d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, art. 32) L'art. 32 del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 (T. U. delle leggi per le elezioni comunali), ai sensi del quale all'atto della presentazione della lista debbono essere depositati, a pena di inammissibilit, i certificati che attestano l'iscrizione dei sottoscrittori nelle liste elettorali del Comune, deve essere inteso nel senso che gli elettori presentatori sono tenuti a provare documentalmente la loro qualit non potendo essere addossato alla commissione elettorale, per il principio di celerit del procedimento elettorale, l'onere della ricerca nelle liste dei relativi nominativi. \ PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 241 pertanto legittimo il provvedimento, reso dalla Commissione elettorale, che dispone l'esclusione di una lista dalla competizione elettorale a causa del mancato deposito, nei termini, dei predetti certificati (1). (omissis) Gli appelli possono essere riuniti perch concernono identica questione. Questa consiste nello stabilire se sia o meno legittima l'esclusione di una lista, dalla competizione elettorale per il rinnovo del consiglio comunale, a causa del mancato deposito, all'atto della presentazione della lista, dei certificati elettorali di tutti i sottoscrittori. (1) La decisione merita segnalazione in quanto il Consiglio di Stato torna sui propri passi nel riesaminare la questione relativa alla necessit, da parte degli elettori presentatori, di depositare a pena di inammissibilit, all'atto della presentazione della lista, i certificati comprovanti la propria qualit di elettori. Il precedente contrario, risalente al 1994, si era scontrato per la verit, con la prassi consolidata degli uffici elettorali, di richiedere il deposito dei certificati, a pena di esclusione, pur in presenza di un non chiaro disposto normativo contenuto nell'art. 32 del T.U. n. 570 del 1960, che si limita a sancire la necessaria iscrizione degli elettori nella lista del comune. La cogente interpretazione adottata dai competenti organi amministrativi nasceva dalle evidenti difficolt pratiche, per gli uffici,elettorali, di procedere al controllo di migliaia di nominativi con il rischio effettivo di intralciare ed appesantire il procedimento elettorale e di esporlo altres a forti rischi di invalidazione (nel caso in esame la difesa erariale aveva sottolineato l'avvenuta richiesta presso gli uffici comunali nell'approssimarsi delle elezioni, di ben 10.000 certificati elettorali). La contraria decisione (Cons. St., V, 3 ottobre 1994 n. 1091 in Cons. di Stato 1994, I, 1346 e ss ), pur riconoscendo che la diretta produzione della certificazione in parola avrebbe agevolato il riscontro del requisito legale, tuttavia, in stretta aderenza al principio di legalit, aveva statuita l'illegittimit di tale prassi, in quanto non fondata su di un'espressa disposizione di legge, e potendo comunque la Commissione elettorale eseguire il controllo servendosi dei dati ricavabili dalle liste elettorali depositate presso di essa. Con la decisione in esame il Supremo Consesso, pur superando, in pratica, il dettato letterale dell'art. 32 del T.U sopra ricordato, riesce tuttavia a non discostarsi dal consolidato principio del rigido formalismo che ispira la materia elettorale, categoricamente riaffermato dalla precedente Adunanza plenaria n. 24 del 1996. Affrontando l'analogo caso della presentazione della lista da parte di un delegato munito di delega in bianco, il Consiglio di Stato aveva avuto modo di affermare che, in tema di operazioni elettorali, il rigido formalismo che ne ispira i principi regolatori richiede che le sanzioni idonee a determinare l'esclusione di una lista dalla competizione elettorale siano chiaramente individuate dalla legge che regola il procedimento. Fermi restando tali principi la decisione in esame procede, tuttavia, ad una rilettura dell'art. 32 del citato T.U. sulla base di un canone di ragionevolezza che faccia salvi, al contempo, la necessit dell'effettiva verifica della qualit dell'elettore (trattandosi di un requisito espressamente richiesto dalla legge) da un lato, ed i criteri di tempestivit e di sicurezza che, per legge, devono caratterizzare il procedimento elettorale (come ampiamente sottolineato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 422/95 in Giur. Cost. 1995, 3255). La soluzione appare, dunque, ben equilibrata ponendo a carico dei sottoscrittori l'onere -peraltro di lieve entit -di procurarsi per tempo la certificazione della propria qualit in modo da poterla produrre all'atto della presentazione della lista. Conforme alla decisione massimata: Cons.St. V, 10 aprile 1991 n. 515. P.P. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 242 La questione stata affrontata dalla Sezione con la decisione 3 ottobre 1994 n. 1091, che ha ritenuto non necessario il deposito dei certificati elettorali dei sottoscrittori ai fini dell'ammissione della lista. Tale decisione, peraltro, ha innovato rispetto a una consolidata prassi degli uffici elettorali, riconosciuta anche in un'altra decisione di questa Sezione (10 aprile 1991 n. 515) che d per pacifica la necessit che, all'atto della presentazione della lista, siano depositati i certificati elettorali dei sottoscrittori. La Sezione, nel riesaminare la questione, ritiene che, ai sensi dell'articolo 32 del testo unico delle leggi per le elezioni comunali (d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570), all'atto della presentazione della lista debbano essere depositati, a pena di inammissibilit, i certificati che attestano l'iscrizione dei sottoscrittori nelle liste del comune. Valgono, al riguardo, le considerazioni che seguono. La norma dispone, nella parte che interessa, che i sottoscrittori debbono essere elettori iscritti nelle liste del comune e la loro firma deve essere autenticata su appositi moduli.... indubbio -secondo consolidati principi (da ultimo, cfr. Ad. plen. 17 dicembre 1996 n. 24) -che il rigido formalismo che ispira la materia elettorale richiede che le sanzioni idonee a determinare l'esclusione delle liste dalla competizione elettorale siano chiaramente individuate nella legge che regola il procedimento. Ci peraltro non esime l'interprete dal ricercare, nel contesto della norma e senza ricorrere a inammissibili procedimenti analogici, l'esatta portata del disposto normativo, al fine di assicurare la coerenza dell'applicazione della norma con i valori che la legge regolatrice del procedimento intende tutelare. Lo stesso formalismo in materia elettorale, a ben vedere, mira ad assicurare al procedimento elettorale rapidit di svolgimento e certezza in ordine al rispetto dei requisiti di forma richiesti dalla legge; quanto meno di quei requisiti che abbiano valore essenziale. Tra questi va sicuramente annoverata l'esigenza che i sottoscrittori siano elettori iscritti nelle liste del comune, non essendo ammissibile che la presentazione delle liste per la competizione elettorale in un comune venga sottoscritta da elettori di altro comune. Un elementare, e perci ragionevole, modo per assicurare, al tempo stes so, la celerit della fase procecj.imentale di presentazione delle liste e il rispet to del disposto normativo, che richiede nei sottoscrittori la qualit di eletto re iscritto nelle liste del comune, consiste nell'imporre ai sottoscrittori, all'at to della presentazione della lista, di certificare la qualit di elettore richie sta dalla legge, mediante il deposito del relativo certificato. In astratto si potrebbe pensare che, al fine di evitare l'elusione della norma, tale qualit possa essere documentata dai sottoscrittori medesimi o essere accertata dalla Commissione elettorale mediante la ricerca del nome dei sottoscrittori nella lista degli elettori. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA La seconda la soluzione prospettata dagli appellanti, ma essa non appare convincente. Si consideri, infatti, che, mentre i sottoscrittori hanno un ragionevole lasso.di tempo per procurarsi i certificati di iscrizione nelle liste elettorali, addossare invece alla Commissione elettorale il dovere di verificare, nelle ventiquattro ore previste dal primo comma dell'articolo 33, la posizione, in ipotesi, di tutti i sottoscrittori di ogni lista, significherebbe gravare tale organo (gi tenuto ad effettuare in brevissimo tempo numerose verifiche) di un oneroso adempimento che appesantirebbe e intralcerebbe gravemente il procedimento che la legge ha voluto si esaurisca in tempi ristrettissimi. La conseguenza sarebbe, in alternativa, o che il procedimento vada al di l del termine perentorio fissato dalla legge o di rendere impossibile alla Commissione -almeno nei casi in cui molti sottoscrittori di molte liste non abbiano presentato il certificato -l'effettivo controllo di un requisito -la qualit di elettore -che pure la legge valuta indispensabile. Verrebbero cos minati i requisiti di tempestivit e di sicurezza che, per legge, devono caratterizzare il procedimento elettorale, esponendolo intrinsecamente a rischi di invalidazione che contraddirebbero ai principi fondamentali del sistema. In materia elettorale, infatti, la certezza del diritto d'importanza fondamentale per il funzionamento dello Stato democratico (Corte Cost., 12 settembre 1995, n. 422) e il procedimento caratterizzato dalla immediatezza, improrogabilit e sequenzialit delle fasi endoprocedimentali. E poich la legge va interpretata in coerenza con tali principi e quindi in modo che sia assicurata la concreta rispondenza della sua applicazine al canone di ragionevolezza, riferito al comportamento che normale attendersi dagli organi pubblici, e ai valori che la legge medesima intende tutelare -come sopra definiti -deve concludersi che la qualit di elettore deve essere documentata dai sottoscrittori della lista, all'atto della sua presentazione, mediante il deposito di idonea certificazione. Tale soluzione interpretativa non discende da un'applicazione analogica della normativa che regola le elezioni politiche, ma frutto di una lettura interna alla normativa de qua coerente con i principi che l'ispirano e volta quindi a non rendere problematiche la regolarit e la tempestivit di svolgimento del procedimento elettorale. Consegue all'accolta soluzione che il deposito dei certificati non pu essere ammesso nemmeno in sede di successiva verifica, ai sensi dell'articolo 33, della validit della presentazione delle liste, trattandosi nella specie di irregolarit attinente ad aspetti essenziali del procedimento e quindi insanabile. In conclusione, le sentenze del Tribunale amministrativo, che hanno ritenuto legittima l'esclusione disposta per mancato deposito dei certificati, meritano integrale conferma, sicch gli appelli vanno respinti (omissis). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 244 CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 3 febbraio 1997, n. 138 -Pres. Calabr -Est. Patroni Griffi -Fag Maria Teresa ed altri (avv. Mirigliani) c. Commissione elettorale circondariale di Catanzaro (avv. Stato Cesaroni). Elezioni -Liste dei candidati -Presentazione -Autenticazione delle firme Necessit -Materiale porgitore della lista -Esclusione. (d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, art. 32) Poich l'art. 32 del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570 distingue tra presentazione della lista dei candidati (intesa come attivit degli elettori-sottoscrittori) e consegna materiale al segretario comunale (intesa come mera attivit materiale di consegna), non necessaria l'autenticazione delle firme di coloro che materialmente porgono la lista gi formalmente perfetta, posto che l'obbligo di legge si riferisce esclusivamente ai sottoscrittori della lista e non al materiale porgitore la cui identit potr essere accertata, senza pericolo di ritardi nel procedimento elettorale, mediante mezzi diversi dall'autenticazione (presentazione del documento di riconoscimento) (1). (omissis) Gli appelli possono essere riuniti perch concernono identica questione. Questa consiste nello stabilire se occorra o meno che la firma del soggetto che deposita materialmente la lista sia autenticata nei modi previsti dalla legge. (1) La decisione in esame si riferisce al caso della consegna materiale della lista presso la segreteria del comune distinguendosi questa ipotesi, nella disciplina normativa, da quello della presentazione in senso proprio della lista elettorale da parte dei sottoscrittori proponenti. La distinzione indispensabile in quanto il Consiglio di Stato perviene alla riforma della decisione del Tribunale amministrativo adito in primo grado, che aveva concluso per la legittimit dell'esclusione, proprio distinguendo il caso in esame da quello ben diverso della mancata autentica della firma dei sottoscrittori presentatori, quest'ultimo peraltro, espressamente disciplinato dall'art. 32, quarto comma del T.U., nel senso della necessaria autenticazione (v. anche Cons. St. V, 7 marzo 1986 n. 148 per la quale l'autenticazione della firma del presentatore della lista alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale costituisce elemento essenziale; la sua mancanza o irritualit determina quindi una nullit insanabile dell'atto di presentazione. Poich la normativa non contempla il caso della presentazione materiale della lista deve considerarsi prevalente il principio, gi affermato da Ad. Plen n. 24 del 17 dicembre 1996, secondo cui il rigido formalismo che regola la materia elettorale vuole che le sanzioni idonee a determinare l'esclusione di una lista o ad infirmare i risultati della competizione elettorale siano chiaramente individuate dalla legge. Una possibile interpretazione evolutiva della norma, pure adottata in altri casi dal Consiglio di Stato per colmare lacune di una non chiarissima normativa (si pensi al caso, sopra riportato, del mancato deposito dei certificati che attestano l'iscrizione dei sottoscrittori nelle liste del comune, in Cons. St. n. 137/97), non sarebbe tuttavia giustificabile nella presente fattispecie in cui, la pur necessaria verifica dell'identit del materiale porgitore della lista, pu agevolmente essere effettuata con mezzi diversi dall'autenticazione senza con ci minare i criteri di certezza e di speditezza del procedimento elettorale (v. anche Cons. reg. Sicilia, 6 luglio 1991 n. 333). P.P. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA In punto di fatto deve ritenersi accertato che la questione si riferisce alla firma del presentatore materiale della lista e non del presentatore-sotto scrittore. noto, infatti (cfr. da ultimo, Ad. plen. 17 dicembre 1996 n. 24), che la legge distingue tra presentazione della lista, intesa come atto dei sotto scrittori, e consegna materiale della stessa presso la segreteria del comune (ultimi due commi dell'articolo 32 del testo unico delle leggi per le elezioni comunali, approvato con d.P.R 16 maggio 1960, n. 570). Nella fattispecie in esame, gli appellanti hanno espressamente dichiara to in udienza che la questione concerne la sottoscrizione di colui o di coloro che hanno consegnato le liste e non gi dei presentatori delle stesse. N l'Avvocatura erariale ha smentito in maniera idonea la circostanza. D'altra parte, anche dall'esame degli atti, si evince che l'esclusione stata disposta con riguardo alla mancata autenticazione delle firme dei porgitori materiali della lista e non dei presentatori in senso proprio, vale a dire dei sottoscrittori proponenti. In tal senso sono univoche le sentenze appellate, nell'esposizione in fatto, e la stessa motivazione addotta nei provvedimenti impugnati, facente leva sulla equiparazione normativa dei presentatori ai sot toscrittori, fa intendere che i soggetti che sono stati denominati presentatori fossero in realt coloro che hanno consegnato materialmente le liste. Cos intesa la questione, la tesi del Tribunale amministrativo, che ha rite nuto legittima la non ammissione delle liste per la mancata autenticazione delle firme dei soggetti che hanno consegnato le stesse presso la segreteria comunale, non pu essere condivisa. La giurisprudenza della Sezione pacificamente ritiene che le firme dei presentatori-sottoscrittori della lista debbano essere autenticate nei modi di legge ( decc. 29 giugno 1979 n. 4 70; 19 dicembre 1980 n. 989; 7 marzo 1986 n. 148). Ma tale costante indirizzo -che si intende qui ribadire -si riferisce ai sottoscrittori della lista medesima, alla luce dell'espresso disposto del quar to comma dell'articolo 32. A diversa conclusione deve invece pervenirsi con riferimento alla conse gna materiale della lista presso la segreteria del comune. La legge non regola in alcun modo l'atto della consegna della lista, se non per disporre che il segretario comunale rilascia ricevuta degli atti presentati, evidentemente al soggetto che tale consegna ha effettuato. La totale assenza di disciplina normativa riferibile alla consegna della lista esclude che le firme dei soggetti che materialmente presentano (vale a dire consegnano) la lista nella segreteria del comune debbano essere autenti cate a pena di non ammissione della lista. Di siffatto obbligo non reca traccia la norma, che non si occupa della persona che consegna la lista, sicch, per il principio secondo cui in materia elettorale le sanzioni che comportino l'esclusione di una lista debbono essere chiaramente individuate dalla legge, la mancata autenticazione della firma . di chi deposita la lista non comporta alcuna conseguenza quanto all'ammis RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 246 sione della lista medesima, ben potendo l'identita personale del porgitore essere accertata, senza ritardi e incertezze, mediante l'esibizione del relativo documento. Sulla base di analogo ordine di considerazioni, del resto, l'Adunanza plenaria di questo Consiglio (dee. 17 dicembre 1996 n. 24) -recependo analogo orientamento del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (dee. 6 luglio 1991 n. 333)-ha stabilito, con riferimento alla normativa vigente in regioni a statuto speciale che disciplina la delega per la consegna della lista, che la delega medesima possa essere rilasciata a persona non nominativamente indicata, proprio perch la normativa non si occupa delle persone che materialmente consegnano la lista presso l'ufficio competente. Alla stregua delle esposte considerazioni gli appelli devono essere accolti e, in riforma delle sentenze dei Tribunale amministrativo vanno annullati i provvedimenti di esclusione delle liste appellanti impugnati in primo grado (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 5 marzo 1997, n. 365 -Pres. Salvatore -Est. Anastasi -Ministero dell'Universit e della ricerca scienfifica e tecnologica e Universit degli Studi di Roma La Sapienza (avv. Stato D'Avanzo) e/Olivieri Barone Agnese (avv. Jaricci). Impiego pubblico -Inquadramento -Dipendente Universit -Personale non docente -Natura prowedimentale -Sussistenza -Insorgenza credito rivalutazione monetaria e interessi -Data di emanazione del decreto di inquadramento. Impiego pubblico -Stipendi -Rivalutazione -Natura -Parte integrante del credito di lavoro -Adempimento parziale -Rivalutazione -Debito retributivo -Rivalutabile ulteriormente sino al soddisfo. L'atto di inquadramento del personale non docente delle Universit in qualiBche superiori, ponendosi in funzione surrogatoria o altemativa rispetto alle eventuali promozioni conferibili con decreto ministeriale, ha natura prowedimentale e dunque soltanto dall'emanazione di tale atto autoritativo pu considerarsi venuto in essere il credito retributivo del pubblico dipendente ai Bni della decorrenza della rivalutazione monetaria ed interessi (1). (1) La presente decisione si inserisce nel solco del condivisibile orientamento giurisprudenziale che ha delineato una netta dicotomia del momento genetico di rivalutazione ed interessi sui crediti di lavoro dei pubblici dipendenti a seconda della differente fonte del credito, rispettivamente legale o (direttamente) provvedimentale (v. per tutte Cons. Stato, IV, 27 settembre 1993, n. 799, in Cons. Stato 1993, I, 1087). .. . (:!1lissi;)L'~ppell~J~fil!:illis::~~~~~~i:;arte .fortdatoe va pertan. to accolto nei limiti di cui apptessq< ...... / .. . (:!1lissi;)L'~ppell~J~fil!:illis::~~~~~~i:;arte .fortdatoe va pertan. to accolto nei limiti di cui apptessq< ...... / . ::::.:.:: -:::. . . .l'J\RTE I, SEZ< IV; QlU'.tUSPRUDENZAAMMlNISTRATIVA . 247 ᥥᥥᥥ: taii~utaziilemo11eta:da.parteintegrantedel.credito.dilavor6 e, a di[ferenzdegli inte}$$Si}non :oe CO$tit61Sfe un .acfessorfo; pertanto la diffe r~zatt"ai) (/ebito~abaie({PPl'~~.tato.dailamaggi0retetriln1z1onedovuta pif1./~ri!tJ,Ju.t~191.1.~).e..qu.am9p~ialmfJ::ntecomsposto1;istittdsceessa stes ~.J4~~~t?r~~99tir099m~~~~'.#r~u;~l?i~f'./siri<>aJspddisf9~~'"<ᥥ Eiiii~~1 i . L'A:nn:rimsfraziOne riprpQrie poil'e8ceziolie di prescri;done; :negando .... che to spo.tJleo pagan1ento d alla cla~ di expa)Jazion(;I delde.aila. rivalutazfone.fapartico}are; HG<>~~gij()di.Statoha aJ1Che.a!f1:rmato i~ea~s~~~~h{~,i~bijf~~~~~~4~~;~ifui~~oii:,1~~ftVi.di~c~#fl~trf9~~~: 764, mCons: Stato 1992; I, 139])> . .. . . . .. . . . . ... . .. . . ..... (2) tasentenza iritassegna ha disatteso sul punt-Ola tesi dell'Ainninistrazibne respi11g1:nd<> la. re~atvaensura mossa alla. sentenzaJtiipugnata, riflwenClosi.a:d una f:!~a2[~tl~~ff~~A~riiQi~4e~~;~iJ1~~~11~~r~B~~:-s~ti1:~i~~;:~: Cons Stafo; VI/5 lugliO 1990, n.; 691 (hiCoris; Stato 1990, 1, 991). . . Quest'ultima prontl11cia;JnpartiClare, ha fatto propri ipnndpi consolidatisi nella gi.ri~pi;udenza.della Ca$sazi0ne in materia di rivaluta;done monetaria suicrediti di lavoro dei dipendenti privati traslandoli, per cos dire, s.l rapporto di pubblico impiego rie,rionC:h Cass. Sez.Lav. 17 marzo 1986, n. l 826 e 6 settembre1988, n. 5033; per l'affermazione: secondo cui in caso di adempimento ritardato del!' obblig:zione retJjbutiva senza cogispondere la svaJ,utazione. monetaria,. su questa dovr essere calcolata l'ulteriore svalutazione sino al saldo completo). LV. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 248 Non essendo contestato che rivalutazione monetaria ed interessi corri spettivi sui crediti da lavoro dei pubblici dipendenti decorrono dalla data di maturazione del relativo diritto (cfr. art. 429, terzo comma, c.p.c.) occorre nel caso di specie individuare tale momento genetico, avuto riguardo alla fonte da cui il credito trae origine. A tal fine va infatti precisato che se il diritto patrimoniale del pubblico dipendente trova fonte immediata nella legge o in un altro atto di natura nor mativa, la data di maturazione quella della scadenza legalmente prevista, ancorch l'amministrazione debba porre in essere ai fini dell'adempimento attivit amministrativa, di natura quindi ricognitiva o dichiarativa: nascendo infatti l'obbligazione ex Jege, qualsivoglia atto paritetico l'Amministrazione debba adottare, non esonerata dalle conseguenze inerenti il ritardo nell'a dempimento. Se invece il diritto patrimoniale del dipendente trova origine in un prov vedimento amministrativo, avente perci natura costitutiva, l'obbligazione non nasce senza la mediazione dell'atto autoritativo e soltanto dall'emana zione di questo, anche se avente in ipotesi efficacia retroattiva, possono dirsi venuti in essere tutti gli elementi costitutivi del credito. (cfr. Sez. IV 27 set tembre 1993, n. 799). Tanto premesso, osserva il Collegio che l'art. 155, quarto comma, della legge 11 luglio 1980 n. 312 prevede la promozione anche in soprannumero alla qualifica di direttore di divisione ad esaurimento degli impiegati della carriera direttiva con qualifica di direttore di divisione aggiunto i quali, alla data del 31 dicembre 1972, rivestivano la qualifica di direttore di sezione o equiparata. Nella previsione di legge, dunque, la qualifica ad esaurimento andava con ferita all'esito di uno scrutinio per merito comparativo, secondo quanto previ sto dall'art. 65 d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748, al quale erano ammessi gli impie gati delle carriere direttive in possesso dei requisiti di anzianit sopra riferiti. La natura prowedimentale della promozione impone di riconoscerne il carattere autoritativo, proprio degli atti che definiscono la posizione del pub blico impiegato nell'ambito della struttura burocratica, sia con l'ivi immet terlo, sia determinare o immutarne compiti o qualifiche, sia col dismetterlo (A.P. 26 ottobre 1979, n. 25). Il fatto che in sede di applicazione della citata legge n. 312 del 1980 l'Amministrazione abbia tenuto conto -in favore della odierna appellata degli effetti derivanti dalla valutazione e riconoscimento dei pregressi servizi non di ruolo, ai sensi della legge 25 ottobre 1977 n. 808, non qualifica diver samente la fattispecie. Come rilevato dalla Corte dei conti (Sez. controllo 18 aprile 1985 n. 1544) l'inquadramento del personale non docente delle Universit in. qualifiche superiori ex art. 16, quinto comma, della citata legge n. 808 del 1977, si pone in funzione surrogatoria rispetto alle eventuali promozioni conferibili con decreto ministeriale. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA In sostanza, la predetta procedura ha consentito, attraverso la ii.etio iuris della ricostruzione di carriera, di estendere l'applicazione del richiamato art. 155 legge 312/1980 anche a quegli impiegati che, come la ricorrente in primo grado, alla data del 31 dicembre 1972 non possedevano la qualifica di direttore di sezione: ma non vi dubbio che l'inquadramento, proprio perch alternativo o surrogatorio della promozione, rientri nel novero dei provvedimenti, cio degli atti aventi natura autoritativa nel senso sopra precisato. Da ci consegue che il credito retributivo di cui questione pu considerarsi venuto in essere, ai fini della decorrenza della rivalutazione monetaria ed interessi, con il 17 febbraio 1990, data di emanazione del decreto rettorale di inquadramento. Per questa parte l'appello va dunque accolto, prescindendo dall'esame dell'eccezione di prescrizione evidentemente riferita al periodo anteriore. Va invece respinta la censura che l'appellante muove alla sentenza, nella parte in cui stabilisce che la somma dovuta per svalutazione monetaria sia rivalutata ulteriormente sino al saldo completo. La rivalutazione monetaria infatti parte integrante del credito di lavoro e, a differenza degli interessi, non ne costituisce un accessorio: pertanto la differenza tra il debito globale (rappresentato dalla maggiore retribuzione dovuta pi la rivalutazione) e quanto parzialmente corrisposto costituisce essa stessa debito retributivo, come tale rivalutabile sino al soddisfo (Sez. VI 5 luglio 1990 n. 691). In conclusione va affermato il diritto della d.ssa Olivieri Barone ad ottenere la corresponsione degli interessi in misura legale e della rivalutazione monetaria sulla differenza stipendiale relativa alla superiore qualifica del ruolo ad esaurimento, a far tempo dal 17 febbraio 1990 e fino alla data dell'avvenuto parziale pagamento. Sulla somma dovuta per svalutazione monetaria dovr essere calcolata l'ulteriore svalutazione, fino al soddisfo (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 25 marzo 1997 n. 508 -Pres. De Roberto Est. Millemaggi Cogliani -Ministero dell'ambiente (avv. Stato Fiengo) c. S.p.A. T.E.I. ed altri (avv. Caravita di Toritto). Concessione -Finanziamento statale di interventi per la salvaguardia ambientale -Parere negativo del Consiglio di Stato su schema di convenzione -Posizioni reciproche di obblighi e di diritti nascenti dalla concessione dei finanziamenti -Giurisdizione G.O. (Legge 11marzo1988, n. 67) Una volta conclusasi la fase pubblicistica del procedimento previsto dalla delibera CIPE 5 agosto 1988 peril finanziamento degli interventi perla salvaguardia ambientale previsti dalla legge il marzo 1988 n. 67 mediante l'emanazione del decreto di approvazione delle offerte ammesse al contributo, RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 250 deve considerarsi sorto un vincolo negoziale consistente rispettivamente nell'obbligo di erogare il finanziamento, a carico dell'amministrazione, ed in quello di realizzare gli interventi, a carico delle imprese. Rientra nel diritto ai reciproci adempimenti la pretesa alla stipula dell'apposita convenzione diretta a stabilire le modalit e le prescrizioni relative all'esecuzione dell' attivit fmanziata ed all'erogazione del contributo. Ne deriva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia avente ad oggetto l'inosservanza dell'obbligo dell'amministrazione di stipulare la convenzione, pur quando sia intervenuto sullo schema relativo parere negativo del Consiglio di Stato (1). (omissis) 1. Gli appelli, pure se relativi a differenti decisioni del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, devono essere riuniti, per economia processuale, sulla considerazione della coincidenza delle questioni proposte in primo grado, del contenuto delle sentenze impugnate e dei motivi posti a base delle impugnazioni, nonch anche delle ragioni difensive addotte dagli appellati costituiti nei giudizi. 2. In punto di fatto emerge, dalla documentazione in atti (ed del resto evidenziato nella narrativa delle decisioni impugnate) che le istanze e gli atti di diffida sulla cui base stato attribuito significato di silenzio-rifiuto all'inerzia dell'Amministrazione, ebbero rispettivamente ad oggetto -per ciascuno degli operatori privati interessati ai finanziamenti di cui ai decreti citati in narrativa -l'invito all'Amministrazione a stipulare le convenzioni (ovvero i contratti) cui si riferivano i singoli finanziamenti. Il Tribunale, pur avendo colto l'esistenza di una posizione di debito dell'Amministrazione nei contronti degli originari ricorrenti, nascente dai decreti di concessione del finanziamento pubblico (cos come affermato nel terzultimo capoverso, ultimo inciso, della motivazione delle sentenze impu (1) La pronuncia, pur dovendosi rilevare la particolarit della fattispecie attinente alla fase successiva all'adozione dei decreti di approvazione dei finanziamenti ma precedente alla stipula della convenzione recante la determinazione dei diritti e degli obblighi relativi, si allinea alla prevalente giurisprudenza della Cassazione in materia di ammissione di progetti a contributi (Cass. S.U. 16 luglio 1983 n. 4894; Cass. SU. 28 maggio 1986 n. 3600; Cass. SU. 21dicembre1990 n. 12143 Contra Cass. G.U: 17 giugno 1981 n. 3945) secondo cui l'esercizio della discrezionalit amministrativa si esaurisce con la concessione del finanziamento che determina l'insorgere di posizioni di diritto e di obbligo per le parti con conseguente devoluzione al GO del sindacato sulle relative controversie. Relativamente alla sorte del contratto su cui sia intervenuto controllo negativo vedasi, di recente, Cons. Stato Sez. IV 12 marzo 1996 n. 303 che riconosce all'amministrazione l'obbligo di prendere atto dell'illegittimit dell'atto e la potest di non darvi esecuzione (nella specie, trattavasi di contratto delle p.a.sottoposto a controllo preventivo della Corte di Conti ai sensi dell'art. 24, legge 3 gennaio 1978 n. 1). Da sottolineare l'avvenuta abrogazione del parere obbligatorio del Consiglio di Stato ai sensi dell'art. 17 comma 26 della legge 15 maggio 1997 n. 127. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA gnate), ha disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo non concluso il procedimento di evidenza pubblica, per effetto della mancata conclusione delle convenzioni e in mancanza degli adempimenti previsti dall'art. 5 della legge di contabilit di Stato. 3. Il procedimento logico e le conclusioni cui pervenuto il giudice di primo grado non possono essere condivisi. Occorre prendere le mosse dalla considerazione che il fenomeno giuridico che sta alla base della controversia costituito dal finanziamento previsto dalla legge finanziaria 11 marzo 1988 n. 67, attribuito, a ciascuna delle parti private interessate, sulla base di un modulo procedimentale compiutamente predeterminato dalla delibera CIPE che, per il programma annuale del 1988, ha previsto, fra l'altro, per gli interventi di competenza del Ministero dell'ambiente, la possibilit di affidamento diretto a contraenti privati, fissando i termini di presentazione delle offerte, loggetto delle prestazioni richieste, le modalit di scelta del contraente, i criteri di valutazione e l'organo competente per la valutazione, e individuando infine nel decreto del Ministro dell'ambiente, il provvedimento conclusivo del procedimento. Pi precisamente, il modello di erogazione di cui si tratta si colloca agevolmente nell'ambito degli strumenti operativi ad evidenza pubblica, dovendosi propriamente individuare nella deliberazione CIPE, pubblicata nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 215 del 13 settembre 1988, il bando di concorso per l'ammissione al finanziamento, e nel decreto di approvazione delle offerte ammesse al finanziamento, la fase conclusiva del procedimento. in cui l'Amministrazione ha, in via definitiva, approvato l'incontro delle volont concretatasi nella scelta del soggetto da finanziare, previo confronto concorrenziale delle offerte, passate al vaglio della valutazione tecnica della Commissione tecnico scientifica di cui all'art. 14 legge 28 febbraio 1986, n. 41 (secondo quanto espressamente previsto dall'art. 18 quarto comma della legge finanziaria del 1988 di cui si inteso fare applicazione) e, sulle risultanze di questa, delle ulteriori definitive valutazioni di convenienza. In tale assetto procedimentale, con i decreti di concessione dei finanziamenti di cui si tratta, non soltanto l'Amministrazione ha accertato la rispondenza dei singoli finanziamenti all'interesse pubblico specifico previsto dalla legge finanziaria, secondo il programma definito dal CIPE per l'anno 1988, ma ha anche, conclusa la fase procedimentale pubblicistica dei finanziamenti in questione, con la nascita di un vincolo negoziale consistente rispettivamente nell'obbligo di erogare il finanziamento, a carico dell'Amministrazione, ed in quello di realizzare gli interventi di cui ai progetti prescelti ed approvati, a carico delle imprese, idoneo a costituire, una legittima pretesa dei reciproci adempimenti. Tra questi vanno iscritti, (con carattere di accessoriet rispetto al finanziamento oggetto dell'evidenza pubblica) le. apposite convenzioni che la stessa Amministrazione si impegnata a stipulare, con i decreti conclusivi del procedimento, per stabilire le modalit e le prescrizioni relative all'esecuzione, RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 252 alle forme di controllo e vigilanza sulla esatta programmazione, esecuzione e realizzazione delle attivit progettate, nonch alle concrete modalit di erogazione del finanziamento In conclusione, dunque, gli appelli devono trovare accoglimento nella parte in cui deducono il difetto di giurisdizione amministrativo nella controversia avente ad oggetto l'inosservanza dell'obbligo dell'Amministrazione di stipulare la convenzione prevista nei decreti di concessione dei finanziamenti concessi direttamente in favore dei privati per la realizzazione degli interventi di cui. alla legge finanziaria del 1988 ed alla delibera CIPE ivi prevista, restando interamente assorbiti gli ulteriori motivi (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 9 settembre3,41,4 1997 n. 1307 -Pres. Vacirca Est. Camera -Briganti Spremolla e Moroni (aw. Schwarzenberg) c. Ministero dell'Universit (aw. Stato N. Bruni). Istruzione e scuole -Insegnante universitario presso la facolt di Magistero Soppressione facolt di Magistero -Istituzione facolt di lettere e filosofia Terza Universit di Roma -Trasferimento -Art. 2 legge 7 agosto 1990 n. 245 -Legittimit. Ai sensi dell'art. 2 della legge 7 agosto 1990 n. 245 legittimo il trasferimento d'ufficio di docenti universitari gi di ruolo presso la facolt di Magistero a seguito della istituzione di un nuovo corso di laurea in lettere e filosofi.a presso la Terza Universit degli studi di Roma e della contestuale soppressione della facolt di Magistero della Universit di Roma La Sapienza. Il principio di inamovibilit dei docenti universitari di ruolo di cui all'art. 8 d.P.R. 1117180 n. 382 non impedisce il trasferimento d'ufficio degli stessi allorch ci sia espressamente previsto da una specifica disposizione di legge (nella specie art. 2 legge 71811990 n. 245) (l). (omissis) Le attuali appellanti, docenti della Facolt di Magistero dell'Universit degli Studi di Roma La Sapienza sono state trasferite d'ufficio, a seguito della soppressione dei corsi di laurea di detta Facolt, esclu (1) La sentenza in esame non ha precedenti in termini del Consiglio di Stato. L'orientamento dei TAR appare peraltro conforme al principio affermato nella sentenza in rassegna (oltre alla sentenza di primo grado del TAR Lazio si segnala TAR Abruzzo 6 ottobre 1994 n. 659). Il problema della compatibilit del diritto dei docenti universitari alla inamovibilit (riconosciuto dall'art. 8 d.P.R. 382/80 in relazione all'art. 33 Costit.) con le previsioni legislative che, riorganizzando l'assetto universitario, comportano trasferimenti di docenti, stato affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 9 novembre 1988 n. 1017 (in Foro It. 1989, fase. I, 2416) in occasione della istituzione della Universit degli Studi di Verona. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 253 so quello di psicologia, alla Facolt di lettere e filosofia della terza Universit di Roma, realizzata per effetto del piano di sviluppo delle Universit per il triennio 1991-93. Con il presente gravame contestano l'impugnata sentenza che ha respinto il loro ricrso sul presupposto che il disposto passaggio d'ufficio ad altra Universit non verrebbe a ledere l'autonomia universitaria ed il principio di inamovibilit, che esso sarebbe consentito da una specifica disposizione di legge, quale l'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 245, e non sussisterebbe disparit di trattamento rispetto ad altri docenti ai quali era stato riconosciuto il diritto di opzione, versandosi in situazione sostanzialmente diversa. Con un unico complesso motivo lamentano innanzitutto che il piano di sviluppo per il triennio 1991-93 non poteva sopprimere la Facolt di Magistero dell'Universit degli Studi di Roma La Sapienza per non essere stata istituita la Facolt di Magistero presso la terza Universit con il piano di sviluppo precedente (quadriennale 1986-1990). Ripropongono la violazione del principio di inamovibilit fissato a livello costituzionale ed affermato dal d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, all'art. 8, nonch la disparit di trattamento. La censura infondata e, pertanto, non merita accoglimento. Nel sistema normativo risultante anche dal d.l.vo n. 29 del 3 febbraio 1993 le Universit sono da annoverare fra le Pubbliche amministrazioni con diritto di darsi ordinamenti autonomi, ai sensi dell'art. 33 Cost., diritto che pu trovare limitazione in leggi dello Stato (cfr. Corte Costituzionale sent. n. 1017 del 9 novembre 1988), ispirate a ragionevoli esigenze degli studi universitari. Orbene nel caso di specie la legge 7 agosto 1990, n. 245 concernente norme sul piano triennale di sviluppo dell'Universit e per l'attuazione del piano quadriennale 1986-1990 ha previsto all'art. 2 l'istituzione di nuove Universit statali (comma primo) mediante il trasferimento da altre Universit di strutture gi esistenti (comma dodicesimo). Successivamente, in attuazione del piano di sviluppo delle Universit per il triennio 1991-1993, approvato con d.P.R. 28 ottobre 1991 ed in conformit alle previsioni del dodicesimo comma del citato art. 2 della legge 245 del 1990, stata prevista l'istituzione della terza Universit di Roma con alcuni corsi di laurea, tra cui quello di lettere e filosofia da costituire per scorporo dei corsi di laurea (eccetto quello di psicologia) funzionanti presso la Facolt di Magistero dell'Universit La Sapienza di Roma, con la sua contestuale soppressione (art. 7). La Corte ha ritenuto infondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 34, legge 4 agosto 1982 n. 590 (istituzione di nuove Universit), sollevata in relazione all'art. 33, u. comma, Cost. dal Consiglio di Stato (con ordinanza del 22 novembre 85). Secondo la Corte poich la Costituzione riconosce alle Universit il diritto di darsi ordinamenti autonomi non in modo pieno ed assoluto, ma nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, la legge ordinaria, se espressione di concrete esigenze di organizzazione dell'insegnamento universitario pu prevedere il trasferimento d'ufficio dei docenti universitari. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 254 Con decreto del Ministro dell'Universit e della Ricerca Scientifica e Tecnologica in data 29 ottobre 1991 stata istituita la predetta terza Universit subentrante a decorrere dall'anno accademico 1992 1993 in tutti i rapporti giuridici facenti capo al primo Ateneo, relativi al funzionamento in atto dei corsi di laurea passati nella Facolt di lettere e filosofia del terzo Ateneo dalla soppressa Facolt di Magistero (art. 6, comma terzo) e con successivo decreto del 26 settembre 1992 stato attuato il trasferimento d'ufficio dei relativi docenti di I e II fascia, tra cui le appellanti (art. 2). Da quanto sopra esposto facilmente riscontrabile il corretto procedimento seguito dall'Amministrazione nel provvedere al trasferimento d'ufficio del personale docente in questione, che non frutto di un'irrazionale ingerenza, come sembrerebbero volere assumere le interessate, ma corrisponde ad una esigenza di funzionalit della Facolt di lettere e filosofia della terza Universit con il coprire i posti di insegnamento risultanti vacanti, evitando altres di addossare all'Universit La Sapienza docenti e posti non necessari per effetto della soppressione della Facolt di Magistero. N trova ingresso l'invocato principio di inamovibilit sancito dall'art.8 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 stante la diversa previsione che giustifica il passaggio in questione senza il consenso delle interessate. N appare persuasiva la tesi delle appellanti circa un'asserita disparit di trattamento, riscontrabile sia nell'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 245 che nell'art. 4 del D.M. 2 agosto 1995, che, a loro avviso, salvaguardano il diritto di opzione dei docenti. Tale diritto, esercitabile nel caso di sdoppiamento di Facolt universitarie non pu essere invocato nel caso di cui si controverte riguardante la soppressione di una Facolt con l'istituzione di una nuova Facolt, non potendosi optare per un posto non pi esistente a seguito della sua eliminazione. L'opzione presuppone una scelta non attuabile nella fattispecie. Per le suesposte argomentazioni l'appello va respinto e, per l'effetto, l'impugnata sentenza resta confermata (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 9 settembre 1997 n. 1308 -Pres. Ancora -Est. Salvatore C. -Soc. Inerti Sile (avv. Abbamonte e Zambelli) e Regione Veneto (avv. Stato Di Pace) c. Comune di Spresiano (avv. Barel e Voltaggio Lucchesi) e Provincia di Treviso (n.c.) e Comune di Arcade (n.c.). Giustizia amministrativa -Interesse alla impugnazione -Atto incidente sul territorio comunale -Impugnazione da parte del Comune Ammissibilit. Autorizzazione e concessione -Cave e torbiere -Attivit di escavazione -Art. 13 legge reg. Veneto n. 44 del 1982 -Superficie da destinare all'attivit di cava -Criterio di computo. ~ᥥllllll1'1lllWlllllJ.llrlllllllllltCfll PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 255 La partecipazione al procedimento di formazione di un atto non priva l'ente locale della titolarit dell'interesse legittimo alla salvaguardia del proprio territorio e, quindi, dell'interesse ad impugnare l'atto medesimo, ove ritenga che le determinazioni in esso contenute si riflettano negativamente sull'assetto territoriale delineato dal proprio strumento urbanistico (1) L'art. 13 della legge reg. Veneto 7 novembre 1982 n. 44 prevede che la superficie del territorio comunale interessato dall'attivit di cava non superi la quota del 3% della superficie totale della zona agricola al fine di evitare che i lavori di escavazione compromettano l'equilibrio naturale della zona stessa e la sottraggano all'attivit di coltivazione, facendo espresso riferimento alla destinazione agricola della zona in base agli strumenti urbanistici e non alla sua condizione di fatto o per altro titolo ed escludendo, perci, le aree che sono state destinate dal Comune ad altro scopo e, cio, ad impianti sportivi e ricreativi privati, a protezione e sviluppo controllato e a zona verde (2). (omissis) 1. La sentenza appellata stata pronunciata fra le medesime parti, per cui sussistono le condizioni oggettive e soggettive per disporre la riunione dei due appelli. 2. In via preliminare deve essere esaminata l'eccezione, sollevata dall'appellante Inerti Sile, di inammissibilit del ricorso originario proposto dal Comune di Spresiano per difetto di interesse sul rilievo che l'ente locale esaurisce le proprie attribuzioni nella partecipazione al procedimento di rilascio dell'autorizzazione come membro della C.T.R.A., nell'ambito del quale soltanto pu far valere le esigenze connesse alla salvaguardia del suo territorio. L'eccezione deve essere disattesa, essendo evidente che la partecipazione al procedimento di formazione di un atto non priva l'ente locale della titolarit dell'interesse legittimo alla salvaguardia del proprio territorio e, quindi, dell'interesse ad impugnare l'atto medesimo, ove ritenga che le determinazioni in esso contenute si riflettano negativamente sull'assetto territoriale delineato dal proprio strumento urbanistico. 3. Passando al merito della controversia, conviene ricordare che con delibera n. 1675 del 19 aprile 1994 la Giunta regionale del Veneto ha autorizzato la s.r.l. Inerti Sile all'ampliamento della cava di ghiaia denominata Borgo Busco. (1) La statuizione applica i principi generali elaborati dalla giurisprudenza in tema di interesse alla impugnazione ed ha un precedente in termini, anche se remoto, in Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 1988, n. 1104, in Il Cons. Stato, 1988, I, 1237. (2) Precedente specifico sull'interpretazione dell'art. 13 legge reg. Veneto n. 44/82 cit. richiamato anche nella motivazione della sentenza de qua id., 23 dicembre 1994, n. 1807, ivi, 1994, I, 1816. Sul problema pi generale della destinazione agricola della zona in base alla legge reg. cit. in linea con quanto precisato nella sentenza de qua, id., 19 febbraio 1993, n. 180, ivi, 1993, I, 238. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 256 Secondo il Comune di Spresiano, tale prowedimento avrebbe violato l'art. 13 della legge regionale 7 novembre 1982, n. 44. in base al quale la parte di territorio comunale interessato dall'attivit di cava non pu essere in alcun caso superiore alla percentuale del 3% della superficie totale della zona agricola (zona E) del territorio comunale. Il valore percentuale ptevisto dalla richiamata norma regionale sarebbe stato superato con il prowedimento di autorizzazione della Giunta regionale poich, ai fini del rispetto del limite previsto da tale disposizione, alla superficie totale del territorio comunale destinata a zona agricola (Zona E) dallo strumento urbanistico sarebbe stata sommata anche la zona destinata dal P.R.G. a Zona verde -parco territoriale della Grave. La sentenza impugnata, che ha accolto la tesi del Comune, viene ora censurata dalle appellanti Regione Veneto e societ Inerti Sile, le quali assumono che, nell'ambito della zonizzazione del territorio comunale a norma del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, la Zona agricola E definisce, per sottrazione, la parte di territorio comunale che non ricompresa nelle altre zone omogenee A-B-C-D-F. In altre parole, nell'economia generale del piano, ogni destinazione deve essere riconducibile ad una delle zone tipiche in cui deve essere ripartito il territorio comunale con la conseguenza che nella Zona E devono essere ricomprese sia le aree caratterizzate da una specifica vocazione agricola sia quelle residuali, prive di potenzialit edificatorie e non inseribili per ci stesso nelle altre zone omogenee di cui al D.M. citato. Da qui l'owia conclusione che l'area normata dal P.R.G. di Spresiano come Zona verde -parco territoriale delle Grave, avente peraltro destinazione analoga a quella della Zona agricola E, deve essere sommata alla superficie comunale prevista per tale ultima zona al fine di individuare la superficie territoriale sulla quale calcolare la percentuale del 3% da destinare ad attivit di cava. La diversa interpretazione sostenuta dal comune e condivisa dal Tribunale finirebbe per affidare alle amministrazioni locali il potere di escludere ampie parti del territorio dall'attivit di escavazione, mediante una strumentazione urbanistica che consente l'individuazione di zone omogenee al di fuori di quelle tipiche previste dal D.M. 2 aprile 1968 n. 1444. 4. La tesi succintamente riassunta delle appellanti non pu essere condivisa. indubbio che la ragione giustificatrice della disposizione contenuta nell'art. 13 della legge regionale 7 novembre 1982, n. 44 citata sia di far si che l'attivit di cava sia circoscritta, al fine d'evitare che i lavori d'escavazione compromettano l'equilibrio naturale della zona agricola del territorio comunale e la sottraggano all'attivit di coltivazione. Secondo la citata disposizione non concorrono a far parte della superficie territoriale, sulla quale calcolare la quota del 3% anche aree che non PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA hanno destinazione agricola, essendo state destinate dallo stesso Comune a diverso scopo e cio ad impianti sportivi e ricreativi privati, a protezione e sviluppo controllato e a zona verde. L'inclusione di tali aree per la quota del 3% non pu difatti essere giustificata dalla necessit di non sottrarre all'attivit di coltivazione una parte del territorio, per la semplice ragione che tali aree non hanno tale destinazione. Del resto, anche sotto un profilo logico, il rapporto percentuale, sopra riferito, tra zona agricola e superficie delle cave, postula comunque che le aree di cui si discute rivestano le caratteristiche della totalit alla quale rapportare la ragione percentuale, non essendo invero ipotizzabile la sussunzione nella parte percentuale di entit che non possono essere ricomprese nella totalit. Sotto il profilo procedimentale, occorre pertanto definire, in via prioritaria, se le aree in questione fossero ricomprese tra le zone con destinazione agricola o meno. L'individuazione del totale deve, infatti, precedere l'applicazione del tasso percentuale, poich gli elementi che concorrono a formare la parte percentuale devono avere le stesse caratteristiche del totale. Al riguardo non pu condividersi quanto sostenuto dalle appellanti, secondo cui la disposizione citata avrebbe assimilato alle zone in cui in atto una attivit di escavazione -a prescindere dalla loro classificazione o meno come zona E -le zone a questa assimilabili perch non riconducibili a nessuna delle tipiche zone omogenee di cui al D.M. 12 aprile 1968 n. 1444. L'art. 13, comma 1, della legge regionale del Veneto n. 44 del 1982, richiama espressamente le parti di territorio comunale definite zona E., a norma del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 dallo strumento urbanistico generale approvato -e cio le parti del territorio destinate ad usi agricoli -e quindi fa riferimento alla destinazione agricola della zona e non alla sua condizione di fatto o per altro titolo. Con la conseguenza che il computo della superficie non pu essere fatto con riferimento alla destinazione fattuale delle stesse, ma alle previsioni degli strumenti urbanistici. Ci senza contare che, ancorando la destinazione ad elementi di fatto, la superficie totale della zona agricola non sarebbe mai certa, essendo necessario verificare, di volta in volta, tutte le aree in concreto destinate all'agricoltura o assimilate anche se non sono ricomprese nella zona a destinazione agricola. D'altra parte, la Sezione ha avuto modo di pronunciarsi sulla corretta interpretazione della richiamata disposizione regionale con decisione n. 1807 del 23 dicembre 1994, alle cui conclusioni si richiamano le considerazioni che precedono. Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve concludere che il Tribunale ha fatto corretta applicazione della normativa regionale, con conseguente infondatezza del primo motivo di appello. La natura assorbente della questione dispensa il Collegio dall'esame del motivo di impugnazione che attiene al procedimento da seguire per il rilascio RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 258 dell'autorizzazione all'apertura della cava, se cio debba osservarsi l'art. 17 del P.RT.C. ovvero l'art. 18 della legge regionale n. 44 del 1982, tanto pi che l'asserito contrasto fra le due procedure dovrebbe considerarsi risolto per effetto dell'art 31, comma secondo della legge regionale 1febbraio1995 n. 6, e preclude, altres, di esaminare l'appello incidentale della Inerti Sile, rivolto a contestare la legittimit del citato art. 17 (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 31ottobre1997 n. 1533 -Pres. Ancora -Est Romeo -Ministero della Pubblica Istruzione (avv. Stato Salvatorelli) e Istituto Musicale pareggiato G. Donizetti di Bergamo e Comune di Bergamo (avv.ti P. Gaggioli e E. Romanelli). Istruzione e scuole -Conservatori di Musica -Corsi di chitarra Legge 2 maggio 1984 n. 106 -Valore legale -Condizioni Anteriormente all'entrata in vigore della legge 2 maggio 1984 n. 106, che ha incluso i corsi di chitarra nella categoria delle scuole di musica, in linea di principio i suddetti corsi non potevano essere considerati utili per il conseguimento del diploma di conservatorio avente valore legale. Tuttavia l'Amministrazione qualora abbia ingenerato l'affidamento da parte dei frequentanti nella regolarit dei corsi stessi, non pu disconoscere il valore legale dei titoli conseguiti, anteriormente all'entrata in vigore della suddetta legge, senza avere prima ponderato la rilevanza degli interessi coinvolti (1). (omissis) 1. Con le appellate sentenze, il TAR, dopo aver disatteso le eccezioni di inammissibilit e di irricevibilit dei ricorsi, ha definito fondata la censura di difetto di motivazione in ordine alla dichiarata non rispondenza dei corsi di chitarra organizzati dall'Istituto Donizetti alla disciplina dettata in proposito ai fini del riconoscimento del valore legale degli stessi e dei diplomi, nonch sul punto della comparazione della esigenza di ripristino della legalit asseritamente violata con situazioni risalenti nel tempo, ed in vario modo avallate dalla stessa Pubblica Amministrazione. 2. L'appellante, prima di censurare le sentenze impugnate, ricostruisce la situazione dell'Istituto musicale G. Donizetti di Bergamo, che gode, ai sensi e per gli effetti del R.D. 15 maggio 1930 n. 1170, del pareggiamento (1) La sentenza in esame non ha precedenti in termini. Sul piano dei principi appare interessante il tentativo di conciliare il rigore del principio di legalit dell'azione amministrativa con l'ineliminabile esigenza di tutela dell'affidamento ingenerato nei privati. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA delle scuole previste dal d.P.R. n. 80 del 7 gennaio 1970 (composizione; organo e composizione organistica; pianoforte; clarinetto; tromba e trombone), dal d.P.R. n. 486 del 18 febbraio 1970 (violino e viola) e dal d.P.R. 1048 dei 16 ottobre 1980 (canto; violoncello; contrabasso; oboe; fagotto; corno; flauto). Solo con d.P.R. n. 685 del 1986, il pareggiamento stato esteso anche alla scuola di chitarra, a partire dall'anno scolastico 1986/1987. Anteriormente a quest'ultimo d.P.R. n. 685/1986, sussisteva presso l'Istituto Donizetti un corso di chitarra, da qualificarsi a carattere privato, e, nonostante questo fosse privo del pareggiamento (atto, questo, concessivo di natura costitutiva), perch, all'epoca, non era stata ancora istituita una scuola di chitarra nei Conservatori di Musica, il corso stato impropriamente pubblicizzato, sin dalla sua istituzione (1970), con il termine improprio scuola, e sono stati rilasciati agli allievi certificati e attestati finali (diplomi) degli studi compiuti con l'uso di carta stampata con gli estremi del pareggiamento di altre scuole. I corsi di chitarra sono stati, infatti, inclusi nella categoria delle scuole di musica, per gli effetti del R.D. n. 194511930, solo con legge 2 maggio 1984 n. 106. Prima di quest'ultima legge, anche per quanto concerne i conservatori di musica statali, i corsi di chitarra potevano essere svolti come corsi straordinari ovvero speciali, di cui all'art. 191 D. Lgt. 5 maggio 1918 n. 1852 e all'art. 17 del R.D. 7 gennaio 1926 n. 214, di per s privi di effetti legali tipici delle scuole di musica. Questa esauriente premessa, che riprende il preambolo del D.M. del 30 marzo 1987, annullato dal TAR, si conclude con il richiamo alla ispezione presso l'Istituto Donizetti, le cui risultanze sono state acquisite, in data 10 febbraio 1987, agli atti del Ministero, il quale, con il menzionato D.M., ha decretato: 1) i corsi di chitarra e relativi esami, comunque denominati e tenuti fino all'anno scolastico 1985/1986 presso l'Istituto musicale G. Donizetti di Bergamo, non hanno valore legale: 2) gli attestati, le certificazioni, i diplomi e qualunque altro atto amministrativo, concernente i corsi e gli esami di cui al precedente articolo, rilasciati dall'Istituto Musicale G. Donizetti di Bergamo, non sono da considerare titoli di studio con valore legale. 3. Le eccezioni di inammissibilit e di irricevibilit degli originari ricorsi, disattese dal primo giudice e riproposte in questa sede, sono strettamente embricate con la questione della legittimit del contestato decreto, con il quale si disconosce il valore legale dei corsi di chitarra sino al 1985/1986 (a partire dall'a.s. 198611987 la scuola di chitarra presso l'Istituto Donizetti stata pareggiata), unitamente agli attestati, alle certificazioni, ai diplomi e ad ogni altro atto amministrativo. Se, infatti, si disattende, come ha fatto il TAR, la prima eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, riconoscendo la valenza provvedimentale del D.M. 30 marzo 1987, deve parimenti riconoscersi RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 260 non solo che i ricorsi in primo grado erano ricevibili, atteso che quest'ultimo non stato notiziato ai ricorrenti, direttamente incisi, ma che fondata la censura con la quale stata dedotta la mancata comparazione dell'interesse pubblico al ripristino della legalit con il pregiudizio subito dai privati, le cui posizioni si sono consolidate nel tempo, anche a motivo della presenza di Commissari ministeriali, che hanno presieduto i relativi esami intermedi e finali. La difesa erariale insiste nel sostenere che l'atto impugnato sia privo di valenza provvedimentale, limitandosi, questo, a prendere atto di una situazione. di fatto (e cio, dell'inesistenza dei corsi e dei diplomi), senza alcuna immutazione della stessa, sicch non vi sarebbe alcuna posizione giuridica di interesse legittimo, incisa d questo. La tesi non convince. invero la presa d'atto, seppure tardiva, di una determinata situazione da parte del Ministero competente, che ha indotto quest'ultimo ad emanare un provvedimento che, teso a ripristinare la legalit, ha decretato l'inesistenza del valore legale dei corsi di chitarra in questione, e quindi ha eliminato dall'esistente giuridico degli atti (che lo stesso provvedimento definisce amministrativi: attestati, certificazioni, diplomi e qualunque atto amministrativo), della cui legittimit i ricorrenti mai avevano dubitato, anche a motivo -come si detto -della presenza di commissari ministeriali nelle operazioni relative ai corsi di chitarra (pag. 6 del ricorso di appello; pag. 11 delle sentenze impugnate). Non dunque sostenibile che l'atto impugnato sia neutro e che conseguentemente, non essendo rivolto ad Un identificato novero di soggetti contemplati , fosse sufficiente la pubblicazione di questo nella G. U. ai fini della decorrenza dei termini per la sua impugnativa. I soggetti, direttamente incisi dall'impugnato decreto, esistono e sono quelli che, individuati nella relazione ispettiva del gennaio 1987, richiamata nello stesso decreto (pag. 13 della sentenza impugnata), hanno fatto affidamento sulla regolarit dei corsi di chitarra frequentati. 4. Detto questo, deve essere condiviso l'assunto del primo giudice secondo il quale il provvedimento impugnato deve considerarsi illegittimo, perch privo di qualunque cenno motivazionale sull'interesse pubblico al ripristino della legalit, comparato con il pregiudizio subito dai ricorrenti. Il Ministero, infatti, nell'emanare il provvedimento impugnato, non si posto il problema dell'incidenza di quest'ultimo su situazioni soggettive, al cui consolidamento esso stesso aveva contribuito. Eppure, questo, un aspetto fondamentale a motivo dell'affidamento che i ricorrenti avevano riposto nella regolarit amministrativa dei corsi frequentati. La difesa erariale sviluppa in proposito una tesi che condivisibile su un piano astratto e che in sostanza riporta alla dedotta eccezione di inammissibilit dei ricorsi di primo grado per difetto di giurisdizione. .. II !, i: 1\ !'. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Muovendo, infatti, dal presupposto che il corso musicale di chitarra, con possibilit di riconoscerne effetti legali, stato istituito con la legge n. 106 del 1984, non dovrebbe porsi, prima di quest'ultima, il problema dell'assenza del pareggiamento a norma del R.D. 15 maggio 1930 n. 1170 ovvero della frequenza in buona fede di un corso di chitarra come se fosse pareggiato. Da qui, la tesi della mera presa d'atto (dichiarazione di scienza), operata dal Ministero con il provvedimento impugnato, di una situazione di fatto esistente che andava definitivamente chiarita. La situazione, anche dal punto di vista normativo, non per cos semplice da poter essere schematizzata con una proposizione del seguente tenore: siccome il corso di chitarra non era compreso, anteriormente alla legge 2 maggio 1984 n. 106, fra i corsi previsti dalla normativa per il rilascio del titolo di studio con valore legale, ai sensi del R.D. 11 dicembre 1930 n. 1945, nessun valore legale pu essere riconosciuto agli studi compiuti nei corsi musicali di chitarra, prima della legale istituzione di questi. La difficolt in rapporto a tale tesi -che, si ripete, astrattamente condivisibile (non si pu dare valore legale a un corso meramente privato, prima ancora che questo sia legislativamente istituito) -si radica nel fatto che -diversamente da quanto sostiene la difesa erariale -l'interpretazione che il Ministero d della normativa esistente prima della legge n. 106/1984 a sua volta basata sull'accertamento di quanto storicamente avvenuto presso l'Istituto Donizetti a partire dal 1970/1971 sino alla data del concesso pareggiamento della scuola di chitarra (a.s. 1986/1987). Per il Ministero -che ha emesso il provvedimento della cui legittimit si discute -ha, infatti, importanza indiretta la radicale questione, posta dalla difesa erariale, della estraneit del corso di chitarra alla previsione normativa di cui al R.D. n. 1945/1930, con la conseguente impossibilit di applicare, nel settore della scuola non statale, l'unico strumento normativo (R.D. n. 1170/1930) per dare valore legale agli studi compiuti in istituti musicali non statali. Diretta importanza ha per esso solo quanto storicamente accaduto presso l'Istituto Donizetti prima del concesso pareggiamento della scuola di chitarra, cio che ha funzionato, invece, dall'anno 1970/1971, un corso di chitarra organizzato e strutturato in modo non rispondente all'art. 191, 3 comma, del Decreto legge 5 maggio 1918 n. 1852 (corsi straordinari di chitarra), n all'art. 17 del R.D. legge 7 gennaio 1926 n. 214 (corsi speciali), n alle disposizioni impartite con circolare ministeriale n. 9545 del 5 luglio 1969 (che definisce l'ordinamento del corso di chitarra: durata, esami, requisiti di ammissione e altro) n al Decreto Interministeriale del 22 luglio 1980 (che istituisce presso i Conservatori di Musica i corsi speciali permanenti di chitarra). Si , perci, autorizzati a pensare che la decisione assunta dal Ministero sia da attribuirsi alla asserita accertata non rispondenza del corso di chi tarra alla predetta normativa, pi che alla interpretazione di quest'ultima, che, pur consentendo la possibilit di istituire corsi Straordinari oppure spe ciali di chitarra, non comporta di per s la ulteriore possibilit di ricono scere legalmente gli studi compiuti. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 262 Il problema che si pone dunque al Collegio non tanto -come sostiene l'Awocatura dello Stato -quello di valutare la legittimit del D.M. 30 marzo 1986 alla stregua di Un sistema che intende confinare in linea di principio nel meramente privato (senza effetti legali) i corsi di studi non statali privi di una specifica concessione governativa, quanto quello di verificare l'esi stenza del presupposto su cui si fonda il prowedimento impugnato, cio se esatta la non rispondenza del corso in esame alla disciplina richiamata dallo stesso prowedimento. Si deve convenire al riguardo con il primo giudice che questa non rispondenza del corso di chitarra alla disciplina allora esistente, stata .perentoriamente affermata, mentre la stessa necessitava di una precisa dimostrazione alla luce del conseguito pareggiamento della Scuola di chitarra a partire dall'a.s. 1986/1987, e soprattutto in relazione all'articolazione di questo corso con programmi di studio e d'esame analoghi a quelli in vigore presso i Conservatori (ved. relazione del Direttore dell'Istituto del 7 agosto 1987, ove si dichiara anche che gli esami, ad eccezione di un anno, si sono svolti con la presenza -come confermato dall'esito dell'istruttoria -di un commissario ministeriale nominato per gli esami delle scuole pareggiate). D'altra parte, pare che, in relazione agli insegnamenti di chitarra (anche presso i Conservatori di Musica), sia awenuto quello che spesso accade, cio che il dispiegarsi nel tempo di una serie di fatti ha sospinto il legislatore a prendere atto del progressivo compiersi di questi, dando loro una disciplina legale. Ci si deduce dalla mera lettura della circolare ministeriale n. 9545 del 5 luglio 1969, laddove espressamente si dichiara che in sede di revisione degli insegnamenti straordinari esistenti presso i Conservatori di musica, emersa la necessit di regolamentare (tra altri) i corsi di chitarra (al fine) di togliere a tale insegnamento ogni equivoco di formazione dilettantesca, sottolineando nella formulazione del programma che la specificaletteratu ra presenta nel contesto generale della storia della musica in relazione alla fioritura chitarristica-liutistica. Questa situazione stata ulteriormente precisata con il Decreto Interministeriale 22 luglio 1980, con il quale sono stati istituiti, a decorrere dall'anno scolastico 1980/1981, presso i Conservatori di Musica i corsi speciali permanenti di chitarra. Poi, intervenuta la circolare 27 marzo 1985 n. 107 (validit degli attestati finali di corsi musicali straordinari e Corsi speciali permanenti rilasciati dai Conservatori di Musica) che ha affrontato il problema reale della validit dei titoli, ammettendo alle prove di abilitazione e concorso i possessori di titoli, con la precisazione di corso speciale permanente di chitarra, con durata di almeno sette anni, conseguiti non solo presso i Conservatori di Musica, ma presso i licei pareggiati, i cui direttori sono chiamati a presta re la massima collaborazione. Questa sequenza di prowedimenti ammmistrativi dimostra come, da una parte, il Ministero della Pubblica Istruzione abbia preso in considerazio ne una realt che venuta in essere anteriormente alla legge n. 10611984, e, PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 263 dall'altra, come non possa definirsi inesistente in s un corso musicale di chitarra cui l'ordinamento connetta effetti legali, fino a che non sia intervenuta la legge istitutiva della scuola di chitarra. Sono queste le ragioni che inducono ad affermare che il modo di rappresentare, da parte della difesa erariale, la situazione normativa e di fatto sia inadeguato, e che, nella specie; la sfera del privato (il corso in questione) sia stata continuamente sorretta e filtrata (basti pensare alla presenza dei commissari ministeriali agli esami) dalla sfera normativa, richiamata nel provvedimento impugnato. La situazione che si , perci, determinata presso l'Istituto Donizetti, a seguito dell'attivazione del corso straordinario di chitarra, certamente illegittfrna, ma non. per questo pu essere confinata nel meramente privato , attese le modalit di svolgimento del corso medesimo; modalit, tali da suscitare un affidamento di rispondenza legittima degli appellati sulla sua regolarit. E, pertanto, troppo semplice quello che sostiene, in un modo che prescinde dalla lettura del prowedimento impugnato, la difesa erariale: il Ministero ha preso atto di una situazione di fatto, senza alcuna immutazione della stessa. Una approfondita analisi del D.M. 30 marzo 1986 porta invece a concludere che il Ministero ha inteso, sulla base di un indimostrato presupposto fattuale (non rispondenza del corso alla normativa all'epoca esistente) rimuovere tutti gli atti amministrativi relativi al corso in questione, senza per tener conto, in un quadro comparativo degli interessi coinvolti, delle posizioni degli appellati. Gli appelli vanno, per questo, respinti (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 31ottobre1997 N. 1534 -Pres. De Lise -Est. Salvatore-Ianniello c. Presidenza del Consiglio ed altri. Impiego pubblico -Dirigente Generale -Nomina -Dirigente gi in aspettativa per mandato parlamentare e collocato a riposo medio termine Ricostruzione di carriera -Esclusione. In seguito all'entrata in vigore della legge 8 marzo 1985 n. 72, che ha esteso ai dipendenti degli enti pubblici la disciplina contenuta nel d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748, il conferimento della qualifica di dirigente generale presso gli enti pubblici si configura come nomina, e non come promozione, perch pu riguardare anche persone estranee ai ruoli degli enti stessi; pertanto legittimo il diniego di ricostruzione della carriera di un dirigente di un ente previdenziale che, collocato in aspettativa per mandato parlamentare, sia stato medio tempore collocato a riposo per limiti di et, con conferimento a tale momento della qualifica di dirigente superiore, poich l'art. 4 della Legge .:.-:?"" RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 264 31ottobre1965 n. 1245 (sulla ricostruzione di carriera degli impiegati collocati in aspettativa per mandato parlamentare) si applica solo alle promozioni in senso stretto (1). (Omissis) 1. Il primo motivo di appello, che ripropone la censura di violazione dell'art. 88, comma 4 del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, come integrato dall'art. 4 della legge 31 ottobre 1965 n. 1261 e di manifesta illogicit, infondato. Secondo l'appellante la sentenza impugnata sarebbe frutto di una non corretta interpretazione dell'art. 88, comma 4 del d.P.R. n. 361 del 1957, in quanto, pur avendo riconosciuto che la disposizione 14in parola -essendo diretta ad evitare che il dipendente chiamato a svolgere funzioni elettive resti eventualmente danneggiato nei riguardi di colleghi che abbiano continuato a svolgere regolarmente il proprio servizio -si applica esclusivamente alle promozioni in senso tecnico, ha poi del tutto contraddittoriamente affermato che la ricostruzione di carriera effettuata a posteriori all'atto del collocamento a riposo, deve comunque fondarsi sulle probabilit che il ricorrente avrebbe avuto di conseguire la promozione e non sul fatto oggettivo che l'interessato non aveva potuto conseguire promozioni di merito. Tale conclusione si porrebbe in aperto contrasto con lo stesso presupposto che alla base della disposizione invocata, correttamente individuato dallo stesso Tribunale nell'esigenza di evitare all'interessato i danni derivanti dal lungo periodo di aspettativa connessa allo svolgimento del mandato parlamentare. L'assunto non pu essere condiviso. Si deve in primo luogo precisare che la censura stata valutata dal giudice di primo grado con riferimento anche alla normativa vigente prima della legge 8 marzo 1985 n. 72 che ha esteso al personale dirigente degli enti pubblici non economici la disciplina prevista per la dirigenza statale dal d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748. Per il periodo successivo al 1985 la pretesa dell'appellante ad essere inquadrato nella qualifica di dirigente generale stata respinta sul rilievo che, a norma dell'art. 25 del d.P.R. n. 748 del 1972 il conferimento della qualifica di dirigente generale non integra una promozione in senso stretto ma si configura come autonomo atto di nomina, conferibile anche a persone estranee all'amministrazione, e del tutto svincolato dalla posizione degli impiegati nei cui ruoli la qualifica prevista. (1) Non constano precedenti in termini. Il Consiglio di Stato, nel limitare l'applicabilit dell'art. 88 della legge n. 72 del 1985 alle sole promozioni in senso stretto, delinea leffettiva portata della normativa relativa ai dipendenti pubblici collocati in aspettativa per mandato parlamentare, che quella di evitare danni al dipendente eletto a cariche parlamentari, non gi quella di procurargli vantaggi di carriera rispetto ai colleghi rimasti in servizio. Sugli ulteriori profili disciplinati dalla legge n. 72 del 1985 v. anche CdS, IV, del 10 gennaio 1990 n. 8; CdS, VI, del 10 novembre 1995 n. 1296. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Si tratta di conclusione pienamente condivisibile, che peraltro non viene contestata neppure dall'appellante, il quale rivlge le proprie critiche alle argomentazioni poste a base del diniego di conferimento della qualifica di direttore centrale (equiparato a direttore generale) per il periodo anteriore all'entrata in vigore della nuova normativa di cui alla legge 8 marzo 1985 n. 72. Per tale periodo il Tribunale ha ritenuto che la posizione dell'appellante trova la sua disciplina nell'art. 60 del Regolamento dell'ente, vigente alla data di espletamento della procedura, secondo il quale la nomina a Direttore centrale (equiparato a direttore generale) aweniva a ruolo chiuso mediante scrutinio per merito comparativo fra dirigenti superiori con almeno tre anni di anzianit nella qualifica. All'inapplicabilit di tale disposizione al caso di specie il giudice di primo grado pervenuto sul rilievo che la ricostruzione fittizia della carriera non pu prescindere da una valutazione presuntiva della posizione dell'interessato ai fini della necessaria comparazione con gli altri colleghi rimasti in servizio ed effettivamente scrutinati. E poich l'appellante nella qualifica di dirigente superiore, anch'essa conseguita per effetto della ricostruzione fittizia, era collocato in una posizione di ruolo notevolmente inferiore a quella del dirigente promosso in esito alla procedura di scrutinio, ha ritenuto, sulla base del giudizio probabilistico proprio della ricostruzione ora per allora, assai inverosimile che egli avrebbe potuto conseguire la nomina a dirigente generale in luogo del pari grado a suo tempo promosso. Tale conclusione appare pienamente condivisibile, essendo evidente che la tesi propugnata dall'appellante, come giustamente osservato dal tribunale, finirebbe per stravolgere le finalit della normativa, che non sono quelle di procurare vantaggi di carriera al dipendente eletto a cariche parlamentari rispetto ai colleghi rimasti in servizio, bens di evitare danni derivanti dalla mancata prestazione dell'attivit lavorativa. A tali considerazioni si pu aggiungere che l'assenza dal servizio per un periodo di ben 25 anni esclude in radice la possibilit che in favore dell'interessato possano essere presi in considerazione, sia pure in via presuntiva ai fini della ricostruzione della carriera, elementi valutativi che postulano il concreto svolgimento delle funzioni dirigenziali. 2. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine al secondo motivo di appello, con il quale si assume che in ogni caso la ricostruzione della carriera non avrebbe effetto solo ai fini pensionistici e previdenziali ma anche a quelli economici, con conseguente diritto alla corresponsione degli arretrati. L'appellante rileva che nel caso di specie il richiamo alla sinallagmaticit delle prestazioni formalmente sancito dall'art. 9 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 non appare pertinente, in quanto derogato dal comma 5 dell'art. 88 del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, per il quale il periodo trascorso in aspettativa per man RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 266 dato parlamentare considerato a tutti gli effetti periodo di attivit di servizio ed computato per intero ai fini della progressione in carriera degli aumenti periodici di stipendio e del trattamento di quiescenza e di previdenza. In realt dalla disposizione avanti richiamata non si ricava alcun elemento idoneo a suffragare la tesi dell'appellante, trattandosi di norma che costituisce specificazione del comma 3 del medesimo art. 88, secondo il quale al dipendente collocato in aspettativa per mandato parlamentare possono essere conferite promozioni solo per anzianita e devono essere attribuiti, alla scadenza normale, gli aumenti periodici di stipendio. Deve, pertanto, concludersi che la ricostruzione di carriera all'atto del collocamento a riposo, esplica i suoi effetti economici ai soli fini del trattamento pensionistico e di previdenza. 3. Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello va respinto (omissis). TAR TOSCANA, sez. II, 23 ottobre 1997 n. 668 -Pres. Lazzeri -Est.NicolosiLista Progetto per Poggio, Cambi Piero ed altri (avv. Giovannelli, Tomada, Ragazzini) c. Commissione Elettorale Circondariale Prato (avv. Stato Cortigiani), Gelli Silvano ed altri (avv. Cecchi), Comune di Poggio a Caiano (n.c.) Elezioni comunali -Ricorso cumulativo in veste di candidato ed elettoreAmmissibilit. Elezioni comunali -Presentazione delle liste -Formalit -Firme dei sottoscrittori su moduli non recanti indicazione dei candidati -Inammissibilit. Elezioni comunali -Indebita ammissione di una lista -Annullamento proclamazione eletti a seguito di azione popolare -Effetti. Nel giudizio elettorale ammissibile la proposizione, con un unico ricorso, sia della azione popolare che della azione a tutela della posizione di candidato, da parte di soggetti che agiscono nella duplice veste di candidato e cittadino elettore (1). (1) Le decisioni Cons. St., V., 11 settembre 1991 n. 1143 e 7 gosto 1991 n. 1097 citate in motivazione leggonsi in Cons, stato 1991, I, 1321 e 1184. In senso contrario v. Tar Lazio, II, 28 luglio 1995 n. 1250, in Trib. amm. reg. 1995, I, 3510. Pi in generale, per la qualificazione dell'interesse che sorregge l'azione popolare come volto a conseguire una qualsiasi modificazione del risultato elettorale, a tutela dell'interesse pubblico generale al retto funzionamento del sistema democratico, e PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 267 Ai fini della presentazione delle liste per le elezioni comunali le firme dei sottoscrittori devono essere contenute in moduli riportanti, oltre al contrassegno di lista, nome, cognome, luogo e data di nascita dei candidati e generalit complete dei sottoscrittori, e tali indicazioni devono comparire in tutti i modu li: non pertanto ammissibile alla consultazione elettorale una lista per la qualele firme dei sottoscrittori siano state raccolte in un fascicolo composto da moduli solo sul primo dei quali compaiono i nominativi dei candidati (2). L'accoglimento della azione popolare volta a contestare la proclamazione degli eletti per illegittima partecipazione alla consultazione elettorale di una lista che.non avrebbe dovuto esservi ammessa travolge la intera sequenza elettorale, che pertanto dovr essere ripetuta integralmente, e non solo limitatamente alle operazioni successive al primo atto illegittimo (3). (omissis) 5. Nel ricorso 1872/97 residuano come ricorrenti in proprio i signori Corti Enzo, Di Luca Alberto, Cambi Piero e Baroncelli Piero nella loro qualit di elettori del comune di Poggio a Caiano e come atti impugnati il verbale di proclamazione degli eletti e le operazioni elettorali, in quanto solo tali atti sono esclusivamente soggetti dall'art. 83/11 del d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, come modificato dalla legge 23 dicembre 1966 n. 1147, alla eccezionale quindi come diverso e pi ampio rispetto all'interesse ad uno specifico risultato proprio dei singoli candidati v. oltre a Cons. St., V, 20 gennaio 1978 n. 97 citata in motivazione e leggibile in Cons. stato 1978, I, 96, Tar Toscana, Il, 15 dicembre 1995 n. 726, in Trib. amm. reg. 1996, I, 559. (2) L'interpretazione rigorosa della normativa in tema di caratteristiche dei moduli per la raccolta delle firme dei sottoscrittori, a tutela della consapevolezza dei sottoscrittori stessi e al fine di evitare che le firme siano ottenute fraudolentemente consolidata in giurisprudenza. Le decisioni citate in motivazione leggonsi, rispettivamente, Cons.St., V, 17 maggio 1996 n. 575 in Cons. stato 1996, I, 857; Cons. St., V, 28 gennaio 1996 n. 111, ibidem, 1996, I, 53; Cons. St., V, 30 giugno 1995 n. 965, ibidem, 1995, I. 796. (3) Cons. St. 29 giugno 1979 n 470, in Cons. stato 1979, I, 1051, afferma, al contrario, che nel caso di illegittima ammissione di una lista e conseguente rinnovazione delle elezioni, il vizio derivante dalla illegittima ammissione si riflette sulle operazioni successive, nonch su quelle precedenti relative alla fissazione della data di votazione e alla individuazione degli elettori, ma non anche alle operazioni dotate di una certa autonomia, come la non contestata ammissione di altre liste, dimodoch, in tale ipotesi ... sar la nuova consultazione popolare a stabilire in quale misura si riverseranno sulle liste in argomento (gi ammesse) i voti espressi a favore della lista ... (illegittimamente ammessa) che non potr partecipare a detta competizione. Nello stesso senso, sostanzialmente, Cons. St.,V, 19 dicembre 1980 n. 989, ibidem 1980, I, 1692 che fa applicazione del principio generale per il quale l'annullamento di un atto si propaga a quelli successivi e conseguenti, ma non anche a quelli che lo precedono. Entrambe tali decisioni, peraltro, risultano pronunciate a seguito di ricorsi di singole liste o candidati, e non, come nel caso di specie, a seguito di azione popolare. In generale, per varie problematiche relative alle formalit di presentazione delle liste per le elezioni amm.ve ed ai relativi ricorsi v. Tar Toscana, II, 25 novembre 1994 n. 370 e Tar Toscana, Il, 28 ottobre 1994 n. 358, in Foro it., 1995, III, 156 con nota Cortigiani. G.C. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 268 azione popolare riconosciuta a qualsiasi cittadino elettore in riferimento all'interesse pubblico che vi sotteso come a breve si chiarir. 6) La definizione e delimitazione dei limiti soggettivi ed oggettivi del sindacato giurisdizionale cos sancita sul ricorso 1872/97 per effetto dell'atto irrituale di rinuncia formalizzato da parte ricorrente, richiede alcuni chiarimenti sul punto dell'ammissibilit (e dei limiti) di un'azione popolare proposta da soggetti cittadini elettori che contestualmente agiscono in qualit di candidati (la posizione di delegato di lista ha origine e fine esclusivamente all'interno della funzione di rappresentanza svolta in nome e per conto della lista e non involge quindi la posizione soggettiva del delegato quale cittadino elettore) avverso le operazioni elettorali che in tale duplice veste li ha visti coinvolti. noto che la giurisprudenza ha ravvisato nell'art. 83/11 citato due distinte posizioni tutelabili con azioni diverse: la posizione del candidato, al quale riconosciuto un interesse qualificato proprio e diretto alla preposizione all'ufficio elettivo cui aspira attraverso un procedimento correttamente svolto; la posizione di cittadino elettore, al quale riconosciuta la legittimazione all'esercizio di un'azione popolare che costituisce guarentigia voluta dal Legislatore per il corretto funzionamento del sistema democratico ed posta a tutela di un interesse pubblico generale (C.S., sez. V, 20 gennaio 1978 n. 96; cfr. anche C.G.A. 1marzo1993 n. 83 in riferimento al fine di rimedio avverso vizi che possano avere alterato il risultato elettorale che genuino se e quando realizza la corrispondenza tra le scelte del corpo elettorale e la composizione dell'organo elettivo; nonch C.S., sez. V, 7 agosto 1991 n. 1097). La questione se uno stesso soggetto possa esercitare contestualmente, laddove rivesta ambedue le suindicate distinte posizioni, le due azioni va risolta nell'ambito dei principi costituzionali e processuali. Sul piano dei principi costituzionali, vale richiamare l'art. 24 che sancisce il diritto di tutela in giudizio dei propri diritti ed interessi, nonch l'inviolabilit del diritto di difesa; e gli artt. 48 e 51 che riconoscono e tutelano i diritti elettorali dei cittadini. Da tali principi consegue che, laddove la legge riconosca al singolo individuo pi posizioni soggettive tutte tutelabili in relazione al perseguimento di interessi meritevoli di considerazione sul piano giuridico, non possa -salvo che in concreto altra legge disponga diversamente -la scelta della tutela di una posizione giuridica e l'esercizio dell'azione a tutela della posizione stessa operare indirettamente a pregiudizio delle altre posizioni soggettive e delle relative azioni, limitandole o addirittura estinguendole. Sul piano dei principi processuali notorio che il principio del riconoscimento dell'azione soltanto in favore di chi vi abbia un interesse nel nostro ordinamento principio valido per tutti i processi ad azione privata (giusta l'art. 100 del e.e.). Esso non altro esprime se non una condizione dell'azione la quale collega l'effettiva possibilit di tutela della posizione sostan PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA ziale ad una utilit concreta ottenibile dall'accoglimento del ricorso. Ora, mentre il perseguimento di una concreta utilit soggettiva senza dubbio condizione per l'esercizio dell'azione da parte del soggetto che ha un interesse diretto nella consultazione elettorale (come un candidato), per lesercizio dell'azione popolare la legge non richiede al cittadino elettore come condizione il perseguimento di una concreta utilit personale e quindi un interesse a ricorrere, ma solo la qualit di cittadino elettore. L'interesse ed il bene da conseguire sono gi individuati dalla legge nella integrale legittimit e genuinit delle operazioni elettorali. Se ci . vero, lesercizio dell'azione come candidato non determina in astratto alcuna incompatibilit con il contestuale esercizio (nel medesimo giudizio) dell'azione popolare laddove ambedue le azioni conducano -come nella specie -ad un risultato convergente. Nella decisione 11 settembre 1991 n. 1143, la sezione V del Consiglio di Stato, respingendo l'eccezione di carenza di interesse frapposta da una delle parti appellanti, ha testualmente affermato che le due posizioni (di cittadino e di candidato eletto) sono del tutto distinte, quanto alla legittimazione ed all'interesse ad agire. E nulla esclude sul piano normativo che il titolare della posizione medesima possa far valere l'azione popolare, corrispondente ad un interesse pubblico, anche con pregiudizio di quello diretto e personale correlato alla qualit di consigliere eletto. quindi da ritenere ammissibile l'azione popolare proposta dai signori Corti, Di Luca, Cambi e Baroncelli. 7) Le conclusioni alle quali pervenuto il collegio traggono seco l'estromissione dal giudizio della costituita Commissione Elettorale Circondariale di Prato. Concernendo il petitum sostanziale esclusivamente l'impugnativa dell'atto di proclamazione degli eletti e le operazioni elettorali per il cui tramite si concretizza la lesione dell'interesse pubblico alla cui protezione funzionale l'azione popolare esercitabile da ogni cittadino elettore, la legittimazione passiva va solo riconosciuta all'Ente territoriale che si appropria del risultato della consultazione elettorale e non anche alla Commissione che ha ricusato la lista Progetto per Poggio ed ammesso la lista Democratici e Progressisti per Poggio. 8) Definite le questioni di rito connesse alla rinuncia irrituale formalizzata dagli aw.ti Giovannelli e Ragazzini per la parte riorrente e passando al merito dell'unico motivo rimasto da esaminare per il ricorso 1872/97 (nel quale si deduce, appunto, l'illegittima ammissione della lista Democratici e Progressisti per Poggio), va detto che il motivo fondato. Sulla questione intervenuta in termini una decisione della V sezione del C.S. (30 giugno 1995 n. 965, confermata da altre pronunce indicate negli scritti difensivi dei resistenti anche se citate a favore: per tutte C.S., 17 maggio 1996 n. 575, nella quale il riferimento ai moduli ed al loro contenuto identico, seppure con riguardo agli artt. 28 e 32 del d.P.R. 16 maggio 1960 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 270 n. 570), nella quale si afferma che l'art. 3 della legge 81del1993 prescrive che le firme dei presentatori della lista debbano essere apposte su appositi moduli aventi le caratteristiche di cui all'art. 20, 5 comma, del d.P R. 30 marzo 1957 n. 361 e succ. modificazioni. L'art. 20 citato (al pari degli artt. 28 e 32 del d.P.R. 570) dispone che la firma degli elettori deve awenire su moduli riportanti il contrassegno di lista, il nome, ilcognome, illuogo di nascita e la data di nascita dei candidati, nonch le generalit complete dei sottoscrittori (la precisazione sulle modalit stata inserita dalla legge 11agosto1991 n. 271). La ratio della norma -come stato ribadito dal Consiglio di Stato - quella di evitare possibili fraudolente sottoscrizioni di liste o di candidati. La sottoscrizione sui moduli completi dei dati richiesti assicura, infatti, che i sottoscrittori hanno voluto presentare i candidati -individuati nei moduli stessi attraverso le loro complete generalit -per quella determinata lista avente un determinato contrassegno (cfr. C.S., sez. V, 17 maggio 1996 n. 575; idem 28 gennaio 1996 n. 111 e 112). Necessita quindi che ogni modulo recante le firme dei sottoscrittori rispetti rigorosamente le suindicate formalit anche se ci pu sembrare un' inutile ripetizione. L'allegazione di fogli recanti solo le generalit dei sottoscrittori o con esse solo la didascalia del contrassegno, senza i candidati, non d certezza ex ante (e non ex post, donde l'irrilevanza di una dichiarazione di consapevolezza2 sottoscritta -a risultati elettorali definiti -dai presentatori della lista: l'attendibilit della volont espressa con la sottoscrizione non pu essere adattata, infatti, alle dimensioni del comune od alle particolari situazioni di reciproca conoscenza esistenti fra i cittadini di un piccolo comune, se non altro per la ragione che la legge contiene norme di carattere generale ed astratto che devono trovare applicazione uniformemente in tutto il territorio nazionale) che ogni sottoscrittore abbia avuto consapevolezza sulla lista ed i candidati per i quali ha posto la sua firma e non esclude la possibilit che taluna firma sia stata in tal modo carpita in modo fraudolento o sia comunque frutto di un errore di persona in caso di omonimie (nelle liste elettorali del comune di Poggio a Caiano esistevano, come ha permesso di accertare l'istruttoria compiuta, due elettori aventi lo stesso nome e cognome e se ci non ha determinato in concreto alcuna confusio:q.e -la circostanza non rileva nella specie -d conferma del pragmatismo di disposizioni normative che potrebbero apparire.eccessivamente formalistiche). Il rigore doveroso che deve seguire l'esercizio dei diritti di elettorato attivo e passivo impone che delle disposizioni regolatrici della presentazione della candidatura si dia un'interpretazione estremamente severa a garanzia proprio dell'espressione di un voto consapevole e libero. Non questione, si ripete, di mero formalismo, ma di garanzia di trasparenza nell'esercizio del pi importante diritto politico che lo Stato democratico riconosce ai propri cittadini. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA . Tutte le volte, quindi, che ex ante manca o non vi sia dimostrazione oggettiva del collegamento fra sottoscrittori e la lista dei candidati, la presentazione della lista medesima da ritenere viziata. L'autenticazione delle. firme .da parte del funzionario dell'ufficio elettorale non garantisce !'.esistenza del collegamento suddetto, in quanto di tale effetto non v' traccia n nella legge, n nell'autenticazione medesima, la quale si.limita ad attestare che la firma dell'elettore avvenuta in presenza del funzionario stesso, previo accertamento delle generalit del medesimo e non che ogni sottoscrittore ha dichiarato di essere consapevole dell'identit dei candidati presentati. Analogamente l'atto di ricevimento della lista da parte del segretario comunale non rileva alcunch, in quanto non spetta a tale funzionario, ma alla commissione elettorale, verificare il rispetto delle modalit di presentazione delle liste elettorali. Ora, la documentazione presentata dalla lista Democratici e Progressisti per Poggio era irrimediabilmente in contrasto con le prescrizioni contenute nelle norme surrichiamate, per cui stata illegittimamente ammessa alla competizione elettorale, mancando alla data della presentazione della lista la certezza del riferimento della volont espressa dagli elettori nei confronti dei nominativi indicati nel primo foglio del fascicolo come candidati (senza peraltro le complete generalit di quelli presentati per la carica di consigliere comunale). Il foglio aggiunto presentato per migliore specifica dell'elenco riportato in I pagina della lista dei presentatori (si veda documento segnato 2 al gruppo di documenti posto a corredo della lista) non pu svolgere alcuna funzione sanante in quanto senza data, senza contrassegno di lista e del tutto separato dal fascicolo dei moduli sottoscritti dai presentatori; donde la sua irrilevanza ai fini che ne occupano. Non vale sostenere, come si sostiene nelle memorie difensive dei resistenti, che il fascicolo dei moduli costituisse un unicum con la lista dei candidati in quanto la sottoscrizione era avvenuta alla presenza di un notaio che ha poi numerato e timbrato i singoli fogli. Non vale, per la ragione che il notaio ha solo dato atto della sottoscrizione dei moduli, ma non ha attestato che ciascun sottoscrittore avesse preso conoscenza dell'elenco dei candidati e delle generalit complete delle stesse, n di avere egli stesso dato lettura a ciascun sottoscrittore dell'elenco completo delle generalit dei candidati e delle caratteristiche del contrassegno di lista. A ci va aggiunto che diversi fogli non recano neanche il contrassegno di lista, n per essi vi attestazione notarile che gli elettori hanno dichiarato di volere presentare con la sottoscrizione quei candidati (che sarebbero stati dopo) indicati nella lista in questione. Manca infine la certificazione notarile sul numero dei fogli che compongono l'atto di presentazione compilato in un unico fascicolo (alla stregua delle disposizioni dell'art.51 della legge 16 febbraio 1913 n. 89 ordinamento del notariato). Sulla possibile confusione ed incertezza (e conseguente virtuale rischio di firme carpite fraudolentemente o quanto meno apposte inconsapevolmen RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 272 te) che pu derivare dall'utilizzo di moduli incompleti vi plateale esempio nella vicenda legata alla presentazione della candidata Mugnari Vilma, la quale risulta in un primo momento elettore presentatore il 23 marzo 1993 e poi candidato della lista Democratici e Progressisti per Poggio (avendo accettato la candidatura lo stesso 23 marzo) senza che sia dato comprendere in quale momento della medesima giornata divenuta candidata o ha accettato la candidatura. A seguire la tesi dei resistenti, dal momento che le firme sono state raccolte da un solo pubblico ufficiale, vi poteva essere una presunzione di candidatura per tutti gli elettori che hanno sottoscritto prima della Mugnari; viceversa vi poteva essere una presunzione di rinuncia alla candidatura per gli elettori che hanno sottoscritto successivamente: per cui sorge il dubbio di quali sottoscrittori fossero a conoscenza della posizione di candidata della predetta signora al momento della sottoscrizione del modulo. Anche a volere ammettere la contestuale presenza il 23 marzo 1997 di tutti i presentatori al momento della sottoscrizione dei moduli davanti al notaio, sembra poco credibile una situazione in cui un soggetto che interviene come presentatore di lista, sottoscrivendo il modulo, accetta poi la candidatura decisa nei suoi confronti dagli altri presentatori: resta sempre il dubbio sull'elenco di candidati che avevano sottoscritto la Mugnari e i presentatori che la precedevano, dal momento che l'elenco ufficiale del primo foglio reca la data (a quanto dato leggere) del 29 marzo ed inspiegabilmente inserito come primo foglio di un fascicolo in cui la data di presentazione di sei giorni prima. Altro interrogativo, visto che la compilazione dei moduli avvenuta in presenza del notaio, su chi ha cassato e quando la firma ed il nome della Mugnari, visto che la certificazione finale del notaio riporta alla data del 23 marzo la cifra di 122 presentatori, comprensiva, quindi, della Mugnari. In ogni caso sono incompleti i dati dei candidati indicati nel foglio che reca la data del 29 marzo, il quale non riporta le generalit complete degli stessi. Sul momento della compilazione dell'elenco dei candidati non aiutano certo le evidenti diverse mani che hanno completato il primo foglio (sono evidenti le differenze di calligrafia). inconferente sostenere che le indicazioni sul numero dei sottoscrittori ed altre similari possono essere solo inserite successivamente. Non vanno confuse le indicazioni sugli allegati (come ad esempio il numero dei certificati e delle dichiarazioni di accettazione) con le indicazioni che la legge vuole siano presenti all'atto della presentazione della lista da parte degli elettori, ossia comprese nello stesso modulo in cui gli elettori formalizzano con la sottoscrizione la presentazione della lista: in queste ultime vi deve essere certezza di contestualit fra elenco candidati completi di 'generalit e generalit complete e sottoscrizione degli elettori che presentano i candidati medesimi per scongiurare, appunto, il rischio di fraudolente firme. La strumentalit delle forme va giudicata in relazione al perseguimento dell'interesse che la legge intende tutelare e non al numero dei sottoscrittori che occorre comunque raggiungere per l'ammissione della lista. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Le svolte considerazioni implicano, all'evidenza (e sia detto incidenter tantum), la infondatezza delle doglianze formulate dai rinunzianti relativamente alla parte del ricorso in esame inteso a contestare la ricusazione della loro lista, le cui irregolarit, appartenenti alla stessa tipologia, oggetto delle valutazioni suesposte, si appalesavano di ben pi grave consistenza. In definitiva, assumono rilievo assorbente i profili dei vizi di violazione e falsa applicazione dei principi derivanti dall'ordinamento elettorale in materia di presentazione delle candidature per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale e di violazione delle corrispondenti norme del t.u. 570 del 1960 e della legge 81 del 199 3. In ragione di tali vizi, l'atto di proclamazione degli eletti alle cariche di sindaco e di consigliere comunale va annullato. L'annullamento di tale atto trae seco, nella fattispecie, anche il travolgimento della intera sequenza elettorale considerata. Ci la diretta conseguenza che devesi correlare, come in pregresso gi evidenziato, 'all'esercizio dell'azione popolare, dispiegata nel caso, e al peculiare rapporto intercorrente tra l'interesse generale, di cui essa azione portatrice nell'ambito dell'ordinamento di settore, e le finalit con le quali si identifica. In altri termini, l'effetto conformativo della pronuncia, nella sua incidenza sul procedimento elettorale, ben avrebbe potuto implicare effetti rinnovativi di portata pi circoscritta, ove l'accoglimento del ricorso avesse tratto origine dalla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, nella diversa logica (e nella correlativamente diversa portata soggettiva) preordinata alla tutela di una posizione rilevante nella diversa qualificazione fisiologicamente propria dell'interesse legittimo (omissis). TAR TOSCANA, sez. I, 3 novembre 1997 n. 470 -Pres. Virgilio -Est. Colombati -Giacchetti ed altri (avv. Viciconte, Cannizzaro, Polidori, Spizzichino) c. Min. Universit ed altri (avv. Stato Cortigiani). Comunit europea -Norme CEE -Direttive in tema formazione specialistica medici -Dirett applicabilit -Esclusione. Istruzione e scuole -Universit -Scuole specializzazione -Medicina Posizione soggettiva specializzandi -Interesse legittimo. Istruzione e scuole -Universit -Scuole specializzazione -Medicina Specializzandi dei corsi anteriori al 1991 -Remunerazione -Speciale punteggio concorsuale -Non spettnza. Istruzione e scuole -Universit -Scuole specializzazione -Medicina -Art. 8 d.lgs 8 agosto 1991 n. 257 -Questione di costituzionalit -Manifesta infondatezza. 274 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO La Direttiva CEE (82176 che ha modificato la 751363 ed stata integrata dalla 891594 e dalla 93116) in tema di formazione specialistica uniforme dei medici vincola gli Stati membri solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere, rappresentato dalla idonea formazione dei medici, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alle forme e ai mezzi da adottare, e pertanto non pu definirsi come self-executing (1). Poich le direttive comunitarie in tema di formazione specialistica dei medici non sono di diretta applicabilit, ma necessitano della intermediazione della Autorit pubblica, legislativa o amministrativa, la situazione soggettiva degli specializzandi, in relazione a pretese asseritamente derivanti dalle suddette direttive va qualificata come di interesse legittimo e non di diritto soggettivo (2). La situazione degli specializzandi gi iscritti a corsi di specializzazione attivati anteriormente all'anno accademico 1991-1992 sostanzialmente diversa rispetto a quella dei laureati ammessi ai corsi di cui al d.lgs 8 agosto 1991 n. 257, sia in punto di durata del corso, che di orario obbligatorio di frequenza, che, infine, di incompatibilit, dimodoch non competono loro n la remunerazione per l'attivit, n lo speciale punteggio da far valere in sede concorsuale previsti nel decreto (3). manifestamente infondata la questione di costituzionalit, sollevata in relazione agli art. 3, 76 Cast., dell'art. 8 d.lgs 8 agosto 1991 n. 257, nella parte in cui prevede regimi e trattamenti diversi peri medici specializzandi iscritti a corsi attivati anteriormente o successivamente all'anno accademico 1991-1992 (4). (omissis) 1) La presente impugnativa ha per oggetto in via principale, come espressamente dichiarato, l'annullamento della nota ministeriale, di cui si dir in prosieguo, e quindi la declaratoria del diritto dei ricorrenti, medici ormai tutti in possesso del diploma di specializzazione post (1-4) La decisione si pone scientemente in contrasto con Tar Lazio, sez. I bis 16 aprile 1993 n. 601 (in Trib. amm. reg. 1993, I, 1591) che aveva ritenuto la diretta applicabilit, con conseguente disapplicazione della normativa interna, della Direttiva CEE 82/76, in quanto incondizionata e sufficientemente precisa, e con Cons. Stato, IV, 23 settembre 1994 n. 735, inedita, che aveva confermato le statuizioni del Tar Lazio, precisando peraltro che le pretese dei ricorrenti avrebbero dovuto trovare accoglimento da parte della Amministrazione purch fossero in concreto presenti, nella loro attivit, elementi quali l'impegno a tempo pieno e l'inibizione della attivit libero professionale esterna. La diretta applicabilit della normativa comunitaria in materia stata invece negata da Cass. 16 settembre 1995 n. 9789 (in Giust. civ. 1996, I, 86), che esclude anche la ravvisabilit di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato fra Universit e specializzando ed assegna alla borsa di studio natura non retributiva ma alimentare. In argomento si vedano anche: Trib. Firenze, 8 agosto 1996 n. 2304, inedita, che rigetta domanda di risarcimento nei confronti della Repubblica Italiana per mancato recepimento della direttiva, muovendo dalla considerazione che il riconoscime'n.to della borsa fa parte di un sinallagma che vede, dall'altra parte, l'impegno a tempo pieno e l'inibizione di attivit professionale esterna che hanno caratterizzato solo i corsi attivati successivamente,.e, in senso opposto, appello Firenze 14 ottobre 1997 n. 1575, che ha riformato la precedente. G.C. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA universitario, a vedersi riconosciuti sia la borsa di studio sia lo speciale punteggio, previsti rispettivamente dagli artt. 6 e 4, comma 7, del d. lgs. 8 agosto 1991 n. 257, emanato in attuazione della delega contenuta nella legge comunitaria per il 1990 (legge 29 dicembre 1990 n. 428 -art. 6 ). 2) La norma di delega, con la quale si data attuazione alla direttiva del Consiglio 82/76/CEE relativa alla formazione dei medici specialisti, prevedeva che, individuate le incompatibilit per coloro che frequentassero le scuole di specializzazione ed esclusa qualsiasi trasformazione dello speciale rapporto in lavoro subordinato, la formazione specialistica dei medici ammessi alle scuole di specializzazione awenisse a tempo pieno con l'impegno di un particolare orario di servizio, salvo deroghe specifiche, e che alla distribuzione delle borse di studio si pervenisse con criteri di programmazione generale, nazionale e regionale, delle esigenze di formazione nei vari settori assistenziali, stabiliti d'intesa tra il Ministro dell'universit e della ricerca scientifica e il Ministro della sanit, ed infine che fosse prevista una riserva di posti a favore dei medici militari e di quelli provenienti dai Paesi in via di sviluppo, a certe condizioni. 3) Conseguentemente stato adottato il decreto legislativo 8 agosto 1991 Il. 257. Di questo, l'art. 1 dispone che la formazione specialistica dei medici 'ammessi' alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, di tipologia e durata conformi alle norme comunitarie si svolge a tempo pieno. L'art. 2 prevede una programmazione che si snoda attraverso la determinazione, con cadenza triennale, del numero degli specialisti da formare sulla base delle esigenze sanitarie del paese, tenuto conto delle capacit ricettive delle strutture universitarie ... e delle risorse finanziarie comunque acquisite dalle universit. Sulla base di tale programmazione, che coinvolge molti soggetti pubblici, e precisamente i Ministri della sanit, dell'universit e del tesoro, le regioni e le province autonome e anche le facolt di medicina e chirurgia, viene determinato il numero dei posti per ciascuna scuola di specializzazione nonch, per ogni singola specializzazione, la riserva di posti a favore dei medici militari e stranieri e la loro ripartizione per le scuole. L'art. 3 precisa che l'ammissione alle scuole di specializzazione avviene secondo le modalit dell'art. 13 del d.P.R. 10 marzo 1982, n. 162, cio previo il superamento di un esame e la collocazione utile in una apposita graduatoria in relazione al numero dei posti disponibili. L'art. 4 detta norme in tema di diritti e doveri degli specializzandi, imponendo la partecipazione alla totalit delle attivit mediche e dei compiti assistenziali del servizio cui si assegnati, chiarendo che non viene in essere nessun rapporto di lavoro subordinato, che l'impegno a tempo pieno, che alla fine di ogni anno previsto un esame ripetibile una sola volta, che non si ammessi a proseguire il corso se non in regola con gli esami e con lo svolgi RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 276 mento delle attivit pratiche e che (comma 7) il diploma di specializzazione costituisce titolo da valutare separatamente, con specifico punteggio, fra quelli valutabili nei concorsi di accesso ai profili professionali medici. L'art. 5 prevede, per tutta la durata della formazione, casi di incompatibilit, congedi e interruzioni di precedenti rapporti di lavoro. L'art. 6 stabilisce che agli ammessi alle scuole di specializzazione nei limiti definiti dalla programmazione... in relazione all'attuazione dell'impegno a tempo pieno... corrisposta una borsa di studio di un certo ammontare rivalutabile.annualmente. Da ultimo l'art. 7 fissa i requisiti di idoneit delle strutture e l'art. 8, nel dettare le norme finali -dirette in via transitoria a garantire il completamento degli studi agli specializzandi gi iscritti nelle scuole di specializzazioni esistenti anche se con ordinamento non conforme alla nuova disciplina comunitaria -espressamente prevede che le disposizioni del presente decreto si applicano a decorrere dall'anno accademico 1991-92. In conclusione il decreto legislativo sembra prefigurare una specie di numero chiuso di specializzandi per ragioni che si riferiscono sia alle strutture delle universit, sia alle risorse finanziarie disponibili, sia anche al quadro complessivo dei medici, divenuti specialisti, destinati ad operare poi presumibilmente nel nostro paese (Cons. di Stato, sez. II, parere n. 1381/94, in Cons. Stato, 1996, I, 333; v. anche Cons. giust. amm. sic. n. 251dl1994). 4) Orbene, poich le censure dedotte con il presente ricorso si incentrano in primo luogo sulla natura self-executing>> della direttiva comunitaria richiamata, tale da imporre al giudice la disapplicazione di norme interne non conformi e l'applicazione diretta di quelle comunitarie, occorre fermare l'attenzione sullo specifico argomento. La direttiva del Consiglio 82/76/CEE, che ha modificato la precedente direttiva 75/363/CEE con la quale costituisce ora un unico corpo normativo integrato da successivi interventi comunitari (direttive del Consiglio 89/594/CEE e 93/16/CEE: quest'ultima viene definita, nei 'considerando', un testo unico cui stato necessario addivenire in considerazione delle molteplici modifiche apportate nel tempo alle direttive originarie), ha lo scopo di agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di medico, attraverso il reciproco riconoscimento dei titoli di medico e di medico specialista, garantendo una formazione specialistica uniforme da parte degli Stati membri, mediante la fissazione di requisiti minimi. Poich, come ha affermato la Corte di cassazione, sez. I civile, n. 9789 del 1995, la sua finalit, risultante in modo chiaro dal contenuto e dalle pre messe delle disposizioni, quella di effettuare un coordinamento delle con dizioni di formazione a tempo pieno del medico specialista all'interno della Comunit, essa pertanto vincola gli Stati membri cui rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando (ai sensi dell'art. 189, comma 3, del Trattato) la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da adottare. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Nella specie il risultato certamente la formazione specialistica del medico, alla quale appare strumentale il riconoscimento di emolumenti in favore degli interessati, durante il corso di formazione, proprio per tener conto della loro partecipazione piena ed esclusiva alle attivit del servizio con l'osservanza di un particolare orario. La normativa comunitaria richiede (art. 9 direttiva 82/76/CEE, cui corrisponde l'art. 24, par. 1, lett. c, del testo unico di cui alla direttiva 93/16/CEE) che la formazione specialistica di cui detta le norme minime, lasciando per il resto agli Stati membri la libert di organizzare il proprio insegnamento (v. il primo considerando della direttiva base 75/363/CEE, riportato anche nei considerando della direttiva testo unico 93/16/CEE) si svolga sotto il controllo delle autorit in posti di formazione specifici riconosciuti dalle autorit competenti. Nessuna previsione, invece, si rinviene nella normativa comunitaria in ordine al riconoscimento di uno speciale punteggio da utilizzare nei concorsi nazionali di accesso alle strutture sanitarie pubbliche, risultando tale previsione soltanto dalla normativa nazionale di recepimento, cui non precluso introdurre disposizioni aggiuntive non contrastanti con quelle comunitarie. In relazione a quest'ultimo punto, visto l'ambito del petitum risultante dal ricorso (che, in parte, quello di ottenere il riconoscimento dello speciale punteggio da far valere per i concorsi pubblici), del tutto inconferente la tesi della disapplicazione della legislazione nazionale e della diretta applicabilit della normativa comunitaria in questione, perch da essa non deriva il beneficio che i ricorrenti richiedono. 5) Tutto ci premesso, dovendosi ritenere che la normativa comunitaria in argomento non presenti i caratteri della diretta applicabilit (e in questo senso non sembra doversi porre un problema di interpretazione, secondo quanto eccepito dalle amministrazioni resistenti), che il sistema ivi previsto in funzione di garantire una certa uniformit non pu prescindere dalla concreta individuazione, da parte di ciascuno Stato membro, dei modi e dei mezzi della propria organizzazione onde realizzare il risultato imposto dalla Comunit, che quindi correttamente il legislatore nazionale ha fatto riferimento al sistema previgente per l' ammissione alle scuole di specializzazione in medicina e chirurgia -sistema incentrato su una necessaria selezione in ragione delle limitate disponibilit strutturali e finanziarie -ne deriva che la pretesa dei ricorrenti non pu trovare accoglimento, diversa essendo la situazione loro rispetto a quella degli specializzandi ammessi ai corsi di cui al d. lgs. n. 257 del 1991. Essi, infatti, al momento dell'attuazione della normativa comunitaria in esame non hanno partecipato alla selezione perch erano gi iscritti a corsi di specializzazione -in varie materie per le quali la normativa CEE richiede, tra l'altro, un periodo minimo di specializzazione di quattro anni (v. art. 4 direttiva 75/363/CEE e art. 27 direttiva 93/16/CEE), mentre, secondo quanto affermato nell'atto introduttivo del presente giudizio, il loro corso di specializzazione ha avuto la durata di tre anni -e soprattutto non hanno nem RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO meno chiesto, al momento della decorrenza dell'efficacia del d. lgs. n. 257 del 1991, di poter concorrere alle borse di studio in argomento. Inoltre, come ricordato nell'impugnata nota del Ministero dell'universit n. 1461 del 7 giugno 1995, di risposta alle istanze avanzate dagli attuali ricorrenti, sul punto non contestata, la precedente normativa nazionale richiedeva una frequenza obbligatoria di 800 ore annue, rispetto alle nuove disposizioni che obbligano lo specializzando ad una frequenza pari a quella prevista per il personale medico del servizio sanitario nazionale a tempo pieno, e non precludeva, a differenza del nuovo regime, l'esercizio di attivit libero-professionali esterne alle strutture assistenziali in cui si effettuava la specializzazione o forme di convenzione o rapporti precari con il servizio sanitario nazionale. Non possono quindi essere equiparate situazioni differenziate. Secondo ilcostante insegnamento della Corte costituzionale, non contrasta con il principio di eguaglianza un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, giacch lo stesso fluire di questo costituisce di per s elemento differenziatore (explurimis: Corte cost., sentenze nn. 6 del 1988, 618 del 1987, 322 del 1985). In questo senso manifestamente infondata la questione di legittimit costituzionale, proposta dai ricorrenti nella memoria di udienza, dell'art. 8 del d. lgs. n. 257, in riferimento all'art. 3 della Costituzione. 6) il caso di aggiungere due precisazioni: da un canto il Collegio ritiene sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, cos rigettando l'eccezione in proposito formulata dalle amministrazioni ricorrenti, perch, nella specie, la controversia ha per oggetto la lesione non di un diritto soggettivo, bens di un interesse legittimo, tale dovendosi intendere quello in cui si sostanzia la situazione soggettiva fatta valere, di fronte ad una normativa, sia comunitaria che nazionale, che, per quanto detto, necessariamente postula l'intermediazione dell'autorit pubblica, legislativa o amministrativa, affinch sorga la posizione giuridica soggettiva legittimante. A diversa conclusione non induce la ricordata sentenza della Corte di cassazione , sez. I, n. 9789 del 1995, che, nel decidere un regolamento di competenza, ha preso atto del giudicato interno formatosi sulla giurisdizione del giudice ordinario, l dove ha esplicitamente chiarito che restava ferma ... la dichiarazione di giurisdizione dell'autorit giudiziaria ordinaria fatta dal Pretore e non impugnata. In secondo luogo, con la presente motivazione il Collegio consapevole di andare in contrario avviso rispetto alla invocata sentenza del TAR Lazio n. 601 del 1993, pur confermata dal Consiglio di Stato, sez. IV n. 735 del 1994; ma ritiene che, anche in quel caso, il giudice di secondo grado sia stato limitato nelle sue considerazioni dagli insufficienti motivi di appello (v., in particolare, punto 4 della motivazione) che non gli hanno consentito di ridiscutere ab imis l'iter argomentativo seguito dal giudice di primo grado circa i rapporti tra la normativa comunitaria e quella nazionale di recepimento e quindi per la conclusione della vertenza. In conclusione il ricorso deve essere rigettato in quanto infondato (omissis). SEZIONE QUINTA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 3 gennaio 1997 n. 11 -Pres. Rossi -Est. Vitrone -P.M. Carnevali (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Giovanni) c. Arcuri. Tributi erariali diretti -Accertamento -Motivazione -Indicazione degli elementi di prova -Esclusione. (d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art. 42) L'accertamento nelle imposte dirette, che non costituisce una decisione su posizioni contrastanti, ma un prowedimento con il quale l'Amministrazione fa valere la propria pretesa e che ha la funzione di consentire al contribuente di esperire l'impugnazione giurisdizionale, non deve contenere la notizia delle prove sulle quali si fonda; solo nel processo l'Amministrazione sar tenuta a passare dalla allegazione della propria pretesa alla prova del credito vantato (1). (omissis) La ricorrente denuncia la violazione dell'art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell'art. 2697 cod. civ. in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., e si duole che la sentenza impugnata, nel dichiarare la nullit dell'avviso di accertamento in contestazione, abbia confuso i requisiti di validit dell'avviso con la dimostrazione dei fatti sui quali l'accertamento si fonda: osserva al riguardo che la motivazione dell'accertamento attiene unicamente alla legittimit formale e dev'essere tenuta distinta dalla prova dei fatti, che attiene invece alla fondatezza sostanziale della pretesa tributaria e dev'essere verificata solo nel corso del processo instaurato dal contribuente. Va premesso al riguardo che l'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 prescrive che l'avviso di accertamento deve contenere, a pena di nullit, l'indicazione dell'imponibile, dell'aliquota applicata e dell'imposta liquidata, nonch delle norme giustificative dell'operato dell'ufficio e, solo con riferimento all'ipotesi della rettifica operata con metodo induttivo o sintetico, esige anche la specificazione degli elementi di fatto all'uopo valutati: la norma non prevede, perci, che l'Amministrazione sia tenuta a includere nell'avviso di ai;;certa (1) Conformi sono le altre sentenze n. 78, 79 e 171 di cui si omette la pubblicazione. Questione, per le imposte dirette, assai simile a quella affrontata, per le imposte indirette nella sentenza n. 288 che si pubblica in questo stesso fascicolo. Nei due versanti il diverso manifestarsi della prova lascia intatta la separazione logica e temporale dei due momenti della motivazione e della istruttoria. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 280 mento notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, n di riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto. Da ci consegue che la diversa interpretazione seguita dalla sentenza impugnata, non solo contrasta con la lettera della norma denunziata, ma neppure considera che l'accertamento tributario, per la sua natura e per la funzione che lo connota, non costituisce una decisione su contrastanti interpretazioni di fatti e di norme giuridiche, da adottarsi col rispetto del contraddittorio, n esprime un apprezzamento critico in ordine a dati noti a entrambe le parti, ma si esaurisce in un provvedimento autoritativo con il quale l'Amministrazione fa valere la propria pretesa tributaria, esternandone il titolo e le ragioni giustificative al solo fine di consentire al contribuente di valutare l'opportunit di esperire l'impugnazione giudiziale, instaurando un procedimento nell'ambito del quale la parte creditrice sar tenuta a passare dall'allegazione della propria pretesa alla prova del credito tributario vantato nei confronti del ricorrente, fornendo la dimostrazione degli elementi costitutivi del proprio diritto. N vale osservare che il riferimento al rapporto della guardia di finanza darebbe luogo ad una mera motivazione per relationem, come tale del tutto insufficiente, poich nella specie tale richiamo non esaurisce la motivazione dell'accertamento, dal momento che sono stati portati autonomamente a conoscenza del contribuente tutti gli estremi del dedotto credito (percezione di un maggior compenso di lavoro dipendente, per un determinato periodo di imposta, non denunziato dal contribuente in sede di dichiarazione annuale dei redditi e sul quale non era stata operata alcuna ritenuta di acconto dal datore di lavoro, espressamente individuato). E, poich costituisce orientamento costante della giurisprudenza di questa Corte l'affermazione che le prove della pretesa tributaria non debbono essere menzionate nell'avviso di accertamento e offerte in comunicazione, incombendo il relativo onere all'Ufficio finanziario nel corso del giudizio promosso dal contribuente (Cass. 8 aprile 1992, n. 4307; 16 agosto 1993, n. 8685 e, in termini: Cass. 6 giugno 1996 n. 5301), il ricorso merita accoglimento e la sentenza impugnata dev'essere cassata con rinvio della causa ad altro giudice che, sulla base della ritenuta validit formale dell'accertamento, provveder ad accertare la fondatezza nel merito della pretesa tributaria dell'Amministrazione (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 14 gennaio 1997 n. 288 -Pres. Rossi -Est. Rordorf -P.M. Carnevali (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Giovanni) c . Iervasi. Tributi erariali indiretti -Accertamento -Motivazione -Requisiti -Prova del valore di beni -Distinzione. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 281 La motivazione dell'accertamento di maggior valore pu consistere nella sola indicazione del criterio astratto seguito ove la peculiarit del caso non richieda maggiori specificazioni; alla motivazione estranea la fondatezza in concreto della pretesa che l'awiso esprime il cui esame comporta un giudizio di merito (1). (omissis) 1. -Il ricorso, con cui l'amministrazione finanziaria lamenta la violazione degli artt. 48 e 49 del d.P.R. n. 634 del 1972, nonch dei principi generali della materia, volto a ribadire che l'avviso di accertamento di cui si tratta contiene -contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione tributaria centrale -riferimenti congrui e sufficienti ai criteri ed ai motivi per i quali l'ufficio ebbe a rettificare il valore indicato dai contribuenti. Poich, dunque, un tale avviso potrebbe dirsi nullo solo ove non fossero in esso indicati i criteri astratti contemplati al riguardo dalla legge, o comunque i criteri di valutazione correlati al caso concreto, cos da non permettere al destinatario lesercizio della difesa in giudizio e da non limitare sufficientemente l'ambito delle ragioni adducibili dall'ufficio nell'eventuale fase contenziosa, la decisione assunta sul punto dalla Commissione tributaria centrale risulterebbe apodittica ed errata. ." I 2. -Il ricorso fondato. La Commissione tributaria centrale, sostenendo di volersi richiamare all'insegnamento di questa Suprema corte (in particolare, alla sentenza n. 3578 del 1989), afferma, infatti, che l'accertamento di maggior valore, per rispondere ai precetti di legge, dovrebbe contenere non soltanto un riferimento astratto ai criteri indicati dal legislatore per la determinazione del valore dei beni in questione, ma anche l'enunciazione di elementi specifici e concreti, cos da permettere al contribuente di conoscere l'iter logico seguito dall'ufficio nelle proprie valutazioni. In questi termini, tale affermazione non per corretta, e non trova riscontro nella pi recente ed ormai consolidata giurisprudenza di legittimit, la quale, sin dalle pronuncie delle Sezioni unite n. 5785 e n. 5787 del 26 ottobre 1988 (e, poi, con la stessa citata sentenza n. 3578 del 1989 e -tra le altre con quelle n. 8806 del 1992, n. 12141del1990 e n. 8351del1990) ha invece precisato che l'obbligo della motivazione dell'avviso di accertamento di maggior valore, il cui difetto impone al giudice tributario di dichiarare la nullit del1' avviso medesimo senza possibilit di conoscere e statuire sul merito del rap (1) La prima parte della sentenza riconfermando un orientamento ormai costante e ben noto contiene alcune utili precisazioni; ma di maggior rilievo la seconda parte nella quale si distingue nitidamente la motivazione dell'accertamento, requisito formale il cui difetto comporta la nullit, dal suo fondamento sostanziale da apprezzare con un giudizio di merito (valutazione estimativa). Questa distinzione non sempre chiara (BAFILE, Motivazione e prova dell'accertamento in questa Rassegna, 1996, I, 134); va quindi segnalata la precisazione al fine di evitare che vengano annullati accertamenti semplicemente deboli (ma rafforzabili) nella sostanza. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 282 porto, deve ritenersi soddisfatto con l'enunciazione degli astratti criteri normativi in base ai quali viene determinato il maggior valore, e solo in via eventuale richiede anche le specificazioni rese necessarie dalla peculiarit della fattispecie (owero, ma soltanto in caso di ricorso a criteri diversi da quelli espressamente menzionati dalla legge, richiede l'indicazione, ancorch implicita, delle ragioni che rendono inutilizzabili i criteri di legge nel singolo rapporto). Debbono esser tenute distinte, quindi, le fattispecie nelle quali sufficiente enunciare nella motivazione dell'accertamento quale tra i diversi criteri di valutazione astrattamente consentiti dalla legge sia stato applicato dall'ufficio, dalle situazioni in cui la peculiarit del caso impone invece una maggiore specificazione che verta anche sulle caratteristiche del singolo bene in concreto preso in considerazione. E, come assai chiaramente hanno puntualizzato le Sezioni unite nelle citate sentenze del 1988, il discrimine tra le due indicate situazioni non suscettibile di canonizzazione astratta, perch lo scopo che la motivazione dell'avviso deve assolvere quello di assicurare al contribuente la conoscenza di elementi idonei alla sua difesa e, nel contempo, d'impedire l'eventuale futuro ampliamento dei termini della controversia in sede di opposizione, onde lo stabilire se e quale livello di specificit della motivazione sia a tal fine sufficiente dipende, di volta in volta, dalle caratteristiche di ciascun caso concreto. Ci chiarito, e puntualizzato altres che l'uso di formule stereotipe contenute in timbri o in moduli prestampati non inficia la validit dell'awiso di accertamento -in quanto la congruit della motivazione non pu essere valutata alla stregua del segno grafico che ne contenga la redazione, ed, ove la formula adoperata rispecchi un criterio di legge, non potrebbe considerarsi come apparente una motivazione che comunque a quel criterio si ricolleghi (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. 6 maggio 1992, n. 5376e Cass. 1 settembre 1995, n. 9223) -, deve subito aggiungersi che lo stabilire se e quando, in concreto, sia necessario che la motivazione dell'avviso vada oltre la mera enunciazione astratta del criterio adoperato dall'ufficio nella valutazione dei beni in esame per diffondersi anche sulle caratteristiche specifiche di detti beni un compito strettamente rimesso al giudice di merito. Il quale, per, deve assolverlo nel rispetto del quadro di riferimento offerto dai principi giuridici sopra ricordati. Orbene, nel caso di specie, la Commissione tributaria centrale ha invece travisato detti principi gi per il fatto di aver giudicato muovendo dall'errato presupposto che l'indicazione solo in astratto dei criteri di valutazione adoperati dall'ufficio non potrebbe mai esser sufficiente a sorreggere la formale validit dell'avviso di accertamento. A parte ci, proprio da quanto esposto dalla decisione impugnata, si desume anche come la motivazione dell'avviso 'di accertamento del quale si discute non fosse in realt affatto limitata alla sola enunciazione del criterio di valutazione astrattamente applicabile, ma fosse invece altres corredata da riferimenti ad una stima operata dall'U.T.E.; la quale, a propria volta, faceva espresso riferimento allo specifico bene immobile preso in considerazione. Ed, infatti, la stessa Commissione tributaria centrale la quale, mentre per un verso assume che anche l'indicata stima dell'U.T.E. sarebbe in realt priva PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 283 di elementi di giudizio sufficientemente concreti e significativi, per altro verso menziona l'esistenza di riferimenti specifici dell'U.T.E. alla concreta situazione presa in esame ed, in particolare, riporta il rilievo secondo cui il terreno in questione sarebbe stato oggetto di un tentativo di lottizzazione. Quest'ultimo rilievo criticato dalla Commissione tributaria centrale, perch esso sarebbe meramente ipotetico e risulterebbe contraddetto dall'inesistenza di opere di urbanizzazione primaria nella zona e dal certificato del sindaco che confermerebbe invece la destinazione meramente agricola del fondo. Ma tali osservazioni potrebbero al pi sorreggere un giudizio negativo sul merito della pretesa azionata dall'amministrazione tributaria; non certo mettere in dubbio la validit formale dell'avviso di accertamento per difetto della relativa motivazione. Altro , infatti, il requisito della motivazione dell'atto, che deve rispondere alle gi ricordate esigenze di difesa del contribuente e di delimitazione della materia del futuro contendere, altra la fondatezza in concreto della pretesa che nell'avviso si esprime, per valutare la quale occorre passare dal giudizio sull'atto al giudizio sul rapporto (in tal senso, con riferimento ad una fattispecie simile, si veda anche la pronuncia di questa corte n. 4686 del 1995): cosa che, invece, la Commissione tributaria centrale non ha fatto, arrestandosi al rilievo della pretesa invalidit del1' avviso per difetto di motivazione (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 16 gennaio 1997 n. 410 -Pres. Rossi -Est. Cicala -P.M. Gambardella (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Patiemo) c. Clemente. Tributi erariali indiretti -Tasse automobilistiche -Domanda di accertamento di perdita del possesso -Difetto di legittimazione passiva della Amministrazione finanziaria dello Stato. L'Amministrazione finanziaria dello Stato non passivamente legittimata sulla domanda diretta ad ottenere la trascrizione del trasferimento di una autovettura da eseguire presso il Pubblico Registro Automobilistico gestito dall'Automobile Club d'Italia (1). (omissis) L'Amministrazione finanziaria ricorre per cassazione deducen do due motivi avverso la sentenza 2293 emessa da Conciliatore di Ancona e depositata 1'11 febbraio 1993. Con la suindicata sentenza il giudice di merito, in contraddittorio con il Ministero delle Finanze, ha accertato che l'attore sig. Giancarlo Clementi ha venduto l'autovettura MC 198859 in data 8 febbraio 1984 e ha autorizzato il Pubblico Registro Automobilistico ad eseguire le necessarie trascrizioni. (1) Decisione di evidente esattezza che sgombra il terreno dalla pletora di controversie accolte con favore dai conciliatori. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 284 Motivi della decisione La sentenza impugnata deve essere cassata senza rinvio per difetto assoluto di legittimazione passiva del Ministero delle Finanze in ordine alla domanda di trascrizione di un trasferimento di autovettura da eseguirsi da parte del Pubblico Registro Automobilistico. Invero il Pubblico Registro Automobilistico (P.R.A.) che non un autonomo soggetto giuridico, un ufficio gestito dall'Automobile Club d'Italia (A.C.I.), al quale vanno imputati tutti i rapporti, e le azioni giudiziarie inerenti alle attivit dello stesso P.R.A., devono avere come destinatario l'Automobile Club d'Italia (A.C.I.). Ne consegue che l'atto introduttivo del giudizio, ove non indirizzato all'ACI , nullo perch non idoneo a raggiungere lo scopo della instaurazione di un processo rituale, mancando il presupposto processuale costituito dalla capacit delle parti tra le quali esso si svolge (Cass. 4 maggio 1994, n. 4322). Da queste considerazioni discende come necessaria conseguenza il rigetto della domanda proposta nei confronti del Ministero delle Finanze (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 gennaio 1997 n. 544 -Pres. Cantillo -Est Vitrone -P.M. Maccarone (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Fiorilli) c. Coop. Mirko (avv. Bernardinetti). Tributi erariali indiretti -Imposta sul valore aggiunto -Detrazione -Omessa dichiarazione -Computo nel mese di competenza - sufficiente per ottenere il diritto alla detrazione. (d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, art. 27, 28 e 55). Per il riconoscimento del diritto alla detrazione del credito di imposta sufficiente che l'eccedenza sia computata nel mese di competenza e non di ostacolo l'omessa presentazione della dichiarazione annuale (1). (omissis) Passando all'esame delle censure dell'Amministrazione ricorrente, questa si duole della violazione e della falsa applicazione degli artt. 27, 4 comma, e 55, 1 comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all'art. (1) In verit la dichiarazione il mezzo col quale si espongono le detrazioni (art. 28 comma 4) che devono essere state computate sulle liquidazioni mensili (art. 27 comma 3); l'una e l'altra cosa necessaria. Tuttavia nel caso di omessa dichiarazione (art. 55 comma 1) l'accertamento, nel caso induttivo, deve computare in detrazione (soltanto) i versamenti eventualmente eseguiti e le imposte detraibili ai sensi dell'art. 19 risultanti dalle liquidazioni mensili prescritte dagli art. 27 e 33. Dunque le detrazioni vengono recuperate ma solo se l'ufficio procede all'accertamento. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 360 n. 3 cod; proc. civ., e sostiene che erroneamente stato riconosciuto alla societ contribuente il diritto alla detrazione dei crediti di imposta quando essi siano stati computati nel mese di competenza ma non sia stata poi presentata la dichiarazione annuale, poich, cos argomentando, si consentirebbe di operare la detrazione dell'IVA, oltrel'anno di competenza; Sostiene l'Amministrazione che tale recupero non potrebbe essere consentito; come affermato da una decisione della medesima Commissione Tributaria Centrale, neppure nel caso di mancata annotazione per mero errore materiale di talune fatture, con conseguente omessa indicazione dell'IVA a credito, seguita dalla presentazione di apposita dichiarazione correttiva da parte del contribuente. La prospettazione dell'Amministrazione non pu ritenersi meritevole di consenso in quanto appare fondata su un sostanziale fraintendimento della disciplina normativa. Occorre, .infatti, distinguere l'ipotesi dell'omessa registrazione di documenti contabili, cui si riferisce la fattispecie presa in esame dal giudice tributario e addotta come esempio dalla Amministrazione ricorrente, dall'ipotesi di regolare effettuazione delle detrazioni di legge nelle dichiarazioni mensili di competenza, alle quali non segua la presentazione della dichiarazione annuale. Nel primo caso, infatti, manca l'esposizione del credito di imposta e quindi non ipotizzabile alcuna detrazione, n nel mese di competenza, n nella dichiarazione annuale regolarmente presentata, sicch non possibile alcun recupero del credito d'imposta per effetto di una tardiva registrazione delle fatture relative. Nel secondo caso, .invece, il contribuente che si sia limitato -come nella specie -ad omettere la presentazione della dichiarazione annuale, pur avendo regolarmente annotato tutte fatture dalle quali scaturisca per lui un credito di imposta e operato la detrazione nella dichiarazione relativa al mese di competenza, non pu verificarsi alcuna decadenza a suo carico, poich questa si verifica, secondo quanto dispone il quarto comma dell'art. 28 del d.P.R. n. 633 del 1972, solo quando la detrazione non venga computata nel mese di competenza e non venga poi recuperata nella dichiarazione annuale. E il concorso di entrambe le circostanze, affermato dalla commissione tributaria di primo grado e ribadito dalle commissioni successivamente adite in via di impugnazione, si giustifica col rilievo che la decadenza consegue al mancato esercizio del diritto di recupero, in sede di dichiarazione annuale, dei crediti d'imposta che avrebbero dovuto esser indicati nei mesi di competenza. La sanzione della decadenza non pu essere estesa alla diversa fattispecie in cui la detrazione sia stata regolarmente operata nel mese di competenza e non risulti, invece, dalla dichiarazione annuale, della quale sia stata omessa la presentazione, poich, nel caso di accertamento induttivo l'Ufficio IVA deve computare in detrazione non solo i versamenti eseguiti dal contribuente, ma anche le imposte detraibili risultanti dalle dichiarazioni mensili, come prescrive l'art. 55 del citato d.P.R., sicch il diritto alla detrazione viene meno solo per i ere RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 286 diti d'imposta relativi ad operazioni non registrate o comunque non risultanti dalle liquidazioni periodiche, sia pure per mera omissione od errore materiale; in tal caso, del resto, non pu farsi valere neppure il diritto al rimborso, che ha per suo presupposto la sussistenza di un'eccedenza d'imposta risultante dalla dichiarazione annuale (art. 30 d.P.R. cit.). N appare decisivo l'ulteriore argomento addotto dalla ricorrente secondo cui, nell'ipotesi di contribuente e contabilit semplificata -quale risulta la Cooperativa controricorrente -la mancata presentazione della dichiarazione annuale precluderebbe anche la conoscenza della situazione di fatto relativa alle operazioni dell'ultimo trimestre, la cui liquidazione appunto contestuale alla presentazione della dichiarazione annuale, poich, in tal caso, l'Ufficio IV A dovr limitarsi a non computare in detrazione, nel caso di accertamento induttivo, le imposte detraibili relative all'ultimo trimestre, verificandosi, limitatamente a tale ultimo periodo, la presenza di entrambe le condizioni richieste dalla legge per la decadenza del contribuente (mancata detrazione nel periodo di competenza e mancata indicazione del credito di imposta nella dichiarazione annuale) (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 27 gennaio 1997 n. 795 -Pres. Sensale -Est. Pignataro -P.M. Lo Cascio (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia) c. Fallimento Repossi. Tributi in genere -Interessi -Fallimento -Periodo successivo alla dichiarazione -Misura legale - quella dell'art. 1284 e.e. (r.d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 54 e 55; e.e. art. 1284, 2788 e 2855; d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, art. 38 bis e 60). Nel periodo successivo alla dichiarazione di fallimento gli interessi sui crediti privilegiati (nella specie IVA) maturano nella misura legale, intendendosi per tale quella dell'art. 1284 e.e. (1). (omissis) Con l'unico complesso motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 54 e 55 1. fall., 2788 e 2855 e.e., 38bis e 60 d.P.R. n. 633/1972 nonch vizi di motivazione, l'amministrazione ricorrente deduce che con riguardo alle indicate norme della legge fallimentare e del codice civile, le quali fanno generico riferimento agli interessi legali, gli interessi sulle somme dovute per imposta sul valore aggiunto accertata a carico del contribuente, maturati successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento, avrebbero dovuto essere calcolati, all'epoca, al tasso del 12% annuo. (1) Si prende atto della precisazione che stabilisce chiarezza fra le molte fonti normative variabili nel tempo. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA La censura prospetta la questione se gli interessi relativi al credito per I.V.A. ammesso al passivo in via privilegiata, maturati dopo l'apertura della procedura concorsuale, debbano calcolarsi secondo il tasso previsto dall'art. 1284, primo comma e.e., oppure in base al criterio stabilito dall'art. 38 bis del d.P.R. n. 633/1972 al quale rinvia l'art. 60 dello stesso decreto. Tale questione stata gi risolta nel primo senso (conformemente a quanto deciso dalla sentenza impugnata) da questa suprema corte con la sentenza del 26 luglio 1996 n. 6781. Con detta sentenza, le cui argomentazioni -nelle quali trova confutazione la opposta tesi dell'amministrazione ricorrente -sono condivise dal collegio, si affermato il principio che l'espressione misura legale usata nell'art.2749, secondo comma e.e., in tema di privilegio (cos come negli artt. 2788 e 2855, terzo comma, rispettivamente per i crediti pignoratizi ed ipotecari), deve intendersi non gi come misura stabilita direttamente dalla legge, ma come indicazione del tasso di interesse determinato in via generale per tutti i crediti, destinata a trovare applicazione nella situazione di concorso con altri creditori derivante di una procedura concorsuale. Tale principio si raccorda con quelli gi enunciati in altra occasione dalla giurisprudenza di questa corte (v. sentenza 3 dicembre 1986 n. 7148) in tema di rapporti tra legge fallimentare ed altra legge speciale. Esaminando il problema del coordinamento tra la disciplina degli interessi regolata nelle procedure concorsuali e quella posta nell'art. 2 della legge 17 agosto 1974 n. 397 (contenente norme per la determinazione del tasso degli interessi per i finanziamenti agevolati e del tasso di mora per i mutui fondiari), questa corte ha stabilito che gli artt. 2788 e 2855 e.e. richiamati dall'art. 54 1. fall., nel disporre che la prelazione ipotecaria ha luogo, per gli interessi successivamente maturati, nei limiti della misura legale fino alla data della vendita -si riferiscono all'interesse legale previsto dall'art. 1284 e.e. -Si cio ritenuto che il carattere prevalente della legge fallimentare, come legge essa pure speciale che per disciplina in via generale gli effetti derivanti dall'accertamento dello stato di insolvenza, rendesse privo di fondamento giuridico ogni riferimento a tassi di interesse fissati in misura superiore da leggi diverse dal codice, e si cos escluso che, per il periodo successivo all'annata apparso alla data della dichiarazione di fallimento, agli istituti di credito fondiario spettassero gli interessi stabiliti dalla legge speciale. In questo quadro, nel quale si colloca pure la fattispecie in esame e come ha osservato la sentenza n. 6781/1996 sopra richiamata, coerente ed idoneo a dare ulteriore fondamento alla tesi accolta dalla sentenza impugnata, anche il richiamo al principio della par condicio, espresso dall'art. 521. fall., quale criterio ermeneutico che presiede alla disciplina del concorso dei creditori e che finalizzato ad assicurare parit di trattamento, quando manchi nella stessa legge speciale una specifica deroga. In conclusione, il ricorso va rigettato (omissis). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 288 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 7 maggio 1997 n. 3978, Pres. Senofonte Est. Rovelli -P.M. Cinque (diff.) Orlando c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Criscuoli). Tributi erariali diretti -Dichiarazione -Ritrattazione dopo il decorso di un mese -Inammissibilit -Rimborso di somme pagate in conformit della dichiarazione -Esclusione. (d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art. 8 e 9; d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, art. 38). Dopo il decorso di un mese dalla presentazione, la dichiarazione pu essere ritrattata solo per correggere errori di calcolo o errori materiali di testuale riconoscibilit; va di conseguenza negato il rimborso di importi versati in conformit dei dati contenuti nella dichiarazione (1). (omissis) Con il proprio ricorso, la Orlando, deducendo vizio di motivazione sul punto decisivo relativo all'applicabilit dell'art. 38 alla fattispecie in esame, rileva che, nell'istanza di rimborso (e nella dichiarazione rettificativa) erano indicati i motivi che avevano provocato l'erronea dichiarazione e l'erroneo versamento, che la C.T.C. ha escluso l'applicabilit dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, sul presupposto che il versamento a suo tempo effettuato dai contribuenti era corrispondente ai dati indicati nella dichiarazione originariamente presentata; che tale riduttiva interpretazione escluderebbe dall'ambito della predetta norma ogni ipotesi di errore, che non sia di mero calcolo, talch l'irretrattabilit della dichiarazione (non rettificata nel termine di un mese) impedirebbe il rimborso, nei termini di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602, anche in ipotesi di obbligazione inesistente. Tale motivo, ancorch intitolato a censura relativa alla motivazione, , nella sostanza una doglianza che prospetta un'erronea interpretazione della legge. Esso non appare fondato alla stregua delle precisazioni che seguono. Per verit, la C.T.C., pur dando atto che dichiarazione rettificativa e coeva istanza di rimborso, per inesistenza dell'obbligazione tributaria sono stati posti in essere prima della scadenza del termine di 18 mesi di cui al predetto art. 38, ha ritenuto preclusa l'azione di rimborso per la sua tardivit, essendo da considerare nulla la dichiarazione presentata con ritardo supe (1) Riallacciandosi a ormai ferma giurisprudenza (Cass. 13 agosto 1992 n. 9554; 2 maggio 1994 n. 4239 e 27 giugno 6157, in questa Rassegna, 1992, I, 519 e 1994, I, 352) la sentenza contiene delle enunciazioni che meritano particolare segnalazione: le prescrizioni degli artt. 8 e 9 del d.P.R. n. 600/1973 riuscirebbero vanificate oltre un regime di emei:J.dabilit non ancorato al carattere materiale e alla testuale riconoscibilit dell'errore; quindi il diritto al rimborso deve essere escluso ove l'errore sia desumibile soltanto da fatti ulteriori e comunque diversi da quelli allegati giacch nell'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973 I'emendabilit dell'errore materiale non prevista e che altrimenti la dichiarazione perderebbe il suo valore vincolante. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA riore al mese rispetto alla scadenza del termine. Ha specificato che l'art. 38 disciplina bens il rimborso dei versamenti diretti, ma nei soli tassativi casi di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento, ipotesi non ricorrenti nella specie, in quanto il versamento a suo tempo effettuato dai contribuenti era corrispondente ai dati indicati nella dichiarazione tempestivamente presentata. Ora principio costantemente affermato da questa S.C. (v. Cass. 5 febbraio 1996 n. 546; Cass. 27 giugno 1994 n. 6157; Cass. 2 maggio 1994 n. 4239; Cass. 13 agosto 1992 n. 9554) quello secondo cui, al di fuori degli errori materiali o di calcolo, contenuti nella dichiarazione del contribuente, a quest'ultimo consentito correggere gli errori di fatto, in via di ritrattazione, solo presentando una dichiarazione sostitutiva con le modalit e nei termini stabiliti dalla legge per l'adempimento dell'obbligo tributario. Gli artt. 8 e 9 del d.P.R. n. 600 del 1972 dichiarano nulla la dichiarazione presentata con ritardo superiore al mese rispetto alla scadenza del termine: dovendosi, cos, considerare non ammissibile una dichiarazione di rettifica svincolata dalle specifiche prescrizioni di forma e di tempo dettate dagli artt. 8 e 9. del d.P.R. n. 600 cit.; prescrizioni che riuscirebbero vanificate da un regime di emendabilit non ancorato al carattere materiale ed alla testuale riconoscibilit dell'errore. Ne consegue che il diritto al rimborso, a fronte di svista commessa dal contribuente nel compilare la denuncia annuale, (e non rettificata nei modi e nei tempi sopra specificati) postula l'evincibilit di tale errore dalla denunzia e dai dati in essa contenuti; mentre deve essere negato ove l'errore stesso sia desumibile soltanto da fatti ulteriori o comunque diversi da quelli allegati, e quindi si traduca in un giudizio viziato in ordine alle componenti del reddito imponibile (v. Cass. n. 9554/1992 cit.). L'analiticit dei dati di cui si compone la dichiarazione dei redditi e la perentoriet dei termini previsti per la sua presentazione attestano come il legislatore tributario abbia inteso attribuire alla denuncia annuale la funzione di completa ed esauriente esposizione di tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini impositivi. La previsione dell'art. 38 I comma d.P.R. n. 602 del 1973, circa la possibilit -con riguardo ai versamenti diretti -per il contribuente di chiedere il rimborso, resta circoscritta alla ipotesi di errore materiale, duplicazione, ed inesistenza, totale o parziale, dell'obbligo di versamento. L'emendabilit del1' errore non materiale non ivi prevista, e contrasta con le descritte caratteristiche della dichiarazione dei redditi, la quale perderebbe il suo valore vincolante; mentre il versamento diretto, in via di autotassazione, cesserebbe di avere la funzione solutoria ed estintiva dell'obbligazione tributaria, se valesse come mero, anomalo pagamento in conto, rivedibile dal contribuente nei diciotto mesi successivi. Devesi dunque ribadire che la ripetizione di quanto versato in corri spondenza all'imponibile dichiarato, mentre non ancorabile ad elementi fattuali ulteriori e diversi da quelli indicati (e, in particolare ad errore di cal RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 290 colo o ad errore materiale in quanto svista evincibile dagli stessi dati offerti con la dichiarazione) pu essere reclamata soltanto quando, fermi restando i dati enunciati, risulti indebito il pagamento, in assenza di norma che lo imponga. E nella specie, la sentenza impugnata ha debitamente accertato la rispondenza del versamento diretto effettuato dal contribuente ai dati indicati nella dichiarazione tempestivamente presentata (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 29 luglio 1997 n. 7088 -Pres. Cantillo -Est. Marziale -P.M. Maccarone (dif.) -Ministero delle Finanze (aw. Stato Criscuoli) c. D'Orazi. Tributi erariali diretti -Accertamento -Liquidazione delle imposte ex art. 36 bis d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 -Termine per l'iscrizione a ruolo - quello del 31 dicembre dell'anno successivo -Termine dell'art. 17 primo comma del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 -Irrilevanza. (d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art. 36bis; d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, art. 17). Le imposte liquidate in base alla dichiarazione a norma dell'art. 36bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 devono essere iscritte a ruolo a pena di decadenza nel termine, dalla stessa norma stabilito, del 31 dicembre dell'anno successivo a quello della presentazione. Non pertinente alla materia il termine stabilito nell'art. 17 primo comma del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 (1). (omissis) 2 -L'art. 36 bis stato inserito nel d.P.R:.29 settembre 1973, n. 600 dall'art. 1 del d.P.R. 24 dicembre 1976, n. 920, al fine di consentire agli uffici delle imposte di liquidare le imposte dovute, owero di prowedere ad effettuare i rimborsi eventualmente spettanti, sulla scorta dei dati e degli elementi... desumibili dalle dichiarazioni... e dai relativi allegati, previa correzione degli errori materiali o di calcolo e rettifica, parziale o totale, delle detrazioni e delle altre deduzioni operate dai contribuenti. (1) Sul termine per l'iscrizione a ruolo delle imposte liquidate in base alla dichiarazione a norma dell'art. 36 bis del d.P.R. n. 600/73. La sentenza, attraverso una ricostruzione imprecisa della evoluzione legislativa, giunge a conclusione che non pu essere condivisa. Al momento dell'entrata in vigore della riforma del 1973 non esisteva n il versamento diretto del contribuente n l'art. 36 bis del d.P.R. n. 600. Le imposte dichiarate venivano riscosse mediante ruolo (il ruolo principale) nel quale dovevano essere iscritte in tempo utile perch l'ultima o unica rata scada entro dodici mesi dalla fine dell'anno o dell'esercizio cui la dichiarazione si riferisce (art. 17, d.P.R. n. 602). Poich senza l'iscrizione a ruolo non vi era gettito, ragionevolmente per l'iscrizione era stabilito un termine breve. La legge 2 dicembre 1975 n. 576 introdusse il versamento diretto dell'IRPEF dovuta in base alla dichiarazione (art. 17) e contemporaneamente stabil PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 291 Si tratta pertanto di un controllo di carattere esclusivamente formale, che tuttavia pu comportare una riliquidazione dell'imposta dovuta e che, appunto per questo, presenta un innegabile carattere accertativo. La maggiore imposta accertata, aumentata degli interessi delle soprattasse, viene iscritta a ruolo direttamente, vale a dire senza la preventiva notifica di un avviso di accertamento (art. 7, d.P.R. 28 novembre 1980, n. 787), prescritta invece quando la rettifica della dichiarazione consegua ad una attivit accertativa svolta dall'ufficio sulla base di dati diversi da quelli desumibili dalle dichiarazioni (artt. 42 e 43, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). In tal caso, pertanto, l'iscrizione a ruolo non ha carattere riproduttivo, ma innovativo poich rappresenta l'atto con il quale il contribuente posto per la prima volta a conoscenza della pretesa fiscale: di qui l'esigenza (non rilevabile quando il ruolo meramente riproduttivo di un atto precedente) di che l'iscrizione nei ruoli di detta imposta (dichiarata ma non versata) doveva effettuarsi, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (art. 16). Al tempo il termine breve di decadenza (il 31 dicembre dell'anno successivo) era riferito alla situazione di mera trasposizione del contenuto della dichiarazione nel ruolo; lo stesso termine l'art. 16 fissa per l'iscrizione a ruolo delle imposte soggette a tassazione separata per le quali non vige il versamento diretto, e parimenti per le imposte liquidate in base all'accertamento resta immutato il termine del 31 dicembre dell'anno successivo a quelli in cui l'accertamento diventato definitivo. Una innovazione profonda si ebbe con il d.P.R. 24 dicembre 1976 n. 920. Con l'art. 2 fu introdotto l'art. 36 bis del d.P.R. n. 600, che consentiva sia pure nei limiti di una correzione formale, una ripresa di maggiore imposta; con l'art. 3 fu modificato l'art. 17 del d.P.R. n. 602 stabilendosi che le imposte liquidate in base alla dichiarazione, comprese quelle riscuotibili mediante versamento diretto e non versate, dovevano essere iscritte nei ruoli formati e consegnati all'intendente di finanza entro il 31 dicembre del1' anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Questa volta si sottoponeva allo stesso termine breve di decadenza anche la liquidazione della maggiore imposta che presupponeva un esame, anche approfondito, della dichiarazione per la liquidazione di una maggiore imposta. Questa illogica unificazione che aveva pressoch reso inutilizzabile lo strumento dell'art. 36 bis fu eliminata con il d.P.R. 27 settembre 1979 n. 506 che all'art. 1 introdusse un nuovo termine nell'art. 36 bis ma contestualmente, con l'art. 2 modific l'art. 17 d.P.R. n. 602; ma mentre il termine inserito nell'art. 36 bis, che non dichiarato perentorio, di rilevanza interna (la liquidazione della imposta anch'essa atto interno che resta sconosciuto al soggetto passivo) in ragione dei programmi stabiliti annualmente dal Ministero, il termine (questo di decadenza) per l'iscrizione nei ruoli formati e consegnati all'intendente di finanza (la cartella dei pagamenti, che un estratto del ruolo, il solo atto che si notifica al contribuente) viene fissato facendo riferimento all'art. 43 del d.P.R. n. 600 ossia al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui stata presentata la dichiarazione. dunque ben precisa la volont del legislatore dfallungare da uno o cinque anni il termine dell'art. 17. La opportunit, o quasi la necessit, di allungare il termine risultata pi evidente dopo l'istituzione dei centri di servizio ai quali (art. 9 d.P.R. 28 novembre 1980 n. 787) stato conferito il potere di eseguire una limitata istruttoria in contraddittorio con il contribuente il quale (art. 36 bis comma 3 e art. 10 terdel D.L. 2 marzo 1989 n. 69 convertito nella legge 27 aprile 1989 n. 154) deve essere invitato a confermare la esatta esposizione dei dati contenuti nella dichiarazione e a rettificare errori. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 292 renderlo edotto dei motivi per i quali l'iscrizione stata effettuata. Esigenza che il legislatore ha mostrato di voler recepire, prescrivendo -con il secondo comma dell'art. 36 terdel citato decreto, di contenuto analogo all'art. 36 bis che nella cartella dei pagamenti siano indicati i motivi che hanno dato luogo alla liquidazione Ma che, tuttavia, non pu dirsi soddisfatta in modo adeguato, dal momento che l'informazione viene realizzata mediante il ricorso a espressioni stereotipate, inidonee a descrivere in modo esauriente le ragioni della rettifica e ad assolvere quindi il ruolo di una effettiva motivazione. E questo spiega perch si ritenga, con orientamento ormai costante, che l'utilizzazione della speciale procedura prevista dall'art. 36 bis per l'accertamento di maggiori imposte a carico del contribuente non possa essere ammessa al di fuori delle ipotesi specificamente contemplate da detta disposizione (Cass. 29 marzo 1996, n. 2958; 17 dicemb.re 1994, n. 10859; 20 novembre 1989, n. 4958). La lettura dell'art. 17 gi sufficiente per avere la certezza che nella specifica materia delle imposte liquidate in base alla dichiarazione il termine per la formazione dei ruoli quello del quinto anno successivo. Ma se si considera che questo pi ampio termine stato introdotto, con il d.P.R. n. 506/79, modificando il testo anteriore, veramente impossibile continuare a ritenere vigente il termine portato dal testo precedente alla modifica: risulter allora che quanto disposto nell'art. 36 bis concerne un termine acceleratorio a rilevanza interna, assegnato agli uffici per procedere sulla base dei programmi stabiliti annualmente dal Ministero alla liquidazione delle imposte e dei rimborsi. Di ci d conferma l'art. 7 del d.P.R. 28 novembre 1980 n. 787 che dispone per i centri di servizio che le imposte che risultano dovute dopo il controllo sono riscosse con le modalit e nei tennini previsti dal d.P.R. n. 602/1973. La decadenza abbreviata poi assolutamente illogica e incoerente se si considera che le stesse correzioni della dichiarazione potrebbero essere fatte, unitamente ad eventuali altri rilievi, con l'accrtamento ordinario nel termine dell'art. 43 del d.P.R. n. 600; una decadenza imposta in ragione del procedimento e non della sostanza ingiustificata. In definitiva la decadenza non pu essere sanzionata due volte in due norme diverse; la norma operante giacch si tratta d'iscrizione nei ruoli allora soltanto quella dell'art. 17. La sentenza che si commenta pur precisando che nel procedimento dell'art. 36 bis non esiste un atto di accertamento (o di liquidazione) anteriore al ruolo, si limita a rilevare che il termine indicato nell'art. 36 bis a pena di decadenza per l'iscrizione a ruolo escludendo ogni rilevanza del pi ampio termine dell'art. 17 del d.P.R. n. 602. Il ragionamento deve essere rovesciato: proprio perch l'atto con il quale si porta a conoscenza del contribuente la pretesa alla maggior imposta soltanto il ruolo, il relativo termine va cercato nel d.P.R. n. 602 e puntualmente nell'art. 17 che fa riferimento alle imposte liquidate in base alla dichiarazione. Puerile poi l'argomentazione che il termine pi breve sarebbe giustificato per evitare al contribuente il maggior aggravio di interessi. Ma infine la sentenza dovendo pur dare un senso e un contenuto all'art. 17, ipotizza che il termine del quinto anno successivo riguarda la riscossione delle imposte nell'ammontare risultante dalla dichiarazione del contribuente senza che la stessa sia in alcun modo rettificata. Questa conclusione per pi ragioni da respingere. innanzi tutto incongruo ricondurre l'art. 17 primo comma alla sola ipotesi del ruolo che la stessa sentenza chiama riproduttivo della dichiarazione, ossia alla funzione originaria del ruolo secondo il sistema di riscossione del 1973, dato che il comma stato riformulato nel testo attuale, con il d.P.R. n. 506/1979, in concomitanza con l'introduzione dell'art. 36 bis. poi poco credibile che una disciplina specifica e distinta PARTE I, SEZ~ V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 293 Se, invece, il controllo della dichiarzione porta al riconoscimento di un credito iri favore del contribuente, viene emesso in suo favore un ordinativo dipagamenfo per una somma pari alle somme indebitameni:eriscosse con i relativi interessi(art. 8, d;P.R. n; 787/80); 2.1(~ Nella suaformulazione riginria l'art. 36 bis non stabiliva akun tert:nfo:per la lquidazione dell'imposta. Era tuttaVia pacifico che l'iscrizione a ni.olo delle maggiori. somme pretese dall'Amministrazione finanziaria dovesse avvenire entro quello fissato dal primo comma dell'art. 17, d.P~R. 29 settembre 197.3. l. 602, il quale stabiliva che l'imposta dovuta sui redditi dichiarati doveva essere effettuata entro dodici mesfdallafine dell'anno o dell'esercizio cuila dichiarazione si riferisce. della decadenza sia stata introdotta per l'ormai residuale evenienza, dopo la generalizzazione del versamento diretto, che l'imposta dichiarata non sia stata versata~ Ma vi un argomento testuale: il primo comma dell'art. 17 fa riferimento a (tutte) le imposte liquidate in base alle dichiarazioni dei contribuenti comprese quelle riscuotibili mediante versamento diretto o non versate; queste imposte comprese non possono essere le sole cui fa riferimento l'art. 17; vi sono altre imposte che cadono sottola decadenza dell'art. 17, e queste:sono tutte le imposte liquidate ex art; 36 bis. Sarebbe arbitrario leggere il primo comma dell'art. 17 limitandone il contenuto ad una soltanto (e nemmeno lapi rilevante) delle possibilit. Ma quello che soprattutto sconcerta l'illogicit della conclusione: per la formazione del ruolo soltanto riproduttivo della dichiarazione sarebbe stabilito il termine del 3 l dicembre del quinto anno successivo a quello in cui stata presentata la dichiarazione; per la formazione del ruolo innovativo, che presuppone un esame approfondito e una attivit istruttoria in contraddittorio con ilcontribuente, andrebbe osservato iltermine dell'anno successivo alla presentazione della dichiarazione; ed ancora per la formazione del ruolo riproduttivo>; dell'accertamento resta ancora fermo il termine dell'anno successivo a quello in cui l'accertamento divenuto definitivo (art. 17, comma 3). Non credibile che l'art. 17 possa contenere tante contraddizioni. allora necessario tornare alla interpretazione sempre. pacificamente seguita; il termine contenuto nell'art. 36 bis ha rilevanza interna; il termine di decadenza si trova esclusivamente sull'art. 17 primo comma, che diversam:ente non avrebbe ragion d'essere; Il problema ora risolto dall'art. 28 della legge 29 dicembre 1997 n.449 che in via di interpretazione autentica, precisa che il termine contenuto nel primo comma del1' art. 36 bis di carattere ordinatorioi il chiarimento interpretativo vale fino all'entrata in vigore del capo ndel D.lgs. 9 luglio 1997 n. 241 che contiene rilevanti innovazioni. Non tuttavia inutile l'avere ricercato l'esatta portata della norma originaria sia per avere conferma della natura della disposizione sopravvenuta che interpretativa nella essenza e non soltanto per autodefinizione; sia per meglio comprendere la portata della nuova disciplina che sar in vigore a decorrere dal 1 gennaio 1999. Con l'art. 13 del D. lgs. n. 241 del 1997 sono stati integralmente sostituiti gli art. 36 bis e 36 ter. Nel nuovo art. 36 bis si enumerano i casi in cui l'Amministrazione procede alla liquidazione delle imposte (dei contributi e dei premi) dovuti e dei rimborsi spettanti in base alle dichiarazioni dei contribuenti e dei sostituti di imposta; la liquidazione, consistente essenzialmente nella correzione di errori materiali o evidenti, eseguita avvalendosi di procedure automatizzate sulla base di dati ed elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni o in possesso della anagrafe tributaria; alla liquidazione l'Amministrazione procede entro l'inizio del periodo di presentazione delle RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 294 Le due disposizioni sono state per riformulate dal d.P.R. 27 settembre 1979, n. 506. Mentre l'art. 2 ha elevato notevolmente il termine fissato dal primo comma dell'art. 17 del d.P.R. n. 602173, parificandone la durata a quello (riferito al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui stata presentata la dichiarazione) previsto dall'art. 43, d.P.R. n. 600 per la notifica dell'avviso di accertamento, l'art. 1 ha integrato il testo dell'art. 36 bis, stabilendo che gli uffici debbono prowedere alla liquidazione delle imposte dovute e ad effettuare i rimborsi eventualmente spettanti entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione. Resta fermo, in base al terzo comma dell'art. 17 del d.P.R. n. 602/73, che le imposte, le maggiori imposte e le ritenute alla fonte liquidate in base agli accertamenti degl.i uffici devono essere iscritte in ruoli formati e consegnati all'intendenza di finanza, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell'anno successivo a quello in cui l'accertamento divenuto definitivo. dichiarazioni relative all'anno successivo e se dai controlli eseguiti (definiti automatici) emerge un risultato diverso da quanto risulta dalla dichiarazione l'esito della correzione comunicato al contribuente o al sostituto di imposta per evitare la reiterazione di errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali e la comunicazione alla Amministrazione finanziaria di eventuali dati o elementi non considerati nella dichiarazione. L'art. 36 ter nel testo rinnovato enumera i casi in cui gli uffici procedono al controllo formale delle dichiarazioni sulla base dei criteri selettivi fissati dal Ministero delle finanze tenendo conto della capacit operativa degli uffici medesimi; il controllo, che consiste in verifiche pi approfondite ma non dissimili da quelle dell'art. 36 bis, deve essere eseguito entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione previo invito del contribuente o del sostituto anche telefonico o in forma scritta o telematica a fornire chiarimenti e a trasmettere documentazioni. Anche in questo caso l'esito del controllo comunicato al contribuente o al sostituto con l'indicazione dei motivi della rettifica per consentire anche la segnalazione di eventuali dati ed elementi non considerati o valutati erroneamente. dunque chiaro che sia nell'art. 36 bis che nell'art. 36 terrisulta di molto ampliato il contraddittorio con il soggetto passivo; ed proprio a questo fine che sono fissati i termini acceleratori per l'inizio del procedimento di controllo che potr svilupparsi a seguito delle iniziative dell'interessato. Certo che questi termini non sono di decadenza per l'esercizio della pretesa tributaria che, come in passato, si concretizza con l'iscrizione a ruolo. Ed infatti l'art. 2 del D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 462 stabilisce che le somme che a seguito dei controlli automatici effettuati a norma dell'art. 36 bis risultano dovute, unitamente agli interessi e alle sanzioni per ritardato o omesso versamento, sono iscritte direttamente nei ruoli a titolo definitivo entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione semprech il debitore non abbia provveduto al versamento diretto dopo aver ricevuto l'avviso previsto nel comma 3 dell'art. 36 bis. Parallelamente le somme che risultano dovute a norma dell'art. 36 ter, con gli interessi e le sanzioni per ritardato o omesso versamento, possono essere pagate mediante versamento diretto entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione dell'esito del controllo previsto nel comma 4 dell'art. 36 ter, diversamente trova ancora applicazione l'art. 17 del d.P.R. n. 602/1973 (non modificato) che fissa per l'iscrizione a ruolo il termine stabilito nell'art. 43 dello stesso decreto; questo termine ora ridotto dal quinto al quarto anno successivo per effetto dell'art. 15 del D. lgs. n. 241. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 295 3. -L'Amministrazion finanziaria contesta che all'inosservanza del termine stabilito dall'art. 36 bis Siano ricollegabili effetti decadenziali di pretese tributarie derivanti dalla rettifica della dichiarazione, osservando che la natura procedimentale di tale norma e la circostanza che nessun'altra disposizione qualifichi come perentorio il termine da essa stabilito, porta a ritenere che esso abbia natura ordinatoria e che, pertanto, la diretta iscrizione a ruolo delle maggiori imposte liquidate a seguito del controllo formale operato ai sensi dell'art. 36 bis possa essere legittimamente effettuata anche oltre il termine stabilito da detta disposizione, purch entro quello fissato dall'art. 17, comma primo, d.P.R. n. 602173. 3.1 -Tali considerazioni non possono essere condivise. La qualificazione del termine in questione come ordinatorio (anzich come perentorio) -del resto propria del diritto processuale pi che di quello sostanziale - infatti tutt'altro che risolutiva, posto che i termini ordinatori possono essere prorogati solo prima della scadenza (art. 153 c.p.c.) e che, pertanto, il loro inutile decorso produce gli stessi effetti preclusivi di quelli perentori (Cass.251uglio 1992, n. 8976; 23 gennaio 1991, n. 651; 23 febbraio 1985, n. 1633). N maggior rilievo assume la circostanza che la sua inosservanza non sia stata espressamente sanzionata dal legislatore con la decadenza. Invero, l'affermazione tradizionalmente ripetuta (rna non da tutti condivisa), secondo cui le norme che stabiliscono termini a pena di decadenza sono di stretta interpretazione e non possono quindi essere applicate analogicamente, si fonda sul convincimento che tali disposizioni abbiano carattere eccezionale, derogando al generale principio della libert di esercizio dei diritti soggettivi. E, appunto per questo, non si presta ad essere utilizzata nell'ambito del diritto pubblico. il quale caratterizzato dalla presenza di poteri, il cui esercizio da parte di chi ne titolare non libero, ma sottoposto dalla legge a limiti diretti a garantire il soddisfacimento di finalit di carattere istituzionale. Il silenzio della legge non rappresenta quindi un argomento sufficiente ad escludere che il termine stabilito dal primo comma dell'art. 36 bis sia stabilito a pena di decadenza. Tanto pi che le attivit accertative (e di conse- In definitiva per i controlli formali dell'art. 36 ter resta confermato il regime attuale soltanto riducendosi il termine dal quinto al quarto anno. Per i controlli automatici dell'art. 36 bis il termine risulta invece notevolmente accorciato al secondo anno successivo. sempre escluso tuttavia che abbiano natura perentoria i termini entro i quali gli uffici devono iniziare il procedimento che dar luogo al contraddittorio con il soggetto passivo; conseguentemente escluso che gli atti previsti negli art. 36 bis e ter con finalit meramente informativa siano provvedimenti (finali) che debbano o possano essere impugnati in sede giurisdizionale. CARLO BAFILE RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 296 guente rettifica delle dichiarazioni dei contribuenti) sono dalla legge vincolate al rispetto di rigorosi termini di decadenza, la cui esistenza da considerare pertanto connaturata al loro svolgimento, a tutela del buon andamento e dell'imparzialit dell'amministrazione, oltre che degli interessi dei contribuenti. 3.2 -Non varrebbe neppure obbiettare che il termine fissato dall'art. 36 bis letteralmente riferito alla (sola) liquidazione dell'imposta e che non vi sarebbe quindi motivo di escludere la legittimit della iscrizione a ruolo effettuata dopo l'inutile decorso di tale termine, purch entro quello pi ampio stabilito dall'art. 17 del d.P.R. n. 602173. invero agevole replicare che, secondo la disciplina dettata dal citato art. 36 bis, la determinazione del debito d'imposta non ha rilievo autonomo rispetto alla fase che attiene al concreto soddisfacimento della pretesa tributaria, non essendo prevista, a differenza dell'ipotesi in cui la rettifica consegue ad un controllo sostanziale della dichiarazione (art. 43, d.P.R. n. 600/73), l'emanazione di un formale ed autonomo atto di liquidazione dell'imposta, di cui sia possibile verificare la tempestivit. Come si rileva esattamente nella decisione impugnata, tale atto va individuato nella iscrizione a ruolo, che viene quindi ad assumere anche il carattere di atto conclusivo della fase di accertamento dell'imposta, ponendo l'esigenza (non rilevabile quando il ruolo meramente riproduttivo di un atto precedente) di rendere edotto il contribuente delle ragioni sulle quali la pretesa dell'amministrazione finanziaria fondata (retro, 2). Non vi dubbio, pertanto, che il termine stabilito dal primo comma dell'art. 36 bis debba essere riferito alla iscrizione a ruolo e che quest'ultima, conseguentemente, non possa essere effettuata entro il pi esteso arco temporale previsto dal primo comma dell'art. 17 del d.P.R. n. 602173, anche perch ci comporta, per il contribuente, l'aggravio di ulteriori interessi (art. 7, primo comma, d.P.R. n. 787/80); aggravio che il legislatore -decidendo di tener fermo, con l'art. 1 del d.P.R. n. 506179, il termine annuale per la liquidazione , delle imposte dovute a norma dell'art. 36 bis, proprio quando, con l'art. 2 dello stesso decreto, elevava di ben cinque volte il termine per l'iscrizione a ruolo delle imposte liquidate in base alle dichiarazioni -ha mostrato di voler evitare. 3.3 -Una volta chiarito che il termine stabilito dal primo comma dell'art. 36 bis, appena ricordato, da intendersi stabilito a pena di decadenza e concerne l'iscrizione a ruolo delle maggiori imposte liquidate a seguito del controllo formale della dichiarazione espletato ai sensi di tale disposizione, appare evidente che quello fissato dal primo comma dell'art. 17 del d.P.R. n. 602173 riguarda invece la riscossione delle imposte nell'ammontare risultante dalla dichiarazione del contribuente, senza che la stessa sia in alcun modo rettificata (omissis). PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 297 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 11 ottobre 1997, n. 9893 -Pres. Cantillo Est. Marziale -P.M. Martone (diff.) -Ministero delle finanze (avv. Stato Lancia) c. Baracchi. Tributi erariali diretti -Imposta sul reddito delle persone fisiche -Indennit conseguite a titolo di risarcimento -Art. 6 t.u. 22 dicembre 1986 n. 917 Applicabilit ai periodi anteriori per effetto dell'art. 36 del d.P.R. 4 febbraio 1988 n. 42. (t.u. 22 dieembre 1986.n. 917, att. 6 e 46, d.P.R. 4 febbraio 1988 n. 42, art. 36). La regola contenuta nell'art. 6 del nuovo t.u. delle imposte sui redditi (secondo la quale le indennit conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti) si applica anche agli esercizi anteriori al t.u. per effetto dell'art. 36 del d. P.R. 4 febbraio 1988 n. 42 che opera anche a sfavore del contribuente (1). (omissis) 4. -A diverse conclusioni deve giungersi per l'altro motivo di gravame, con il quale -denunziandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 16, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; dell'art. 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, degli artt. 1, 12, 14, 48, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597; dell'art. 23, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; dei principi generali in materia di possesso di reddito; nonch vizio di motivazione -la decisione impugnata viene censurata per aver escluso che l'art. 6 del citato d.P.R. n. 917/86 (il quale prevede che le indennit conseguite... a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidit permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti) abbia efficacia retroattiva e possa conseguente-. mente essere applicato anche a redditi conseguiti, come nel caso di specie, in periodi anteriori alla sua entrata in vigore (1 gennaio 1988). 4.1. -L'efficacia retroattiva del citato art. 6 stata esclusa dalla Commissione Tributaria Centrale sul duplice rilevo: a) che detta disposizione avrebbe carattere innovativo e non sarebbe quindi idonea a disciplinare situazioni insorte prima della sua entrata in vigore; b) che, comunque, dovendo essere ravvisato il titolo dell'erogazione (non nel pregresso rapporto di lavoro, ma) in una transazione, le somme riscosse (1) Giurisprudenza ormai costante. Con 23 aprile 1990 n. 3370, 5 luglio 1990 n. 7091; 25 marzo 1995 n. 3574, in questa Rassegna, 1990, I, 370 e 513; 1995, I, 274. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 298 dal Baracchi (che, appunto per questo, non costituirebbero, ai sensi dell'art. 12, legge 30 aprile 1969, n. 153, retribuzione assoggettabile a contribuzione assicurativa) non potrebbero nemmeno essere qualificate come reddito ai fini impositivi. 4.2. - per agevole replicare -quanto al rilievo sub a) -che, al fine di determinare l'efficacia nel tempo delle norme contenute nel d.P.R. n. 917/86, occorre tener conto di quanto stabilito dall'art. 36, d.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42. stato ormai chiarito che detta norma (la quale ha valore di legge ordinaria: Ca,ss. 27 ottobre 1993, n. 10695), nel disporre che le disposizioni del citato decreto n. 917/86 hanno effetto anche per i periodi d'imposta antecedenti per il primo periodo di imposta successivo al 31 dicembre 1987, se relative dichiarazioni validamente presentate risultano ad esse conformi, si riferisce, non solo alle norme gi per loro conto retroattive (in quanto interpretative di precedenti disposizioni o riproduttive della normativa preesistente), ma anche a quelle aventi carattere innovativo (Cass., S.U., 15 maggio 1992, n. 9459; Cass. 27 ottobre 1993, n. 10695). E che la sua applicabilit opera (non solo a favore, ma) anche a sfavore del contribuente (Cass. 6 aprile 1995, n. 4037; 28 novembre 1995, n. 12318; 7 maggio 1996, n. 4229, senza che ci determini alcun contrasto con i principi e criteri direttivi della legge delega, ovvero con quelli sanciti dagli artt. 3 e 53 della Costituzione (C. Cost. 17 febbraio 1994, n. 38). L'art. 6 del d.P.R. n. 917/86 non rientra tra le disposizioni specificamente considerate nel capo III del d.P.R. n. 42/88 e non pu esservi quindi dubbio che tale norma abbia effetto anche per i periodi d'imposta antecedenti al primo periodo d'imposta successivo al 31dicembre1987. 4.3. -Neppure l'altro rilievo, puntualizzato alla lettera b) del paragrafo 4.1, appare idoneo a sorreggere la decisione impugnata. Per convincersene basta considerare: -in primo luogo, che, in base a quanto stabilito dall'art. 6 del nuovo t.u., l'assimilazione ai redditi delle somme riscosse a titolo di risarcimento danni non deriva dal titolo dell'erogazione, come sembra ritenere la decisione impugnata, ma dalla circostanza che il risarcimento sia diretto a compensare la perdita di redditi e non a reintegrare il patrimonio del contribuente; -in secondo luogo, che anche le indennit corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro costituiscono ormai reddito da lavoro dipendente, la cui nozione stata ampliata dall'art. 46 del nuovo testo unico (cui, non diversamente dall'art. 6, dello stesso decreto, da riconoscere effetto retroattivo, sulla base dei criteri fissati dall'art. 36, d.P.R. n. 42/88), mediante il riferimento al rapporto di lavoro anzich al lavoro prestato (art. 46, d.P.R. n. 597/73) (omissis). PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 299 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 28 ottobre 1997 n. 10583, Pres. Sgroi -Est. Criscuolo -P.M. Carnevali (conf.) Ministero delle Finanze (aw. Stato Figliolia) c. Gennari. Tributi in genere -Contenzioso tributario -Ricorso -Sottoscrizione del solo originale diretto all'ufficio tributario -Nullit -Sanatoria. (d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, art. 15 e 17; c.p.c. art. 156). Mentre per espressa nonna inammissibile il ricorso totalmente mancante di sottoscrizione, affetto da nullit, sanabile ex art. 156 c.p.c. con la costituzione della parte intimata, il ricorso mancante della sottoscrizione sull'originale depositato nella segreteria ma munito della sottoscrizione nella copia diretta all'ufficio (1). (omissis) Con l'unico mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 15 del d.P.R. n.636 del 1972 e dell'art. 156 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. La decisione impugnata sarebbe incorsa in errore nel ritenere che l'omessa sottoscrizione dell'originario ricorso del contribuente alla Commissione di primo grado fosse sanata ai sensi dell'art. 156 c.p.c., stante l'intervenuta regolare costituzione del contraddittorio con l'Amministrazione finanziaria. Al riguardo andrebbe rilevato che, ai sensi dell'art. 15 del d.P.R. n. 636 del 1972, dalla mancata sottoscrizione del ricorso ad opera del contribuente non deriverebbe alcuna nullit, eventualmente suscettibile di sanatoria ex art. 156 c.p.c., bens l'inammissibilit del ricorso medesimo, non disciplinata dalla normativa generale sulle nullit bens costituente sanzione collegata dal legislatore a determinate carenze compiute dalle parti nel processo tributario. Per unanime orientamento della giurisprudenza di questa Corte, il ricorso alle Commissioni tributarie andrebbe sottoscritto a pena di inammissibilit da tutti i contribuenti destinatari del prowedimento fiscale, e ci anche se tra i predetti sussista vincolo di solidariet, perch soltanto con la sottoscrizione l'iniziativa giudiziale giuridicamente esistente. Sarebbe indubita (1) Sul punto specifico la sentenza pu essere condivisa: il ricorso sottoscritto sul1' esemplare diretto a costituire il contraddittorio non pu considerarsi mancante di uno dei requisiti essenziali. Importante per l'affermazione che in caso di totale omissione, l'inammissibilit conseguenza ineluttabile, normativamente stabilita Ci deve valere anche per il nuovo contenzioso giacch l'art. 18 comma 4 del d.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 non solo ripete la stessa formula dell'art. 15, ultimo comma del d. P.R. n. 636/1972, ma aggiunge espressamente che inammissibile il ricorso non sottoscritto nell'originale e nella copia. Si deve quindi ritenere che nel processo tributario l'atto introduttivo sia caratterizzato da un rigore di forme pi severo della citazione nel giudizio ordinario per la quale sono ammesse sanatorie del difetto di sottoscrizione. C.B. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 300 bile che si verte in materia di elementi essenziali, la cui mancanza non potrebbe che determinare l'inidoneit dell'atto ad acquisire valenza giuridica, con ogni conseguente inderogabile doverosit del pronunciamento di inammissibilit da parte del giudice adito. Pertanto il richiamo all'art. 156 c.p.c. non sarebbe pertinente, sia perch nella specie si tratterebbe di una ipotesi di inammissibilit e non di nullit, sia perch l'omessa sottoscrizione non costituirebbe vizio formale ma vizio concernente un elemento essenziale. Il ricorso non fondato, perch la decisione impugnata si rivela conforme a diritto, anche se la motivazione deve essere precisata nell'esercizio del potere correttivo attribuito a questa Corte dall'art. 384 comma secondo c.p.c. vero che, ai sensi dell'art. 15 primo comma lett. f) del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 (come sostituito dall'art. 6 del d.P.R. 3 novembre 1981 n. 739), il ricorso alla commissione tributaria deve contenere (tra l'altro) la sottoscrizione del ricorrente o del suo legale rappresentante o del procuratore alla lite; e del pari vero che, ai sensi del terzo comma della medesima norma, il ricorso inammissibile se il suddetto elemento manca o assolutamente incerto. Ci posto, bisogna per considerare che, come accertato dalla decisione impugnata (la circostanza incontroversa e, peraltro, si evince dagli atti), nel caso in esame la mancanza della sottoscrizione non riguardava il ricorso in toto, bens l'originale diretto alla segreteria della commissione tributaria; la copia rimessa all'ufficio risultava invece sottoscritta. Invero, va ricordato che, a norma dell'art. 17 primo comma del citato d.P.R. n. 636 del 1972 (come sostituito dall'art. 8 del d.P.R. n. 739 del 1981), il ricorso proposto mediante consegna o spedizione dell'originale alla segreteria della commissione tributaria e di una copia in carta semplice all'ufficio tributario. E la giurisprudenza di questa Corte ha pi volte affermato che la proposizione del ricorso alla commissione tributaria di primo grado, in base alla menzionata normativa, postula il tempestivo compimento di entrambi gli adempimenti (consegna o spedizione dell'originale e della copia), con la conseguenza che il ricorso inammissibile qualora nel termine di legge venga posto in essere soltanto uno di essi (Cass., 4 agosto 1994, n. 7256; 22 maggio 1993, n. 5791; 24 luglio 1989, n. 3497). La copia del ricorso da rimettere all'ufficio, dunque, non atto di mera forma ma elemento necessario per la proposizione del ricorso medesimo, il quale assume rilevanza giuridica come atto d'iniziativa del contenzioso davanti alla commissione tributaria attraverso il compimento dell'attivit complessa descritta nel citato art, 17, che si perfeziona appunto con la presentazione della copia per l'ufficio. Se cos , sembra evidente che la situazione di cui qui si discute non pu essere assimilata a quella in cui nel ricorso manchi totalmente la sottoscrizione (omessa nell'originale e nella copia). In caso di totale omissione l'inammissibilit conseguenza ineluttabile, normativamente stabilita. Ma . ' j PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA quando, .come nel caso in esame, un elemento necessario del ricorso (ossia la copia per l'ufficio tributario) risulta sottoscritto, si in presenza di una fattispecie diversa, non potendosi parlare di mancanza della sottoscrizione se questa stata apposta sulla copia predetta. Tra l'altro, il carattere essenziale della sottoscrizione del ricorrente discende dal rilievo che essa rende riferibile a costui l'atto; esprimendo la sua volont di rendersene autore e di farne propri gli effetti. Questa volont nel caso in esame .stata estemata e tale dato, indubbiamente significativo, contribuisce a rafforzare ilconvincimento che nella specie non possa ravvisarsi un caso di inammissibilit, come se la sottoscrizione mancasse del tutto (tra l'altro, porre sullo stesso. piano situazioni notevolmente differenti condurrebbe a conclusioni non confotTI'.li all'art. 3 della Costituzione ed al principio di ragionevolezza). Ma, se non ravvisabile un'ipotesi d'inammissibilit (e men che mai d'inesistenza; potendosi questa configurare soltanto a fronte della radicale mancanza dei requisiti diforma o di contenuto indispensabili per ricondurre latto nelle previsioni degli artt; 1s e .17 del d.P.R. n. 636 del 1972), il caso in esame poteva integrare unicamente una nullit per mancanza di un requisito formale, ai sensi dell'art: 156 comma secondo c.p.c. (applicabile al procedimento disciplinato dal d.P.R. n. 636 del 1972 per il rinvio contenuto nel!' art. 39 di questo) e tale nullit-,... come ritenuto dalla Commissione tributaria centrale -rimase sanata per il raggiungimento dello scopo dell'atto, dal momento che il contraddittorio fu ritualmente nstautato nel giudizio di primo grado con il regolare ed integrale svolgimento delle difese sia da parte del rappresentante dell'ufficio sia da parte del difensore del contribuente (v. la decisione impugnata). Si deve aggiungete che, comunque, la nullit non risulta eccepita dall'Ammnistrazione davanti alla Commissione di primo grado e neppure dedotta come motivo dfappello, sicch ogni questione al riguardo era ormai preclusa (per giudicato interno) e non poteva essere rilevata d'ufficio dalla Commissione di secondo grado. Il che costituisce ulteriore argomento circa la conformit a diritto della decisione impugnata (omissis); CORTE Dl CASSAZIONE, sez. I, 28 ottobre 1997 n. 10584 -Pres. Senofonte -Est Cicala -P.M. Lo Cascio (conf;) Dattilo c. Ministero delle Finanze (aw. Stato Lancia). Tributi erariali diretti. Imposta sul reddito delle persone fisiche -. Reddito di lavoro dipendente. Indennit di fine rapporto. Periodi volontariamente riscattati con onere ad esclusivo carico del dipendente. -Detrazione delle somme conispondenti alla quota di contributi versati dal lavoratore. Esclusione. (D.L. 14 marzo 1988 n. 70, art. 4 comma 3). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 302 Nella liquidazione della imposta sulla indennit di buonuscita ENPAS non deve essere esclusa la quota della indennit correlata ai versamenti volontari eseguiti dal dipendente per periodi di riscatto (1). (omissis) Con l'unico articolato motivo il Dott. Dattilo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del d.P.R. 91711986, come integrato dell'art. 4 del D.L. n. 70/1988 convertito in legge 154/1988, il ricorrente sostien~ cio che la parte di indennit che risulti formata da contributi previdenziali a totale carico del dipendente va sottratta per intero all'imposizione fiscale. Giova ricordare che questa Corte ha affermato con sentenza numero 10730 del 19 settembre 1992 che a norma dell'art. 2 legge 26 settembre 1985 n. 482, recante modifiche del trattamento tributario delle indennit di fine rapporto (articolo rispetto al quale la Corte costituzionale con sentenza n. 42 del 1992 ha dichiarato non fondata la questione di legittimit costituzionale con riguardo all'art. 53 Cost.), dall'imponibile ai fim dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta sull'indennit di buonuscita, che erogata dall'Enpas al dipendente dello Stato cessato dal servizio, non deve essere esclusa la quota di detta indennit correlata ai versamenti volontari effettuati dal dipendente per riscattare il periodo di studi universitari. Obbietta il ricorrente che questa giurisprudenza non prende in considerazione le modifiche apportate dall'art. 4, comma 3 quater, d.l. 14 marzo 1988 n. 70, convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988 n. 154. Ma la considerazione non appare conferente. Infatti la norma richiamata dal Dott. Dattilo stabilisce: l'ammontare netto delle indennit equipollenti al trattamento di fine rapporto comunque denominate, alla cui formazione concorrono contributi previdenziali posti a carico dei lavoratori dipendenti e assimilati, computato previa detrazione di una somma pari alla percentuale di tali indennit corrispondente al rapporto, alla data del collocamento al riposo o alla data in cui maturato il diritto alla percezione, fra l'aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e assimilati e l'aliquota complessiva del contributo stesso versato all'ente, cassa o fondo previdenza. Crea cos un meccanismo che chiaramente presuppone che ci si trovi di fronte ad una indennit di buonuscita corrisposta per periodi in cui vi stata una contribuzione parte a carico del datore di lavoro, parte a carico del lavoratore; ed in esecuzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. 7 luglio 1986, n. 178) stabilisce che la non tassabilit venga determinata in base al rapporto, alla data in cui maturato il diritto alla percezione, fra l'aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e l'aliquota complessiva del contributo. La disposizione non appare dunque applicabile nelle ipotesi di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore. Del resto, non vi era alcuna esigenza di disciplinare simili ipotesi dal momento che la Corte (1) Giurisprudenza costante. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 303 Costituzionale non si era pronunciata su di esse. Ed anzi con sentenza n. 42 del 1992 la Corte ha riconosciuto infondata la questione di legittimit costituzionale dell'art. 2 legge 26 settembre 1985 n. 482, nella parte in cui non prevede, per la parte dell'indennit di buonuscita Enpas relativa a servizi o periodi volontariamente riscattati dall'interessato, una detrazione dall'imponibile che tenga conto dei contributi versati per esercitare tale riscatto, in riferimento all'art. 53 cost. Proprio perch la quota di indennit di buonuscita afferente ai periodi e servizi riscattati a domanda assume una propria fisionomia, che la differenzia dalla parte di indennit connessa ai periodi di effettiva prestazione del servizio. Essa, infatti, non correlata ad un rapporto previdenziale automatico e ad un meccanismo contributivo, istituzionalmente e cumulativamente riferibile al datore di lavoro (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I, 29 ottobre 1997, n. 10646 -Pres. Sensale Est. Papa -P.M Giacalone (conf.) -Ciuffo c. Ministero delle Finanze (avv. Stato G. Arena). Tributi erariali diretti -Imposte sul reddito delle persone fisiche -Redditi di lavoro dipendente -Pensioni -Pensioni privilegiate ordinarie civili e mili tari -Sono soggette alla imposta. (t.u. 22 dicembre 1986 n. 917, art. 46; d.P.R. 29 settembre 1973 n. 604, art. 34; d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092, art. 64, 67, 92). Le pensioni privilegiate ordinarie sia civili che militari (art. 64 e 6 7 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092), che hanno natura reddituale, sono soggette all'imposta dalla quale sono esenti soltanto le pensioni di guerra e, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 4 luglio 1989 n. 387, le pensioni privilegiate tabellari spettanti ai militari di leva, che hanno natura risarcitoria. Le pensioni ordinarie di reversibilit sono pur sempre soggette all'imposta in quanto il riferimento alle pensioni di guerra contenuto nell'art. 92 del d.P.R. 109211973 valido solo ai fini della identificazione delle condizioni soggettive (1). (omisiss) Denunzia la ricorrente, col primo motivo, violazione e manca ta applicazione dell'art. 92 d.P.R. 1092/1973, con conseguente violazione e falsa applicazione dell'art. 64 dello stesso d.P.R., in relazione al n. 3 dell'art. 360 C.P.C. Premette che nel d.P.R. 1092/1973 sono previsti due trattamenti pensio nistici distinti: a) la pensione privilegiata ordinaria diretta (art. 64), in favore (1) Sul problema generale la giurisprudenza pacifica (Cass. 10 novembre 1992 n. 12092, in questa Rassegna 1993, I, 111). Sulla questione specifica di evidente esattezza l'affermazione che il richiamo che nell'art. 92 del d.P.R. n. 1092/1973 si fa alle pensioni di guerra concerne la definizione della riversibilit e non tocca la natura della pensione. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 304 del dipendente statale che abbia, per effetto di infermit o lesioni dipendenti da fatti di servizio, subito menomazioni all'integrit fisica ascrivibili ad una delle categorie della tabella A annessa alla legge 313/1968; b) la pensione privilegiata di riversibilit (art. 92), a favore degli aventi diritto dal dipendente statale deceduto, quando la morte conseguenza di infermit o lesioni dipendenti da fatti di servizio. Puntualizza che i due trattamenti presentano connotazioni considerevolmente diverse nella struttura e nella disciplina e che, nel caso in esame, si tratta di applicare la normativa relativa alla pensione privilegiata di riversibilit (sottolineando che lo stesso legislatore mostra evidenti segni di confusione l dove non sempre distingue fra pensione diretta e di riversibilit, come avviene, in linea generale, nella legge 629/1993 ed, in particolare, nella legge 437/1978, che stabilisce appunto le provvidenze in favore dei superstiti dei magistrati ordinari, caduti nell'adempimento del dovere). Precisa, quindi, che la disciplina applicabile quella dell'art. 92 cit. -il quale detta che la pensione privilegiata di riversibilit spetta nella misura e alle condizioni previste dalle disposizioni in materia di pensioni di guerra -, per inferirne che la Corte di merito, allorquando ha escluso la detassazione richiesta, si attenuta alla giurisprudenza formatasi in ordine alla disciplina delle pensioni privilegiate ordinarie dirette, desumibile dall'art. 64 d.P.R. cit., e non a quella, espressamente invocata, dall'art. 92. Col secondo motivo -ed in stretto collegamento col precedente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 34 d.P.R. 601/1973 in relazione all'art. 360 n. 3 C.P.C .. Posto che l'art. 34 cit. dichiara esenti da IRPEF le pensioni di guerra di ogni tipo e denominazione, ne evince che, se le pensioni privilegiate ordinarie di riversibilit godono delle condizioni concesse alle pensioni di guerra , non possibile conclusione diversa da quella che le pensioni privilegiate di riversibilit sono esenti da IRPEF. Trae motivo di conferma alla asserzione essere la pensione privilegiata di riversibilit un tipo o denominazione della pensione di guerra da spunti normativi, quali l'art. 32 d.P.R. 915/1978 e l'art. 33 d.P.R. 1092 cit. (in materia di opzione per la pensione privilegiata ordinaria); espone argomenti intesi ad affermare la necessaria equiparazione alle pensioni di guerra dei trattamenti spettanti alle vittime del terrorismo ed ai loro familiari; propone infine questione di legittimit costituzionale dell'art. 34 cit. nella parte in cui non prevede la esclusione da IRPEF per il trattamento di pensione privilegiata di riversibilit per i congiunti delle vittime del terrorismo e della delinquenza organizzata, ulteriormente affermando che la giusta soluzione di consentire lesenzione per il militare di leva al di fuori dello stato di guerra (cor1; implicito riferimento a Corte Cost. 38711989) non pu essere accompagnata da quella -tutt'altro che giusta -di escludere la detassazione per il trattamento privilegiato di riversibilit del quale si discute. In correlazione coi precedenti motivi, si duole infine di omessa e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, ai sensi del1' art. 360 n. 5 C.P.C. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA Sostiene, in dipendenza dei rilievi che precedono, che le sue difese non sono state adeguatamente considerate dal giudice 'a qud, il quale ha affrontato il diverso problema della esenzione dall'imposta sul reddito per le pensioni privilegiate ordinarie dirette, senza esaminare la questione attinente a quelle di reversibilit, cos -oltre ad inibire ad essa ricorrente di confrontarsi con una tesi contraria -giungendo alla conclusione di non applicare gli invocati artt. 92 d.P.R. 1092/1973 e 34 d. P.R. 601/1973, senza peraltro indicare, in concreto, la normativa applicabile. Nel controricorso, l'Amministrazione oppone, in primo luogo, l'inammissibilit del terzo motivo, poich l'assunta carenza di motivazione non attiene a punto decisivo; deduce, poi, che il primo costituisce solo una premessa del secondo motivo, l'unico pertinente alla materia controversa. Con riguardo a quest'ultimo, dopo averne rilevato l'inammissibilit per incompletezza (con riguardo alle applicate disposizioni degli artt. 46 co. 2 d.P.R. 597/1973, 46 CO. 2 T.U.I.R. 91711986 e 23 CO. 1 e 2 d.P.R. 600/1973), osserva che l'art. 34 co. 1 d.P.R. 601/1973, contenendo una disposizione derogatoria, di stretta interpretazione, e che la soluzione negativa per la tesi della ricorrente risulta implicitamente dalla questione di legittimit costituzionale, peraltro formulata senza indicazione dei parametri costituzionali sseritamente violati, e senza considerare che il 'tertium comparationis' dovrebbe appunto risultare dal cit. art. 46 co. 2. Aggiunge finalmente che i primi due motivi sono infondati, per le ragioni desumibili dalla motivazione della stessa decisione della Corte di merito. L'impugnata sentenza appare immune da censure. Ai sensi dell'art. 46 co. 2 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 597 (e, dal 1 gennaio 1988, dell'art. 46 co. 2 d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917), le pensioni privilegiate ordinarie a seguito di infermit o lesioni per fatti di servizio, sia civili (art. 64 d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092), che militari (art. 67 d.P.R. ult. cit.), sono assoggettate per l'intero ammontare all'IRPEF, in mancanza di espressa previsione di deroga alla regola generale dell'imponibilit nell'art. 34 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 601 (Cass. 3584/1993, 12092/1992, 2104/1989). La mancata previsione d'esenzione da ritenersi conforme ai principi costituzionali, ed, in particolare, all'art. 53 Cost., giacch tali pensioni, costituendo proiezione di un precedente trattamento economico goduto, ne condividono la natura reddituale. Per questo la Corte Costituzionale ha ripetutamente escluso ogni identit ed omogeneit di situazioni con le pensioni di guerra, dichiarate esenti da imposta dal cit. art. 34 co. 1 d.P.R. 60111973, le quali consistono in un ammontare determinato normalmente solo in funzione dell'entit del danno e, comunque, prescindendo da un rapporto di dipendenza (in aggiunta a quelle citate nella motivazione della decisione impugnata, riportate nella parte espositiva che precede, cfr. da ultimo, con riferimento alle pensioni privilegiate ordinarie spettanti ai militari di carriera, Corte Cost. 43111996, con ulteriori richiami). RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 306 N il riportato regime appare superabile col sostenere che la pensione privilegiata ordinaria, quando sia di riversibilit, costituisca un tipo o denominazione della pensione di guerra, e, come tale, rientri nella esenzione espressa del cit. co.1 art. 34. Difatti l'argomento letterale, che si inteso trarre dall'art. 92 co. 1 d.P.R. 1092/1973, secondo cui spetta ai congiunti la pensione privilegiata nella misura e alle condizioni previste dalle disposizioni in materia di pensioni di guerra, appare sfornito di pregio, essendo difficilmente contestabile che il rinvio attiene, oltre alla misura della pensione (di riversibilit, appunto, rispetto a quella diretta), alle condizioni soggettive dei singoli aventi diritto, ma non involge affatto il trattamento tributario dell'emolumento. In particolare, quindi, sicuramente da escludere che esso possa estendersi alla disciplina dell'art. 34 co. 1 d.P.R. 601/1973, ferme restando, in linea di principio, la natura di stretta interpretazione delle disposizioni derogatorie in materia fiscale, ed, esplicitamente, l'esclusione di esenzioni ed agevolazioni, diverse da quelle nel decreto stesso considerate, sancita dall'art. 42 co. 1 (Cass. 2104/1989 cit.). E, finalmente, nemmeno la prospettata questione di legittimit costituzionale del cit. art. 34 co. 1, nella parte in cui non prevede la esclusione da IRPEF per il trattamento di pensione privilegiata di riversibilit per i congiunti delle vittime del terrorismo e della delinquenza organizzata, pu essere positivamente valutata, giacch la non manifesta infondatezza esclusa proprio dai numerosi precedenti di rigetto, in materia di pensioni privilegiate ordinarie (civili e militari) dirette, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che, superato ogni sospetto d'incostituzionalit per queste, sia dato riaffacciarlo per quelle di riversibilit -che ne costituiscono necessaria conseguenza. Nella stessa ottica, non dato trarre riscontro positivo alla prospettazione suddetta dalla sent. 387/1989, con cui la Corte Costituzionale ha esteso l'esenzione alle pensioni privilegiate ordinarie tabellari spettanti ai militari di leva, poich il rilievo della natura non reddituale di queste ultime conferma proprio la soluzione contraria alla tesi della ricorrente, coerentemente ribadita dalla Corte (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 9 dicembre 1997, n. 12448 -Pres. Cantillo Est. Sotgiu -P.M. Nardi (diff.) -Ministero delle Finanze (aw. Stato De Stefano) c. Soc. Perlier. Tributi in genere -Contenzioso tributario -Azione di accertamento negativo -Difetto di prowedimento di imposizione -Inammissibilit. (Legge 7 gennaio 1929 n. 4, art. 55). L'azione di accertamento negativo della pretesa, proposta prima dell'emanazione di un provvedimento dell'Amministrazione inammissibile. Non sufficiente a creare il presupposto dell'azione l'esistenza di un verbale di PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 307 contestazione che un atto interno se pure titolo idoneo all'iscrizione dell'ipoteca legale (1). (omissis) Col primo motivo di ricorso, la ricorrente censura la decisione impugnata per violazione degli artt. 100 c.p.c. e 55 Legge 7 gennaio 1929 n. 4, riproponendo reccezione di inammissibilit dell'azione di accertamento negativo proposta dalla Perlier S.P.A., in difetto di provvedimento amministrativo di imposizione. Il motivo fondato. Infatti ilcontrasto a suo tempo verificatosi nella giurisprudenza di questa Corte in ordine alla ammissibilit di un'azione di accertamento negativo della pretesa tributaria in assenza di tto impositivo (Cass. 752/66; 1934/72, 2134/72; 5772/81; contra Cass. 458/81) stato composto dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza 6 novembre 1993 n. 10999, che ha affermato l'assoluta improponibilit dell'azione suddetta, ove la stessa non si ricolleghi ad un atto impositivo dell'amministrazione e venga sperimentata solo in via preventiva. La sentenza 27 maggio 1994 n. 5237 ha consolidato tale principio, con particolare riferimento all tassa di lotteria, sottolineando che soltanto con l'emanazione dell'ordinanza ingiunzione si profila la concreta possibilit di una lesione della sfera giuridica del contribuente e si determina quindi l'interesse dello stesso ad agire per l'accertamento negativo del suo obbligo. Il contrario assunto della Societ Perlier, ribadito anche con memoria, secondo cui il verbale di accertamento non sarebbe mero atto interno del procedimento amministrativo, perch idoneo a costituire titolo per l'iscrizione della ipoteca legale (ex art. 26 legge n. 4 del 1929) non idoneo a trasformare la natura prodromica di tale verbale, che resta un invito non cogente ad assolvere la pretesa fiscale, la cui eventuale (e non concreta) capacit di ledere la sfera privatistica potr semmai rilevare nell'ambito di un procedimento cautelare, ove questo venisse attivato, con riferimento al periculum in mora. In relazione, dunque, alle conclusioni affermate dalla sentenza n. 5237/94, che questo collegio condivide, con particolare riferimento al fatto che l'interesse del contribuente ad agire in accertamento negativo sussiste soltanto allorch la pretesa concretamente ravvisabile, e non quando si presenti come mero fatto non tutelabile dall'ordinamento, il primo motivo di ricorso deve essere accolto (omissis). (1) ancora riconfermato uno dei capisaldi della giurisdizione in materia di imposta sempre sostenuto dalla Avvocatura dello Stato. L'affermazione agevolmente giustificata nel processo speciale innanzi alle commissioni che se costruito sulla impugnazione di un atto, non endoprocedimentale (Cass. 8 marzo 1977 n. 942 in questa Rassegna, 1977, I, 302; 3 febbraio1986 n. 660 in Foro it., 1986, I, 1902) stata estesa anche alla azione ordinaria. Notevole la precisazione che l'esistenza di un atto che pure titolo per un'iniziativa cautelare, non basta a giustificare l'ammissibilit dell'azione di accertamento quando si tratta (nella specie verbale di constatazione della polizia tributaria) di un atto endoprocedimentale. C.B. Y. ~-,.._.::::_._.,..__._,.._,.._._._ .... :--... :--.. ,.... :--.....-........ --~... :-:,..-... :--.... ... ,..:.... --*,~,.AYMf&l-'X .,, -' RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 308 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 13 dicembre 1997 n. 12630 -Pres. Vitrone Est. Fioretti -P.M. Nardi (conf.) -Ministero delle finanze (avv. Stato De Bellis) c. Izzi. Tributi erariali indiretti -Imposta sul valore aggiunto -Esercizio di impresa -Costruzione di unico fabbricato -Sufficienza. (d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, att. 4). Per integrare il concetto di esercizio di impresa, sufficiente che la abitualit, sistematicit e continuit della attivit economica esercitata, si riveli complessa e di rilievo, anche se consistente nello svolgimento di unico affare (nella specie costruzione di un solo fabbricato) (1). (omissis) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione dell'art. 4, comma primo, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 come modificato dall'art. 1 del d.P.R. 29 gennaio 1979 n. 24, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., assumendo che la Commissione Centrale avrebbe erroneamente interpretato la disposizione contenuta nell'art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, ritenendo assoggettabile ad IVA un atto compiuto da un soggetto nell'esercizio di un'attivit economica occasionale. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia carenza e contraddittoriet della motivazione in relazione all'art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., deducendo che la decisione appare carente di motivazione allorch attribuisce rilievo al fatto che il soggetto aveva aperto regolare partita IV A in relazione all'attivit di costruzione edilizia, senza tener conto che dal certificato della Camera di Commercio di Latina del 23 giugno 1981, prodotto dai ricorrenti, risultava che l'Izzi, esercente attivit di commercio all'ingrosso di prodotti alimentari, aveva presentato denuncia di apertura dell'attivit di costruzioni edili solo in data 20 settembre 1979 (dichiarando una decorrenza dal 24 gennaio 1978) e cio solo pochi giorni prima della vendita degli immobili costruiti. Del pari sarebbe censurabile la decisione, allorch afferma apoditticamente e senza alcuna indicazione degli elementi di prova, che il contribuente aveva posto in essere una consistente organizzazione produttiva per la costruzione del fabbricato summenzionato. Il primo motivo di ricorso infondato. L'art. 4, comma primo, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, come modificato dall'art. 1 del d.P.R. 29 gennaio 1979 n. 24, dispone che per esercizio di (1) L'unicit della operazione non certamente di impedimento alla sussistenza dei presupposti della professionalit purch non si verta nell'ipotesi dell'attivit occasionale. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA impresa siintende l'esercizio per professione abituale, ancorch non esclusi va, delle attivit commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 del codi ce civile, anche se non organizzate in forma di impresa. Secondo l'insegnamento di questa corte, al quale il collegio ritiene di dover dare continuit non ravvisando n; essendo state indicate dal ricorrenteragioni plausibiliper discostarsene; la abitualit, sistematicit e continuit dell'attivit econQmica, come. indice della professionalit necessaria per l'acquisto della qualit di imprenditore, vanno intese in senso non assoluto, ma . relativo, sicch anche lo svolgiment.o di un unico affare pu comportare la qualifia imprenditoriale, in considerazione della sua rilevanza economica e della complessit delle operazioni in cui si articola (cfr. cass. n. 3690/86; cass. n. 4407/96; cass. n. 8193/97). La Commissione Tributaria Centrale ha correttamente applicato tale principio riconoscendo al contribuente la qualit di imprenditore oltre che perla sua aJ;tivit di commerciante all'ingrosso anche per quella di costruttore edile, svolta per la costruzione diun unico fabbricato, di cui facevano parte i due appartamenti venduti a Manforte .,t\.nna ed aiconiugi Trani Antonio e Marzu1lo Paola, avendo posto in essere per la costruzione del suddetto fabbricato una consistente organizzazione produttiva. Legittimamente, pertanto, la compravendita dei due appartamenti summenzionati, in applicazione dell'art. 38 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634, che sottrae all'imposta proporzionale di registro gliatti relativi ad operazioni soggette all'imposta sul valore aggiunto, stata assoggettata ad IVA ed alla imposta fissa di registro e non, come invece preteso dall'amministrazione. finanziaria, a quella proporzionale di registro, essendo il venditore degli stessi, per la sua qualit di imprenditore edile, soggetto alla disciplina dell'IVA (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 23 dicembre 1997 il. 13008 Pres. Sensale Est. Ferro -P.M Morozzo della Rocca (conf.) Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia) c. Fallimento Soc. Kosmo Arreda. Tributi jn genere -Fallimepto del contribuente -Insinuazione tardiva Decreto del giudice delegato che rigetta in parte la domanda illegittimit -Rimedi -Ricorso per cassazione. (r.d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 101; Cost art. 111). Sulla domanda di insinuazione tardiva il giudice delegato pronunciando decreto pu soltanto ammettere integralmente il credito; se intende non ammettere, anche in parte, il credito deve pronunciare sentenza; quindi illegittimo il decreto che riconosce solo in parte fondata la domanda. n rimedio ammesso per denunciare la illegittimit il ricorso per cassazione I RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 310 in art. 111 Cost. Non sono invece ammissibili il reclamo o l'appello al tribunale ex art. 26, il reclamo allo stesso giudice delegato e l'opposizione allo stato passivo (1). (omissis) Del ricorso proposto dall'Amministrazione delle Finanze contro il decreto come sopra pronunciato dal giudice delegato al fallimento della s.r.l. Kosmo Arreda devesi riconoscere l'ammissibilit e la fondatezza. Nel R.D. 16 marzo 1942 n. 267, l'art. 101 detta la disciplina delle dichiarazioni tardive, nella prassi denominate insinuazioni tardive, con le quali i creditori possono chiedere l'ammissione al passivo con ricorso al giudice delegato anche dopo il decreto dichiarativo dell'esecutivit dello stato passivo previsto dall'art. 97, e stabilisce nel terzo comma che Se all'udienza il curatore non contesta l'ammissione del nuovo credito e il giudice lo ritiene fondato, il credito ammesso con decreto; altrimenti il giudice provvede all'istruzione della causa a norma degli articoli 175 e seguenti del codice di procedura civile. Viene per tal modo delineato un sistema di integrazione successiva del compiuto accertamento del passivo nel quale il riconoscimento della fondatezza della domanda del creditore tardivamente istante e l'ammissione al passivo del suo credito in sede monocratica sono subordinate alla concorrenza e convergenza in tal senso -in ordine a ciascuna delle componenti della domanda stessa: nell'an, nel quantum, negli accessori, e, per quanto qui specificamente interessa, anche in ordine alla sussistenza di un diritto di prelazione eventualmente invocato -dell'opinione del Curatore e del convincimento del giudice delegato. Si configurano cos due possibili forme di accertamento tardivo del credito: l'una, che si conclude con un decreto del giudice delegato, presuppone la sussistenza della suindicata duplice condizione; l'altra, che postula quale proprio sbocco decisionale una sentenza del Tribunale fallimentare, trova luogo qualora la domanda sia contestata in tutto o in parte dal curatore o sia in tutto o in parte ritenuta non fondata dal giudice delegato, il quale non dispone in tal caso di alternativa alcuna rispetto all'attivazione del giudizio davanti al Tribunale. Tale sistema non lascia spazio a ipotesi di soccombenza parziale nella correlazione tra il contenuto della domanda del creditore e il contenuto del provvedimento di ammissione promanante dal giudice delegato. E in relazione a tale sistema si rende palese l'anomalia di un provvedimento col quale -come nella fattispecie in esame -il giudice delegato con proprio decreto ammetta al passivo del fallimento in via chirografaria il credito dichiarato come assistito da privilegio. L'esperienza giurisprudenziale ha tuttavia dato luogo a disparit di opinioni circa la individuazione dello strumento processuale mediante il quale la suindicata situazione possa ricevere rimedio. Occorre, ad avviso di que (1) Si prende atto del chiarimento opportunamente intervenuto fra molti contrasti. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA sto Collegio, premettere e ricordare che ci si trova in presenza di un provvedimento di natura giurisdizionale, incidente su una posizione di diritto soggettivo consistente nel diritto alla partecipazione al concorso e al soddisfacimento del proprio credito nella misura consentita dalla attuazione in sede fallimentare dalla par condicio creditorum (limitata dalle cause legittime di prelazione), ed avente carattere definitivo nell'ambito endofallimentare in quanto destinato, in difetto di impugnazione che ne consenta la rimozione, a costituire titolo non ulteriormente modificabile ai fini della determinazione della partecipazione alla distribuzione del ricavo della liquidazione fallimentare. Ci premesso, da escludere anzitutto che il rimedio giuridico alla segnalata violazione di legge possa essere rinvenuto nel reclamo al Tribunale, previsto in via generale contro i provvedimenti del giudice delegato dall'art. 26 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, in quanto l'ambito di operativit di tale strumento resta circoscritto alle attivit di carattere amministrativo e gestionale della procedura, rispetto a questa realizzando una sorta di foro interno al quale -a prescindere dalla rilevanza o meno, ai fini della delimitazione di tale ambito, della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi -restano certamente estranei i conflitti incidenti sui diritti dei terzi creditori, la cui disciplina trova specifica esauriente sede propria nel contesto della legge fallimentare. Rilevasi inoltre l'incongruenza di una costruzione che porterebbe ad individuare nel Tribunale, ad un tempo, l'organo propulsore (con l'accoglimento del reclamo e la rimozione del provvedimento del giudice delegato) della successiva fase di cognizione e l'organo competente alla decisione della stessa. Si dissente pertanto dall'opinione altra volta espressa da Cass. 28 settembre 1979 n. 5000 (ripresa poi da Cass. 21 settembre 1993 n. 9633), che ha escluso per tale ragione l'ammissibilit del ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 c, 2 Cost. avverso il decreto del giudice delegato ritenendolo invece proponibile avverso il decreto pronunciato in esito al reclamo dal Tribunale, al quale soltanto viene attribuita la rilevanza di pronuncia decisoria in tema di diritti soggettivi. E poich devesi ritenere che con tal genere di pur illegittimo provvedimento il giudice delegato abbia consumato l'esercizio della sua cognizione monocratica (della quale non potrebbe essere reinvestito d'ufficio o ad iniziativa di parte dopo l'avvenuta chiusura della fase processuale svoltasi davanti allo stesso, si dissente anche da Cass. 20 novembre 1996 n. 10153 che ritiene il provvedimento in questione alternativamente suscettibile di reclamo innanzi allo stesso giudice che lo ha emesso o al Collegio. poi da escludere che contro il suindicato decreto sia esperibile l'opposizione allo stato passivo di cui all'art. 98 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (come ritenuto da Cass. 10 maggio 1978 n. 2266, che ne ha tratto sotto questo profilo l'analoga conclusione dell'inammissibilit del ricorso per cassazione per difetto del carattere di definitivit), perch questa peculiare forma di impugnazione indissolubilmente correlata -nella sua collocazione fun RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 312 zionale e nella sua correlazione cronologica al decreto che rende esecutivo lo stato passivo previsto dall'art. 97: la insinuazione tardiva, invero, in quanto predisposta, al pari dell'opposizione, alla modificazione dello stato passivo quale risultante dal decreto di cui all'art. 97, si pone in posizione gerarchicamente parallela e non subordinata rispetto all'opposizione nel contesto delle operazioni di accertamento del passivo; n si vede come in concreto potrebbe coordinarsi con la disciplina dell'istituto dell'insinuazione tardiva -proponibile senza limiti di tempo correlati all'esecutivit dello stato passivo -il termine a cui soggiace a pena di decadenza l'opposizione. Non si ritiene, infine, di poter condividere la tesi-che, sulla scorta della natura sostanziale di sentenza attribuita al decreto di cui trattasi, stata accolta da Cass. 19 giugno 1995 n. 6937 -secondo la quale il decreto come sopra illegittimamente emesso dal giudice delegato potrebbe essere impugnato con l'appello davanti al Tribunale fallimentare. La proponibilit dell'appello avverso un determinato provvedimento giurisdizionale postula l'inquadramento di tale provvedimento in un modello procedimentale nel quale sia previsto l'accesso a un giudizio di merito di secondo grado a tutela della parte che sia risultata totalmente o parzialmente soccombente in relazione al contenuto decisorio di quel provvedimento: ci non si verifica nella situazione in esame nella quale, come si detto, l'ipotesi della soccombenza del creditore istante rispetto al decreto del giudice del delegato assolutamente estranea alla previsione del legislatore. La proponibilit dell'appello non pu prescindere, inoltre, dalla individuazione di un giudice, precostituito per legge, organicamente diverso dal giudice a quo, al quale sia deferita la cognizione del gravame e la decisione in secondo grado: tale non , e non pu essere, rispetto al giudice delegato, il Tribunale a cui lo stesso appartiene, al quale la legge riserva, proprio con riferimento all'ipotesi di dissenso del giudice delegato, la competenza a decidere in primo grado sulla domanda: si rende con ci evidente la ingiustificabile disparit di trattamento che si verificherebbe, in ordine ai mezzi di impugnazione esperibili, tra la totale o parziale reiezione dell'insinuazione tardiva legittimamente pronunciata dal Tribunale e la totale o parziale reiezione della stessa domanda pronunciata abnormemente dal giudice delegato, con elisione, in questo secondo caso, del doppio grado di giurisdizione collegiale di merito. Resta da ricordare che in giurisprudenza stato altres affermato che il decreto in argomento non impugnabile ai sensi dell'art. 111 Cost. nemmeno dai creditori gi ammessi al passivo, potendo questi avvalersi anche avverso il detto provvedimento del rimedio dell'opposizione prevista dall'art. 100 della legge fallimentare (Cass. 21 maggio 1983 n. 3523). La questione resta estranea al tema della presente decisione, non potendo subire commistione la problematica relativa alla tutela dell'interesse del creditore tardivamente istante, che si qualifichi pregiudicato dal provvedimento del giudice delegato in ci che tale provvedimento non gli ha riconosciuto, con la problematica concernente la tutela dell'interesse -del tutto eterogeneo ed anzi conflig PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA gente -del creditore gi ammesso al passivo, che abbia motivo di ritenersi pregiudicato da quel prowedimento in ci che al creditore tardivamente istante stato riconosciuto. Si ritiene in definitiva di dover enunciare il principio secondo cui qualora, in sede di dichiarazione tardiva di credito, il giudice delegato, il quale non ritenga integralmente accoglibile la domanda, anzich rimettere la decisione al Collegio, proweda monocraticamehte all'ammissione del credito in parziale difformit dalla domanda e quindi in parziale reiezione del petitum (e cos, specificamente, ammettendo il credito in via chirografaria con esclusione della dichiarata causa di prelazione), tale prowedimento suscettibile di impugnazione mediante il ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111 c. 2 Cost., nei limiti di deducibilit ivi previsti e quindi per violazione di legge processuale (omissis). SEZIONE SESTA GIURISPRUDENZA PENALE CORTE DI CASSAZIONE, sez. III penale, 2 luglio 1997 n. 6308 -Pres. Giuliano -Rel. Novarese -P.M. (Conf.) Gerace -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Giovanni) c. De Stefano. Giudizio penale -Chiusura delle formalit di apertura del dibattimento Contestazione suppletiva di reati -Rinvio ad altra udienza per termini a difesa -Costituzione di parte civile -Ammissibilit. (art. 93, 445 e 446 c.p.p. 1930: art. 79, 484, 516, 517 e 518 c.p.p. 1988). Nel caso in cui, completate le formalit di apertura del dibattimento, il P.M. chieda ed ottenga la contestazione di reati suppletivi, la costituzione di parte civile pu tempestivamente avvenire sia secondo le norme del codice di procedura penale del 1930, sia secondo le norme del nuovo all'udienza di rinvio cui, concesso il termine a difesa, il processo sia stato rinviato (1). (omissis) De Stefano Nadia ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona, emessa in data 19 novembre 1991, con la quale veniva condannata per il reato di utilizzazione di bolle di accompagnamento alterate, deducendo quali motivi l'erronea applicazione dell'art. 93 c.p.p. 1930, poich era stata ammessa la costituzione di parte civile dopo compiute per la prima volta le formalit di apertura del dibattimento, la carente e contraddittoria motivazione sulla sussistenza del reato. Con memoria, depositata il 23 aprile 1997, la ricorrente richiedeva l'applicazione dell'amnistia. (1) La sentenza in nota supera, con una pregevole valutazione dinamica del processo tenendo conto correttamente di un aspetto tanto saliente dell'accessoriet dell'azione civile nel processo penale, quanto poco considerato (quello cio della sua subordinazione all'azione del P.M. che, in questo caso, posta a base dello spostamento in avanti del termine della costituzione di p.c.), l'espressione letterale dell'art. 93 del codice di rito del 1930 che con l'espressione ... fino a che non siano compiute per la prima volta le formalit di apertura del dibattimento, costitu il pi evidente ostacolo all'interpretazione che questa sentenza ha fatto propria. A maggior ragione la tesi valida nel vigore del nuovo codice, il cui art. 79 non ripete il per la prima volta. P.d.T. ! L'futf;!tvel;:l.t~ onu:ti~io:ri di cuiall'art; 2 terzo commad,PJl; 20 genl). ajoJ9,Ql ;n,j3 $4U.d~!Wrilevanza al second<:> motiv<:; attjnentfi ad unpre< / ... / ... t~s9 <:lif~tt() 4i m<:>ti:Y~~i.~M~ mentl'.e. 9w~ ~lil,ttat'e di .q.:el~i::i, ~l~tivo .. ............ᥥ ..... ~'.~$~~~ijj#,()#i~#<;} 4~11~ ~9$#t'fzio11e dipafl;ecMle, pp~qh, ~sensi del .. ᥥ:.:...:.ᥥᥥᥥl!:~,4~ 4~.~.l~gg~~~g~fo.tQ'i$#.4QS,.q9~$ta:tie,inprese:niadellacausa . ~lilti.riti.v~.. ~~lf~~w$~~!'.leve1:.c:9rif~rm~e.. o.. meno. le.stat.izi9J1i .Jelative ag1i .... . iA~:res~:;t~i. : <<...:.>>.. .:.. :... >} <;. ... : ....... .. ... ............. . :ᥥᥥ.Afflg.aj-99~PPW:~opp()rt.I1P'tl$$'1ll:l~:rel:lreYementela.yicenda.proces~ si.tJe ~I(ifidimglfoenucleg~l~ p()_bleili:atica relativa. . . k~ rf;sP:rteAt~ Ye11iv:a tratj;aj ~ ~.4ziq dipanzi alTribunale di Pesaro per tjspp11sfere sfe~.~e~~99i ?ffies~.<#ch~ffi'.'t.W?fe dei reqditi perl'anno 1983, <:\()p(;l .:i:i{~sW-l:t!7 ~i94el19 ~t~~so ~e), (iaj6(;U; pr impedbnento del difensore di . f@ij,9~~~ ~-~\199~~~~\'9 4~l?~i'> .. / / . / . . ....... . Nta predeW:J~ Mie.ri~*<:.l~ ri:r,ryi.g,.qwJ?letate .le formalit di apertura del dib11.#iii:lehto, nr.&1: hjedeia ed C>tfo:nevala contestazione suppletiva di due f.tilu#l~ii.~fo~g 4i l:foU. di pleiivil. ihdiphdhtefuenfodill 4ecorso .deltetinrie dell'effettuazione per la prilli.a volfa clell f<:>fuial.ita di apert1Jta. deldibattn:fonto, mentre la seconda (Cass, sez.U23 Wf:lfzo 1953,Cilione in Giur. c6fupf Cass. pen. 1953, 213) era prVilietirie:Hte BHeriffa iii sns&Br>t>osfo; . . taCott~CstttuiiC>ril:tl, sebbtiei:tlvesrlt della questione, aveva ritenuto fa stessa inairimissibile; perch si trattava di un profilo riservato alla discrezionlitalegislativa: (C6ft Cost; 14 a::Prlle 1988 n. 460 iii GitJr. cast. 1988,I,2092);ma;. success:ivametit; con setitetifa fotetptetativa d rigetto, dbttafa sottoilVigord~friuovo codice (CbrteCost. 3 prilel996 n. 98), ha afferrtiato l'ammissibilit della cstituzione dparte civile nell'ipotesi di nuove contestazioni in dibattimento previste dagli arlt. 516, .517 e 518 secondo comma: c;p;p;, hriosta:tte su.I punto non fosse.stata: modificata la pregressa disciplirt, pur se occorre considerate ildifferente sistema adottato e fa formazione magmatica della prova neldibattimento, propria dell'opzione accusatoria. Orbene, queste considerazioni dimostrano che nonci si pu meccanicamente riferire alla pi recente pronuncia del giudice di legittimit delle leggi, RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 316 tanto pi che la stessa, come un indirizzo di questa Corte (Cass. sez. III 27 settembre 1995, Roncati in Arch. n. proc. pen. 1995, 1011) ruotano intorno alla natura ed alla funzione del termine stabilito dal terzo comma dell'art. 519 c.p.p. 1988 per la citazione della persona offesa nell'ipotesi di contestazione suppletiva, insussistente nella pregressa disciplina. Pertanto appare pi opportuno richiamare alcune considerazioni generali relative alla caratteristica stessa della decadenza, che presuppone uno spazio temporale durante il quale vi la possibilit di far valere il diritto ed un'inerzia del soggetto legittimato, insussistente nel caso in cui venga effettuata una contestazione suppletiva, anche di un reato concorrente o connesso con quello oggetto dell'originaria imputazione. Inoltre non pu sottacersi che le prospettive del danneggiato dal reato a costituirsi parte civile sono modellate in maniera restrittiva al contenuto oggettivo ed alla direzione soggettiva dell'accusa formulata dal P.M., sicch questi potr determinarsi diversamente in virt della contestazione suppletiva del P.M., ritenuta pi aderente alla realt processuale come awenuto nella fattispecie in esame, in cui la ricorrente stata ritenuta responsabile solo di parte di un reato oggetto di contestazione suppletiva. Infine, indipendentemente dal labile riferimento all'art. 446 secondo comma c.p.p. 1930, che consentiva alle parti private di presentare nuove prove in seguito alle contestazioni effettuate ai sensi dell'art. 445 c.p.p. 1930, sarebbe irrazionale e contrasterebbe quindi con l'art. 3 della Costituzione impedire alla persona offesa di awalersi della facolt di esercitare l'azione civile nel processo penale in dipendenza della circostanza meramente casuale della modalit di contestazione del reato (in via originaria o suppletiva), sicch a favore dell' esegesi accolta milita pure un'interpretazione adeguatrice di tutto il complesso normativo attinente alla costituzione di parte civile, al termine di decadenza ed alla contestazione suppletiva con i poteri inerenti. N la possibilit di costituirsi parte civile nel periodo intercorrente tra la nuova contestazione e la rinnovazione delle formalit di apertura del dibattimento pu essere esclusa dall'essere la contestazione suppletiva fondata sullo stesso fatto oggetto dell'originaria imputazione, giacch il concorso formale di reati si fonda sulla possibilit di commettere pi reati con una sola azione, la cui enunciazione nella prima figura di reato pu essere parziale e viene ad essere integrata con la parte residua con la nuova contestazione suppletiva come accaduto nella fattispecie in esame. Infatti, ammessa la costituzione di parte civile in detto arco temporale in seguito alla contestazione suppletiva, sarebbe irrazionale non estenderla a tutte le forme di concorso, formale o materiale, dei reati ed a tutti i tipi di connessione, in quanto in ognuna di queste ipotesi sorge e deve trovare soluzione il problema di una diversa valutazione della persona offesa del suo interesse a costituirsi parte civile. PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 317 Pertanto deve affermarsi che anche sotto il vigore del precedente codice di rito la possibilit di costituzione di parte civile in base ad una contestazione suppletiva fondata su un'esegesi logica della nozione di decadenza, sulle finalit dell'istituto della contestazione suppletiva, su un'interpretazione adeguatrice dell'art. 93 c.p.p. 1930 e su esigenze di razionalizzazione della complessiva disciplina, avvalorata dal dettato dell'art. 446 c.p.p. 1930. Questo motivo di ricorso non fondato, sicch deve disporsi soltanto l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza per essere il reato estinto per intervenuta amnistia, confermandosi le statuizioni civili (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. IV penale, 4 luglio 1997 n. 1310 -Pres. Viola - Rel. Montera -P.M Conf. -Ministero del Tesoro (avv. Stato Greco) c. Nemola. Sentenza -Motivazione -Omessa valutazione delle ragioni di una delle parti -Motivazione apparente -Nullit. (art. 606 c.p.p.) nvizio di mancanza di motivazione, ai sensi della lett. e) dell'art. 606 c.p.p., sussiste non solo quando la motivazione stessa del tutto materialmente assente, ma anche allorch l'adottata motivazione non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicit dell"iter argomentativo su cui la decisione fondata, in contrasto con le ragioni opposte da una delle parti (1). (omissis) Avverso l'ordinanza della Corte d'Appello di Caltanissetta indicata in premessa ha proposto ricorso per cassazione l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di quella citt, nell'interesse del Ministro del Tesoro pro-tempore, lamentando in linea preliminare la mancanza assoluta di motivazione sul punto relativo all'eccepita -in sede di costituzione dinanzi alla predetta Corte d'Appello -sussistenza di profili di dolo o colpa grave ascrivibili al Nemola, tali da aver dato causa alla sofferta -da parte del medesimo Nemola -carcerazione preventiva. Rilevava al riguardo la ricorrente Avvocatura Distrettuale che, dinanzi all'esplicita deduzione formulata in sede di (1) La sentenza, pur nella sua concisa affermazione, degna di nota per lo specifico riferimento all'obbligo del giudice di prendere in esame, nella motivazione delle decisioni, tutte le ragioni esposte dalle parti: il silenzio non pu essere interpretato come rigetto, n come valutazione di irrilevanza degli argomenti esposti dalle difese o dall'accusa. Di fronte all'obbligo di motivare, infatti, funzionale alla necessit di ricostruire l'iter logico della decisione, a sua volta garanzia del giusto processo, il silenzio di per s equivoco e la esatta sanzione la nullit per motivazione apparente. P.d.T. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 318 merito a secondo cui nella stessa sentenza penale di assoluzione in grado di appello erano stati tuttavia evidenziati i contatti mantenuti dal Nemola con Pulci Calogero, capo-mafia del clan Madonia per la zona di Sommatino , nonch altre significative circostanze confermative comunque di rappoti dello stesso Nemola con ambienti mafiosi, ai quali si era anche dichiarato disposto a fornire le proprie prestazioni medico-dentistiche, la Corte d'Appello di Caltanissetta in sede di giudizio ex artt. 314 e 315 c.p.p. si era limitata ad affermare tautologicamente che l'esame della sentenza di assoluzione non consentiva di individuare profili di colpa grave o dolo nella causazione dell'evento della carcerazione. Venendo cos meno, osservava la ricorrente Avvocatura, all'onere della motivazione impostale dalla lett. e) dell'art, 546 del citato codice di procedura penale. Prospettava, poi, altre ragioni di censura, con riferimento sia al quantum riconosciuto in favore del Nemola sia all'imposto obbligo di pagamento a carico del Convenuto Ministro del Tesoro delle spese processuali, che avrebbero dovuto quanto meno essere compensate tra le parti. Motivi della decisione Rileva la Corte che, a prescindere dalla fondatezza o meno dei rilievi sollevati in sede di merito, nei termini accennati in narrativa, dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Caltanissetta, il motivo principale di ricorso appare fondato. Come giustamente osservato; la Corte d'Appello si unicamente limitata ad affermare tautologicamente che non sussistevano condizioni ostative all'accoglimento della domanda di riparazione proposta dal Nemola, senza per farsi carico di indicare le ragioni che la inducevano a superare i rilievi critici prospettati dalla resistente Avvocatura Distrettuale. Venendo cos meno -come sempre giustamente rilevato nel proposto ricorso -all'obbligo di dare contezza nel discorso argomentativo che l'aveva indotta a ritenere l'insussistenza degli eccepiti profili di colpa grave, quanto meno, ascrivibili al comportamento dell'istante. Il vizio di mancanza di motivazione, ai sensi della lett. e) dell'art, 606 c.p.p., sussiste non solo quando la motivazione stessa del tutto materialmente assente, ma anche allorch l'adottata motivazione non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicit dell'iter argomentativo su cui la decisione fondata, in contrasto con le ragioni opposte da una delle parti. Non dubbio, quindi, che nel presente caso sia la Corte di merito incorza nel vizio sopra lamentato e che, conseguentemente debba lordinanza impugnata essere annullata, con rinvio per nuovo esame; rendendosi, peraltro, superflua ogni disamina degli altri motivi di ricorso prospettati dalla ricorrente Avvocatura (omisiss). PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 319 CORTE DI CASSAZIONE, sez IV penale, 17 dicembre 1997 -22 gennaio 1998 n. 854 -Pres. Satta Flores -Rel. Merrone -P.M. (parz. diff.) Galati Arcioni (avv. Stato Sica). Procedimento penale -Principio dell'immutabilit del giudice -Rinvio dell'u dienza -Diversa composizione del Collegio -Nullit -Esclusione (art. 525 II CO., c.p.p.). Impugnazioni -Sentenza di non doversi procedere perch estinto il reato per prescrizione -Responsabilit civile -Impugnazione -Inammissibilit Esclusione (art. 129 II CO., c.p.p.) Non sussiste violazione del principio di immutabilit del giudice, allorch il giudice, in diversa composizione collegiale rispetto alle precedenti udienze, si sia limitato a rinviare il dibattimento ad altra udienza. Ed invero il principio suddetto riguarda l'effettivo svolgimento di attivit dibattimentale (acquisizioni probatorie, risoluzioni di questioni incidentali, decisioni interinali inerenti all'oggetto del giudizio e simili), ma non un provvedimento ordinatorio -come la sospensione del dibattimento e il rinvio del medesimo ad altra udienza determinati dall'impossibilit di prosecuzione dello stesso per diversa composizione del collegio giudicante rispetto alle precedenti udienze -non implicante alcuna decisione idonea ad avere qualsivoglia valenza sul giudizio in corso, ma mirante soltanto all'ordinato svolgimento del processo nell'osservanza delle regole procedurali (1). (1) La decisione conforme alla giurisprudenza dominante, ed ispirata al principio funzionale di collegamento fra immutabilit del giudice e immediatezza nel rapporto fra giudice e prova (Cass. 30 agosto 1995 n. 959, Capone). Sotto questo profilo, la Corte non ha riconosciuto pregio alla censura mossa dalla difesa dell'imputato che si era doluta del fatto che l'udienza di rinvio era stata tenuta in composizione diversa del collegio, senza che si provvedesse al rinnovamento delle indagini preliminari e dell'istruzione dibattimentale. L'indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte infatti ancorato al principio affermato nella sentenza che si annota ed in quella del 1994 richiamata in motivazione (v. anche Cass. III Sez., 12 febbraio 1997 n. 1217, Greco). stato anche affermato che il principio della immutabilit del giudice applicabile anche alle ordinanze adottate all'esito della procedura in camera di consiglio, ai sensi dell'art.127 c.p.p., con la conseguente nullit del provvedimento pronunziato da un collegio non composto dalle medesime persone fisiche che hanno partecipato alla trattazione in tutte le udienze. La nullit in questione, tuttavia, non ricorre se la procedura -a seguito di precedente rinvio disposto anche per la acquisizione di ulteriore documentazione -viene riprodotta ex novo innanzi ad un collegio diverso che provveda alla complessiva trattazione (la quale comprende ogni attivit finalizzata alla decisione, come l'esame delle acquisizioni probatorie, della assunzione delle richieste e delle richieste delle parti) (Cass. VI Sez., 29 novembre 1995 n. 4489, Cave). Quanto al contenuto della norma, stato affermato che poich il dibattimento inizia con la dichiarazione di apertura, che successiva al compimento degli atti RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 320 Il ricorso del responsabile civile non inammissibile. In presenza di una sentenza che dichiara l'estinzione del reato per prescrizione, lasciando impregiudicati i profili civilistici, poich egli pu avere interesse ad una pronuncia ai sensi dell'art. 129, comma 2, c.p.p., che escluda ogni possibile pretesa civile (2). (omissis) 1.1. Arcioni Roberto stato tratto a giudizio per rispondere di omicidio colposo, unitamente a Vazio Alberto (non ricorrente), in danno della piccola Mohamed Nancy Kaml Salwa, di anni due, caduta nelle acque del Tevere attraverso lo spazio formatosi tra una piattaforma galleggiante e la banchina. Secondo l'originaria imputazione, all'Arcioni -nella qualit di capitano del Genio, alla cui vigilanza era affidata la zattera galleggiante allestita dal genio stesso in occasione della manifestazione TEVERE EXP stato addebitato di avere omesso di sistemare la passerella, nonostante nel pomeriggio dello stesso giorno fossero stati allentati gli ormeggi aumentan introduttivi di cui agli artt. 484 e segg. c.p.p., non ravvisabile la nullit di cui all'art. 525, II co., c.p.p., se i componenti del collegio deliberante sono diversi da quelli innanzi ai quali sono stati posti in essere gli atti introduttivi del giudizio (Cass. I Sez. 29 novembre 1995 n. 12779, Saccomanno; Cass. III Sez. 14 luglio 1997 n. 6868, Manna; Cass. Sez. IV, 24 maggio 1994 n. 5992, Vitagliano). La Corte ha altres esteso il principio di immutabilit del giudice ad ipotesi non espressamente previste come: il procedimento di esecuzione il quale, nell'assetto normativo del vigente codice di rito, strutturato in base a criteri di accerituata giurisdizionalit (Cass. I Sez. 6 agosto 1996 n. 3253, Calvano); la procedura svolta in camera di consiglio (Cass. V Sez., 4 luglio 1994 n. 2685, Garda); il giudizio abbreviato, con l'avvertenza che il giudizio abbreviato pu ritenersi iniziato solo dopo che sia stata depositata o pronunciata l'ordinanza di accoglimento della richiesta. Ne deriva che non violato il principio della immodificabilit del giudice quando, essendo stata presentata la richiesta nel corso dell'udienza preliminare ai sensi del secondo co. dell'art. 439 c.p.p., si sia provveduto all'accoglimento della richiesta ed alla fissazione di altra data per la trattazione del giudizio da parte del giudice di udienza, mentre altro magistrato in tale data abbia iniziato e concluso il giudizio (Cass., IV Sez., 20 agosto 1996 n. 8061, Carosi). Una interessante decisione della I Sezione (Cass. 6 dicembre 1996 n. 11170, Pollini), nell'affermare il consueto principio della nullit assoluta della sentenza emessa, nel caso di prove assunte, da un collegio diversamente composto rispetto a quello che poi le ha valutate ed ha giudicato nel merito, ha notato che irrilevante che le prove stesse siano state assunte, cos come avviene per l'incidente probatorio, in contraddittorio delle parti, perch non sarebbe pertinente un eventuale richiamo alla utilizzabilit del materiale assunto durante l'incidente probatorio, in quanto la disciplina relativa alla assunzione ed utilizzabilit delle prove in questa sede particolare a tale mezzo istruttorio e non pu essere estesa alle prove assunte nel dibattimento, per le quali si applicano i principi della immediatezza della deliberazione e della immutabilit dei giudici che hanno partecipato al dibattimento. (2) La seconda massima perfettamente conforme ai principi che disciplinano l'interesse all'impugnazione (v. art. 568 c.p.p., IV comma). infatti irrilevante che la sentenza non abbia provveduto sulla domanda di risarcimento per essersi il reato prescritto, poich (v. anche art. 575, III co., c.p.p.) pur sempre sulla base della possibile azione risarcitoria che va valutato l'interesse all'impugnazione. P.d.T. PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE do lo spazio fra la banchina e la piattaforma e il dislivello fosse maggiore per la secca del fiume. Al Vazio, direttore della mostra, stato invece contestato, in presenza della situazione di fatto gi descritta, di avere spento i riflettori, nonostante i visitatori ed i proprietari degli stands si attardassero ancora sulla riva del fiume e di avere omesso di transennare i luoghi e di vigilare che nessuno accedesse alla zattera galleggiante. 1.2. In primo grado, !'Arcioni stato prosciolto per prescrizione del reato, il Vezio, invece, stato assolto perch il fatto non costituisce reato (Tribunale di Roma, sentenza 8 novembre 1994). La sentenza del Tribunale stata appellata dall'Arcioni, dalle PP.CC., limitatamente ai profili civili connessi alla assoluzione del Vazio, e dal Ministero della Difesa, nella qualit di Responsabile civile. Il Vazio, poi, ha proposto appello incidentale, richiedendo l'assoluzione per non aver com-. messo il fatto. Con la sentenza oggetto dell'odierno ricorso, la Corte di Appello, per quanto interessa in questa sede, ha confermato il proscioglimento dell'Arcioni per prescrizione del reato. stata anche riconosciuta la responsabilit, ai soli fini civili, del Vazio, previa dichiarazione di inammissibilit dell'appello incidentale. 1.3. A sostegno del ricorso, I'Arcioni prospetta le seguenti censure: a) nullit assoluta ed insanabile della sentenza di primo grado per violazione del principio della immutabilit del giudice (art. 525, comma 2, c.p.p.), in quanto all'udienza di rinvio del 5 ottobre 1994, vi stata la sostituzione di uno dei due giudici, senza che si prowedesse al rinnovamento dei preliminari e dell'istruttoria dibattimentale; b) vizio di motivazione con riferimento ai seguenti punti: -erroneamente la Corte di merito ha addebitato al ricorrente la culpa in vigilando, escludendo che lo stesso avesse mai dato le dovute istruzioni ai militari addetti alla vigilanza, bench sia stato accertato che le istruzioni furono date; -erroneamente, ancora, la Corte di merito ha addebitato al ricorrente anche la culpa in eligendo, riferita alla scelta dei militari addetti alla sorveglianza, senza spiegare perch tale scelta dovesse essere ritenuta inadeguata (ex ante) e, prima ancora, perch sia stato ritenuto che la scelta fosse stata effettuata dall'Arcioni (e non dai suoi superiori); -fallacia dell'argomento utilizzato per sostenere che la zattera distasse dalla banchina almeno lo spazio sufficiente per consentire ai soccorritori di immergersi nelle acque del fiume (attraverso il quale era passato il corpo della bambina), perch ben possibile che la zattera sia stata scostata successivamente, proprio per consentire i soccorsi; -carenza di motivazione in ordine alla richiesta, non accolta, di rinnovazione parziale del dibattimento per effettuare una perizia tecnica al fine di RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 322 calcolare quale potesse essere l'effettiva distanza della zattera dalla banchina al momento dell'incidente. 1.4. Il Ministero della Difesa, nella qualit, eccepisce: e) la violazione dell'art. 521 c.p.p. e la manifesta illogicit della motivazione nei punti in cui modifica il titolo della colpa addebitato all'Arcioni: si passa da una contestazione omissiva specifica (mancata utilizzazione della passerella), ad altre omissioni specifiche (mancato tiraggio degli ormeggi e mancata istruzione dei militari addetti alla sorveglianza) e, quindi, alla colpa per fatti commissivi (culpa in eligendo nella scelta dei militari addetti alla vigilanza); d) violazione dell'art. 589 c.p. e manifesta illogicit della motivazione che attribuisce all'Arcioni una responsabilit di tipo oggettivo, in quanto non si comprende bene quale sia la colpa, in definitiva, attribuitagli. 1. MOTIVI DELLA DECISIONE Entrambi i ricorsi appaiono infondati e, quindi, devono essere rigettati, con ogni conseguenza. 2.1. Preliminarmente occorre prendere in esame l'eccezione di nullit della sentenza di primo grado, sollevata dall'Arcioni. Effettivamente, come sostiene il ricorrente, alla udienza di rinvio del 5 ottobre 1994, il collegio giudicante risulta diversamente costituito rispetto a quello della udienza precedente (14 marzo 1994). Infatti il dr. Paoloni ha sostituito il dr. Lo Surdo (il quale, a sua volta, aveva sostituito il dr. De Nardo). Tale sostituzione, per, del tutto irrilevante, perch risulta regolarmente costituito ex novo il rapporto processuale, seguito dagli atti di istruttoria dibattimentale. Peraltro, nella precedente udienza del 14 marzo 1994, le parti avevano gi dato il loro consenso alla Utilizzabilit degli atti dibattimentali finora acquisiti (p. 394 del fascicolo), proprio in occasione di un'altra modifica nella composizione del collegio giudicante. Tale consenso, quindi, che non condizionato alla persona fisica del singolo giudice, mantiene la sua efficacia anche rispetto al nuovo collegio, tanto pi che subito dopo stato disposto il rinvio per l'assenza di un teste. evidente, poi, che tale consenso avrebbe potuto essere espressamente revocato per ragioni specificamente indicate, connesse alla nuova sostituzione. Ma cos non stato. In linea di principio, non sussiste violazione del principio di immutabilit del giudice, allorch il giudice, in diversa composizione collegiale rispetto alle precedenti udienze, si sia limitato a rinviare il dibattimento ad altra udienza. Ed invero il principio suddetto riguarda l'effettivo svolgimento di attivit dibattimentale (acquisizioni probatorie, risoluzioni di questioni incidentali, decisioni interinali inerenti all'oggetto del giudizio e simili), ma non PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE un provvedimento ordinatorio -come la sospensione del dibattimento e il rinvio del medesimo ad altra udienza determinati dall'impossibilit di prosecuzione dello stesso per diversa composizione del collegio giudicante rispetto alle precedenti udienze -non implicante alcuna decisione idonea ad avere qualsivoglia valenza sul giudizio in corso, ma mirante soltanto all'ordinato svolgimento del processo nell'osservanza delle regole procedurali (Cass. pen;, sez. I, 13 dicembre 1994, Graziano). Le conclusioni sono state rassegnate dinanzi allo stesso collegio nell'udienza dell'8 novembre successivo (f. 595 del fascicolo processuale). Conseguentement, la censura appare infondata. 2.2. Preliminarmente, ancora, occorre precisare che il ricorso del responsabile civile non inammissibile, per carenza di interesse, cos come ha richiesto il P.G. In presenza di una sentenza che dichiara la estinzione del reato per prescrizione, lasciando impregiudicati i profili civilistici, il responsabile civile pu avere interesse ad una pronuncia ai sensi dell'art. 129, comma 2, c.p.p., che escluda ogni possibile pretesa civile. 2.3. Anche con riferimento al giudizio di merito occorre premettere una puntualizzazione. L'Arcioni (e, quindi, il responsabile civile) aveva titolo per appellare la sentenza dei giudici di primo grado (con la quale era stata dichiarata la estinzione del reato), ma soltanto per richiedere l'applicazione del disposto di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p., a meno che !'Arcioni non avesse preventivamente rinunciato alla prescrizione. Conseguentemente, sul punto, la motivazione della sentenza della Corte di Appello, deve essere valutata sqltanto per verificare se abbia legittimamente escluso la sussistenza della situazione di evidenza probatoria che avrebbe consentito il proscioglimento nel merito. Soltanto entro questi limiti possibile prendere in esame i ricorsi, che per ogni altro aspetto sarebbero inammissibili. 2.4. In forza delle considerazioni appena esposte, la censura relativa sulla carenza di motivazione relativamente alla richiesta di perizia, formulata con i motivi di appello, infondata, perch la richiesta stessa, nell'ambito di un giudizio che doveva limitarsi a verificare se non risultasse gi evidente una situazione probatoria che consentisse un proscioglimento nel merito, era inammissibile. 2.5. L'ordine logico delle censure prospettate impone di esaminare con precedenza il problema del mutamento della contestazione. Nonostante i limiti entro i quali deve essere esaminato il riorso, il problema dell'eventuale mutamento del fatto contestato non perde rilevanza. Infatti, se veramente il fatto attribuito in appello all'Arcioni, fosse diverso da quello ritenuto dai giudici di primo grado, se ne potrebbe dedurre che il fatto originariamente contestato stato ritenuto insussistente e che la Corte di Appello avrebbe dovuto decidere di conseguenza. . 324 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Nella specie, per, bench i giudici di appello abbiano escluso in maniera categorica che I'Arcioni avesse alcun obbligo di servirsi della passerella (p. 3 della sentenza impugnata) -come, invece, era stato ipotizzato nell'originario capo di imputazione -l'essenza e la logica delle contestazioni mosse all'Arcioni, non sono, affatto mutati. Infatti, la contestazione, cos come formulata originariamente, fa esplicito riferimento, in generale, ai compiti di vigilanza attribuiti all'Arcioni ed al fatto che, comunque, gli ormeggi erano stati allentati determinando l'allontanamento della piattaforma galleggiante dalla banchina (nonostante nel pomeriggio dello stesso giorno fossero stati allentati gli ormeggi aumentando lo spazio fra la banchina e la piattaforma). A causa di questa situazione pericolosa si verificato l'incidente ed il mancato utilizzo della passerella era solo uno dei possibili rimedi. Il fatto che il rimedio non fosse idoneo, non esclude che gli ormeggi non erano stati manovrati in maniera da tenere la piattaforma aderente alla banchina e che, comunque, si era verificata una situazione di pericolo imputabile a chi aveva compiti di vigilanza anche tecnica. 2.6. Tutte le altre censure prospettate come vizio di motivazione su specifici punti non possono essere esaminati se non per verificare se il giudice a quo abbia correttamente escluso la sussistenza dei presupposti di cui al secondo comma dell'art. 129 c.p.p. La Corte di merito, andando ben oltre i limiti del devolutum, in favore dell'appellante, ha motivato in positivo i punti relativi alla colpa e, quindi, ha implicitamente escluso che fosse stata acquisita la prova evidente della insussistenza di ogni forma di colpa a carico dell'Arcioni. Sul punto specifico della colpa di quest'ultimo la Corte scrive: era investito della funzione della gestione -puramente tecnica, ovviamente -del pontile: la circostanza stata ammessa, ove ve ne fosse stato bisogno, dallo stesso Arcioni che nel corso dell'udienza 5/10/94 ha dichiarato come compito suo e dei militari dislocati sul posto alle sue dipendenze fosse: 1) esercizio della vigilanza al fine di preservare il bene di propriet dello Stato; 2) gonfiaggio dei galleggianti; 3) adozione dei prowedimenti necessari al fine di tenere sempre accostata la piattafonna alla banchina (p. 4 della sentenza impugnata). Anche la censura secondo la quale sarebbe fallace l'argomento in base al, quale stato ritenuto che la piattaforma non era accostata alla banchina non prospetta la tesi della acquisizione della prova contraria, tant' vero che sul punto era stato richiesto un accertamento tecnico. In definitiva, tutte le censure dedotte criticano l'architettura logico-giuridica della sentenza impugnata, senza specifica indicazione delle ragioni per le quali la motivazione non escluderebbe la sussistenza della prova evidente della non colpevolezza dell'Arcioni. Quindi, l'esistenza accertata di una causa di estinzione del reato preclude ogni ulteriore analisi di eventuali vizi logici che non riguardino la tematica di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p. (omissis). PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 325 I CORTE D'APPELLO DI ROMA, sez. IV, ordinanza 12 novembre 1997 n. 160 -Pres. Figliuzzi -Est. Siriaco -P.M. D'Onofrio (conf.) -imp. Motika Ivan ed altri -p.c. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri della Difesa e dell'Interno, Provincia di Trieste, Comuni di Gorizia e di Trieste ed altri (avv. Stato di Tarsia di Belmonte; avv.ti Sinagra, de Vergottini, Calvi, Vicini, Randazzo, Caroleo Grimaldi, Battiati). Giudizio penale -Istanza di ricusazione del G.U.P. che in sede di provvedimento cautelare ha come G.l.P. prospettato il difetto di giurisdizione Inammissibilit (art. 34 e 37 c.p.p.) (1). (c.p.p. artt. 36, 37) II TRIBUNALE DI ROMA, sez. GIP, 13 novembre 1997 -G.U.P. A. Macchia PMG Pititto -imp. Motika Ivan ed altri -p.c. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Difesa e dell'Interno, Provincia di Trieste, Comuni di Gorizia, di Trieste ed altri, (avv. Stato di Tarsia di Belmonte; avv.ti Sinagra, de Vergottini, Calvi, Vicini, Randazzo, Caroleo Grimaldi, Battiati). Giudizio penale -Reati commessi in territorio italiano successivamente sottoposti a sovranit di altro Stato -Giurisdizione italiana -Non sussiste (c.p. artt. 6 e 10). Nella previsione dell'art. 6 c.p., a norma del quale punibile secondo la legge italiana chiunque commette un reato nel territorio dello Stato, il riferimento speciale al territorio dello Stato deve ritenersi diacronicamente raccordato alla insorgenza del rapporto punitivo, perch entrambi i termini sono in s espressivi della sovranit, la quale ultima pu essere apprezzata soltanto nel momento stesso in cui chiamata concretamente a dispiegarsi. (1-2) Il processo delle foibe: problemi in limine di ricusazione e di giurisdizione italiana. 1 -PREMESSA L'ordinanza della Corte d'Appello e la successiva sentenza del GUP presso il Tribunale di Roma, fra di loro strettamente connesse, affrontano delicate questioni che per la loro importanza meritano attenzione, pur in attesa della decisione della Corte Suprema di Cassazione sull'impugnazione proposta dalla Procura Generale e dal P .M. contro la sentenza del giudice dell'udienza preliminare. La situazione di fatto la seguente: il GIP, investito della richiesta di rinvio a giudizio di persone imputate di reati commessi in territori non pi italiani all'epoca in cui RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO Pertanto i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduta ad altro Stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero, e quindi cessa per essi la giurisdizione italiana (2). I (omissis) Con atto depositato il 3 settembre 1997 Cemecca Nidia, nella sua qualit di parte civile nel proc. n. 1226/97 R.G. pendente dinanzi al G.I.P. presso il Tribunale di Roma, dott. Macchia Alberto, presentava istanza di ricusazione nei confronti del suddetto magistrato. Nell'istanza la Cemecca faceva presente che il G.I.P., con ordinanza emessa in data 14 maggio 1996, aveva respinto la richiesta formulata dal P.M. di il processo era iniziato (si tratta del processo c.d. delle foibe, le cavit carsiche dell'Istria in cui furono rinvenuti centinaia di cadaveri di cittadini italiani torturati ed uccisi durante l'occupazione iugoslava o gettati vivi in quelle) era stato ricusato da alcune parti civili, che sostenevano l'incompatibilit della stessa persona ad esercitare la funzione di GUP in quanto, in sede di richiesta di provvedimento cautelare, aveva, negandolo per insussistenza dei presupposti di merito, purtuttavia affermato l'inesistenza della giurisdizione italiana con una lunga e dettagliata motivazione, che tuttavia non fu condivisa dal Tribunale del riesame. da tener presente, per la miglior comprensione della vicenda, che il P.M. aveva contestato sia il reato di genocidio punito dalla legge 9 ottobre 1967 n. 962, sia, per l'ipotesi che questo fosse ritenuto non applicabile per il principio di irretroattivit, l'omicidio plurimo pluriaggravato. La Corte d'appello, con l'ordinanza che si annota, ha dichiarato inammissibile la richiesta, mentre il GUP, con la sentenza sopra riportata per la parte che interessa, ha dichiarato non doversi procedere contro gli imputati per difetto delle condizioni previste dall'art. 10 c.p. Tale formula stata adottata (l'art. 10 riferito al delitto commesso dallo straniero all'estero) in quanto l'estensore della decisione, come emerge dalla lettura della stessa, ha interpretato l'art. 6 c.p. (reati commessi nel territorio dello Stato) nel senso che il permanere della sovranit italiana sul territorio commissi delicti condicio sine qua non della giurisdizione, dando cos questa volta contenuto decisorio alla sua precedente valutazione. A sua volta il P.M. aveva sviluppato su tre motivi il suo ricorso contro la sentenza del GIP: il primo riferito a violazione di norme processuali, incentrato sulla abnormit di una sentenza presa in sfregio alla norma che impone al GIP, una volta fissata l'udienza preliminare, di decidere in esito alla stessa e nell'ambito della procedura che la disciplina, sentite le parti costituite, anzich, tolta la causa dal ruolo, con un provvedimento de plano, cos come erroneamente aveva fatto. Il secondo riferito all'erronea interpretazione dell'art. 6 del codice penale adottata dal GIP-che gi sullo stes I so si era espresso in un'ordinanza a suo tempo emanata su richiesta di provvedimen! 1to cautelare, senza peraltro trarne allora le coerenti conseguenze -secondo la quale 1 non v' giurisdizione se non v' sovranit anche nelle ipotesi in cui all'epoca dell'aziof i ' ne criminosa il Jocus commissi delicti fosse territorio italiano. Con il terzo motivo il I P.M. sostiene -dandone precisa dimostrazione sia con l'indicazione dei capi d'accusa, integralmente riportati, sia nel punto 4, nel quale richiama le fonti di prova -la natura di reati contro l'umanit (secondo l'accezione normale che l'espressione ha nel I diritto internazionale) dei fatti commessi dagli imputati, invocando per tal motivo la pienezza della giurisdizione italiana. I I ! PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 327 applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dei cittadini croati Motika Ivan e Piskulic Oscar, indagati per l'uccisione dei cittadini italiani in Istria, Fiume e Dalmazia negli anni 1943-1947, rilevando in primis il difetto di giurisdizione del giudice italiano e, in ogni caso, l'insussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, tali da giustificare l'emissione del prowedimento restrittivo della libert personale, anche in considerazione del lunghissimo tempo trascorso dalla data di commissione dei reati. Presupponendo una simile pronuncia una valutazione di elementi di giudizio che coinvolgono necessariamente il merito della causa ed inducendo tale decisione a ritenere che all'esito dell'udienza preliminare si perverr ad una sentenza di proscioglimento; non sussiste pi in capo al giudice designato, adawiso della parte istante, quella serenit di giudizio e quella imparzialit che sono alla base della funzione giudicante. 2 -LA RICUSAZIONE Sulla vicenda sono molti i punti che meritano l'attenzione del giurista per l'intreccio che si verificato fra norme processuali e norme penali: attengono infatti alle prime le problematiche della terziet del giudice, cardine sul quale si regge il giusto processo voluto dal legislatore del 1987 e del 1988 ed a garanzia del quale posto il capo VII del titolo I del libro I del codice di procedura penale, che inizia con quell'art. 34 bersaglio di numerosissime decisioni della Corte Costituzionale che ne ha dichiarato pi volte l'insufficiente copertura del principio di terziet e sul quale sono incentrate sia la richiesta di ricusazione sia l'ordinanza della Corte d'Appello. Attengono invece alla normativa sostanziale le questioni affrontate dal giudice delle indagini preliminari sui limiti spaziali della legge penale, sul conseguente c.d. principio di effettivit della giurisdizione esposto in sentenza e sull'interpretazione che in tal modo stata data dell'art. 6 del codice penale. Entrambi, poi, i problemi che scaturiscono dai due sistemi normativi sono strettamente connessi, poich le ragioni che avevano portato talune delle parti civili alla richiesta di ricusazione scaturivano non tanto dalla dichiarazione di carenza di giurisdizione in sede di provvedimento cautelare, quanto, forse, dalla constatazione che tale dichiarazione, contenuta in un provvedimento che avendo negato la misura cautelare aveva comunque deciso nel merito, appariva inutiliterresa o, peggio ancora, superflua. Ci tanto pi se si tiene presente il singolare modo, con il quale in quel provvedimento si passava all'esame del merito. Recita infatti l'ordinanza cautelare Sempre nell'ipotesi in cui si dovessero ritenere superabili (da chi, se chi scrive il giudice che deve emettere il provvedimento? n.d.r.) i pregiudiziali rilievi svolti in punto di procedibilit vanno ...... disattesi gli argomenti che il P.M. adduce a sostegno delle esigenze cautelari. Questo , certamente, un aspetto abnorme del modo in cui la questione stata trattata, perlomeno nella prima fase delle indagini preliminari. Non corrispondeva a nessuna esigenza processuale infatti che il GIP affrontasse, senza darvi coerente seguito, una questione di giurisdizione, negandola e, al contempo, giudicando! La stessa impressione di mera esercitazione accademica potrebbe suscitare sia l'impugnazione del P.M. che la successiva decisione del Tribunale del riesame (che afferm la giurisdizione e respinse nel merito l'appello) se non trovassero giustificazione in una sorta di opportuno tuziorismo. per questo che nella discussione innanzi alla Corte d'Appello la difesa delle Amministrazioni costituite parti civili aveva sostenuto che fosse fondata la ricusazione con riferimento all'ipotesi prevista dalla lettera c) dell'art. 36 c.p.p. (il giudice pu esse RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 328 La difesa, pur ammettendo che non si versa nel caso in esame nelle ipotesi di incompatibilit sancite dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale relativamente alla figura del G.I.P., rileva che nella fattispecie dovrebbe ritenersi, comunque, sussistente una condizione d'incompatibilit, in quanto il provvedimento emesso dal G.I.P., proprio per il suo particolare contenuto, assumeva il significato di una vera e propria decisione di merito. In particolare, avendo la sentenza n. 432/95 della Corte Costituzionale dichiarato l'illegittimit costituzionale dell'art. 34 nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio dibattimentale il G.I.P. che abbia applicato una misura cautelare nei confronti dell'imputato e dovendosi intendere per giudizio, in base alle precisazioni contenute nella sentenza n. 401/91 della Corte Costituzionale, ogni processo che, in base ad un esame delle prove re ricusato se... ha manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali). Premesso infatti che un provvedimento di giudice deve contenere esclusivamente la motivazione funzionale al dispositivo e che, per quanto ricca ed approfondita possa essere, certamente non pu intrattenersi su altri temi, ultronei e non pertinenti, era stato affermato appunto che la opinione manifestata dal GIP in quella sede circa una carenza di giurisdizione che pur tuttavia non gli aveva impedito di decidere nel merito, opinione che non era necessaria, a tali effetti, esporre nemmeno in via incidentale, costituiva in sostanza parere manifestato fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali. Non basta invero, ad evitare il rigore della norma che vuole per quanto possibile il giudice imparziale ed emotivamente neutro, la constatazione che la sua opinione era stata espressa in un provvedimento giudiziario, poich non questione di contenente, ma di contenuto, quella che il legislatore ha inteso disciplinare nell'ipotesi indicata. Ritenere altrimenti significherebbe da un lato accettare nei provvedimenti del giudice manifestazioni di pensiero extra ordinem e, dall'altro, limitare, contro la ratio legis, le ipotesi di astensione e di ricusazione. L'ordinanza della Corte d'Appello invece muta sul punto, che pur tuttavia avrebbe meritato attenzione e ci tanto pi che stato lo stesso giudice di secondo grado a rilevare implicitamente l'abnormit della situazione, laddove afferma che nella fattispecie il GIP, come si evince dalla motivazione del prowedimento con il quale ha respinto la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti degli imputati, si solo soffermato a prospettare in via preliminare un possibile difetto di giurisdizione, senza, tuttavia, rilevarlo espressamente, con conseguente trasmissione. degli atti al P.M., spiegando, poi, le ragioni che lo hanno indotto a non accogliere la richiesta formulata dal P.M.. Sembra evidente che nella penna dell'estensore era rimasta una domanda: a che pro quella prospettazione? La conclusione cui a prescindere da questa osservazione perviene l'ordinanza della Corte d'Appello conseguenziale applicazione dell'indirizzo della Corte Costituzionale in materia, indirizzo che stato posto a base dell'accurata motivazione. noto infatti che, a fronte di una sorta di bombardamento a tappeto contro l'art. 34 c.p.p. la Corte Costituzionale ha posto un limite, sancendo pi volte che la previsione dell'incompatibilit del giudice finalizzata ad evitare che possa essere, o apparire, pregiudicata l'attivit di giudizio>> e che tale connotato non ravvisabile nella partecipazione all'udienza preliminare, giacch in tale sede il giudice non chiamato ad esprimere valutazioni sul merito dell'accusa, ma solo a verificare, in una delibazione di carattere pro PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 329 pervenga ad una decisione di merito, l'eccepita incompatibilit dovrebbe essere ritenuta sussistente applicando in via analogica le disposizioni di cui alle citate sentenze. Ulteriore motivo di ricusazione sarebbe costituito dalla circostanza che il dott. Macchia avrebbe manifestato il proprio parere sull'oggetto del procedimento fuori dall'esercizio delle sue funzioni giudiziarie e precisamente nel contenuto della querela per diffamazione da lui presentata nei confronti del giornalista Marzio Mian che, nello scrivere un articolo che trattava della questione delle foibe, oggetto del procedimento dinanzi al suddetto magistrato, aveva collegato le decisioni prese dal dott. Macchia alle sue convinzioni ideologiche, trascurando di valutare le motivazioni che lo avevano portato ad emettere il prowedimento di rigetto della misura cautelare ed offendendo, cos, il suo onore e la sua reputazione. cessuale, la legittimit della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, ci che non costituisce attivit di giudizio inteso come, attivit preordinata alla decisione di merito sull'oggetto del processo (ord. nn. 24, 232, 279, 333 e 410 del 1996). Lo stesso giudice delle leggi aveva osservato altre volte ( ord. n. 97 del 1997, n. 24 del 1996) che non avrebbe potuto portare a diversa conclusione l'elemento della modifica legislativa concernente la soppressione del termine <> nell'art. 425 del codice di procedura penale, in quanto l'ampliamento dell'ambito valutativo ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, non modifica, comunque, la funzione assegnata, nel disegno del codice, all'udienza preliminare, nella quale il giudice chiamato a compiere un apprezzamento che non si sviluppa secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento, secondo una valutazione, dunque, nettamente distinta, per struttura, funzione ed effetti, dal giudizio sul merito dell'accusa (v. anche, la sentenza n. 71 del 1996 stessa Corte Costituzionale). 3 -LA GIURISDIZIONE Sul problema della giurisdizione, il GIP, con una lunga ed articolata motivazione, che in gran. parte riprende quella della sua precedente ordinanza, nella quale peraltro non ne dichiar il difetto, ha sostenuto che, costituendo il territorio, la sovranit e la giurisdizione concetti interdipendenti ed inseparabili fra di loro, alla riduzione del territorio consegue la corrispondente cessazione della sovranit e della giurisdizione ed cos giunto alla conclusione che, nonostante il tenore dell'art. 6 c.p., il reato potr ritenersi commesso nel territorio dello Stato nel solo caso in cui il locus commissi delicti vi risulti compreso quando il reo debba essere punito secondo la legge italiana. Per affermare ci il GIP si awalso di una lontana ( 1949 Schwend) sentenza delle Sezioni Unite, citandone alcune altre a cavallo degli anni 50 e 60 e criticando dettagliatamente una decisione di segno opposto delle Sezioni Unite del 1956 (Salomone) cui nega in sostanza valore di precedente significativo in quanto, a suo dire, fortemente di confine per l'epoca, la specie e le peculiarit di fatto e di diritto. Quanto al genocidio, la sentenza ne ha dichiarato, come si legge, l'insussistenza in applicazione del principio del nullum crimen sine praevia lege. Non sembra che tale decisione possa condividersi in nessuno degli aspetti esaminati. Quanto all'interpretazione letterale -la prima che il giurista ha l'obbligo di considerare -il Tribunale del riesame aveva esattamente affermato non potersi sostenere che i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduto ad RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 330 Infine rilevava che, avendo il Mian, rinviato a giudizio per diffamazione, scelto come difensore lo stesso awocato che difendeva la Cemecca nel procedimento pendente dinanzi al dott. Macchia, tale situazione di fatto toglieva inevitabilmente al G.I.P. la dovuta e necessaria imparzialit di giudizio. L'istanza di ricusazione , ad avviso di questa Corte, manifestamente infondata. In via preliminare occorre rilevare che analoga dichiarazione di ricusazione, fondata sulle medesime argomentazioni di diritto, stata gi presentata dal difensore della Cemecca in data 17 luglio 1997 ed stata respinta da questa Corte con ordinanza del 18 luglio successivo, ordinanza awerso la quale stato proposto ricorso per cassazione. Questa Corte non sarebbe, quindi, tenuta a riesaminare le argomentazioni di diritto poste a sostegno della precedente istanza e ritenute infondate, ma ritiene, tuttavia, di dover svolgere alcune considerazioni. altro Stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero con conseguente cessazione della giurisdizione italiana, perch nessuna norma, interna o internazionale, prevede che l'applicabilit della legge penale italiana ai sensi dell'art. 6 c.p., sia soggetta a condizione risolutiva per il caso che il Jocus commissi delicti sia trasferito successivamente ad altro Stato. In effetti, difficile superare la forza delle argomentazioni basate sull'esame del dettato legislativo: quando, dopo la premessa del I co., l'art. 6 afferma che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione e l'omissione che lo costituisce ivi avvenuta in tutto o in parte ovvero si verificato l'evento che ne la conseguenza, sembra proprio che debba desumersi che il punto di riferimento per la giurisdizione italiana sia soltanto quello, cristallizzato nel tempo con l'uso preciso dell'avverbio quando del momento delle condotte o dell'evento descritto. Il tenore della norma non sembra consentire il raccordo che il GIP definisce diacronico (termine mutuato dalla linguistica, ma dall'estensore della sentenza esteso alla scienza del diritto) con un tempo successivo che la legge avrebbe pur tenuto presente e nemmeno un raccordo sincrono, (ius dicere e ius puniendi sincronicamente presenti, come in definitiva il GIP pretenderebbe) poich, molto pi semplicemente, dire il diritto ed applicare la sanzione sono due aspetti connessi a tutto il sistema giuridico e pur cosi diversi (basti pensare alla somma distinzione: accertamento e condanna, cognizione ed esecuzione, ecc.) che non ragionevole pensare che il legislatore, proprio nel momento saliente della definizione dei criteri di applicazione cfel diritto penale italiano, abbia peccato di superficialit, omettendo di aggiungere purch territorio italiano sia anche quando si procede a carico del reo o espressione analoga, o abbia inteso quell'Ǐ punito secondo la legge italiana come se vi fosse aggiunto purch il territorio sia ancora dello Stato. Cosi scarsa attenzione alla distinzione sarebbe stata dimostrata da quello stesso legislatore che, quando ha ritenuto di doversi riferire alla fase dell'esecuzione, all'esercizio effettivo dello ius puniendi, lo ha detto univocamente: a cos'altro si riferisce, infatti la condizione della presenza del reo nello Stato (artt. 9 e 10 c.p.) cui subordinata la sua punizione? Anche argomenti desumibili dal sistema del nostro diritto penale e dalla ratio legis militano a favore del permanere della giurisdizione. Nella sentenza invero si afferma che l'art. 6 non fa riferimento alla sovranit del tempo della commissione del fatto illecito, ma alla sovranit del tempo in cui l'interesse statale italiano alla repressione, sia in tutte le sue fasi che in una fase soltanto, si manifesta. PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 331 Premesso che la nuova domanda deve ritenersi tempestivamente proposta essendo stata presentata prima della scadenza dei termini previsti dall'art. 38 -1 comma c.p.p., si osserva in via preliminare che le ipotesi di ricusazione configurano delle norme eccezionali in quanto limitative del1' esercizio del potere giurisdizionale ed in particolare della normale capacit del soggetto titolare dell'ufficio ed operanti una ingerenza in una materia attinente al rapporto fra Stato e giudice e di conseguenza sottratta alla disponibilit delle parti e dello stesso giudice. Ne consegue che i casi di ricusazione sono tassativi e, non solo nel senso che non possono essere applicati in via analogica, ma anche nel senso che la stessa interpretazione deve essere soltanto letterale, con esclusione di quella estensiva (cfr. Cass. pen. sez. II -18 giugno 1992). Va, poi, puntualizzato che la Corte Costituzionale ha sancito, con la sentenza n. 432/95, solo l'incompatibilit a partecipare al dibattimento del G.1.P. Quest'ultimo articolo, per, interpretato cos non avrebbe ragione d'essere, in quanto coinciderebbe con l'art. 3 dello stesso codice, e ne costituirebbe allora un inutile duplicato. L'art. 3 del codice penale, infatti, statuisce che la legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, significando tale obbligatoriet sia il dovere di non violare tali norme, sia la condizione di sottostare alle conseguenze della loro violazione ed ai mezzi per applicarle (col processo). Lo stesso significato attribuito all'art. 6 c.p. dall'interpretazione esposta in sentenza: quale sarebbe perci la differenza fra i due articoli? Il primo accertamento che il giudice deve effettuare consiste nell'individuare il luogo dove stato commesso il reato e, nel caso esaminato, tale luogo era certamente in Italia. Inoltre, il giudice deve individuare conseguentemente la legge applicabile e tale legge non pu che essere quella italiana. Questo il vero ed unico significato attribuibile al 1 e 2 comma dell'art. 6 c.p.l Collegare, sul piano della sua legittimazione, l'esercizio della giurisdizione penale come espressione massima della sovranit dello Stato rivolta a tutelare l'ordinato vivere del corpo sociale che nello Stato opera, con la concreta possibilit dell'esecuzione delle sentenze, con la conseguenza che, non essendovi tale possibilit di disciplina sociale, non vi sarebbe base, ragione e Stato, affermazione tanto infondata quanto fuorviante. Se dovesse ritenersi valida tale affermazione basterebbe osservare che, tra gli altri possibili esempi, l'art. 9 c.p., consentendo la esercibilit della giurisdizione in presenza di una richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia ( il caso dell'omicidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ovvero dei cos detti desaparecidos in Argentina, per i quali vi stata appunto richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia) non per questo assicura la successiva realizzabilit in concreto della pretesa punitiva dello Stato. appena il caso di ricordare, in proposito, che la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia o, per altre fattispecie, la querela della persona offesa, si pone come sola condizione di procedibilit e non gi come condizione di sussistenza della giurisdizione dello Stato. Dunque, la scelta legislativa di fondo che emerge dal codice penale vigente non quella della stretta territorialit della giurisdizione, poich nei casi considerati e nel caso in oggetto la pretesa punitiva in concreto dello Stato si realizza attraverso lo strumento proprio dell'estradizione che, per quanto ora interessa, verrebbe privato di ogni significato in conseguenza della sostanziale inesistenza di tutte quelle disposizioni del codice 332 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO che abbia emesso un provvedimento in tema di libert, dichiarando, con altre pronunce (cfr. Ord. n. 24/96 e n. 97/97) manifestamente infondata l'eccezione di legittimit costituzionale dell'art. 34 c.p.p. nella parte in cui non prevede che non possa celebrare l'udienza preliminare il giudice che abbia ordinato al P.M. di formulare l'imputazione o che abbia applicato una misura cautelare nei confronti dell'imputato. In particolare nella prima ordinanza la Corte ha precisato che l'imparzialit del giudice non pu dirsi in via generale intaccata da una qualsiasi valutazione gi compiuta nello stessa fase del procedimento, intesa questa come una ordinata sequenza di atti ciascuno dei quali prepara e condiziona quelli successivi, giacch inevitabile che ogni provvedimento istruttorio possa implicare una delibazione del merito allo stato degli atti. Se si dovesse ritenere altrimenti, ne deriverebbe un'assurda frammentazione del procedimento, con l'attribuzione di ciascun segmento di esso ad un giudice diverso. penale che prevedono condizioni e requisiti per la esercitabilit della giurisdizione nazionale italiana. Se vero che, per rimanere all'esempio, la richiesta del Ministero di Grazia e Giustizia si pone come condizione di procedibilit, proprio questo conferma la sussistenza della giurisdizione fuori da ogni criterio di collegamento territoriale persistente nel tempo, con tutte le abnormi conseguenze che da essa promanerebbero. Ribadita la natura di mera condizione di procedibilit della richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia, appare ben strano ammettere l'esercitabilit della giurisdizione per delitti posti in essere in territorio mai sottoposti alla sovranit italiana (Argentina) o commessi su territori gi da molto tempo sottratti alla sovranit italiana (Somalia), e negarla invece per delitti commessi nel momento in cui i territori dove avvennero erano sotto la nostra piena sovranit. in questa prospettiva che acquista ulteriore conferma l corretta interpretazione dell'art. 6 c.p., secondo cui la giurisdizione penale italiana va individuata non soltanto ratione loci, ma anche ratione temporis, dovendosi avere riguardo al momento della commissione del delitto. L'interpretazione fondata sulla lettera e sulla ratio legis, il coordinamento sistematico delle norme del codice penale perci non consentono la conclusione cui arriva la sentenza in nota, nemmeno inoltrandosi sul terreno sul quale, sia pur con argomenti raffinati, si azzardato il GUP. Sostenere che il diritto penale, a differenza degli altri diritti sostanziali, non esiste senza il processo o meglio che l'illecito penale si materializza solamente attraverso l'accertamento processuale, tesi estrema che esaspera alcune caratteristiche del processo penale, ma non acquista credibilit. vero che la legge processuale penale ha carattere di strumentalit necessaria rispetto al complesso delle norme incriminatrici, nel senso sotteso al noto brocardo nulla poena sine iudicio e che il processo costituisce l'unico sbocco fisiologico per il diritto penale sostanziale (cos A. CRISTIANI -Legge processuale penale, in Enciclopedia giuridica Treccam), ma resta ferma non solo la distinzione fra precetto e applicazione processuale della sanzione, ma soprattutto la realt fenomenica della condotta criminosa e dell'evento connotato di illecito penale: basti pensare alla possibilit di risarcimento civile dei danni non patrimoniali, pur in assenza di accertamento processuale del reato. Mai come in questo caso vale la prudenza del cave a consequentiariis, a evitare che un brivido agghiacciante percorra la schiena di chi volesse arrivare per tal via a concludere che nessun omicidio, nessuna tortura, nessun infoibamento, di morti e di l vivi, nessuna deportazione fu mai commessa in quei territori! I ! f PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 333 Nella seconda ordinanza ha affermato che poich l'incompatibilit finalizzata ad evitare che possa essere o apparire pregiudicata l'attivit di giudizio, tale connotato non ravvisabile nella partecipazione all'udienza preliminare, in quanto in tale sede il giudice non chiamato ad esprimere una valutazione sul merito dell'accusa, ma solo a verificare, in una delibazione di carattere processuale, la fondatezza o meno della pretesa del P.M. di ottenere il vaglio dibattimentale e la legittimit della domanda di giudizio formulata dalla pubblica accusa. Per tali considerazioni l'udienza preliminare non pu mai essere equiparata a quel giudizio che il legislatore e la Corte Costituzionale con la sentenza n. 432/95 e con le altre precedenti, in particolare quella n. 401/91, hanno ritenuto meritevole di tutela con l'istituto della incompatibilit. Proprio nella pronuncia n. 97197 la Corte Costituzionale richiamando precedenti decisioni, ed in particolare l'ordinanza n. 24/96, ha anche precisa- Quanto ai precedenti giurisprudenziali, questi appaiono ondivaghi e, laddove negano la giurisdizione, incerti e lacunosi. Innanzi tutto significativo che la decisione sulla quale fondamentalmente si basa la tesi qui contrastata, quella delle Sezioni Unite del 2 luglio 1949 (Schwend) concerneva un reato di rapina; che quella della II Sezione del 15 febbraio 1950 (Albers) che ha ravvisato la sussistenza della giurisdizione italiana in quanto il reato di collaborazione militare con il tedesco invasore stato considerato reato contro la personalit dello Stato, si limitata a richiamare, senza un rigo di commento, la precedente sentenza delle Sezioni Unite; che quella delle Sezioni Unite del 23 febbraio 1963 (Belisari) concerneva un delitto di malversazione e che ha sostenuto il difetto di giurisdizione si trattava in quel caso di stabilire se il giudice italiano potesse giudicare di una impugnazione proposta contro sentenza di un tribunale non pi italiano -affermando l'inapplicabilit del principio della perpetuatio iurisdictionis; che, viceversa, quella delle Sezioni Unite del 17 giugno 1950 (Pellarin) aveva affermato l'esatto contrario; che, infine, quella delle Sezioni Unite del 24 novembre 1956 (Salomone) relativa ad un reato di bigamia, appare, nonostante le abili argomentazioni della sentenza che si annota, tutt'altro che di confine. Si vuol dire cio, non solo che nessuna delle citate decisioni ha mai dovuto affrontare reati cosi gravi e disumani come quelli ora in esame, ma, sopratutto, che la remota traccia giurisprudenziale che prende le mosse dalla sentenza del 1949 tutt'altro che omogenea, tutt'altro che priva di contraddizioni e tutt'altro che esente da imprecisioni e lacune, di tal che non mancato un diffuso dissenso in dottrina. Quella sentenza ad esempio assume il principio di territorialit del diritto penale italiano come canone certo, tassativo ed indiscutibile, ignorando non solo le approfondite osservazioni del Procuratore Generale che aveva concluso in modo difforme, ma anche le autorevoli opinioni dottrinali contrarie ( a prescindere dalla notoriet della teoria del principio di territorialit temperata (Antolisei), v. adesso M. TRAPANI -Legge penale, limiti spaziali, in Enc. Giur. Treccani, che sostiene il principio dell'universalit del diritto penale italiano; v. il commento critico di G. MORELLI -Trasferimenti di territorio e giurisdizione penale, in Giust. Pen. 1950, III, 97). La stessa disinvolta utilizzazione dell'istituto della perpetuatio iurisdictionis per affermare e negare la giurisdizione, gi lucidamente criticata dal Morelli, indice eloquente di incertezza. Sopratutto, per, appare incompiuto il richiamo al principio generalmente riconosciuto nel campo del diritto delle genti secondo il quale al trasferimento di sovra RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 334 to che non pu indurre a diversa conclusione neppure la modifica legislativa concernente la soppressione del termine evidente dalla norma di cui all'art. 425 c.p.p., dal momento che la sentenza di proscioglimento emessa all'esito dell'udienza preliminare non pu essere equiparata ad una decisione sul merito della res iudicanda, decisione, questa, che resta caratteristica esclusiva del dibattimento, o al massimo del giudizio abbreviato. Orbene, potranno condividersi o meno il significato e la funzione attribuiti dalla Corte costituzionale all'udienza preliminare, ma non pu essere riproposta in questa sede l'eccezione di legittimit costituzionale dell'art~ 34 c.p.p. nella parte in cui non prevede l'incompatibilit a partecipare all'udienza preliminare del G.I.P. che abbia o non abbia disposto l'applicazione di una misura cautelare, dal momento che tutte le tematiche connesse a tale questione sono state ampiamente affrontate dalla Corte Costituzionale e risolte nit segue, inseparabilmente, il passaggio della giurisdizione, perch in tal modo non solo si semplifica troppo un problema pi complesso, ma, hella rigidit dell'affermazione falciante, si aprono lacune e discontinuit. Infatti se con lespressione riportata fra virgolette si fosse inteso alludere alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, si sarebbe dovuto far riferimento al sistema di immissione automatico nell'ordinamento interno ex art. 10 Cost., con la conseguenza che ogni discorso sulla interpretazione dell'art. 6 c.p. avrebbe potuto concludersi in due parole. Se invece si fosse voluto intendere quel principio come jus cogens di diritto internazionale, ogni discorso sulle deroghe pattizie -che la sentenza delle Sezioni Unite viceversa fa non avrebbe senso, visto che lo jus cogens non derogabile da trattati fra Stati (v. infatti l'art. 53 della Convenzione sul diritto dei trattati; Vienna 23 maggio 1969, L. 12 febbraio 1974 n. 192, che prevede la nullit dei trattati in contrasto con norme imperative di diritto internazionale e che, nel definire appunto le norme imperative, con disposizione all'evidenza interpretativa, cos si esprime: une nonne imprative du droit intemational gnral est une norme accepte et reconnue par la communaut intemationale des Etats dans son ensemble en tant que norme laquelle aucune drogation n'est permise et qui ne peut etre modifie que par une nouvelle norme du droit international gnral ayant le meme caractre. appena il caso di notare che non solo quel principio non ha tale carattere, ma che esso non nemmeno norma nel senso che questa assume in diritto internazionale: v., infatti, significativamente, la distinzione delle fonti del diritto nell'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia annesso allo Statuto dell'ONU, San Francisco 26 giugno 1945, L. 17 agosto 1957 n. 848 che, per comodit di consultazione si riporta: 1) la Cour, dont la mission est de rgler conformment au droit intemational ]es diffrends qui lui sont soumis, applique: a) Jes conventions intemationales, soit gnrales, soit spciales, tablissant des rgles expressment reconnues par les Etats en litige; b) la coutume intemationale comme preuve d'une pratique gnrale accepte cmme tant le droit; c) les principes gnraux de droit reconnus parles nations civilises; d) sous rserve de la disposition de l'article 59, les dcisions judiciaires et la doctrine des publicistes les plus qualifis des diffrentes nations, comme moyen auxiliaire de dtennination des rgles de droit. L'art. 59 sancisce i limiti soggettivi della decisione della Corte). C', per, un altro punto che la sentenza delle Sezioni Unite del'49 e quelle che alla stessa si sono adeguate non hanno considerato: cio il problema intertemporale, o si pu dire di diritto transitorio. Dato infatti per ammesso, per mera ipotesi, che qual principio di simultaneo passaggio della giurisdizione con la sovranit sia cogente o che, avendo dignit di norma generalmente riconosciuta, si sia verificata la sua auto PARTE I; SEZ. VI, GIURISPRUPENZA PENALE 335 nel senso della manifesta infondatezza in numerose deeisioni che sono state recepite dalla dottrina e dalla giurisprudenza della Cassazione e che nella fattispecie .non sono emersi profili nuovi e.diversi da quelli gi esaminati dalla Corte Costituzionale nelle decisioni espressamente richiamate nell'ordinanza n. 97/97.... ./ N pu :ndjviders:i l~ tesj della difosa. secondo la quale nella fattispecie il g:i;)Jd;ie, rilevando in via.preliminareil.ditettodi giur;isdizione del giudice italiano1;.. avrebbe comunque emesso .una pronuncia che. investiva il merito della causa. . . . Alri~ardo occorre premettere che, ai sensi dell'art 20 c.p.p., il difetto di giurisdiziOne rilevato anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento; che se rilevato nel corso delle indagini preliminari il giudice, in base al rinvio che la disposizione dell'art. 20 c.p.p. fa all'art. 22 c.p.p., pronuncia matica immissione nlilll'ordinamento italiano; non pc::r ci solo pu dirsi che esso operi anche per i casi in cui la sovranit dello Stato sul tenitorio sia: cessata dopo la commissione di un reato; Quelprlneipio .infatti, dato per esisteJilte, non pu essere esteso a fattispecie di questo tipo in cui il momento 4i collegamento con l'ordinamento interno si era giralizzato quando sul tenitorioJoStato aveva ancora sovranit, se vero che ilpotere dijus dicere sorge per una condotta. criminosa e da quando questa si realizza. Per converso, la: sentenza delle.Sezioni Unite del 24 novembre 1956, sopracitata, che andata in.contrarlo avviso, co.ntiene delle affermazioni di principio che mal si conciliano con la definizione; che:: il GIP ne ha dato, di decisione di confine come questa, conclusiva, .che val la pena di.riportare: ll problema investe il punto se un reato, gi punibile incondizionatw:nente.till'epoca della sua commissione, resti tale nel caso cheil territorio su cui fu consumato diventi estero; in altri termini, se illocus commissi delicti posscontin.uare a ritenersi tale nei confronti dell'ordinamento giuridico penale, nonostante ]avvenuto mutamento di sovranit sul territorio in cui l'illecito venne commesso; Fissato il quesito nei termini anzidetti, le Sezioni Unite ritengono che ai fini dell'assoggettabilit tille norme punitive italiane, giusto il disposto ex art. 3 c.p.; bisogna tenrerconto del rapporto &sovranit vigente sul territorio all'epoca della commissione del reato, Eventuali spostamenti trritoriali, in seguito verificatisi, non impediscono che la pretesa punitiva statale, sorta nel momento stesso in cui l'illecito venne commesso, sfspieghi nel modo pi ampio ed incondizionato. Come si vede, l'affermazione di principio; anche se riferita ad un caso di bigamia avvenuto nella zona B del territoriO di Trieste; .ma ci a maggior ragione importante poich evidente l'influenza che sull'applicazione delle norme che disciplinano i limiti spaziali (art, 3e 6 c;p;) deldirittopenaleitalianopu operare il fatto che, nel caso della sentenza che si.annota, si tratti di reati contrari alloius gentium!. Quest'ultimo aspetto; dell'incidenza sui limiti spaziali del diritto penale dei reati contro. l'umanit, certamente quello ove la sentenza del GUP pi insoddisfacente, laddove sarebbe. stato necessario affrontare pi a fondo il tema della incondizionata perseguibilit dei delitti contro l'umanit; senza limiti di tempo, n di spazio (imprescrittibilit dei reati, universalit dello jus puniendi, inesistenza del principio nullum crimen sine praevia lege, nel senso che sar chiaro di qui a poco). evidente che preliminare valutare se i fatti imputati possano considerarsi delitti che, per il modo come sono stati commessi, per l'assenza di accettabili giustificazioni (in senso tecnico di scriminanti o di cause di esclusione dell'antigiuridieit), per le atrocit documentate, per la vastit e natura del disegno criminoso, per l'elevatissimo numero delle vittime, calcolabili in centinaia, abbiano natura appunto di delitti contro l'umanit, intendendosi RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 336 ordinanza con la quale dispone la trasmissione degli atti al P.M., ordinanza che produce effetti limitatamente al prowedimento richiesto, mentre se rilevato dopo la chiusura delle indagini preliminari il giudice deve pronunciare sentenza. Ci premesso, si osserva che nella fattispecie il G.l.P., come si evince dalla motivazione del prowedimento con il quale ha respinto la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti degli imputati, si solo soffermato a prospettare in via preliminare un possibile difetto di giurisdizione, senza, tuttavia, rilevarlo espressamente con conseguente trasmissione degli atti al P.M., spiegando, poi, le ragioni che lo hanno indotto a non accogliere la richiesta formulata dal P:M.. (omissis). per tali quelli che da sempre, anche nelle antiche civilt ledevano il bene sommo tutelato dal delitto naturale e dallo ius gentium: l'uomo, la famiglia, i gruppi sociali e il loro diritto alla vita e alla libert. peraltro indiscutibile, storicamente e giuridicamente, che i fatti delle foibesiano tali e altrettanto emerge dal processo: basta leggere le carte del PM per restare inorriditi ( questo horror che alla base della reazione delle societ umane di ogni tempo che hanno da sempre reagito con l'incondizionata perseguibilit di tali condotte criminali: illuminante ricordare Lucio Anneo Floro (Epitome, 1-41, 1-3) che, narrando della guerra piratica vinta da Pompeo, scrive: i Cilici avevano invaso i mari e, dopo aver interiotto i commerci e violato i patti che legano il genere umano, avevano ostacolato la navigazione con la guerra quasi come la tempesta! ed anche allora la giurisdizione, I'imperium, fu applicato senza limiti di spazio, con la lex Gabinia del 64 a.C.!). Questi tipi di reato, caratterizzati come sono da una perseguibilit senza limiti e condizioni, non hanno bisogno di alcuna previsione.espressa negli ordinamenti interni degli Stati, bastando che consti della loro natura: significative a tal proposito le norme di diritto internazionale, tutte ispirate alla perseguibilit incondizionata, talmente senza eccezione per gli Stati e per le loro organizzazioni, da doversi riconoscere che qui effettivamente ci si trova di fronte ad uno jus cogens secondo la precisa definizione dell'art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sopra riportata. Ed infatti il patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York 16 dicembre 1966, L. 25 ottobre 1977 n. 881) stabilisce all'art. 5, secondo comma che nessuna restrizione o deroga ai diritti fondamentali dell'uomo o vigenti in qualsiasi Stato parte del presente patto in virt di leggi, convenzioni, regolamenti o consuetudini, pu essere ammessa col pretesto che il presente Patto non li riconosce o li riconosce in minor misura. A sua volta l'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libert fondamentali (Roma, 4 dicembre 1950, L. 4 agosto 1955 n. 848) afferma che Nessuno pu essere condannato per un'azione od omissione che, nel momento in cui stata commessa, non c9stituiva reato secondo la legge nazionale o intemazionale. Parimenti non pu essere inflitta una pena pi grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato stato consumato significativamente aggiungendo nel secondo comma, che il presente articolo non vieter il giudizio o la punizione di una persona colpevole di una azione od omissione che, al momento in cui stata commessa, era ritenuta crimine secondo i principi generali del diritto riconosciuto dalle nazioni civili. Tale norma espressamente ribadita dall'art. 15 del Patto internazionale di New York del 1977 succitata, che a sua volta cos si esprime Nessuno pu essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commes PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 337 IL (omissis) Una meditata disamina dei profili di diritto che ruotano attorno ai fatti posti a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio, inducono questo Giudice a ritenere nella specie all'evidenza sussistenti i presupposti per procedere alla immediata declaratoria di non doversi procedere a norma dell'art. 129 c.p.p., obbligatoriamente da adottarsi in ogni stato e grado del processo e del tutto compatibile con lo stadio raggiunto dal procedimento (Cass., 3 maggio 1991, Giambartolomei; Cass., 5 ottobre 1993, Rendina; Cass., 28 giugno 1995, Sculli). I fatti cui si riferisce la richiesta di rinvio a giudizio sono indicati dal requirente come avvenuti rispettivamente in Gimino e Pisino dopo 1'8 settembre 1943 ed in Fiume nel maggio del 1945: localit, dunque, da lunghissimo tempo assoggettate alla sovranit di altro Stato. Pregiudiziale appare pertanto, a parere di questo Giudice, verificare se l'ipotesi dedotta -invero del tutto peculiare -possa ritenersi o meno compresa nell'ambito di operativit dell'art. 6 c.p. Al riguardo deve ritenersi del tutto condivisibile la tesi affermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in una pronuncia, per forza di cose lontana nel tempo, secondo la quale i reati commessi su parte del territorio nazionale, successivamente ceduta ad altro Stato, devono considerarsi come commessi in territorio straniero, e pertanto cessa per essi la giurisdizione italiana (Cass., Sez. un., 2 luglio 1949, Schwend). In tale sentenza la Corte osserv che nel campo del diritto internazionale generalmente riconosciuto il principio secondo il quale la cessione di territorio, in se, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Cos pure, non pu essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena pi lieve, il colpevole deve beneficiarne. Nulla nel presente articolo preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi individuo per atti od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto riconosciuti dalla comunit delle nazioni. La conseguenza che se ne trae, che non esiste per questo tipo di reati il divieto della retroattivit fondato sul canone del nullum crimen sine praevia lege riferito alla necessit di una previsione da parte dell'ordinamento statale della fattispecie penale, poich i reati contro il genere umano sono tali da sempre, da quando esiste la societ degli uomini, sono tali per diritto naturale, per imprescindibili esigenze dell'umanit. Da questo punto di vista si pu anzi dire addirittura che il concetto della retroattivit non tanto mal posto, quanto che il principio non violato, perch da sempre il diritto naturale, lo ius gentium, il diritto internazionale previdero e punirono quelle condotte. Da qui la natura interpretativa delle norme successive, da qui anche la validit della tesi che sostiene la natura interpretativa della legge che ha punito il genocidio, da qui in fondo l'indifferenza della sussunzione dei crimini commessi sotto le fattispecie di omicidio plurimo aggravato o di genocidio! PAOLO DI TARSIA DI BELMONTE RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 338 forza di un atto legittimo stipulato fra Stati, opera di regola un immediato trasferimento di sovranit, con i diritti afferenti, sui luoghi ceduti: e con la sovranit fa pure passaggio la giurisdizione che, essendo per sua natura potest sovrana, non pu appartenere se non allo Stato subentrante nel dominio del territorio. Territorio, sovranit e giurisdizione esprimono, in altre parole, concetti interdipendenti e inseparabili fra loro: il primo, invero, costituisce l'elemento oggettivo d'ordine spaziale, nella cui orbita poi s'instaura la sovranit; e di questa, la giurisdizione si afferma come uno dei massimi attributi. Cosicch verificandosi una modificazione in senso restrittivo del territorio, consegue ipso iure la cessazione della sovranit sulla parte perduta, e, per ci stesso, viene a cessare l'esercizio della funzione giurisdizionale. Una regola, questa, soggiunse conclusivamente la Corte, alla quale pu eccezionalmente derogarsi per un accordo internazionale che ponga in essere -come storicamente awenuto in talune ipotesi -una delegazione di giurisdizione, in virt della quale lo Stato cessionario consente a cedere, di solito transitoriamente, l'esercizio della potest giurisdizionale in rapporto ad affari giudiziari gi sorti owero a delitti gi awenuti sul territorio, oggetto della cessione, in epoca antecedente alla medesima. L'indicata e condivisibile tesi fu, per la verit, non soltanto resistita da una parte della dottrina dell'epoca ma anche contrastata, quanto meno nell'affermazione del principio di diritto, da altra successiva pronuncia della stessa Corte (Cass., sez. un., 24 novembre 1956, Salomone): ma se si pone nel dovuto risalto la particolarit del caso di specie devoluto all'attenzione del giudice di legittimit (si trattava di una ipotesi di bigamia scaturita da un matrimonio celebrato in Pinzano d'Istria il 20 giugno 1950) e, soprattutto, l'epoca della pronuncia e lo sviluppo dell'iter argomentativo, risulter allora agevole awedersi di come alla massima allora enunciata debba annettersi una portata del tutto contingente e dunque tale da non consentirne l'automatica trasposizione ai fini che qui rilevano. Quanto mai significativo , infatti, l'approfondito excursus che la sentenza della Corte ebbe a compiere per delineare le vicissitudini che avevano subito dopo la fine della guerra le zone poste al confine nord-orientale del Paese e che proprio in quell'epoca avevano finalmente trovato un assetto definitivo. Osserv la'corte che, tenendo presenti il testo e le finalit proprie del trattato di pace fra l'Italia e le Potenze alleate e associate, la cessazione della sovranit italiana nell'area destinata a costituire il Territorio Libero di Trieste non venne prevista e voluta come un evento a s stante, bens come la premessa indispensabile per la realizzazione di uno scopo ulteriore, verso cui si erano concentrati i propositi delle altre parti contraenti: vale a dire la creazione in quella predeterminata area territoriale di una nuova entit sovrana, dotata di struttura e funzione sue proprie, e internazionalmente vitale. Per quanto la cessazione della sovranit italiana venisse formalmente prevista per la data di entrata in vigore del trattato (15 settembre 194 7), in realt la fine dello status giuridico anteriore doveva coincidere con l'assunzione delle funzioni sovrane da parte del PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE Governatore. Poich non fu possibile, a causa delle molteplici complicazioni insorte, dar vita alla progettata entit territoriale, internazionalmente autonoma e funzionante, evidente -osserv la Corte -che l'assetto giuridico del territorio continu ad essere quello stesso instaurato dopo l'armistizio, e che era stato mantenuto in vita, in previsione della nomina e della entrata in funzione dell'ufficio del Governatore. In definitiva, quindi, l'intera zona che avrebbe dovuto costituire il futuro Territorio Libero di Trieste continu ad essere soggetta al precedente regime di occupazione militare, con la sola differenza che quest'ultimo si trasfer da un clima di armistizio in una situazione intersoggettiva di pace, come d'altra parte starebbe a confermare il preambolo del Memorandum di intesa 5 ottobre 1954, ove testualmente si precisava che a partire dalla fine della guerra i governi del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Jugoslavia, avevano mantenuto, rispettivamente nelle zone A e B del Territorio Libero di Trieste occupazione e governo militare, con parallele responsabilit di carattere temporaneo. La Corte ritenne quindi assai dubbio che proprio attraverso quel Memorandum si fosse inteso procedere all'assegnazione in piena sovranit all'Italia e alla Jugoslavia rispettivamente delle zone A e B del Territorio Libero di Trieste, parendo piuttosto che le parti intervenute si fossero prefisso unicamente di provvedere al regolamento amministrativo delle due zone contrapposte, sostituendo al regime di occupazione militare, gi esercitata dal Regno Unito e degli Stati Uniti nella zona A e dalla Jugoslavia nella zona B, un regime di amministrazione a carattere civile, affidata per la prima di tali zone all'Italia e per l'altra alla Jugoslavia. Orbene, osserv la Corte, se nell'intera area destinata a formare il futuro Territorio Libero rimasero immanenti la sovranit e la parallela potest di imperio dello Stato Italiano, da ritenere che in entrambe le zone del territorio, assegnate ad occupanti diversi, le norme punitive, previste dall'ordinamento italiano, continuassero a sprigionare senza restrizioni di sorta la propria efficacia cogente, sicch -concluse la Corte -per ogni eventuale infrazione di carattere penale, commessa in quelle zone da cittadini italiani, sorgeva incondizionalmente a favore dello Stato italiano la corrispondente pretesa punitiva. Da qui l'enunciazione del principio che, ai fini della assoggettabilit alle norme punitive italiane, giusta il disposto dell'art. 3 c.p., bisogna tener conto del rapporto di sovranit vigente sul territorio, all'epoca della commissione del reato. Una sentenza, quindi fortemente di confine per l'epoca, la specie, e le peculiarit che avevano contraddistinto le vicissitudini territoriali di quegli anni e per di pi ricondotta ad un parametro normativo, quale quello delineato dall'art. 3 c.p., concettualmente non del tutto sovrapponibile alla disciplina dettata dall'art. 6 c.p.. In quest'ultima previsione, infatti, a parere di questo Giudice, il riferimento spaziale al territorio dello Stato deve ritenersi diacronicamente raccordato alla insorgenza del rapporto punitivo, proprio perch entrambi i termini che vengono qui in discorso sono in s espressivi RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 340 della sovranit, la quale ultima pu essere apprezzata soltanto nel momento stesso in cui chiamata concretamente a dispiegarsi. Una configurazione, dunque, necessariamente dinamica che impone di valutare la sussistenza del requisito della territorialit in simmetrico e contestuale collegamento con l'esercizio dello ius puniendi. La dimensione del paradigma, pertanto, necessariamente si processualizza, non diversamente da ci che accade per l'intero corpo del diritto penale che, a differenza dell'illecito civile, non pu vivere senza il processo: il processo penale, stato autorevolmente ed incisivamente affermato, non Servo (muto o loquace) del diritto sostantivo, ma il suo socio paritario: il momento concettuale a partire dal quale il diritto penale si esprime come diritto il momento storico in cui il processo attiva i suoi meccanismi . Ci equivale a dire che il reato potr ritenersi commesso nel territorio dello Stato soltanto nel caso in cui il Jocus commissi delicti vi risulti compreso nel momento in cui un determinato soggetto deve essere punito secondo la legge italiana. D'altra parte, ove cos non fosse, si assisterebbe ad una sorta di bizzarra prorogatio di sovranit sui territori ceduti che perdurerebbe sine die nelle ipotesi di reati imprescrittibili, in aperta antinomia con le fondamentali regole del diritto internazionale, con le fonti di rango pattizio che hanno ridefinito l'assetto territoriale dopo l'ultimo conflitto e con lo stesso principio di effettivit, che nella specie assume non poco risalto, atteso il lunghissimo tempo trascorso dagli episodi oggetto di contestazione. D'altra parte, al di l delle due pronunce sin qui passate in rassegna, la restante giurisprudenza di legittimit tutta orientata in senso conforme alla tesi che qui si viene sostenendo. Cos, nella sentenza emessa il 15 febbraio 1950 dalla Sez. II della Corte di Cassazione nel procedimento Albers, si affermato che spetta al giudice italiano, in virt dell'art. 7 c.p. -che dichiara punibile secondo la legge italiana il cittadino e lo straniero che commette in territorio estero un delitto contro la personalit dello Stato -la cognizione di un reato di cllaborazione militare col tedesco invasore, commesso in territorio sul quale dopo la commissione del reato (1944) sia cessata la sovranit italiana (Pola), dovendosi i reati di collaborazionismo considerare quali reati contro la personalit dello Stato. Analogamente, si affermato che per effetto della entrata in vigore del trattato di pace, i reati commessi nei territori ceduti dall'Italia ad altri Stati, prima della cessione, devono considerarsi awenuti in territorio straniero agli effetti degli artt. 6 e 10 c.p. (Cass., Sez. un., 20 maggio 1950, Raze ed altri). Nello stesso senso, si ritenuto che sono da considerare commessi in territorio straniero i reati awenuti in luoghi gi appartenenti al territorio nazionale che, per effetto della perdita dell'ultima guerra, si son dovuti cedere a Stato estero e sono stati incorporati in esso, mentre la soprawenuta mutazione territoriale, avendo determinato perdita di sovranit, ha provocato carenza del potere di proseguire, in processo pendente, l'esercizio dell'azione penale pur correttamente promossa dall'inizio, salva l'eccezione per i delitti contro la personalit dello Stato (Cass., Sez. un., 17 giugno 1950, Formisano; v., anche, Cass., Sez. I, 12 luglio 1950, Perzan). PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE Analoghi principi sono stati affermati anche in relazione ai reati commessi in Eritrea prima della perdita di sovranit, e ritenuti pertanto punibili, ove commessi da cittadini italiani, soltanto in presenza dei presupposti previsti dall'art. 9 c.p. (Cass., Sez. III, 10 ottobre 1953, Pilolli). Nel medesimo senso si ritenuto, in altra occasione, che dopo la conclusione del trattato di pace fra l'Italia e le Potenze alleate e associate, qualora si sia avuta la cessione di una parte del territorio dello Stato ad altro Stato, cessa la giurisdizione penale italiana in relazione alla parte di territorio ceduto pure per i reati ivi commessi prima del trasferimento, tranne che trattisi di quei reati che sono puniti dalla legge italiana anche se commessi all'estero secondo le norme indicate negli artt. 7 e 10 c.p. e rispetto ai quali, agli effetti della giurisdizione, sono irrilevanti le modificazioni di carattere territoriale che riguardino il luogo del commesso reato, sempre che l'imputato si trovi nel territorio dello Stato italiano, anche se per effetto di estradizione (Cass., Sez. I, 3 novembre 1954, Soppelsa). Una linea interpretativa, quella sin qui passata in rassegna, che si ulteriormente e definitivamente consolidata nelle pi recenti pronunce adottate dalla Corte di legittimit nella sua pi autorevole composizione. Si infatti affermato che un principio generalmente riconosciuto nel diritto delle genti che, con la cessione di territorio in forza di atto legittimo stipulato fra Stati, si ha anche -salvo diversa espressa statuizione contenuta nell'accordo, come, per esempio, nel trattato dell'l 1 febbraio 1929 fra l'Italia e la Santa Sede a proposito dello Stato della Citt del Vaticano -una corrispondente e naturale sostituzione di uno Stato all'altro nell'esercizio delle funzioni statuali, e fra queste va ovviamente posta in prima linea la giurisdizione, la quale, essendo una potest sovrana, non pu appartenere allo Stato subentrante nel dominio del territorio. Alla considerazione, da un punto di vista dottrinario, della stretta interdipendenza e della inseparabilit dei concetti di territorio, sovranit e giurisdizione, si pu aggiungere del resto, sul piano pratico, che mentre lo Stato successore -ha puntualizzato la Corte - il pi indicato per l'esercizio della giurisdizione (raccolta delle prove, celebrazione del dibattimento, esecuzione), lo Stato cedente non ha pi alcun interesse alla tutela di una societ che non pi gli appartiene e la cui protezione, avverso i fatti che l'abbiano offesa o l'offendano, costituisce ormai un affare altrui. L'art. 6 del codice penale va dunque considerato -ha concluso la Corte -nella sua entit razionale, nel senso che il concetto di territorio italiano va riferito al momento della repressione, e non a quello della commissione del fatto illecito, e pertanto, perch si renda applicabile la legge italiana, occorre che il territorio in cui stato commesso il reato sia attualmente sotto la sovranit dello Stato, (Cass., Sez. un., 27 maggio 1961, Zeiner). Le identiche considerazioni sono state ulteriormente ribadite in tempi ancor pi recenti, in una occasione nella quale la stessa Corte non ha mancato di osservare come il fatto che il legislatore abbia previsto l'applicabilit della legge italiana, in eventuale concorso con la legge straniera, ad alcuni RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 342 gruppi di reati commessi all'estero dal cittadino o dallo straniero (artt. 7, 8, 9 e 10 c.p.), rappresenti una circostanza che non solo non pone in evidenza la fallacia della pi volte affermata interdipendenza e inseparabilit dei concetti di territorio, sovranit e giurisdizione, ma apporti invece alla tesi sostenuta un ulteriore contributo, poich dimostra che per potersi derogare al principio generale della assenza di giurisdizione nei confronti di fatti commessi in territorio attualmente straniero occorre una precisa norma, contenuta o in trattati internazionali o nella legislazione nazionale (Cass., Sez. un., 23 febbraio 1963, Belisari). La tesi sostenuta dalla giurisprudenza, d'altra parte, si salda appieno anche con gli argomenti sviluppati in proposito da autorevolissima dottrina, dalla quale, anzi, pare aver tratto spunti anche testuali. Si infatti incisivamente affermato che Se potesse affermarsi l'esistenza di principi giuridici universali, per essere stati riconosciuti in tutti i tempi, in tutti i luoghi, dall'universa dottrina e giurisprudenza, almeno uno non potrebbe sfuggire a tale classificazione: quello a termini del quale la pretesa punitiva a titolo territoriale, per i fatti commessi nel territorio ceduto prima della cessione, affare esclusivo dello Stato successore. Chi conducesse una accurata ricerca dottrinaria e giurisprudenziale in materia, constaterebbe che non esiste un solo precedente di rilievo in senso difforme; n in Italia, n all'estero ... Con la cessione territoriale o, meglio, con la sostituzione di una autorit ad un'altra, nei limiti di un determinato territorio, si ha una corrispondente e naturale sostituzione di uno Stato all'altro nell'esplicazione delle funzione statuali e, fra queste, nell'esplicazione della potest punitiva. La potest punitiva, infatti, non una entit astratta, ma funzionale. Essa fondamentalmente territoriale in corrispondenza all'analogo carattere della comunit statale. Essa segue, spazialmente e temporalmente, le vicende politiche del territorio, nel senso che di vlta in volta essa si connette al potere politico che domina la societ territoriale. questo il motivo per il quale, da che mondo mondo, lo Stato che subentra in un territorio punisce i fatti avvenuti prima della cessione, continua i processi iniziatisi prima della cessione, esegue le condanne pronunciate prima della cessione e cos via (salvo, naturalmente che non ritenga di mutare le leggi considerando lecito ci che era illecito e via dicendo). Ci avviene non solo perch lo Stato successore, come dominus loci, il pi indicato per l'esercizio del magistero punitivo ai fini delle prove ecc., ma soprattutto perch tale Stato che naturalmente portatore della funzione. Dico: naturalmente, perch l'interesse a proteggere la societ non una realt giuridica ma di fatto. Lo Stato cedente, viceversa, si trova ormai in una situazione assoluta di estraneit, territorialmente parlando, anche per il passato. Non essendo pi signore della societ ceduta, esso non conserva pi un interesse alla sua difesa penale o di altro genere, siano i fatti che la mettono in pericolo, passati o presenti. La protezione della societ ceduta un affare altrui. Vi sono riprove giuridiche internazionali di tale punto di vista. Se il fatto delittuoso commesso nel territorio prima del mutamento politico dan .. I PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE neggi sudditi di terzi Stati, lo Stato successore e non lo Stato cedente che internazionalmente tenuto alla repressione. C' poi una riprova che si ricava dall'inquadramento della potest punitiva dei singoli Stati nell'esigenza universale della repressione. In molti casi il mutamento territoriale coincide con l'estinzione degli Stati o dello Stato antecessore. Solo lo Stato ha la possibilit materiale pertanto di esercitare la repressione. Alla stregua di tali rilievi si quindi affermato che l'art. 6 del codice penale non va inteso alla stregua di una realt meccanica, di una realt brutale e fatale. No. una entit razionale, che trova in tale sua natura la sua spiegazione, la sua portata e i} suo valore. Come ad es. si potrebbe giustificare la repressione da parte dell'Italia, ove l'Italia, anzich Stato cedente, fosse Stato cessionario? Bisognerebbe dire: siccome al momento del fatto il territorio era estero, il delitto non si punisce. Il reo potrebbe marciare indisturbato per la penisola e sbeffeggiare la vittima. Evidentemente non questo dice e pu dire n l'art. 6 c.p., n una qualsiasi altra norma. L'art. 6 va letto in altro modo: interessato alla repressione , dal punto di vista territoriale, lo Stato italiano se ed in quanto il reato commesso nei limiti attuali della sovranit italiana. L'art. 6 non fa riferimento alla sovranit del tempo della commissione del fatto illecito, ma alla sovranit del tempo in cui l'interesse statale italiano alla rt:;pressione, sia in tutte le sue fasi che in una fase soltanto (magari la sei:nplice attuazione di un residuo di pena), si manifesta. Il concetto di territorio italiano si riferisce cio al momento della repressione, non a quello della commissione del fatto illecito. Se l'Italia acquista un territorio, pertanto, si applica anche ai fatti commessi anteriormente all'acquisto; reciprocamente, se l'Italia perde un territorio, non si applica ai fatti anteriori alla perdita. La logica una. A parte ci, l'opinione che il legislatore italiano non abbia voluto innovare sulla prassi universale, risulta dalla circostanza che nessun cenno al riguardo trovasi scritto negli atti preparatori. Una rivoluzione normativa non pot aver luogo senza consapevolezza o contrasto. Da tale coeso ordito giurisprudenziale, non disgiunto, come si visto, da autorevole avallo dottrinario, questo giudice non ritiene pertanto di doversi discostare, con l'ovvia conseguenza di imporre la declaratoria di non doversi procedere, trattandosi nella specie di reati commessi da stranieri in territorio estero ed in ordine ai quali difettano i presupposti previsti dall'art. 10 c.p. Per completezza, deve infine rilevarsi che il pubblico ministero ha motivatamente ritenuto, in punto di qualificazione giuridica dei fatti, contestabile al MOTIKA Ivan il delitto di genocidio introdotto dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962: una disciplina, dunque, entrata a far parte dell'ordinamento positivo in epoca di gran lunga successiva a quella in cui i fatti stessi risultano esser stati in via di accusa commessi. Il requirente, in sintesi, ritiene di poter superare nel caso di specie l'ostacolo frapposto dal principio di irretroattivit sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, facendo leva sulla derogabilit di quel principio alla luce di quanto previsto dal secondo comma dell'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti del RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 344 l'uomo e delle libert fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Ma un simile argomentare deve essere fermamente respinto. ben vero, infatti, che la Convenzione venne accettata dall'Italia senza riserve e che, invece, fu proprio il timore del delinearsi di un contrasto tra l'art. 7, secondo comma, della Convenzione di Roma ed il principio nullum crimen nulla poena sine praevia lege poenali, cos come configurato nell'ordinamento costituzionale interno, ad indurre il Governo della Repubblica federale tedesca a formulare una riserva, nel senso che la disposizione sarebbe applicabile nur in den Grenzen des Artikels 103 Absatz 2 GG. Ma la ragion d'essere e la portata della norma pattizia, una sua corretta interpretazione nel quadro dello strumento che viene qui in discorso ed il necessario raccordo che deve postularsi tra quella disposizione ed un principio cardine della legge fondamentale dello Stato, agevolmente convincono della assoluta impossibilit di aderire alla tesi prospettata dal requirente. La disposizione dell'art. 7, secondo comma, della Convenzione di Roma in virt della quale la regola della irretroattivit in campo penale sancita dal primo comma non ostacola il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole d'una azione o d'una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili (v. anche l'art. 15, secondo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881), mira infatti a sancire -come stato autorevolmente sostenuto -l'irrilevanza di ogni scriminante riconducibile alla pura ragion di Stato e, dunque, a consentire il perseguimento di crimini contro l'umanit che altrimenti resterebbero privi di sanzione anche dopo la scomparsa dei regimi che quei delitti hanno normativamente giustificato . Una prospettiva, quindi, ed un significato del tutto diversi rispetto a quelli che il pubblico ministero pretende di annettere alla richiamata disposizione, posto che i fatti oggetto di contestazione erano all'epoca e restano tutt'ora gravissimo delitto per l'ordinamento interno dello Stato. Accanto a ci va pure rilevato che la previsione dettata dall'art. 7, secondo comma, della Convenzione di Roma non vincola affatto -come sembra ritenere il pubblico ministero -gli Stati aderenti a derogare al principio di irretroattivit della legge penale, ma si limita a consentire agli stessi di esercitare in determinati casi il potere punitivo anche in deroga a quel principio nel quadro delle finalit che sono state dianzi delineate: una previsione, dunque, non autoapplicativa n immediatamente precettiva, ma destinata semplicemente a rimuovere in parte la regola -questa s precettiva -sancita nel primo comma, cos da affidare alle libere e discrezionali scelte degli Stati aderenti il compito di individuare l'an e il quomodo dei relativi strumenti di applicazione. D'altra parte, l'art. 60 della stessa Convenzione di Roma a stabilire che nessuna delle disposizioni della presente Convenzione pu essere interpretata come recante pregh.tdizio o limitazione ai diritti dell'uomo e alle PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 345 libert fondamentali che possono essere riconosciuti in base a leggi di qualunque Stato Contraente o da altri accordi internazionali di cui tale Stato sia parte, con l'ovvia conseguenza di impedire l'interpretazione che il requirente pretende dare del pi volte richiamato art. 7, secondo comma, per essere la stessa in dichiarata e stridente antinomia con il fondamentale diritto sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione (omissis). TRIBUNALE DI ROMA, Collegio per i reati ministeriali, decreto di archiviazione 9 ottobre 1997 nel procedimento penale nei confronti del Presidente del Consiglio Lamberto Dini ed altri, di Ministri e diplomatici vari (avv. Stato Fiumara). Trattati, convenzioni e organismi internazionali -Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM) e Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta (ACISMOM) -Posizione giuridica -Soggettivit internazionale -Riconoscimento delle prerogative della sovranit: immunit e privilegi -Ipotesi di abuso d'ufficio o di omissione di atti d'ufficio Insussistenza. (Cost., art. 10; cod. pen., artt. 323 e 328; d.P.R. 15 dicembre 1980, n. 1055; legge 23 dicembre 1978, n. 833). Non pu ritenersi abusiva o comunque illegittima sotto il proBlo penale la condotta di organi di governo che, ritenuta la qualit di soggetto di diritto internazionale del Sovrano Militare Ordine di Malta, conferita da una vicenda positiva o consuetudinaria incontestabile, hanno fatto conseguire dalla stessa quel tradizionale regime giuridico che legittimamente consegue nei reciproci rapporti fra soggetti dell'ordinamento internazionale (1). (omissis) Ritiene il Collegio che sia indispensabile, per dipanare l'intricata matassa, costituita dalle successive denunce del Di Iorio e dalle numerose memorie aggiuntive da questi presentate, sia al Collegio che al P.M., delimitare l'ambito della sua denuncia e, quindi, individuare i profili giuridici su cui la stessa si fonda. (1) Il Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM) e l'Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta (ACISMOM) nel diritto vivente in Italia. 1 -Il Sovrano Militare Ordine Gerosolimitano (cfr. la voce Ordine di Malta, in Enc. del diritto, vol. XXXI, pag. 1 e segg., e la voce Sovrano Militare Ordine di Malta, in Enc. giur. Treccani), detto prima di Rodi e poi di Malta, nacque ai tempi della prima Crociata (anno 1099 d.C.), con lo scopo di svolgere in Terra Santa da un lato attivit assistenziale e ospedaliera in favore dei pellegrini e da un altro lato attivit di difesa dei luoghi santi nei confronti dell'Islam. Esso rivendic, sin dall'origine, una propria indipendenza e sovranazionalit, resasi manifesta allorch questa fu collegata, prima, nel '300, al territorio di Rodi, e poi, nel '500, al territorio di Malta. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 346 In tale prospettiva possibile ritenere che gli assunti dell'esponente siano i seguenti: A) il Sovrano Militare Ordine di Malta (SMOM) un ente religioso, inserito nell'apparato della Santa Sede, che non dispone dei requisiti dell'autonomia, della originariet e della sovranit che, soli, attribuiscono l'attitudine ad essere soggetti di diritto internazionale; B) l'attuale riconoscimento e, quindi, il trattamento che lo SMOM riceve dallo Stato Italiano, quale soggetto internazionale (privilegi, immunit, prerogative), non ha alcun legittimo fondamento. Tale, infatti, non pu ritenersi lo scambio di note APOR-PELLA, del 1960, in quanto le stesse da un lato non possono essere considerate come atto ricognitivo di una prassi consuetudinaria esistente nei rapporti tra i due soggetti (contrastando tale ipotesi con atti e contegni precedenti), dall'altro, ove allo scambio di note volesse attribuirsi il valore di un trattato E proprio a Malta l'Ordine istitu un vero e proprio Stato, sopravvissuto territorialmente fino alla conquista francese del 1798. Con il Trattato di Vienna del 1815 l'Ordine perse definitivamente il territorio e trasfer la sua organizzazione a Roma nel 1834, nell'ambito territoriale dello Stato pontificio e poi, a partire dal 1870, in quello dello Stato italiano. Esso si stabil nei due palazzi romani di via Condotti e dell'Aventino e limit, ovviamente, e limita attualmente, la propria attivit al campo assistenziale e sanitario. Numerosissimi Stati qualificano Sovrano l'Ordine. In Italia la soggettivit internazionale dello SMOM discussa in dottrina: molti autori considerano l'Ordine un ente primario di diritto internazionale con capacit giuridica pari a quella degli Stati, malgrado la mancanza di un territorio; altri parlano di capacit giuridica internazionale limitata al campo assistenziale; altri, viceversa, negano del tutto la soggettivit internazionale. La giurisprudenza invece costante nel senso del riconoscimento di tale soggettivit: la posizione dello SMOM nell'ordinamento italiano -ha precisato Cass. Sez. Un. 26 febbraio 1993 n. 2415 (in Giust. civ. 1993, I, 2729) e cfr. anche, da ultimo, Cass. sez. II, 30 gennaio 1997 n. 944 - stata definita da queste Sezioni unite dalle sentenze 19 luglio 1989, n. 3374; 18 febbraio 1989, n. 960; 3 febbraio 1988, n. 1073; 20 febbraio 1985, n. 1502; 3 maggio 1978, n. 2051; 6 giugno 1974, n. 1653 e dalle altre ivi richiamate, con le quali stata affermata la soggettivit internazionale dell'Ordine .... 2 -Tra le istituzioni dello SMOM v' in particolare l'Associazione dei cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta (ACISMOM), il quale svolge la sua attivit prevalentemente in due direzioni distinte: un'attivit istituzionale nel campo ospedaliero e sanitario in generale, svolta come attuazione e perseguimento dei fini propri dell'Ordine, e un'attivit volta a organizzare il personale di assistenza da impiegare in caso di guerra o di calamit naturali, svolta attraverso un corpo militarizzato i cui rapporti con le forze armate italiane regolamentato da specifiche norme di legge (legge 4 gennaio 1938 n. 23). L'ACISMOM in quanto emanazione dello SMOM risente nell'ordinamento giuridico italiano della posizione giuridica che viene attribuita all'Ordine: chi riconosce a questo la soggettivit internazionale non pu che considerare anche l'associazione come ente di diritto esterno a quello italiano. Cos espressamente si pronunciata la Corte Suprema nelle sentenze citate. 3 -Conseguono alla soggettivit internazionale dell'Ordine, -sia pure limitatamente alla sua attivit funzionale in mancanza di collegamento con un territorio, una popolazione ed una organizzazione di governo in senso proprio -, le prerogative della PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 347 sarebbe stata.necessaria una ratifica dello stesso per ritenerne la vigenza nel nostro sistema giuridico ai sensi dell'art. 80 della Costituzione, il che non avvenuto. Su tali basi, pertanto, sempre secondo il denunciante, sarebbe totalmente illegittimo ed abusivo iltrattamento riservato allo SMOM (ed a_gli enti da quello promananti, inprimis l'ACISMOM), dalle pubbliche Amministrazioni ed, in particolare, dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero degli Affari Esteri, dal Ministero delle Finanze, dal Ministero della Sanit, dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, per quanto attiene ai vincoli ed oneri non applicati ed alle esenzioni, immunit e prerogative riconosciute al ridetto ordine. Entrambi gli assunti posti a base di questa ipotesi accusatoria, condivisa dal P.M;, appaiono decisamente infondati, tanto da indurre il Collegio, dopo l'espletamento delle sommarie indagini previste dal rito, alla archiviazione degli atti. sovranit, cio il riconoscimento delle immunit e dei privilegi che la consuetudine internazionale ricollega ordinariamente ad esse. In linea generale si riconosce all'ordine l'autonomia completa nell'organizzazione del proprio ordinamento interno e nell'esercizio della: propria iniziativa esterna, l'esenzione tributaria generale relativamente all'attivit concernente l'attuazione dei propri fini istituzionali, l'inviolabilit domiciliare delle sue sedi, le.prerogativedel corpo diplomatico (con i contrassegni sulle automobili, l'immunit giurisdizionale). Il tutto, pero, come si detto, nei limiti dell'attivit funzionale dell'Ordine e della sua organizzazione. Cos la Corte suprema con sentenza 5 novembre 1991, n. 11788 (in Giust. civ. 1992, I, 389), in relazione all'assoggettabilit all'INVIM decennale di alcuni terreni agricoli, ha ricordato che Ǐ acquisito da tempo alla giurisprudenza di questa Corte ... che l'Ordine di Malta, in quanto portatore di un proprio ordinamento indipendente (c.d. melitense) riconosciuto dall1talia e da altri Stati, gode nel diritto internazionale -e, quindi, anche nell'ordinamento italiano, in forza della norma di adattamento automatico sancita dall'art. 10, co. 1, Cost. -di una peculiare soggettivit funzionale alla realizzazione delle proprie finalit istituzionali (quali delineate dall'art. 2 della Carta costituzionale dell'ente) e assistita, in tale ambito, al pari di quella riconosciuta ad altre organizzazioni internazionali, da prerogative normalmente spettanti agli Stati territoriali in ragione della loro sovranit. La quale si traduce, essenzialmente, nella immunit ... dalla giurisdizione degli altri Stati ... e, quindi, dalla passivit alla potest tributaria di questi ultimi, che della giurisdizione (nell'accezione lata) costituisce uno degli attributi. ... Il carattere funzionale della soggettivit di cui fruisce il ricorrente si ripercuote sull'ampiezza della correlata immunit, nel senso che, trattandosi di soggetto conformato dai propri fini e non potendo, perci, costituzionalmente operare che per la loro realizzazione, l'immunit copre tutti i rapporti e i mezzi dell'ente che non risultino distratti dalla loro destinazione naturale e, quindi, anche quelli di marca privatistica, ancorch intrinsecamente .di contenuto neutro o promiscuo, che non esibiscano in concreto destinazioni diverse. ... Quel che rileva -conclude la Corte - la naturale funzionalit dell'attivit svolta e dei mezzi disponibili, s che, ove essi non risultino piegati al conseguimento di scopi meramente privatistici, l'immnit tributaria deve essere, in principio, riconosciuta, quale che sia lo strumento volta a volta adoperato per il soddisfacimento delle finalit pubblicistiche proprie del soggetto. E quanto all'ACISMOM la Corte suprema, pur ribadendo (Cass. Sez. Un. 26 febbraio 1993, n, 2415, loc. sopra cit.),--' in occasione di un ricorso per regolamento di giurisdizione proposto dall'associazione in relazione ad una lite promossa da un suo RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 348 Sarebbe ampiamente sufficiente, per sostenere questa decisione, fare riferimento alla costante, reiterata e puntuale giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione che, con sentenze pronunciate a partire dal 1974 fino al gennaio 1997 (cfr., da ultimo, Cass. II Sez. Civile n. 944, del 30 gennaio 1997), ha affermato che lo SMOM e gli enti da quello promananti sono soggetti giuridici internazionali che godono limitatamente alla loro attivit funzionale, diretta alla realizzazione dei fini pubblici dell'assistenza sanitaria ed ospedaliera, sia in tempo di pace che di guerra (art. 2 dello Statuto e art. 256 del Codice Melitense), delle prerogative, immunit ed esenzioni riconosciute ai similari organismi internazionali. Il Collegio ritiene, tuttavia, di aggiungere talune osservazioni, che pos sono ulteriormente suffragare, sotto il profilo della motivazione, la decisione che ritiene di assumere. ex segretario generale-, che ci che attiene alla sfera istituzionale dell'ente (quale appunto la questione sulla soppressione della carica di segretario generale) impinge sulla sfera di sovranit e di autorganizzazione dell'ente dotato di soggettivit internazionale e sfugge quindi alla giurisdizione italiana, ha statuito, a proposito dell'attivit sanitaria pur propria dell'ente (Cass. Sez. Un. 18 marzo 1992, n. 3360, in Foro it. 1992, I, 1102) che rientra invece nella giurisdizione del giudice italiano la cognizione del ricorso con il quale i dipendenti di un ospedale romano gestito dall'ACISMOM chiedono il riconoscimento delle qualifiche superiori, l'attribuzione del relativo trattamento economico e la corresponsione delle differenze retributive: e ci perch (a differenza che all'epoca cui si riferivano le precedenti sentenze 960/89 e 3374/89, in cui vigeva una convenzione del 1977 fra regione Lazio e associazione) sono entrate in vigore le convenzioni previste dall'art. 41 della legge sanitaria 23 dicembre 1978 n. 833 che regolano specificamente i rapporti fra UU.SS.LL. e Ordine di Malta, da cui Ǐ dato inferire una posizione dell'ACISMOM, quanto ai rapporti regolati, di subordinazione all'ordinamento pubblicistico italiano, e quindi, inevitabilmente, anche alla giurisdizione italiana, soggezione che l'associazione liberamente accetta con la mera adesione (questa s necessaria) alla convenzione nel suo inscindibile contenuto. 4 -Questo appare, dunque, essere il diritto vivente oggi in Italia, dove la posizione dell'Ordine di Malta e della sua organizzazione (nella quale v' l'ACISMOM) nel!' ordinamento giuridico interno -cos come individuata dal vertice della giurisdizione nazionale con un indirizzo che al momento assolutamente costante -discende dalle regole del diritto internazionale generalmente riconosciute cui l'ordinamento italiano si conforma secondo il precetto costituzionale contenuto nell'art. 10 della nostra Carta (norma cd. di adattamento automatico). In questa angolazione non sembra assumere un valore decisivo lo scambio di note diplomatiche Ordine di Malta -Min. Esteri 11 gennaio 1960 (il c.d. accordo Pella-Apor), che, nell'attesa di un'auspicata convenzione, considera frattanto conveniente di richiamare ... le norme alle quali le Parti stesse si sono sempre attenute e tuttora si attengono per la regolamentazione dei rapporti medesimi e cita le agevolazioni tributarie, le prerogative sovrane del capo dell'Ordine, le immunit diplomatiche, le franchigie doganali, il riconoscimento della personalit giuridica di ordine melitense ad alcuni enti dell'Ordine, l'insequestrabilit e l'impignorabilit di alcuni beni, il riconoscimento di onorificenze. Tale scambio di note, quale che possa essere la sua validit formale (da alcuni contestata), nulla aggiunge a quello che gi appare dalle norme consuetudinarie internazionali quali interpretate, con riferimento all'Ordine, dalla Corte Suprema. I I PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE 349 Inprimo luogo, appare decisamente infondato l'assunto, da cui muove il denunciante, circa la inettitudine dello SMOM ad assumere le qualit di soggetto dell'ordinamento giuridico internazionale. incontestabile, infatti, che la sua originariet organizzativa ed istituzionale, rispetto alla Chiesa,. data, findai suoi primordi, dal perseguimento di fini specifici (o5pedalieri ed assistenziali), rispetto ai quali si dato autonomi strumenti di autogoverno e di autodeterminazione che, con la regola di Eugenio III del 1145, hanno trovato riconoscimento ufficiale da parte del Sommo Pontefice. Ma la stessa Chiesa, con la sentenza cardinalizia del 24 gennaio 1953, a dichiarare che Santa Sede e SMOM sono enti autonomi e sovrani i cui rapporti si situano nell'ambito del diritto internazionale. Ci anche in base ad una prassi consolidata, che riconosce all'Ordine il godimento delle prerogative proprie dei soggetti internazionali, data, in partico- E sulla base di questo diritto sono stati finora regolati i rapporti fra il settore pubblico nazionale e l'Ordine. possibile che siano sorti e che permangano ancora dei contrasti interpretativi. Cos pu essere che l'INPS vanti contributi maggiori di quelli che l'Ordine ritiene dovuti; cos pu essere che una qualche pretesa tributaria sia o meno in discussione; e cos via. Ma tutto ci trova e deve trovare la sua composizione davanti ai giudici nazionali competenti, nei limiti -naturalmente -della loro giurisdizione. Pu anche essere che questa soluzione non sia ritenuta da taluno soddisfacente (si gi detto che in dottrina non manca chi contesta la soggettivit internazionale dell'Ordine e non certo per il suo valore formale, quanto per le conseguenze in ordine alle prerogative della sovranit e alle connesse immunit, a dire di questi, oggi, non pi giustificate). Ebbene una diversa soluzione pu discendere da una diversa interpretazione delle norme internazionali oggi vigenti, norme internazionali che non sono certo create dall1talia ma alle quali vicversa l'Italia si conforma secondo il precetto costituzionale; Cio sar ben possibile che la situazione si evolva e ad essa faccia eco una diversa interpretazione giurisprudenziale, ma a tutt'oggi non vi sono segni tangibili di una tale evoluzione e tahto meno si giunti al disconoscimento della soggettivit internazionale dell'Ordine. 5 -Le ipotesi di reato che si sono affacciate (abuso e/o omissione di atti di ufficio: artt. 323 e/o .328 cod. pen.) in merito a presunti illeciti ravvisabili nelle attivit ministeriali aventi ad oggetto i rapporti dell'amministrazione statale con SMOM e ACISMOM , si sono fondate, in sostanza, sulla considerazione che ingiustamente sarebbe stata attribuita allo SMOM (anche da parte della Corte Suprema) una soggettivit internazionale che non avrebbe senso, il che avrebbe consentito allo SMOM stesso e all'ACISMOM di godere di immunit e privilegi ingiusti, illegittimamente fatti valere anche nei confronti dell'INPS. Data la posizione sopra esposta dello SMOM e dell'ACISMOM nell'ordinamento giuridico italiano secondo il diritto vivente cos come riconosciuto anche dalla Corte di cassazione, non potevano non cadere le ipotesi di reato prospettate, posto che: -non ipotizzabile alcun reato nell'avere gli organi di governo riconosciuto la soggettivit internazionale dello SMOM con tutte le conseguenze sopra indicate, perch il riconoscimento una verifica giuridica scaturente dall'applicazione delle norme del diritto internazionale, cos come confermato dal consolidato indirizzo della Corte Suprema, discutibile finch si vuole ma tale allo stato attuale della giurisprudenza (diritto vivente); -non ipotizzabile alcun reato nel non avere gli organi di governo posto in essere atti tali da far venir meno un riconoscimento che non avrebbe pi senso, perch RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 350 lare, dal riconoscimento operato da vari Stati (cos come lo stesso denunciante ammette e documenta, con le note depositate il 27 luglio 1997 a questo Collegio). Su tali basi appare, quindi, corretto, riconoscere che l'Ordine, da tempo, si presenta, a prescindere dai riconoscimenti e dalle intese, come un soggetto che appartiene, a pieno titolo all'ordinamento internazionale. Consta che, ad oggi, l'Ordine ha stabilito rapporti diplomatici, a mezzo di legazioni od ambasciate, con oltre quaranta Stati. Tra questi l'Italia, che ha riconosciuto alla rappresentanza diplomatica dell'ordine il rango di Ambasciata fin dal 1980 (d.P.R. n. 1055/1980). Ne consegue che l'Ordine non necessita, per partecipare a rapporti di diritto internazionale, della attribuzione di una qualit (quella di soggetto dello stesso ordinamento) che appare a lui ormai conferita da una vicenda positiva o consuetudinaria incontestabile. Se questo il quadro in cui nell'ambito internazionale si situa lo SMOM, non si vede in qual modo possa ritenersi abusiva o, comunque, illegittima, sotto il profilo penale, la condotta dei soggetti individuati dal P.M., che, in vario modo, ritenuta quella qualit, hanno fatto conseguire dalla stessa, quel tradizionale regime giuridico che legittimamente consegue nei reciproci rapporti tra soggetti dell'ordinamento internazionale. Va notato che il ricordato scambio di note PELLA-APOR, che specificava ed ufficializzava i contenuti di quel regime giuridico, risale al 1960 per cui, anche ove si ammettesse che lo stesso non aveva valore ricognitivo di una prassi in atto a quel momento, ha avuto, comunque, la capacit di istituire una regola di comportamento nell'arco di quasi quarant'anni e cos ha consolidato quell'opini o iuris che la premessa maggiore per il sorgere della norma consuetudinaria. essendo il riconoscimento il frutto di una situazione presa in considerazione dalle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, un eventuale disconoscimento attuale non solo si presenterebbe come un atto politico come tale certamente non sindacabile in sede giurisdizionale, ma dovrebbe comunque basarsi su un mutamento o una diversa considerazione di quella situazione che ha finora determinato il riconoscimento sulla base di univoche emergenze rilevanti per il diritto internazionale (anche secondo l'interpretazione del massimo organo coordinatore della giustizia italiana): non si pu quindi pretendere un atto autoritativo (finanche legislativo) che implicherebbe una scelta politica che non solo non sarebbe sindacabile in sede giurisdizionale ma che comunque verrebbe ad incidere su una situazione che va risolta pur sempre secondo le norme del diritto internazionale e non di quelle del solo diritto interno; -parallelamente non ipotizzabile alcun reato, per le stesse ragioni sopra indicate, nel non avere gli organi di governo impedito o limitato le immunit e i privilegi, in quanto le une e gli altri conseguono, secondo e nei limiti segnati dalla corrente giurisprudenza, alla posizione giuridica dello SMOM e dell'ACISMOM (eventuali correzioni, ove vi fosse qualche errata estensione, possono sempre essere apportate dalla giurisprudenza stessa). OSCAR FIUMARA PARTE I, SEZ. VI, GIURISPRUDENZA PENALE In altri termini, il problema che va affrontato e risolto nel caso di specie, non quello di attribuire allo scambio di note il valore ricognitivo di precedenti prassi ovvero di un trattato internazionale, ma, pi semplicemente, di riconoscere che quell'intesa, seppure non riversata nell'ordinamento positivo in modo formale, attraverso la ratifica, ha dato origine ad un modello di comportamento che, nel prosieguo del tempo, si consolidato in una vera e propria norma consuetudinaria. Del resto, da tempo, la dottrina pi accreditata riconosce che alcuni atti unilaterali, quali il riconoscimento, ovvero progetti di convenzioni, possono rappresentare forme di consacrazione di norme consuetudinarie, trascurando l'eventuale conversione in norme scritte. A ci si aggiunga che il valore che pu essere attribuito dell'accordo PELLA-APOR di cui si detto finora, ha trovato seguito in successive norme di legge, quali il d.P.R. n. 105511980, che ha riconosciuto alla rappresentanza diplomatica dell'Ordine, il rango di Ambasciata, ovvero, la legge n. 833/978, che ha sancito che i rapporti tra lo SMOM e le USL debbano essere regolati da apposite convenzioni ed, ancora, l'accordo tra la Repubblica Italiana e lo SMOM in materia di assistenza in caso di gravi emergenze, entrato in vigore il 28 gennaio 1991 (pubbl. in Gazzetta Ufficiale del 15 luglio 1991). Questi dati positivi, oltre ad avvalorare quanto fin qui detto in ordine alla legittimit del regime giuridico attuato nei confronti dell'Ordine, consentono altres di accreditare, a tutti gli indagati, quantomeno un convincimento di buona fede in relazione a quella legittimit, che impedisce, sotto il profilo soggettivo, di ritenere fondata la contestazione formulata nei loro confronti. P.Q.M., visto l'art. 8 Legge Costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1 in difformit con le richieste del P.M. dichiara non doversi promuovere l'azione penale nei confronti degli indagati come sopra indicati, ordinando la trasmissione degli atti all'archivio (omissis). PARTE SECONDA RASSEGNA DI DOTTRINA DA UNA AMMINISTRAZIONE SENZA GIUDICE VERSO UNA GIUSTIZIA SENZA AMMINISTRAZIONE? Relazione tenuta al Convegno Giustizia nell'amministrazione: verso il 2000. celebratosi a Venezia in data 30-31 maggio 1997 ed organizzato dalla Regione del Veneto, dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, dal Consiglio di Stato edal!'Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti. SOMMARIO: 1) PREMESSA. 2) LA RIFORMA TRADITA DEL 1865 (DALL'ANCIEN RGIME ALLO STATO LIBERAL-BORGHESE). 3) LA CONTRORIFORMA;, CRISPI E L'EVOLUZIONE DEL SISTEMA (DALLO STATO LIBERAL-BORGHESE ALLO STATO SOCIALE). 4) LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E LA LEGGE ISTITUTIVA DEI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI. 4.1) EVOLUZIONE DEL SISTEMA FINO AL 1990. 4.2) DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO POSTMODERNO. 5) DALLO STATO POSTMODERNO ALLO STATO MINIMO -PRIVATIZZAZIONE E GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. 5.1) GENERALIT. 5.2) LE TRADIZIONI ITALIANE ELE LEGGI DI PRIVATIZZAZIONE DEGLI ANNI '90 (PRIVATIZZAZIONE DI SOGGETTI, PROPRIET E RAPPORTI). 5.3) LA PRIVATIZZAZIONE INDIRETTA (PRIVATIZZAZIONE DI ATTIVIT). 5.3.1) L'amministrazione partecipata e concertata. 5.3.2) L'amministrazione delegata. 5.4) LA GIURISDIZIONE. 5.5) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. 1) PREMESSA Il tema di questo Convegno appare particolarmente stimolante, bilanciato com' fra la suggestione di una scadenza millenaristica prossima ventura e la riproposizione di un tema -quello della giustizia nell'amministrazione -la cui attualit si ripresenta con singolare frequenza nella nostra storia. Una storia dalla quale mi pare d'obbligo prendere le mosse sia per il taglio diacronico del tema, sia perch solo un esame delle radici storiche degli istituti pu rendere ragione del travagliato percorso seguito nel tempo dalla nostra giustizia amministrativa e consentire forse anche qualche cauta profezia. Anticipando, rispetto al corso dello svolgimento del tema, alcune osservazioni di carattere generale sembra interessante notare come la nostra giustizia amministrativa sia connotata, nella sua evoluzione, da due bizzarre caratteristiche: la prima quella di essere condizionata da un mito ricorrente, quello del giudice unico, fonte ispiratrice della riforma del 1865 e che periodicamente (e fino ai giorni nostri) riappare sulla scena. La seconda quella di indirizzare le proprie trasformazioni sempre per vie diverse da quelle tracciate dal legislatore per forza di una matrice giurisprudenziale che, facendosi interprete di valori giuridici, socio-politici e culturali ben precisi, ha sempre prevalso sul dato normativo (con divaricazione da esso tanto maggiore quanto pi quel dato si ponesse in posizione di rottura con la tradizione), sia quando un legislatore troppo innovatore abbia cercato di forzare la mano, trapiantando nel nostro sistema istituti non compatibili con esso perch estranei alle sue tradizioni, sia quando un legislatore conservatore a tutti i costi abbia troppo tardato ad introdurre le innovazioni che i tempi esigevano. La creazione giurisprudenziale di un giudice amministrativo di modello francese di fronte ad una riforma legislativa (quella del 1865-1889) che ne negava l'esistenza ed introduceva un modello inglese di giudice unico un esempio della prima ipotesi. RA:{)SEGNA AVVOCATURA DELLO ST!\.T.O 4 Le tumultuose evoluzioni giurisprudenziali degli ultimi venti anni di fronte ad una costituzione ed una legislazione che -a parte l'introduzione del doppio grado -si erano limitate a recepire con precisione notarile le conquiste giurisprudenziali della prima met del secolo, sono un esempio della seconda. 2) L RIFRl\ilA RDITA DEL 1865 (DALL'ANCIEN RGIME ALLO STATO LIBERAL-BORGHESE) Prima dimostrazione emblematica dell'assunto proprio la nascita del giudice ammini$ tratiyo;ita.Jiflll.oi fr.tto di una riforma travagliata e sofferta, articolata in tre tappe ( 1865, l~77, 1889/9());f,i,\lrata qen un quarto di secolo ed infori;nata al principio-guida della esclusione di uti qual13iasi giudice amministrativo contrapposto al giudice ordinario. La vicenda storica. ben nota: iHegislatore del 1865, sotto la spinta delle rivoluzioni liberali di :inezzo secolo, soppresse il.contenzioso iwiministrativo di modello francese devolvendo al giudice ordimlfio 7 almeno nelle. intenzioni, quali risultano chiarissime dai lavori preparatori -la cognizione di tutte le materie di amministrazione contenziosa, che erano per il passato attribuite. ai Tribunali del contenzioso, riservando alla Amministrazione soltanto quelli di <; (aventi cio ad oggetto beni della vita non conseguibili senza l'intermediazione dell'esercizio di un potere discrezionale) e che di essi non avrebbe potuto conoscere che un organo incardinato nell'esecutivo. Cosl infatti si disse espre&samente nella refazfon alla legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di. Stato: il nuovo istituto 11on un tribunale. giudiziario speciale o eccezionale,. ma rimane nella sfera delpotere esecu:tivo, da cui prendela materia e le persone che Io devono mettere in atto. Io stesso potere esecutivo ordinato in modo eia tl.ltelare m,aggiormente gli interessi dei cittadini. Perci, adiffereriza dell'antico contenzioso amministrativo, esclude ogni confusione di poteri costituzionali... soltanto un corpo deliberante che il potere esecutivo fol'llla con elem,e.tiscelti nel suoseno,com,e a sindacare clei suoi atti, e per mantenere la sua azione .e.i limiti dllii leg!llit~ e 4ella giustizja (6). Il fatto che. nella concezion.e del legislatore n nuovo istituto . fosse un organo dell'Amministrazione consent peraltro di iittriburgli un pot~:~re che giammai, all'epo~ ca, sarebbe stato affidato ad un oi;gano giurisdizionaie, Cio quello di sospendere, annullare e revocare l'atto amministrativo (7), il che contribu a fai s che la nuova (4) I.F. CARAMAZZA, Primo centenario della legge 31 marzo 1889 n. 5992, Relazione tenuta nell'incontro celebrativo organizzato dal CISA e tenuto il 12 aprile 1989 nella Sala della Protomoteca in Campidoglio. (5) Cfr. Atti parlamentari Senato 20 marzo 1888, 1170. (6) V. SCIALOJA, Come il Consiglio di Stato divenne organo giurisdizionale, in Riv. Dir. Pubbl. 1931, 417. (7) Scrisse infatti.V. SCIALOJA, op. cit., 412, che attribuire quest'ultima facolt al Consiglio di Stato, infatti, non significa, nel concetto della legge del 1889, sottrarla all'Amministrazione. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 6 Sezione, sapientemente guidata da quello stesso Silvio Spaventa che l'aveva cos fortemente voluta, conquistasse ben presto il favore del pubblico, dimostrando che la tutela offerta non cedeva, per indipendenza di giudizio, a quella che si poteva ottenere, per i diritti, dall'Amministrazione giudiziaria ordinaria (8). Nelle intenzioni del legislatore non vi era, dunque, alcuna Controriforma: si voleva invece mantenere fermo il principio della giurisdizione unica introdotto con la legge abolitiva del contenzioso. All'epoca, infatti, il concetto che la fonte della giurisdizione unica e che, di regola almeno, debba essere esercitato dal solo potere giudiziario, dominava ancora tenacemente (9). La forza delle cose, comunque, non tard a prevalere sull'involucro formale costruito dal legislatore, tant' che la natura giurisdizionale della nuova Magistratura fu pressoch immediatamente riconosciuta dalla giurisprudenza: gi nel 1893, infatti, la Cassazione di Roma a Sezioni Unite, con sentenza 21marzo1893, n. 177 (10), statuiva che la IV Sezione del Consiglio di Stato stata investita dalle leggi 31 marzo 1889 e 1 maggio 1890 di una vera e propria giurisdizione, la quale ha pure il carattere speciale di fronte a quelle generiche assegnate all'autorit giudiziaria, donde l'ammissibilit del ricorso per incompetenza o eccesso di potere anche contro le decisioni della IV Sezione (11). In definitiva e per concludere sul punto, occorre constatare che da una riaffermata unicit della giurisdizione in capo al giudice ordinario (con istituzione di un procedimento amministrativo contenzioso quasi giudiziale interno all'Amministrazione a garanzia oggettiva di legalit) nasceva un giudice amministrativo incardinato nell'Amministrazione, sull'esempio del modello francese. Un modello la cui evoluzione doveva essere imitata bruciando le tappe: quella trasformazione da organo amministrativo in organo giurisdizionale che aveva richiesto tre quarti di secolo al Consiglio di Stato transalpino doveva consumarsi, infatti, per la IV Sezione di quello italiano, nel breve volgere di pochi anni. Ancora una volta si conferma quindi l'~ssunto della tendenza della nostra giustizia amministrativa a battere vie diverse, se non addirittura opposte a quelle tracciate dal legislatore. Cominciava cos la singolarissima -e per tanti versi ambigua -costruzione del giudizio dinanzi al Consiglio di Stato italiano, nato nell'amministrzione ed evoluto nella giurisdizione per giudicare di un interesse legittimo considerato come situazione sostanziale fino alle soglie del giudizio, al cui accesso legittimava, per perdere poi in esso tale connotato in quanto la natura cassatoria della pronuncia non riconosceva o disconosceva alcun bene della vita, limitandosi ad annullare -o non annullare -un atto amministrativo. Fu detto a suo tempo che, con l'istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato, una parte della classe dirigente fu chiamata a controllare se stessa (12), questo in linea con quella tradizione transalpina che riconosceva nel Conseil d'Etat -nato come massima espressione logica di una amministrazione senza giudice ed evolutosi in giudice dell'amministrazicme (13) -il duplice ruolo di garante dei diritti del cittadino con (8) F. BATISTONI FERRARA, op. cit., 284. (9) V. SCIALOJA, op. cit., 411. (!O) In Foro It., 1893, I, 294 ss. (11) La massima tratta dalla Relazione dell'Awocato Generale per l'anno 1898, 32. (12) L. PICCARDI, futervento al X Convegno di Studi di scienza dell'amministrazione, 1964, Atti, 97. (13) G. VEDEL, ncontrollo.giurisdizionale della pubblica amministrazione in Francia, in Il controllo giurisdizionale della P.A., Stucli di diritto comparato cli A. Piras, Torino, 1971, 84-85. PARTE II, DOTTRINA 7 tro gli abusi dell'amministrazione e di protettore delle prerogative del potere pubblico (14), considerato non solo parte da giudicare, ma anche apparato da dirigere e da consigliare ( 15). Alla conseguente ambiguit del relativo giudizio si aggiunge poi quella ulteriore derivante logicamente da un sindacato di tipo cassatorio non omogeneamente collegato con un previo giudizio di merito. In tale ambiguit di fondo nacque e prosper l'interesse legittimo come creatura di laboratorio o pianta di serra che da tale origine fu sempre d'altronde perseguitato, meritando da parte della dottrina le pi irrispettose qualificazioni: da inesistente quiddit (16) a Criterio inafferrabile ed imponderabile (17), a informe creatura (18), a diritto soggettivo sottosviluppato (19), a fantasma (20), a oggetto misterioso (21), a esclusiva e poco invidiabile peculiarit del nostro sistema (22), a figura mitologica che non si pu n comprendere n discutere (23), a pseudo-concetto di misteriosofia giuridica (24), per non citarne che alcune in ordine cronologico. Nato come espediente esegetico (25) per superare le aporie del sistema di giustizia creato dalle leggi del 1865 e del 1889 (o piuttosto dalla loro interpretazione) fu teorizzato come situazione giuridica soggettiva sostanziale unitaria sulla scorta del seguente sillogisma: se alla IV Sezione doveva riconoscersi natura giurisdizionale e se 1 'interesse davanti ad essa fatto valere poteva essere protetto denunciando incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, occorreva allora riconoscere che la riforma del 1889 aveva attribuito natura giuridica a situazioni diverse al tempo stesso dal diritto civile e politico e dall'interesse semplice, materiale, economico (26). L'argomento appare discutibile in s e comunque condizionato dal postulato della situazione giuridica soggettiva come prodotto immutabile della ragione (27). Pur con tutti i suoi vizi di origine sta per di fatto che l'interesse legittimo crebbe e si svilupp al centro di quella elegantissima costruzione giuridica che il Consiglio di Stato italiano ha creato in tre quarti di secolo, una costruzione in cui non si sa mai se ammirare di pi la fantasia nell'escogitare nuove soluzioni (basti ricordare il silenzio e l'atto paritetico), il rigore giuridico nell'argomentarle o il pragmatismo nel raggiungere sostanziali risultati di giustizia attraverso un armamentario normativo rozzo e limitatissimo. Condizione di vita per l'interesse legittimo in quanto fiore di serra era per il permanere della serra, cio di quello specialissimo giudizio di cui si detto e che era, (14) A. MESTRE, Le Conseil d'Etat, protecteur des prrogatlles de _ w11stration, Parigi, 197 4. (15) M. HAURIOU, Principes de droit public, Parigi, 1910, 491. (16) G.D. TIEPOLO, La giustizia amministrativa e il discentramento, in Giustizia Amministrativa, III, 1892, 103. (17) V.E. ORLANDO, Contenzioso Amministrativo, in fl Digesto Italiano, voi. VIII, prt. 2', Torino, 1895-98, 988. (18) G. BERTI, Amministrazione autonoma e giustizia amministrativa nella legislazione unificatrice del 1865: il contributo del deputato Francesco Borgatti, in l'Unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, a cura di F. Benvenuti e G. Miglio, Milano, 1969, 418. (19) M.S. GIANNINI -A. PIRAs, Giurisdizione amministrativa, in Enciclopedia del diritto, XIX, 28L (20) E. FAZZALARI, Il futuro del processo amministrativo visto da un processualcivilista, in Foro amm., 1985, II, 349. (21) E. FAZZALARI, op. /oc. cit (22) F. LONGO, Proposta per una riforma del supremo organo regolatore del riparto delle giurisdizioni e delle questioni di attribuzione giurisdizionale, in Studi peril centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, III, 1368. (23) M. NIGRO, Ma che cos' questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunto di riflessione, in Foro it., 1987, V, 470. (24) R. CARBONI, Gli aiuti comunitari fra diritto soggettivo e interesse legittimo, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1985, 137. (25) E. GurccIARDr, Concetti tradizionali e principi ricostruttivi della giustizia amministrativa, in Studi di giustizia amministrativa, Torino, 1967, I. (26) O. RANELLETI1, cit. in B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell1talia liberale -La formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, 1985, 373. (27) L. MENGONI, Diritto e politica nella dottrina giuridica, Iustitia, 1974, 337 ss. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO s, processo di parti, ma in cui una parte meno parte dell'altra (28) ed in cui il giudice anche il padre spirituale di quella (29). Un processo, insomma, datato e connotato in peculiarissimi dati politologici, sociologici e culturali. 4) LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E LA LEGGE ISTITUTIVA DEI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI 4.1) EVOLUZIONE DEL SISTEMA FINO AL 1990 Il sistema di giustizia amministrativa italiano creato e sviluppato dall'opera pretoria del Consiglio di Stato, fu costituzionalizzato dalla Carta repubblicana nel 1948 in modo quasi notarile, con tutte le sue originalit e le sue contraddizioni: basti pensare a quella che vede contrapporre da un lato la qualificazione dell'interesse legittimo come posizione soggettiva sostanziale (art. 24); dall'altro la qualificazione del giudizio amministrativo come giudizio sull'atto e quindi come giudizio cassatorio, inidoneo a garantire il riconoscimento di un bene della vita (art. 113). Unico, modesto elemento innovativo, l'introduzione del principio del doppio grado, con la previsione (art. 25) dell'istituzione a livello regionale di organi di giustizia amministrativa di primo grado. Previsione cui doveva dare attuazione la legge istitutiva dei TT.AA.RR. (6 dicembre 1971 n. 1034) che, com' noto, non contiene alcuna rivoluzionaria innovazione normativa ed appare anzi, in larga misura, rispettosa delle formule tradizionali. Normativa costituzionale e normativa ordinaria sembravano dunque segnare, a prima vista, il consolidamento del sistema tradizionale di giustizia amministrativa. L'evoluzione della giurisprudenza, mostra invece una rapida e progressiva evoluzione dovuta a tutta una serie di fattori che trascendono il dato normativo. Vi innanzi tutto la creazione di una nuova classe di giudici amministrativi italiani, di estrazione diversa da quella tradizionale del Consiglio di Stato e sganciati da ogni funzione di consulenza. Ci ha fatto s che, nei confronti dell'Amministrazione, la giurisdizione amministrativa abbia manifestato, per la prima volta nella sua storia, un netto distacco, cui si aggiunge una nota di diffidenza e di sospetto ogniqualvolta la questione sottoposta al giudizio abbia una particolare rilevanza politica o comunque incida su fatti politicamente rilevanti (30). La diffusione sul territorio dei giudici amministrativi, il diffondersi della cultura ed il miglioramento del tenore di vita, hanno reso, poi, di massa una domanda di' giustizia che prima era solo elitaria. A ci si aggiunga la comparsa sulla scena del giudizio di nuovi soggetti, di parte privata e pubblica. Da un lato comparvero, infatti, gli enti esponenziali di interessi diffusi, dall'altro le Amministrazioni locali nella nuova dimensione portata dalla riforma regionale e dal decentramento, che hanno spostato il livello decisionale amministrativo da organi (28) L. PICCARDI, Il problema della difesa dello Stato, in giudizio e la soluzione italiana, in Riv. dir. pubbl., 1931, 595. (29) E. CANNADA BARTOLI, in Atti Parlamentari, Camera, I Commissione permanente, Audizioni sullo stato della giustizia amministrativa, seduta 30 ottobre 1984. (30) F. PIGA, 150 anni del Consiglio di Stato, in Atti del Convegno celebrativo del 150 anniversario, Milano, 1983, 391. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 10 Altra nota di rilievo la tendenza a trasformare il criterio di discrimine fra le due giurisdizioni da quello tradizionale della distinzione fra diritto e interesse in quello della ripartizione per materie. Larga parte della dottrina tende a spiegarlo come effetto dello sviluppo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovuto a ricorrenti spinte del legislatore e della giurisprudenza (34). La legge istitutiva del T.A.R. segn l'avvio del fenomeno con l'attribuzione a detta competenza della materia delle concessioni (con norma che fu, per di pi, interpretata estensivamente dalla giurisprudenza (35)), cos intaccando per la prima volta, per clausola generale invece che con il classico principio di enumerazione, il criterio tradizionale. Seguirono -in via esemplificativa e non esaustiva -le leggi 20 marzo 1980 n. 75, 24 marzo 1981 n. 145 e pi di recente la legge 7 agosto 1990, n. 241, che devolve alla competenza esclusiva del giudice amministrativo le controversie sull'amministrazione contrattata di nuova istituzione e la legge 10 ottobre 1990, n. 287 sulla tutela della concorrenza e del mercato che devolve al T.A.R. Lazio la competenza in via esclusiva a conoscere dei ricorsi contro i provvedimenti amministrativi in base ad essa adottati. Ma vi di pi: la giurisprudenza si inserita nella linea evolutiva di tendenza cos segnata dal legislatore ed ha qualificato come esclusiva, in taluni casi, una competenza giurisdizionale che il legislatore, nell'attribuirla al giudice amministrativo, aveva lasciato priva di etichetta. Si allude in particolare all'art. 32 L. 11 giugno 1971, n. 426 relativo ai ricorsi sui provvedimenti del sindaco in materia di autorizzazioni di commercio ed all'art. 16 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, relativa ai ricorsi in materia di concessione di costruzione, dei relativi contributi e delle sanzioni (36). Alle considerazioni sin qui svolte deve poi aggiungersi un richiamo alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha civilprocessualizzato, con notissime sentenze (37), i poteri cautelari e probatori del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. Il rapporto fra giurisdizione generale di legittimit e giurisdizione esclusiva, che una volta era da regola ad eccezione, tendeva dunque ad invertirsi e tendeva pure, per, ad invertirsi il modello di giudizio: se una volta era il giudizio sull'atto a limitare il giudizio sul rapporto, in prospettiva era il giudizio sul rapporto, nelle dimensioni processualcivilistiche raggiunte, ad informare di s il giudizio sull'atto, attraendolo verso il giudizio sulla pretesa. Era venuta sfumando, dunque, sempre di pi la distinzione fra diritto ed interesse come situazioni sostanziali tutelate, avviate come apparivano le due figure verso una garanzia giurisdizionale sempre meno differenziata, s che anche con riferimento alla giurisdizione generale di legittimit il criterio discriminatore sostanziale pi che alla qualificazione della posizione vantata si riferisce molto spesso al Settore materiale di competenza, come stato gi autorevolmente rilevato, con riguardo alle famose sentenze della Suprema Corte sul diritto alla salute (38). (34) M. NmRO, Nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo. Atti della tavola rotonda, in Foro Amm.\12 1981, 2140 ss.; G. BERTI, Divisione delle situazioni di tutela e degli ordini dei giudici, in Istituto di diritto pubblico facolt di giurisprudenza dell'Universit degli Studi di Firenze; Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurispru denza, a cura di -U. Allegretti, A. Orsi Battaglini -D. Sorace -Maggioli -I, p. 175 ss.; S. GIACCHETII, La giurisdizione esclusiva fra l'essere e il divenire, in Studi per il Centenario della Quarta Sezione, Roma 1989, 644 ss.; A. ROMANO, ll giudice amministrativo di fronte alla tutela degli interessi diffusi, in Foro it. 1979, V, 8. (35) Cass. SS.UU. 3 dicembre 1991 n. 12966. (36) Cass. 5 ottobre 1979, n. 5145 e 25 luglio 1980, n. 4831. (37) Corte Cost. 28 giugno 1985, n. 190, in Giur. it. 1985, I, 1, 1297 (700); Corte Cost. 10 aprile 1987, n. 146 in Dir. proc. amm. 1987, p. 582. (38) F. PIGA, Nuovi criteri di discriminazione delle giurisdizioni amministrative e ordinarie; sia ad una svolta?, in Giust. civ. 1980, I, 366. PARTE Il, DOTTRINA 11 Il quadro della giustizia amministrativa che andava cos delineandosi in prospettiva prevedeva dunque, alle soglie degli anni '90 una piena tutela delle situazioni sostanziali, fossero esse qualificate come diritti soggettivi o come interessi legittimi, con riparto di competenza giurisdizionale fra il giudice ordinario e un giudice amministrativo da esso diverso sprattutto per specializzazione e fornito di poteri istruttori, cautelari e decisori atti a garantire il conseguimento del bene della vita ed operante, quanto meno tendenzialmente, in sede di giurisdizione esclusiva (39). Il sistema italiano sembrava dunque avviato verso una soluzione sincretica, intermedia fra il tipo tedesco e quello francese. Il che, verificandosi sotto l'impero di una normativa -costituzionale e successiva -dichiaratamente volta a rafforzare e potenziare il modello francese dimostra ancora una volta la bont dell'assunto sui paradossi della nostra giustizia amministrativa. Anticipando le conclusioni cui mi riprometto di giungere, credo che la seconda ipotesi della quarta bozza Boato (permanenza in capo al Consiglio di Stato sia della funzione consultiva che di quella giurisdizionale) rappresenterebbe la fisiologica evoluzione di questa linea di tendenza spontaneamente imboccata dalla nostra giustizia amministrativa. Una giustizia rinnovata nel suo primo grado da una nuova classe di giudici svincolati da qualsiasi rapporto con l'amministrazione, secondo il modello tedesco; ancora legata a quel particolare tipo di rapporto -segnatamente a quello di consulenza -in grado di appello, con conseguente conservazione di una ricchezza di esperienza e di tradizione. L'amalgama dei due modelli si d'altronde realizzato, come l'esperienza ha sin qui insegnato, per due vie: quella istituzionale dell'interscambio fra i due gradi di giudizio e quella personale della provvista. di magistrati forniti al Consiglio di Stato dai Tribunali Amministrativi Regionali. N sembra fondata l'obiezione che la attribuzione allo stesso organo della funzione consultiva accanto a quella giurisdizionale appannerebbe la imparzialit del giudice, in quanto verrebbe chiamato a giudicare un soggetto prevenuto perch gi pronunciatosi sul punto in sede consultiva. Come ha chiarito la Corte Costituzionale, infatti (40), la prevenzione che revoca in dubbio la terziet del giudice riguarda le persone fisiche e non gli organismi e nella stessa linea si mossa la Corte europea dei diritti dell'uomo nella nota causa Procola cl Lussemburgo (41) dichiarando che il Consiglio di Stato lussemburghese non giudice imparziale a' sensi dell'art. 6 1 della Convenzione, atteso che le regole di funzionamento dell'organo rendono inevitabile la partecipazione alla funzione giurisdizionale di consiglieri che, sulla stessa questione, hanno gi partecipato all'esercizio della funzione consultiva. L'ordinamento del Consiglio di Stato italiano contiene, invece, come noto, norme puntuali volte ad evitare la prevenzione (cfr. artt. 33 e 43 T.U. 26 giugno 1924 n. 1054). Ben poche modifiche sarebbero necessarie per perfezionare il sistema evitando ogni possibile rischio di prevenzione anche in astratto con conseguente perfetta compatibilit della funzione consultiva con una funzione giurisdizionale rigorosamente imparziale. (39) Cfr. G. BERTI, Momenti della trasformazione della giustizia amministrativa, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1972, 1861. (40) Corte Cast. sent. 17-24 aprile 1996 n. 131. (41) Corte europea dei diritti dell'uomo, sent. n. 27/1994/474/555 del 28 settembre 1995. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 12 4.2) DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO POSTMODERNO La giustizia amministrativa italiana nei decenni '70 e '80 di questo secolo ha compiuto dunque un vero e proprio salto di qualit, come si appena visto. Un salto di qualit che non pu ricollegarsi soltanto agli elementi specifici fin qui analizzati ma va inquadrato anche in un pi generale contesto di rafforzamento del potere giudiziario e nel quadro pi generale ancora di una ulteriore profonda crisi di trasformazione della societ e dello Stato. Nel,1981, in occasione di un convegno intitolato a 50 anni di esperienza giuridica in Italia, Massimo Severo Giannini parl di una crisi di trasformazione epocale della societ e dello Stato, crisi non solo italiana, ma di dimensioni planetarie, profetizzando, in termini quasi millenaristici, la fine dello Stato nazionale, giunto al termine del suo ciclo vitale e pronto a cedere il passo -dopo un travaglio di guerre e rivoluzioni prossime venture -alla Repubblica Universale (42). Si tratta della crisi che vede la societ post-industriale dello Stato post-moderno succedere alla societ del benessere incubata nello Stato sociale. Cercando di cogliere l'essenza di quella crisi di trasformazione in rapporto alle due paragonabili che l'hanno preceduta con riferimento al bilanciamento dei poteri tradizionali, come doveroso in tema di giustizia amministrativa, un dato caratteristico il pendere della bilancia dell'importanza dalla parte del potere giudiziario. L'equilibrio fra i poteri non infatti fisso, ma mobile e questa mobilit in sintonia con le grandi crisi di trasformazione della societ e dello Stato da quando i tre poteri emersero dall'indistinto potere unico detenuto dal sovrano assoluto. La prima grande crisi di trasformazione corrisponde alla rivoluzione francese e port dall'Ancien rgime allo Stato liberal-borghese. Non c' dubbio che allora nacque egemone il potere legislativo. Fu quella l'et delle grandi codificazioni: il realizzarsi del sogno illuminista di una ragione scritta in un reticolo di regole astratte e generali che potessero costituire unica norma per tutti i rapporti intersoggettivi. Napoleone scrisse: Waterloo sar dimenticata ma il mio codice civile vivr per sempre. Dire per sempre era ovviamente esagerato ma il codice napoleonico tuttora in vigore in Francia e decine e decine di ordinamenti giuridici nel mondo sono ispirati al codice civile francese. Il potere esecutivo era allora veramente un potere minore, soprattutto nella sua epifania di pubblica amministrazione. Lo Stato era uno Stato carabiniere: curava la difesa delle frontiere all'esterno e l'ordine pubblico all'interno. Il potere giudiziario aveva una posizione ancor pi di second'ordine perch lo Stato liberal-borghese fu un'amministrazione senza giudice e, come si visto, bisogna aspettare la fine del secolo scorso per arrivare ai primi timidi sindacati del giudice (un giudice speciale, per di pi) sull'operato dell'amministrazione. Tutto cambia nella seconda grande crisi di trasformazione, quella che si verifica grosso modo tra le due guerre mondiali, quando si passa dallo Stato liberal-borghese allo Stato sociale. Il potere esecutivo abbandona le dimesse vesti di guardiano notturno, comincia a occuparsi di istruzione, di sanit, di edilizia, di lavori pubblici, di credito, di risparmio, di assicurazioni, di imprese. Il potere esecutivo dilaga e non a caso tra le due guerre nascono le pi feroci ed efficienti dittature che la storia ricordi. Il potere legislativo arretra, il giudiziario cresce modestamente cominciando a sin dacare l'esecutivo. (42) M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Atti del Congresso tenuto a Messina-Taormina, 3-8 novembre 1981, Milano, 363 ss. PAATE II, DOTTRINA 13 Le cose cambano ancora. con la terza grande crisi di trasformazione che cominci intorno agli anni '60 di questo secolo, e che ancora noll bene compresa, tanto vero che viene definita in maniera puramente cronologica. Si parla infatti di Stato post-moderno succeduto allo Stato sociale, di societ post-industriale succeduta alla societ del benessere. Definizioni puramente diacroniche che, ovviamente, sintomatizzanola incompre~iiione. di. quello che. . ilnocciolo del problema. Inquesta faseabbiamol'avanzata del.potere.giudiziario, che, a sua volta, prende ilsopravvento suglj altri due.poteri; . Questo accaduto a scala planetaria, non solo a livello. italiano,. con!'.avvento di quello che stato autorevolmente definito Stato di giurisdizione ( 43) L'aumento del rischio di conflitti e di frizioni tra potere pubblico e cittadino ed una acuita coscienza delle esigenze partecipative ha indotto, infatti, ad un aumento della domanda di giustizia e questo ha portato alla ricerca dinuovi strumenti atti a garantire la legalit di una azione amministrativa sempre pi articolata, sempre pi complessa e sempre pi presente nella vita di ogni giorno. Un bravo .cittadino inglese, stato scritto, avrebbe potuto vivere, fino alla prima guerra mondiale, senza accorgersi dell'esistenza di uno. Stato se. non per i poliziotti e gli uffici postali (44).. Inutile illustrare, perch sotto gli occhi di tutti, quantum mutata ab illa fosse la situazione successiva in Inghilterra come in Italia. Avvento dello Stato di giustizia dunque e non certo nel senso della instaurazione di quel governo dei giudici cos temuto dai primi legisti rivoluzionari francesi, quanto nel senso di espansione di ogni possibile strumento atto a garantire legalit sostanziale. Un sintomo significativo di tale. linea di tendenza stato l'irraggiamento, nel mondo, dell'istituto dell'Ombudsman, da considerare come istituto para-giurisdizionale. Uli irraggiamento singolare, paragonabile soltanto a quello del Consiglio di Stato francese nel secolo scorso e che per ha la caratteristica di innestarsi in sistemi giuridici diversissimi fra loro, alcuni dei quali scarsamente compatibili con l'istituto stesso. L~Ombudsman, quanto meno nella sua originale configurazione svedese, si .colloca, infatti, orizzontab:riente attravers i tre poteri tradizionali, derivando la propria legittimazione dal legislativo ed operando attraverso l'adozione di provvedimenti che hanno natura di atti amministrativi ma i cui .effetti equivalgono a quelli delle sentenze (45). Ciononostante lOmbudsman stato.introdotto in pi di novanta ordinamenti giuridici statuali con caratteristiche tra le pi diverse tra loro. La seconda linea di tendenza indotta nella societ postindustriale dalla accresciuta domanda digiustizia l'aumento dei poteri del giudice, pur nella diversit dei sistemi giuridici. Nei sistemi di common law e, in particolare, in Inghilterra, la dottrina dell'ultra viresha affinato.un penetrante sistema di giustizia amministrativa che controlla sempre pi da vicino il corretto esercizio del potere da parte dell'esecutivo (46). Nei paesi di tradizione romanistica, come. Francia,. Germania, Italia, i giudici. sono stati muniti distrumenti sempre pi incisivi.per ilcontrollo di quell'esecutivo che nel primo 800 si voleva sottratto ad ogni sindacato del giudiziario. Infine in molti settori dell'attivit pubblica si era andata diffondendo una procedimentalizzazione retta dalla regola. quasi giudiziale del giusto procedimento, il che sottolinea ancora una volta l'accresciuta importanza della funzione di giustizia nella nuova societ. (43) M. NIGRO, ngiudice amministrativo oggi, in La riforma del.processo amministrativo, Milano, 1980, 4-5. (44) A.I.P. TAYLOR, English histoiy, 1914-1945 cit. in H.W.R. Wade, Administrative Law, SA ed., Clarendon Press, Oxford, 1982, 3. (45) Cfr. Atti dell'incontro cli studio in memoria del prof. Arturo Carlo Jemolo su L'istituzione del difensore civico nell'ordinamento italiano in Rass. Aw. Stato, 1982, Il, 49 ss. (46) H.W.R. WADE, op. cit., ed. 1988, spec, 249-404. - RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 14 5) DALLO STATO POSTMODERNO ALLO STATO MINIMO -PRIVATIZZAZIONE E GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA 5.1) GENERALIT. Su questa linea di tendenza a livello planetario, sin qui tratteggiata, quasi marea montante di lungo respiro, si poi innestata in Italia e negli ultimissimi anni, un ulteriore e sinergico rafforzamento del potere giudiziario: un rafforzamento che ha portato al collasso di una classe politica e di un sistema per effetto di quella che stata qualificata, con una definizione ad effetto, come la rivoluzione dei giudici. Il contemporaneo certo il meno qualificato degli osservatori, privo com' di visioni prospettiche e non mi azzardo quindi nemmeno a tentare una pur superficiale analisi del fenomeno. Credo sia comunque incontestabile che l'opera della magistratura italiana stata fattore determinante nell'innescare quell'ulteriore grande crisi di trasformazione che lo Stato e la societ stanno oggi attraversando. 5.2) LE TRADIZIONI ITALIANE E LE LEGGI DI PRNATIZZAZIONE DEGLI ANNI '90 (PRNATIZZAZIONE DI SOGGETTI, PROPRIET E RAPPORTI) Una delle pi significative caratteristiche di tale crisi quella che si vuole sintetizzare con la formula privatizzazione e che appare costituire un classico ricorso storico di tipo vichiano per l'ordinamento italiano, caratterizzato, dall'Unit fino quasi ai giorni nostri, da un significativo e sempre crescente intervento della mano pubblica. Gi ai suoi inizi lo Stato liberal-borghese conobbe l'esercizio di Stato delle ferrovie per iniziativa di Silvio Spaventa ed il monopolio delle assicurazioni ad iniziativa di Francesco Saverio Nitti (47). Fra le due guerre, poi, lo Stato autoritario potenzi e sistematizz l'intervento pubblico, facendosi imprenditore esso stesso attraverso aziende speciali, enti pubblici, societ partecipate e controllando l'attivit economica privata attraverso un significativo potere di indirizzo (48). La Costituzione del '4 7 non rappresent certo una soluzione di continuit in tale linea di tendenza, disegnando, invece, un sistema di economia mista (49) che fu, nel concreto attuarsi, caratterizzata da penetranti poteri di indirizzo e coordinamento affidati a Comitati di ministri e dall'esercizio da parte dello Stato di attivit industriali e commerciali in via diretta o attraverso enti pubblici o partecipazioni azionarie. Pu osservarsi, pi in generale, che nello stato postmoderno degli anni '70 e '80 l'azione della pubblica amministrazione si era estesa fino a penetrare le pi intime connessioni del tessuto sociale. L'ultimo decennio del secolo ha segnato, invece, come ben sappiamo, una brusca inversione di tendenza. La crisi a livello planetario del collettivismo come filosofia politico- economica e la dissoluzione dell'impero che ne rappresentava l'inveramento, il 1' rafforzarsi, a livello continentale, delle strutture europeistiche e dei valori della concor ~: r: [ ~' (47) G. CRISCI, La politica italiana delle privatizzazioni: aspetti legali, in Cons. Stato 1992,-II, 1793 ss. (48) N. IRTI, ll diritto della transizione, in Riv. it. dir. priv. 1997, 11 e ss. (49) G. BoGNETTI, La costituzione economica italiana, Milano 1995, 5. PARTE Il, DOTTRINA 15 renza e del mercato con esse coessenziali, la presa di coscienza, a livello nazionale e grazie all'incisivo intervento della magistratura, delle distorsioni causate dal malaffare e dal malcostume politico allignati soprattutto nella gestione pubblica dell'economia, innescarono una improvvisa Corsa verso il privato volta a raggiungere la meta ultima di quello che stato definito, con suggestiva immagine, lo Stato minimo ed alla cui costruzione sembrano concorrere tanto la legislazione di privatizzazione dichiarata dal nuovo corso storico, quanto leggi anch'esse recenti ma che rappresentano l'ultimo frutto diantichi processi evolutivi, quanto, infine, le evoluzioni della giurisprudenza e della prassi. La normativa dichiaratamente volta alla privatizzazione si sostanzia in una serie di leggi che vanno, per citare le pi importanti, da quella 30 luglio 1990 n. 218 che autorizzava gli enti creditizi pubblici a conferire l'azienda bancaria in societ per azioni al d.l. 5 dicembre 1991 n. 386 convertito dalla L. 29 gennaio 1992 n. 35 che prevedeva la trasformazione degli enti pubblici economici in societ per azioni, la dismissione delle partecipazioni statali, l'alienazione .di beni patrimoniali suscettibili di gestioni economiche; dal d.l. 11luglio1992 n. 333 convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 1992 n. 359, che trasform in societ per azioni IRI, INA ed ENEL, al d.l. 31maggio1994 n. 332 convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 1994 n. 474 sulle modalit di dismissione. Volendo semplificare riduttivamente il fenomeno, potremmo dire che il tipo di privatizzazione sopra delineato si risolve, nell'immediato, in una trasformazione dello Stato imprenditore nello Stato azionista (privatizzazione in senso formale o debole) ed in prospettiva nella sostituzione di un azionariato popolare diffuso all'azionariato di stato (privatizzazione in senso sostanziale o forte). Il fine ultimo perseguito quello di una economia regolata dalle leggi del mercato e della concorrenza invece che dallo Stato attraverso ilpotere di indirizzo e di gestione diretta. Il che comporta per che alla privatizzazione sostanziale si accompagni la liberalizzazione, che la privatizzazione relativa alle imprese erogatrici di servizi pubblici e di pubbliche utilit, sia subordinata a particolari cautele, prima fra tutte la creazione di organismi indipendenti per la regolazione delle tariffe ed il controllo della qualit dei servizi (SO); che, infine, venga istituito un sistema generale di controllo del mercato e della concorrenza, a tutela anche dei consumatori. Come gi osservava, infatti, un liberista della statura di Luigi Einaudi un mercato innanzitutto caratterizzato dai carabinieri che ne fanno rispettare le regole (51). L'interesse pubblico sotteso all'economia, dunque, che una volta trovava la sua soddisfazione attraverso l'indirizzo e l'intervento diretto si ritratto dall'uno e dall'altro, e tende per adesso a realizzarsi attraverso una funzione di regolazione, a garanzia della corretta osservanza delle regole della concorrenza e del mercato (52), con conseguente fioritura di una istituzione pubblica finora ignota al nostro ordinamento: le autorit indipendenti, che rappresentano dunque le legittime eredi del carabiniere ottocentesco nel nuovo Stato neo-liberista. Nello stesso quadro normativo che ha visto lo spostamento di propriet ed attivit da soggetti pubblici a soggetti privati (sia pure, allo stato, in via solo tendenziale) deve collocarsi il d. lgs. 3.2.1993 n. 29 adottato in attuazione della delega contenuta nella L. 23.10.1992 n. 421 che ha, tra l'altro, disposto la e.cl. privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, sostituendo la fonte contrattuale a quella normativa e devolvendo la conoscibilit del rapporto al giudice ordinario. (SO) Vedasi in particolare L. 14 novembre 199S n. 481. (SI) F. BONELLI, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche, Milano 1966, I. (S2) N. IRTI, op. cit. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 16 In realt n la sostituzione dello strumento privatistico a quello pubblicistico quale fonte regolatrice del rapporto, n la devoluzione della cognizione dei diritti che ne discendono al g.o. invece che al g.a. in sede di giurisdizione esclusiva, valgono a trasformare in rapporto di impiego privato quello che continua ad essere un rapporto di impiego pubblico (53). Probabilmente il legislatore stato indotto in errore dalla moda della generalizzata corsa al privato del momento e dalla urgenza incombente che negli ultimi anni sembra caratterizzare l'attivit legislativa ed ha ecceduto nei mezzi rispetto al fine. Un fine che se era quello di equiparare nella contrattazione i dipendenti pubblici a quelli privati ben poteva essere raggiunto senza proclamare inesistenti privatizzazioni e senza intaccare un sistema di riparto di giurisdizioni funzionale a quella compresenza di pubblico e di privato che caratterizzava il rapporto di pubblico impiego normativamente regolato e che continuer a caratterizzare anche quello contrattualmente disciplinato, come dimostra il permanere della giurisdizione del giudice amministrativo per tutta una serie di questioni (54). 5.3) LA PRIVATIZZAZIONE INDIRETTA (PRIVATIZZAZIONE DI ATTMT) Si fin qui accennato al passaggio dal regime di diritto pubblico a quello di diritto privato di soggetti, di propriet e di rapporti disposto con espressa norma di legge mirata allo scopo: il problema non sarebbe per colto nella sua interezza, come si detto, se non si facesse riferimento a due ulteriori fenomeni che indubbiamente rientrano nella generale categoria delle privatizzazioni, e cio quello della adozione di moduli privatistici da -parte della p.a. nello svolgimento delle proprie attivit di istituto e quello della devoluzione a soggetti privati di propri compiti istituzionali. Il primo, icasticamente rappresentato nella previsione della amministrazione partecipata e contrattata prevista dalla legge 3 agosto 1990 n. 241, rappresenta la evoluzione virtuosa della pubblica amministrazione italiana da antichi modelli autoritari verso forme pi moderne e democratiche, il secondo -che costituisce invece una involuzione -rappresenta la conseguenza di una drammatica perdita di competenza ed efficienza da parte di quella stessa pubblica amministrazione. 5.3.1) L'amministrazione partecipata e concertata La legge sul procedimento del 1990 (con quella sulle autonomie locali), a differenza delle coeve (o di poco posteriori) leggi di privatizzazione non rappresenta, infatti, una brusca soluzione di continuit conseguente ad eventi straordinari e sinergici, ma costituisce invece il coronamento normativo di una lunga evoluzione del diritto e della prassi amministrativa, come testimoniato dalla giurisprudenza in materia. Da tempo era in atto l'eclissi dell'amministrazione di stampo provvedimentale, schiacciata fra l'atto programmatorio e l'atto convenzionale (55) e corrente la con (53) Cass. SS.UU. 28 aprile 1993 n. 4996. (54) Art. 2, comma 1, lettera C, L. 23 ottobre 1992 n. 421 e art. 68 D. lg. 3 febbraio 1993 n. 29. (55) F. LONGO, Presentazione del Tema al XXXII Congresso di Varenne, in Cons. Stato, 1986, II, 1187. PARTE II, DOTTRINA 17 statazione che anche laddove permanesse l'uso di atti puntuali, questi apparivano quasi sempre vincolati, quando non dovuti. Del pari da tempo era in.atto. una profonda revisione del procedimento amministrativo. Esso non era pi, infatti, concepito, come all'origine, in funzione servente dell'atto che ne costituiva il prodotto (56):ri (o non pi soltanto) come forma di .esercizio dtill'autorit -o sua epifania ...,.,.. per garantirti il corretto svolgersi della funzione. (57), ma costituiva drmai sostanza diorganizzazione dell'azione pubblica, non pi sorretta dal principio di autorit ma regolata da quelli di pluralismo, consenso, partecipazione (58). Alla crisi di un principio di legalit (59) correlato all'esercizio di una pubblica funzione corrispondeva infatti l'affermarsi di un principio consensualti che presiede all'erogazione di pubblici servizi nella nuova societ ispirata a principi consociativi e partecipativi (60). Di qui gli spazi concessi all'autonomia, al decentramento funzionale, alla partecipazione, in quella che se non era una generalizzata fuga nel privato>> (quale si verifica ai giorni nostri) era per sicuramente una fuga dall'autorit (61). Nel paS8aggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale e da questo a quello postmodtimo, l'azionti amministrativa si era estesa fino a penetrare le pi intime connessioni del tessuto sociale, abbandonando per il modulo provvedimentale per adottare quello.normoproduttivo (62), quello per indirizzi e quello per accordi {63). La legge 241/90 rappresenta la sistematizzazione della risposta a tutte le rappresentate esigenze della nuova societ; fino allora solo parzialmente soddisfatte da una legislazione frammentaria e dall'evoluzione, pure notevole, della giurisprudenza. 5.3.2) L'amministrazione delegata L'altra coeva spinta alla privatizzazione venuta, negli anni settanta ed ottanta, come conseguenza.del declino della burocrazia italiana (64) e soprattutto della crisi dei corpi tecnici dello Stato (65). Il conseguente difetto di capacit professionali aveva infatti causato, soprattutto nel delicatissimo e vitale settore dei lavori pubblici, il ricorso sempre pi frequente allo strumento della concessione -usata ed abusata in tutte le sue molteplici possibili varianti, quali concessione di sola costruzione, di costruzione e progettazione, di generai contractor, di servizi, di committenza -con conseguente frequente trasferimento al privato di funzioni pubbliche, necessarie per la realizzazione dell'opera, risolventesi anch'esso in una forma sui generis di privatizzazione. !iliA.M. SANDULLI, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940. 57 F. BENVENUTI. Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1950, 1. 58 M. NmRo, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione, in Atti d 'incontro di studio 29 marzo 1980 L'azione amministrativa fra garanzie ed efficienze, 21 ss.; G. SANTAN!ELLO, Il procedimento amministrativo: linee di sviluppo, in Dir. proc. amm., 1985, 496. (59) N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridica, Milano, 1972, 119 ss. (60) A. NocCBLLI, Principia di partecipazione e funzione del giudice amministrativo, in Studi per il Centocinquantenaria del Consiglio di Stata, Roma, 1981, III, 1647; G. BERTI, D'Airitto e Stata: riflessioni sul cambiamento, Padova, 1986, 350 ss. (61! R. FEDERICI, Gli interessi diffusi, Padova, 1984, III; A. NocCELLI, op. cit. 1631 ss. spec. 1654. (62 A. NOCCELLI, op. cit., 1644. (63 M. NIGRO, op. cit., 38. (64 G. CAPALDO, Interessi pubblici e coordinamento legislativo e riflessioni in margine al tema dei reati contro la p.a. in Corruzione e sistema istituzionale a cura di M. D' Alberti e Renato Finocchi, Bologna, 1994, 94. (65) E. GUSTAPANB, La crisi dei corpi tecnici dello Stata in Corruzione ecc. cit., 213 e ss. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 18 5.4) LA GIURISDIZIONE Cos delineato per grandi approssimazioni il quadro delle privatizzazioni in Italia, rimane da chiedersi come abbia reagito tale imponente e variegato fenomeno sulla giustizia amministrativa. La risposta a tale domanda costituisce l'ultimo dei tanti paradossi di cui costellata la storia del diritto amministrativo, in quanto la privatizzazione, lungi dall'ampliare la competenza del giudice ordinario, come sarebbe sembrato logico a prima impressione, ha potenziato, invece, la competenza del giudice amministrativo ad opera tanto del legislatore quanto dell'interprete (con le eccezioni che si diranno) e ci anche attraverso la vigorosa accentuazione della tendenza, in atto da tempo, come si visto, di trasformare il criterio di discrimine fra le due giurisdizioni da quello tradizionale della distinzione fra diritto e interesse in quello della ripartizione per materie. Tale linea di tendenza -non priva ovviamente di qualche discontinuit -appare sinergicamente tracciata, oltre che dal legislatore, dal giudice civile e da quello penale, da quello amministrativo e dal giudice delle leggi, sia pure in una notevole dissonanza e confusione di lingue che testimoniano, da un lato, la non riconducibilit del fenomeno ad un disegno sistematico, dall'altro la rispondenza di tale linea di tendenza ad esigenze di giustizia sostanziale. Il fenomeno del progressivo mutare del discrimine fra le giurisdizioni, come si diceva, non d'altronde nuovo e si colloca invece, come si visto, in un processo di trasformazione ventennale del giudizio amministrativo. Processo in virt del quale anche il giudice amministrativo italiano, come i giudici amministrativi di altre nazioni, gi alla fine degli anni '80 sembrava avviato a diventare il giudice naturale della pubblica amministrazione o del pubblico interesse (66) con una individuazione della sua competenza operata prescindendo dalla natura delle situazioni protette. Proprio l'anno 1990 segna, poi, -e non certo un caso -una brusca accelerazione di questa linea di tendenza ad opera delle sezioni unite della Cassazione con la ormai famosissima sentenza Mededil (67) che ritenne impugnabile dinanzi al giudice amministrativo un atto della procedura di scelta del contraente adottato da una societ privata concessionaria di costruzione di opere pubbliche. una sentenza della quale fu detto essere ispirata nella stesura alla poetica di Andrea Chenier, quella poetica espressa nel famoso verso sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques. In essa corrono, infatti, paralleli due filoni argomentativi: uno -formalistico e pi evidente a prima lettura -basato sul pi classico e tradizionalistico degli strumentari dogmatici (contrapposizione diritto-interesse, tutela diretta-tutela indiretta, norme di azione-norme di relazione), derogato soltanto con la per vero poco convincente attribuzione al concessionario della qualifica di organo indiretto; l'altro sostanzialistico e garantistico -profondamente innovatore. La procedura per l'assegnazione degli appalti necessari alla costruzione dell'opera pubblica -ha argomentato la Suprema Corte nello svolgimento, scritto talvolta fra le righe, di tale secondo filone - materia squisitamente pubblicistica da affidare alla elettiva competenza del giudice amministrativo. (66) s. GIACCHETTI, op. loc. cit. (67) Cass. SS.UU. 29 dicembre 1990 n. 12221. PARTE Il, DOTTRINA 19 D'altronde, attesa la natura della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio -prosegue la Corte -il ricorrente non potrebbe trovare dinanzi al giudice ordinario adeguata tutela. Tale sentenza dette avvio ad una serie di pronunce orientate nella stessa linea di tendenza anche se caratterizzate da parziali dissensi (68). Si alline invece ed in toto al primo orientamento la giurisprudenza penale. La Cassazione, richiamandosi espressamente alla sentenza Mededil, ritenne che fosse pubblico ufficiale il presidente del Consiglio di amministrazione di una societ per azioni, concessionaria di autostrade, indagato per reati di concussione e corruzione che sarebbero stati commessi percependo tangenti in occasione della scelta dell'appaltatore (69). Nella stessa linea la giurisprudenza penale di merito che, con riguardo alla trasformazione di ente pubblico in societ per azioni, ha escluso che per ci solo possa ritenersi modificato nei confronti dei dipendenti il regime sanzionatorio penale. Con riguardo alla trasformazione dell'Ente Ferrovie in s.p.a. (e quindi con affermazione di principio applicabile a tutti gli analoghi casi di privatizzazione solo formale ) stato infatti affermato che la s.p.a. concessionaria del pubblico servizio di trasporto, pur gestendo i servizi nelle forme tipiche dell'impresa privata, compie attivit direttamente finalizzata al soddisfacimento dell'interesse pubblico con conseguente permanere in capo ai suoi dipendenti delle qualit di incaricato di pubblico servizio (70). Nella stessa direzione si mosso il Consiglio di Stato che, superando le notevoli oscillazioni giurisprudenziali fino allora verificatesi, ha affermato la propria giurisdizione in subiecta materia facendo propria, in un primo tempo, una parte soltanto delle argomentazioni della Cassazione, con ripudio tanto di quelle formalistiche sull'organo indiretto quanto di quelle garantistiche relative alla maggiore o minore tutela ottenibile nelle diverse giurisdizioni. Nella materia in esame -ha affermato il Supremo Consesso Amministrativo con la decisione della V Sezione n. 1250/91 -rileva unicamente il fatto che tutta l'attivit del concessionario si giustifica in relazione ad un interesse pubblico ed dunque ad esso funzionalizzata (71). Nella stessa linea sostanzialistica si posta poi la decisione 498/95 della VI Sezione (72) che ha riconosciuto appartenere alla propria giurisdizione le controversie relative agli atti contrattuali compiuti dalle Ferrovie S.p.a., divenuta concessionaria ex lege dei compiti previsti dalla legge istitutiva dell'Ente Ferrovie dello Stato, sottolineando la Valenza oggettivamente pubblicistica dell'attivit del Concessionario. Da notare che nella decisione ora citata, l'affermazione di principio viene estesa espressamente a tutte le s.p.a. costituite a seguito della trasformazione dell'IRI, dell'ENI, dell'INA e dell'ENEL, che hanno assunto ex lege la veste di concessionarie necessarie di tutte le attivit in precedenza attribuite o riservate agli enti originari e che mantengono le attribuzioni in materia di dichiarazione di pubblica utilit e di necessit ed urgenza gi spettanti agli enti stessi (art. 14 della L. 8 agosto 1992 n. 359). Il Consiglio di Stato richiama in proposito la sentenza della Corte Costituzionale 466/93 (73) che (68) Vedansi Cass. SS.UU. 6 maggio 1995 n. 4889 e 27 marzo 1997 n. 2738. (69) Cass. pen. sez. feriale 19 agosto 1993, Pancheri in Giust. pen. 1994, II, 1. (70) Corte di Appello di Roma 27 aprile 1994 in Foro it. 1994, II, 605. (71) Cons. Stato, V, 21ottobre1991n.1250. (72) Id. VI, 20 maggio 1995 n. 498 in Dir. proc. amm.vo 1996, 147, con nota critica di A. Police. (73) Corte Costituzionale 28 dicembre 1993 n. 466. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 20 ha affermato, in sede di conflitto di attribuzioni, spettare alla Corte dei Conti il potere di controllo sulle s.p.a. derivanti dalla trasformazione dell'IRI, dell'ENI, dell'INA e dell'ENEL. Anche la Consulta ha adottato in proposito un criterio di giudizio assolutamente sostanzialistico, rilevando come la mutata veste giuridica formale del soggetto non sia sufficiente ad alterare la realt sostanziale di una partecipazione esclusiva o prevalente dello Stato al capitale azionario, soprattutto in un contesto ordinamentale in cui si va stemperando la dicotomia tra ente pubblico e societ di diritto privato, per effetto anche della normativa comunitaria, favorevole all'adozione di una nozione sostanziale di impresa pubblica. Da ultimo intervenuto, ancora, in materia il Consiglio di Stato con la recentissima e ponderosa sentenza 1577/96 della V Sezione (74) -c.d. caso IBM Semea che costituisce una sorta di summa sullo stato dell'arte, una sua sistemazione ed un ulteriore passo avanti nella linea di tendenza sopra indicata. Con detta decisione, il Consiglio ha precisato, da un lato, che in tanto un privato concessionario pu adottare atti amministrativi impugnabili dinanzi al giudice amministrativo nell'esercizio di poteri trasferitigli dal concedente in quanto tale trasferimento sia (eccezionalmente) previsto dalla legge -cos come ad es. dall'art. 4 bis del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 come convertito dalla 1. 8 agosto 1992 n. 359; dall'art. 14, comma 3, del d. lg. 30 aprile 1992 n. 285 (nuovo codice della strada); dall'art. 22 della legge 6 agosto 1990 n. 241 (sul potere del concessionario di emanare atti amministrativi in materia di accesso) -ed aggiungendo, per, dall'altro, che la concessione non la sola ipotesi in cui l'ordinamento prevede l'adozione da parte di privati di atti amministrativi impugnabili dinanzi al giudice amministrativo. La legislazione di recepimento dell'ordinamento comunitario in materia di appalti pubblici di servizi e di forniture -segnatamente art. 2 del d.lg. 17 marzo 1995 n. 157; art. 1, comma 3, lett. b, d.lg. 24 luglio 1992 n. 358; art. 13 1. 19 febbraio 1992 n. 142 -con l'espressione amministrazioni aggiudicatrici equipara infatti alle pubbliche amministrazioni tutti i soggetti, pubblici o privati che siano, cui siano riconosciuti o attribuiti poteri pubblici nello svolgimento delle gare per la scelta del contraente. Ne consegue che gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici, anche se soggetti privati, sono atti amministrativi impugnabili dinanzi al giudice amministrativo. Tale conseguenza si giustifica -conclude il Consiglio di Stato -sia in ragione dell'interesse pubblico sotteso alla materia, sia in ragione del fatto che l'imprenditore danneggiato da una irregolare procedura di gara non avrebbe sufficiente tutela dinanzi al giudice ordinario. Il Consiglio di Stato ritorna dunque, sistematizzandola, alla duplice motivazione sostanzialistica e garantistica che aveva ispirato la Cassazione Civile del 1990. 5.5) CONSIDERAZIONI CONCLUSNE Risulta cos confermata la tendenza cui si accennava alla espansione, pur apparentemente paradossale, della giurisdizione amministrativa verso le nuove province create dalla privatizzazione per effetto del sinergico operare di legislazione e giurisprudenza (oltre alla tendenza al mutamento del criterio di discrimine fra le due giu (74) Cons. Stato, V, 27 dicembre 1996 n. 1577. PARTE II, DOTTRINA 21 risdizioni di cui troviamo ancora una recentissima conferma nell'art. 29 della legge 31 dicembre 1996 n. 675 e negli orientamenti emersi nella Commissione bicamerale) Potrebbe per la verit obbiettarsi che fanno stecca nel coro due norme di legge ed una prospettiva. Le due norme sono quella gi citata sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego che prevede la giurisdizione del Pretore giudice del lavoro e l'art. 31 bis, comma 4, della legge Merloni (nel testo modificato dalla c.d. Merloni bis) (75), che assoggetta alla giurisdizione del giudice ordinario le concessioni in materia di lavori pubblici; la prospettiva quella della privatizzazione sostanziale (o forte) prossima ventura mediante diffusione dell'azionariato dei soggetti pubblici gi trasformati in s.p.a. ed attualmente ancora ad azionariato esclusivamente o prevalentemente pubblico. Credo per che tutte e tre le obiezioni siano inidonee a scalfire la tesi di fondo, perch non provano abbastanza o provano troppo. La prima attiene, infatti, ad una scelta squisitamente politica del legislatore, difficilmente spiegabile sul piano giuridico e totalmente incongruente sia con le premesse da cui partiva, sia con le finalit perseguite, come gi si detto. Non resta che accettare la volont sovrana del Parlamento, ancora di recente ribadita con una norma (L. 15 marzo 1997 n. 59 art. 11, comma 2, lettera g) che, peraltro, contestualmente amplia -e non di poco -la giurisdizione del giudice amministrativo devolvendogli, evidentemente in sede di giurisdizione esclusiva, la conoscibilit delle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici). Quanto ali'art. 31 bis della legge Merloni, esso appare esclusivamente volto a sanare una situazione contingente, costituita da un certo numero di giudizi arbitrali in cui, sulla base del rvirement giurisprudenziale della Cassazione operato dal caso Mededil in poi, la competenza del collegio poteva revocarsi in dubbio. Le limitazioni dell'uso dello strumento concessorio previste dal precedente articolo 19 della legge escludono, d'altronde, ogni sostanziale utilit della norma per il futuro, confermando cos la natura provvedimentale della norma stessa, tesa unicamente a risolvere, secondo esigenze di giustizia sostanziale, un fascio di contenziosi pregressi ed inidonea quindi ad essere valutata come elemento da tener presente nel quadro di un sistema. Quanto, infine, alla prossima ventura privatizzazione sostanziale mediante azionariato diffuso delle s.p.a succedute agli enti di Stato, pu osservarsi che se, indubbiamente, ci comporter la naturale attrazione delle relative controversie nella competenza del giudice ordinario, altrettanto indubitabilmente non potr sottrarre al giudice amministrativo le sue competenze su quanto di interesse pubblico rester sotteso della materia. Non mi riferisco tanto ai poteri speciali da conservarsi alla mano pubblica previsti dall'art. 2 della L. 30 luglio 1994 n. 474-e che costituiscono la via italiana alla golden share (76)-per il controllo del cui esercizio sembra pacifica la permanenza della giurisdizione in capo al giudice amministrativo, quanto al nuovo centro di gravit dell'interesse pubblico nell'economia. Come si accennava, l'interesse pubblico nell'economia, prima soddisfatto con l'esercizio del potere di programma e di indirizzo e con la gestione diretta, tende a spostarsi, con la privatizzazione, nel momento della regolazione del mercato e della concorrenza e nella tutela dei consumatori a mezzo di Autorit indipendenti. (75) L. 11 febbraio 1994 n. I 09 modificata dal d.!. 3 aprile 1995 n. I O I, convertito con modificazioni dalla L. 2 giugno 1995 n. 216. (76) F. BONELLI, op. cit., 66. RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 22 Orbene, tali autorit, anche se investite di funzioni pubbliche neutrali da magistrature economiche non possono essere considerate nel nostro ordinamento altro che autorit amministrative, in quanto tali assoggettate secondo le regole generali al sindacato naturale del giudice amministrativo, come d'altronde espressamente previsto in alcuni casi. Attraverso il sindacato degli atti delle Autorit indipendenti, il giudice amministrativo rester dunque il giudice dell'interesse pubblico nell'economia anche nella sua nuova epifania regolatrice. Risulta cos confermato il paradosso, enunciato nel titolo della presente relazione, delle evoluzione di un rapporto fra Amministrazione e giurisdizione che vede al suo nascere, e per circa un quarto di secolo (1865-1889), una Amministrazione minima ma fortissima che nega al giudice qualsiasi potere di sindacato nei propri confronti. Nell'arco di un secolo (1889-1990) assistiamo quindi al progressivo affermarsi di un sindacato giurisdizionale sull'operato dell'Amministrazione. Sindacato che si fa sempre pi vasto e penetrante man mano che l'Amministrazione vede ampliarsi ipertroficamente le proprie competenze. Ai giorni d'oggi assistiamo, infine, al ritrarsi dell'Esecutivo verso dimensioni sempre minori e per vediamo crescere, contraddittoriamente, poteri e competenze del Giudiziario, forse ancora sull'onda della linea di tendenza che aveva portato al cos detto Stato di giurisdizione. Di qui la provocatoria ipotesi di una meta ultima tendenziale (ed ovviamente impossibile) di una giustizia senza amministrazione. Non resta che confidare nell'equilibrio e nella saggezza del costituente. Una saggezza che sappia tener conto delle grandi tradizioni della nostra giustizia amministrativa e sia memore dell'insegnamento della storia, che ha condannato al fallimento tutte le riforme che costituissero una brusca rottura con quella tradizione. Auguriamoci dunque una seconda repubblica prossima ventura che sappia chiudere finalmente la torbida ed interminabile fase di transizione che stiamo vivendo, forte di un rinnovato punto di equilibrio fra i poteri, capace di fornire l'assetto e l'efficienza adeguati per affrontare i problemi del nuovo millennio. IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA PARTE Il, DOTTRINA ALCUNE QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE AGLI ARTT. 26-27 L 4/29 E AL C.P.C. NOVELLATO 1) Premesse A/segu:ito dell'entrata n vigore della recente novella al c.p.c., stato pi volte posto,. in giurisprudenza e in dottrina (si vedano ad esempio Trib, Firenze e Trib. Roma; in Poro it. 1996, I, 1437 e segg.; con nota cui si rinvia per i richiami), il problema del rapporto tra la normativa i:ii materia. cautelare in esso contenuta/e gli artt. 26-27 della legge 4/29, Al riguardo, poith l'art. 669 quaterdecies c.p.c. prevede l'applicabilit delle norme del c.p.c~ nei procedimenti cautelari speciali (tra i quali rientra quello in questine; sulla questione si veda MuTARELLI, Processo cautelare e misure fiscali, in Corriere GiiJridico, 1994, 1371 e segg.) solo in quanto compatibili, risulta da verificare la compatibilit delle norme previste nel c.p.c. con il procedimento cautelare di cui agli artt. 26 e 27 suddetti ; risulta invece esclusa l'opposta teorica possibilit, di conservazione di quanto disposto dagli artt. 26-27, soltanto qualora com patibile conil c.p.c. (in senso contrario, Cass. 181197, secondola quale le disposizioni processuali degli artt; 26 e 27 dovrebbero ritenersi abrogate dalla riforma; trattandosi peraltro di sentenza priva di effettiva motivazione sul punto; senbra hef:essario attendere ulteriori pronunce della S;C. !:iulla questioine). Ai fini di cui si tratta, sembra .opportuno evidenziare brevemente quali siano gli elementi caratteristici delprocedimento cautelare speciale previsto negU artt, 26-27 legge 4/29, che possono essere cos indicati: l'iniziativa, direttamente i. cap.o all'Intendente di Finanza (ora direzione regionale delle entrate, in base all'art. 41 dpr. 27 marzo 1992 n. 287); la competenza a concedere la misura, in capo al Presidente del Tribunale (anche se non sembra da escludere la possibilit di delega ad altro magistrato); l'istituzionale assenza di contraddittorio in relazione all'istanza; la natura della misura, con riferimento ai beni immobili (si tratta di ipoteca, e non di sequestro); il .tendenziale assorbimento del Eumus, che ilJegi&latore sembra aver ritenuto insito nel P.V. di constatazk>ne; l'inesistenza di azione di convalida ( di merito); la possibilit di impugnativa, avanti al Tribunale, dell'eventuale procedimento concesso. A fronte delle caratteristiche appena accennate, si tratta di verificare se sia o meno ipotiz<1abile l'inil.esto i. tale procedimento, di norme contenute negli artt..669 bis e segg. c.p.c., verifica da fare caso per caso, in quanto sembra senltro preferibile la tesi secondo la quale il giudizio di compatibilit va fatto a livello delle singole norme, e non tra i due sistemi (in tal senso si veda, anche per ulteriori richiami, MUTARELLI, op. cit.). 2) Rapporto tra artt. 26-27 L. 4129 e art. 669 bis e segg. c.p.c. A) Quanto all'iniziativa: Come si detto, la normativa speciale prevede che la richiesta cautelare sia formulata dalla direzione regionale delle entrate; si tratta di vedere se sia compatibile con RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 24 tale normativa quella contenuta negli artt. 669 bis e segg. c.p.c. Al riguardo, va considerato che la generale regola secondo la quale lo ius postulandi attribuito ai professionisti legali, (salvi i casi espressamente previsti dalla legge) contenuta nella parte generale del c.p.c., e non nella parte relativa alle misure cautelari, sicch potrebbe ritenersi che non vi sia una specifica normativa sul punto, ricompresa nel richiamo operato dall'art. 669/14, potendo cosi essere ipotizzata l'inesistenza della necessit di coordinare le normative in questione. Peraltro, considerato che l'art. 669 bis prevede che l'istanza cautelare sia proposta con ricorso, il quale, in assenza di specifiche indicazioni, deve possedere i requisiti di cui all'art. 125 c.p.c, ci si deve dare carico della possibilit che la normativa contenuta nella parte del c.p.c. dedicata alle misure cautelari presupponga, e quindi in qualche misura richiami, la normativa in materia di ius postulandi contenuta nella parte generale di tale codice, potendosi cos ipotizzare un problema di compatibilit tra tale normativa e quella contenuta nell'art. 26 L. 4/29. Ora, va evidenziato: che l'art. 125 tutt'altro che tassativo nel prevedere la sottoscrizione da parte di un procuratore legalmente esercente (esso esordisce con un Salvo che la legge disponga altrimenti... e continua ... debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore); che l'art. 26 sembrerebbe essere proprio una di quelle ipotesi in cui la legge ha consentito la sottoscrizione della parte, o ha disposto altrimenti; comunque, che la regola generale da esso evincibile quella che il ricorso, nel caso di azione cautelare, deve essere necessariamente sottoscritto dal procuratore. Su tali basi, visto che il legislatore, nel perseguire obiettivi di rapidit e di immediatezza, ha ritenuto, nell'art. 26, di evitare la previsione della intermediazione legale, si ritiene che l'art. 26 concretizzi uno di quei casi in cui l'istanza pu essere proposta direttamente dalla parte, e, comunque, che, ove venisse ritenuta la sussistenza di un'incompatibilit tra le normative, essa sarebbe tale da escludere l'applicabilit della regola generale contenuta nel c.p.c. B) Quanto alla competenza funzionale: L'art. 26 attribuisce al Presidente del Tribunale la competenza a conoscere dell'istanza proposta dalla direzione delle entrate. Si tratta di una ipotesi di competenza funzionale del Presidente tale da apparire contrastante con la necessaria designazione di un giudice da parte del Presidente, secondo quanto prevede il c.p.c. (art. 669 ter, u.c.). Tale speciale competenza sembra essere stata prevista per tre ragioni: perch, trattandosi di cautela concedibile anche in relazione a fattispecie penalmente rilevanti, per le quali la competenza a conoscere dell'opposizione prevista in capo al giudice penale (si veda peraltro, sulla rilevanza del nuovo c.p.p. e dell'abrogazione dell'ipoteca penale, al fine di escludere la permanenza di competenze del giudice penale ex art. 27, cass. pen., 3 415194, Donnel; si veda inoltre, nel senso della necessaria competenza del giudice civile, Ca&,5. 9939/96), il presidente del tribunale appare l'unico soggetto idoneo a rendere provvedimenti tali da poter essere rilevanti ai fini dell'esercizio sia dell'una che dell'altra giurisdizione; per obiettivi di continuit di giurisprudenza nell'ambito della materia, evidentemente ritenuta di notevole rilevanza da parte del legislatore; perch si tratta di questione nella quale la possibilit di preventivo contraddittorio esclusa, in linea con la tendenza legislativa volta ad attribuire proprio al Presidente PARTE II, DOTTRINA la competenza su questioni sottratte, almeno in sede di eventuale concessione, al contraddittorio delle parti. Quindi, anche volendo ipotizzare la delegabilit della competenza funzionale di cui trattasi, deve ritenersi che si tratti comunque di questioni di esclusiva competenza del presidente (in tal senso, Trib. Roma 10/5/93, in Dir. prat. trib. 95, 2, 50, e Trib. Padova 29/5/94, in Giur. it. 95, 2, 21 e segg.). Del resto, evidente che la figura del giudice designato prevista dal legislatore in funzione del contraddittorio che, in base all'art. 669 sexies c.p.c., deve necessariamente formarsi in relazione all'istanza cautelare, prima o dopo la sua concessione, a differenza da quanto previsto nel precedente art. 670 c.p.c.; poich tale contraddittorio, come si dir al punto d), non appare compatibile con la norma speciale di cui trattasi, ne derivano ulteriori ragioni per ritenere che anche la norma di cui all'art. 669 teru.c. del c.p.c., non sia compatibile con la disciplina speciale di cui all'art. 26 e 27, e che l'organo competente a rilasciare il provvedimento di cui trattasi sia tuttora il presidente. C) Sulla competenza territoriale: Giunti alla appena accennta conclusione, va esaminata un'ulteriore questione, relativa all'individuazione del foro competente rispetto al rilascio dei provvedimenti cautelari previsti dalla normativa speciale di cui trattasi. La questione si pone in quanto l'art. 26, nel rinviare al foro competente, non d alcuna specifica indicazione, da trarsi evidentemente da altra normativa; mentre d'altro lato l'art. 669 ter, 1 co., c.p.c., nel richiamare il foro competente per il merito, d un'indicazione chiaramente inapplicabile, in relazione a caso per il quale il merito sia attribuito ad altra giurisdizione. Sicch, mentre non si pongono problemi per ci che riguarda il foro dell'eventuale opposizione (per il quale, trattandosi di questione di competenza dell'AGO, pu essere pianamente applicato il criterio del foro erariale, come ritiene la costante giurisprudenza della S.C.), per quanto riguarda la competenza sul rilascio (di grande rilevanza, giusta anche i possibili effetti dell'incompetenza in relazione ai motivi ed agli effetti dell'eventuale opposizione), deve necessariamente provvedersi all'esame delle possibilit che si presentano. Si tratta di problematica che, almeno in parte, insorge soltanto a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 669 ter, 1 co., c.p.c., in quanto, in precedenza, l'art. 672 c.p.c (cos come il c.p.c. del 1865), nel rinviare ai due possibili fori del merito e del luogo di esecuzione della misura, dava, con quest'ultima possibilit, un'indicazione sicura in tutti i casi in cui il foro del merito non fosse applicabile. Va detto, al riguardo: che la questione potrebbe essere ritenuta rilevante soltanto con riferimento al sequestro di beni mobili, in quanto, per l'ipoteca, trattandosi di misura diversa dal sequestro, potrebbero essere ritenuti direttamente applicabili i criteri di determinazione della competenza contenuti nella parte generale del c.p.c. (in tal senso si vedano, prima della riforma, cass. 2447/1980, e in dottrina, CONSOLO, Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi Milano, 1992, 761 e segg.); la portata del richiamo contenuto nell'art. 669 quaterdecies c.p.c. sembra peraltro tale da rendere applicabile l'art. 669 ter1 co. c.p.c a qualsiasi tipo di misura cautelare, salvo valutare la compatibilit di tale norma con gli artt. 26-27; che problemi quali quello in questione sarebbero evitabili ove il rinvio effettuato dall'art 26 al giudice Competente, fosse da intendere come rinvio fisso, in quanto, RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO 26 in tal caso, varrebbe il criterio di cui all'art. 926 del c.p.c. del 1865, analogo a quello dell'art. 672 del c.p.c. del 1942; peraltro, la vaghezza del rinvio operato dall'art. 26 non sembra poter consentire di interpretarlo in tal senso; (su questioni analoghe, relative al rinvio contenuto nell'art. 208 T.V. 1775/1933, relativamente alla disciplina delle misure cautelari avanti al Trib. Sup. Acque Pubbliche, si veda MuTARELLI, in Rass. Aw. Stato, 1996, II, 7, con richiami); che, d'altro lato, l'introduzione di norma che, come nella fattispecie, non consente in prima lettura l'individuazione di un giudice competente per la fattispecie in questione, non sembra all'evidenza tale da poter portare all'implicita abrogazione dell'istituto di cui agli artt. 26 e 27, dovendosi in ipotesi ritenere l'incompatibilit di tale norma con la normativa speciale di cui trattasi; che, quindi, l'individuazione del giudice competente sembra dover essere effettuata con applicazione (diretta o analogica) della norma contenuta nell'art. 669 ter 3 co. c.p.c. (norma evidentemente compatibile con la normativa speciale in questione), o, in subordine, applicando la normativa contenuta nella parte generale del c.p.c. relativamente alla competenza (su tale questione, si veda Trib. Padova, 9/5/94, in Giur. it. 95, Il, pag. 25-26). D) Sull'assenza del contradditiorio: Gli artt. 26 e 27 L. 4/29 non prevedono l'instaurazione di alcun preventivo contraddittorio sull'istanza di cui trattasi; lo strumento in questione stato infatti previsto come strumento semplificato, immediato, diretto, in relazione ad una situazione di fumus data dalla sussistenza del p.v. di constatazione; situazione nella quale la concessione del provvedimento dovrebbe seguire la dimostrazione del periculum. Ora, chiaro che gli obiettivi di speditezza ed efficacia perseguiti da tale normativa sarebbero pregiudicati: ove fosse prevista la necessaria intermediazione di legale, che comporterebbe necessariamente la necessit di un passaggio in pi, con conseguente necessit di tempi pi lunghi; ove, all'immediato intervento del presidente, fosse sostituito quello di un giudice designato; ove fosse prevista la necessit di un previo contraddittorio che, in quanto tale, porterebb, oltre che a pregiudicare gli obbiettivi di cui sopra, a superare la legittimazione della Direzione Regionale Entrate, che, in una eventale situazione di contraddittorio, dovrebbe -si ritiene necessariamente -essere rappresentata dall'Avvocatura; sicch verrebbe a risultare incongrua la proposizione dell'istanza da parte di tale direzione, razionale nell'ambito del procedimento speciale di cui trattasi, ma del tutto priva di significato ove vi fosse poi la necessit di difenderne i contenuti, e tale difesa dovesse essere svolta da organo diverso dal proponente, talch ipotizzare la compatibilit dell'art. 669 sexies 1 co. c.p.c. con la speciale disciplina di cui trattasi, varrebbe, in sostanza, tra le altre cose, a far venir meno la legittimazione della direzione entrate. Si ritiene quindi che l'instaurazione del contraddittorio, ai sensi dell'articolo suddetto, sia del tutto incompatibile con la speciale normativa di cui trattasi, sia dal punto di vista della ratio, che da quello funzionale, e che, anche in considerazione di ci, debba essere riaffermata la competenza del Presidente del Tribunale a pronunciarsi su tale istanza. PARTE Il, DOTTRINA E) Sulla natura delle misure cautelari di cui trattasi: L'art. 26 prevede, come noto, la possibilit di concessione di sequestro in relazione ai beni mobili, e di ipoteca in relazione ai beni immobili. Quanto al sequestro, non vi sono differenze sostanziali rispetto alla misura concedibile in base al c.p.c. invece evidente che l'ipoteca prevista nell'art. 26 misura ben diversa dal sequestro di beni immobili previsto nel c;p.c., e che; anche dandosi carico delle ragioni storico- giuridiche che sono all'origine di tale differenza, la differenza resta; peraltro, come si gi detto poco sopra, la questione non sembra di grande rilevanza al fine della valutazione di compatibilit di cui trattasi, fermo restando che si tratta dielemento di notevole rilevanza in relazione alla valutazione di specialit dell'istituto in questione. F) Sul fumus: Gi si detto della pregnanza attribuita dall'art. 26 L. 4/29 al p.v. di constatazione; ci appare in linea con l'evidente difficolt insita nell'ipotizzare una possibilit di esame del luinus relativo alla sussistenza del credito, da parte di organo appartenente a giurisdizione estranea a quella deputata a giudicare dell'esistenza o meno del credito stesso; specie a fronte di istanza proposta non da parte di un legale, ma da parte di un organo dell'amministrazione, a fronte della quale risulta a maggior ragione evidente l'intenzione del legislatore di dare esclusivo rilievo alle risultanze del p.v. In tempi relativamente recenti, la S.C. (sentenza 12589-91, a S.U.), ha affermato che l'esame del giudice civile andrebbe operato, oltre che in relazione al periculum, anche ih relazione al fumus; accompagnando per tale affermazione con la precisazione che il fumus sarebbe comunque desumibile dall'esistenza del p.v. di constatazione. Ci non sembra spostare di molto le cose rispetto a quanto affermato dalla giurisprudenza precedente ( cass. 244 7-80, 1989-79), ferma nell'escludere la sindacabilit del fumus, restando comunque evidente il quadro di estrema specialit che caratterizza, anche per tale verso, la materia in questione, e la necessit di evitare l'applicazione di norme che siano tali da poterla snaturare. G) Sulle azioni successive: La disciplina contenuta nel c.p.c. novellato non prevede la possibilit di azione di convalida, sicch, per tale verso, non sussiste differenza rispetto alla disciplina speciale. Essa prevede invece la necessit di un'azione di merito da proporre entro un ristretto termine, a differenza dalla disciplina speciale che nulla prevede al riguardo. Si tratta, anche in questo caso, di verificare la compatibilit della norma contenuta nell'art. 669 octies c.p.c. con la normativa speciale; e, al riguardo, trattandosi di riferimento ad una azione di merito da proporre avanti all'A.G.O., nelle modalit previste a tal fine dal c.p.c., chiaro che si tratta di disposizione incompatibile con i principi vigenti in materia tributaria, secondo i quali l'azione viene svolta in via amministrativa, ed in relazione a tributi estranei alla giurisdizione dell'A.G.O., rispetto ai quali un'azione di merito non sembra neppure concepibile. Su tale punto, la situazione non sembra quindi variata rispetto alla precedente normativa, in relazione alla quale la S.C. si pronunciata con sentenza 12589/91, a S.U., nella quale si afferma: che non esiste giudizio di convalida; 28 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO che l'unico limite temporale rilevante, ricavabile dall'ordinamento, quello previsto per l'instaurazione della azione tributaria, secondo le specifiche normative di settore; che, oltrepassato tale limite, la misura cautelare diviene inefficace. * * * * Sono state avanzate in dottrina e in giurisprudenza alcune tesi (si vedano, anche per richiami: CONSOLO, Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi Milano 1992, 761 e segg.; MAMou, in Giur. it. 1994, 1171 e segg.) volte ad introdurre pi stretti limiti temporali per l'instaurazione dell'azione tributaria di cui trattasi, fondate essenzialmente sull'equiparazione tra azione di convalida (o di merito) ed azione tributaria ai fini dell'efficacia del provvedimento cautelare. Tali tesi (che non sembrano condivisibili, ed alla cui lettura comunque si rinvia), partono dalla considerazione della notevole differenza sussistente tra i termini previsti nel c.p.c., e quelli di cui alle normative in questione, cosi come individuati dalla S.C., nella suddetta sentenza. Tale differenza, non rilevante dal punto di vista interpretativo, non sembra poter dar luogo alla proposizione di questioni di costituzionalit, che, comunque, sarebbero presumibilmente inammissibili, non potendo la Corte Costituzionale introdurre termini la cui determinazione, anche relativamente alla lunghezza, non potrebbe essere disposta che dal legislatore; e comunque va rilevato che la complessit dell'organizzazione dell'apparato tributario (la cui azione finalizzata ad obiettivi di rilevanza costituzionale), sembra tale da non poter consentire l'introduzione, in via interpretativa, di termini eccessivamente ristretti, variabili, o comunque incompatibili con l'oggettiva organizzazione dell'Amm.ne finanziaria, viste anche le finalit di uguaglianza sostanziale che l'art. 3 cost. persegue. H) Quanto al reclamo di cui all'art. 669 terdecies c.p. c.: L'incompatibilit di tale reclamo con l'impugnazione di cui all'art. 27 I. 4129 appare, almeno ad un primo esame, evidente: e neppure appare possibile ipotizzare un'applicazione del nuovo rito camerale all'impugnazione di cui all'art. 27, considerata la necessaria applicabilit del rito ordinario, ove non sussistano elementi univoci per l'applicabilit del rito camerale (Cass. 11597/93). * * * * In conclusione sul punto, deve ritenersi che le norme sopracitate, contenute negli artt. 669 bis e segg. c.p.c., siano incompatibili con gli aspetti caratterizzanti contenuti nella disciplina speciale contenuta negli artt. 26; che possa essere ritenuta la compatibilit di norme disciplinanti altri aspetti (la competenza nei limiti di cui si detto sopra, o la riproponibilit dell'istanza; si veda Trib. Firenze, in Foro It., 1996, I. 1437 quanto all'applicabilit dell'art. 669 novies c.p.c.); che, quindi, integrazioni alla normativa speciale siano ipotizzabili soltanto in relazione ad aspetti diversi da quelli che si sono esaminati sopra. l 3) Ulteriori questioni processuali I I i Date le problematiche di cui ai punti precedenti e le possibili soluzioni ivi indicaI te, il destinatario di provvedimento cautelare (emesso sul presupposto dell'applicabi- I ! I PARTE Il, DOTTRINA 29 lit dd}a normativa speciale) potrebbe, in sede di opposizione; contestare la compe tenza, o il rito, o quant'altro ritenesse: le sue ragioni dovrebbero comunque essere esaminate nella eventuale opposizione, e la sentenza dovrebbe pronunciarsi sulla legittimit della misura cautelare concessa, anche in relazione a tali parametri, oltre che in relazione al periculum (o al fumus, nei limiti di cui si detto sopra), Yli, pgi c;onstcle~ataJ'.opp()S:t:<1.possihilit, e cio, ~t;;l. un'.ist1,mza ex art,. 26, in sede di deqi$fQne <:\ella st~~sa ctapfue clel gi.clice.Jnves*o. vi potrepbero .essere le seguenti Jl()S!:libilit, (a pres~illn. compatihili . .(ad esempio, perch ritenuto insussistente il Jumus. p.r .in prei;enz.ii, di p, v. di constatazione); potrebbe essere ritenuta. fapplicabilit deLrito, ma esclusa la orpptenza del foro; in entrambi i casi, la mis.ra richiesta non potrebbe essere ce>ncessa,. Su ti.di question,i, va osservato qu;:into segue. A) Sembra trattru:si dtquestioni rilev;:inti solo incaso di rigetto. Itifatti1 ove si tratti di provvedimenti che affermino la competenza o l'ammissibilitlprovvedimento richiesto, seml>ra che s~ debba teMre in considerazione la sussistenza della possibilit di i..lpugnazione clJ. cui all'art. 27, nelquale prevista una sede istituzionalmente designata. 1,mche alla valutazione dei vizi di legittimit, del provvedimento impugnato, tra i quali, all'evidenza, sembr;:ino doversi ricomprendere quelli deriv;:inti dalle questioni di cui s9pra, .secondo i1110 schema noto al c.p.c.; (si veda quanto affermato dalla giurisprudenza per il giudizio di convalida, o per l'impugnazione del decreto ingiuntivo, nell'ambito dei qualivengono valutati i possibili vizi di cui trattasi, con effetto caducatorio. rispetto al prov\Tedimento emesso dal Presidente del Tribunale: Cass. 3092/69 in relazione alla convaiida del sequestro; Cass. 5099/93; 2000/89; 10007/91 e molte altre, in relazione all'opposizione a decreto ingiuntivo). Dall'esistenza di tale sede sembr;:ino potersi trarre elementi sufficienti a far ritenere: -che, in caso di provvedimento conforme alla richiesta, gli elementi di cui sopra vanno vruutati a livello di Eumus, sembr;:indo che 1.llla decisione sul punto, avente.carattere di pienezza, sia sarsamente compatibile coii l'impugnazione di cui all'art. 27; -che, com.nque, sussiste una sede ove far valere tali ql.lestioni, sicch il soggetto che abbia doglianze da svolgere al riguardo, ha adeguata possibilit di farlo, senza alcuna compressione dei suoi diritti di difesa. B) Quli\Jora invece si tratti di provvedimente> che affermi l'inammissibilit della domanda ol'incompetenza, la. questione appare notevolmente pi complicata.Infatti, la m;:incmza, almeno ad un primo esame, di possibilit di impugnazione ex art. 27 di un tale provvedimento, fa dubitare della possibilit che decisioni c4 tal genere si;:ino prese a livello di Eumus ( evidente che, su tali aspetti, non vi sono ragioni -come invece per il Eumus del credito -tali da poter far escludere cheJ'AGO ne possa conoscere, trattmdosi di questioni sulle quali essa (:\eve in ogni caso pronunciarsi). C) Non sembra migliore la situazione, in relazione a qu;:into previsto in materia cautelare nel c.p.c., in qu;:into, dato un problema di competenza o di rito (che potrebbe, sia pure scolasticamente, involgere ad esempio la stessa esistenza, dal punto di vista normativo; del tipo di misura cautelare chiesta o concessa), la sede del reclamo, limi 30 RASSEGNA AWOCATURA DELLO STATO tata agli effetti del fumus, non pare affatto idonea a risolvere questioni di tale genere, che non sembrano prestarsi a decisioni informate al criterio approssimativo del fumus, e dovrebbero prima o poi poter essere decise con provvedimento idoneo a chiarirle in via definitiva , anche considerato che tali aspetti non potrebbero essere considerati nell'eventuale, successivo giudizio di merito. D) Non sembra potersi individuare un rimedio nella riproponibilit dell'istanza (Cass. 6297/80; 2551176; l'art. 669 septies, con disposizione che sembra applicabile anche allo speciale procedimento in questione, la codifica, pur limitandola ai casi ivi espressamente considerati) trattandosi di strumento privo di utilit in caso in cui, anzich della sussistenza o meno del periculum, si tratti di questioni tali che, adottata a ragion veduta una certa giurisprudenza, questa sia tale da precludere la possibilit di una utile riproposizione dell'istanza, quantomeno avanti al giudice in precedenza adito. E) Si deve quindi vagliare la possibilit che decisioni di tale genere debbano essere prese a livello di cognizione piena, con provvedimento avente natura di sentenza. Tale possibilit pare peraltro priva di concretezza, considerato, gi ad un sommario esame: -che si tratterebbe di provvedimento preso in assenza di contraddittorio; -che, quindi, la struttura del procedimento tale da non poter consentire la formazione di un giudicato; -che, comunque, ipotizzata la natura di sentenza ai fini di una possibile impugnazione, non vi sarebbero possibilit di utili provvedimenti da parte del Giudice di appello, che, anche ove accogliesse la tesi dell'ammissibilit, non avrebbe n la possibilit di ritrasmettere la questione al primo giudice, n la possibilit di decidere in suo luogo (se non altro, in base alla evidente impossibilit di utilizzare lo strumento dell'impugnazione, di cui all'art. 27, nei confronti di sentenza del giudice di appello). F) peraltro noto come, ai fini delle impugnazioni esperibili avanti la S.C., il prov I~:: vedimento oggetto di impugnazione possa essere dotato di requisiti anche non totalmente coincidenti con quelli caratteristici della sentenza. Si possono quindi ipotizzare le seguenti possibilit: ::: . Fl) regolamento di competenza, avverso provvedimento declinatorio della com-, petenza. . Tale possibilit risulta in linea generale affermata dalla giurisprudenza formatasi ~, in relazione a provvedimenti dichiarativi dell'incompetenza, resi in relazione ad istanze cautelari (si vedano: Cass. 5078/87, in Giust. Civ. 87, I, 1376; Cass. 1497 e 2118/84; I nonch, implicitamente, Cass. 6869/92), in considerazione del carattere decisorio sulla I competenza che simili provvedimenti assumono, e della loro non riesaminabilit da ~ parte del collegio in sede di convalida, e quindi della loro definitivit. Si tratta, peraltro, di possibilit che viene contestata a seguito della entrata in vigo~ re della novella, in quanto l'art. 669 septies c.p.c. potrebbe essere interpretato in modo rn tale da escludere la possibilit di impugnazioni in punto di competenza. Quanto a tali aspetti, non si vedono elementi di incompatibilit tali da precludere l'applicabilit delle norme appena citate al procedimento speciale in questione, e si Iif~ ritiene quindi che la soluzione del problema vada tratta dall'interpretazione che sar data all'art. 669 septies c.p.c., sulla quale non ci si sofferma, trattandosi di questione 11\ che esula dai limiti del presente lavoro. solo il caso di osservare che, se la S.C. proseguir la tendenza di cui alla giuri11: ' i sprudenza citata in precedenza, ed adotter una giurisprudenza tale da non attribuire r= particolare rilievo -in punto di impugnazioni -al disposto dell'art. 669 septies c.p.c., i 111 ii! r ' 11111111111111t11r11111111r1111,11111J PARTE II, DOTTRINA la possibilit di regolamento di competenza avverso provvedimenti quali quelli in questione risulter confermata. F2) Impugnazione ex art. 111 Cost., avverso provvedimento dichiarativo dell'inammissibilit dell'istanza, o comunque negativo in relazione a ragioni attinenti il rito. Al riguardo, va richiamato quali debbano essere (in linea generale, secondo la S.C.), le caratteristiche di un provvedimento, tali da rendere possibile l'impugnativa ex art. 111 Cost.: Ai fini dell'ammissibilit del ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., il termine sentenza non va inteso nel significato proprio del provvedimento emesso nelle forme e nei casi di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma deve essere interpretato estensivamente, in guisa da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali -anche se legittimamente emessi sotto forma di ordinanza o di decreto -rispetto ai quali non sia previsto alcun altro rimedio, si rende tuttavia necessario che si tratti di provvedimenti aventi carattere decisorio, incidenti comunque sui diritti soggettivi, ed aventi piena attitudine a produrre, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale o processuale sul piano contenzioso... (Cass. 10771/96). Su tali basi, con riferimento a ricorso proposto in caso analogo a quello di cui trattasi, la S.C. ha avuto modo di affermarne l'inammissibilit, in quanto Il provvedimento di rigetto della domanda di iscrizione di ipoteca legale ai sensi dell'art. 26 1. 4/29 non costituisce una pronuncia di accertamento negativo, ma una pronuncia allo stato degli atti, che non assume efficacia di cosa giudicata... (Cass. 9231/96). Tali conclusioni lasciano qualche perplessit ove le ragioni del rigetto non siano, come nell'ipotesi oggetto di esame, legate a specifici elementi della vicenda sottoposta alla decisione del giudice, ma attengano a questioni interpretative, tali che la riproposizione dell'istanza sia inidonea a produrre alcun utile effetto. Si tratta, peraltro, di osservazione rilevante solo in linea di fatto, non essendo in contestazione l'astratta possibilit che l'istanza possa essere indefinitamente reiterata, e riesaminata, e magari anche accolta; sicch, nonostante tale aspetto, si ritiene che le perplessit non siano tali da far contestare le conclusioni cui giunta, al riguardo, la S.C. Sussiste peraltro un elemento, che non risulta considerato nell'ultima pronuncia considerata, dato dall'art. 669 septies c.p.c., secondo il quale l'istanza cautelare non pu essere liberamente riproposta, ma assoggettata ai limiti dati da mutamenti delle circostanze o deduzione di <