Spedizione in abbonamento postale 70% -Filiale di Roma ANNO L-N. 3-4 LUGLIO-DICEMBRE 1998 ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO ROMA 1999 11tt1J1111111111111111111ra11r1w1111111r1111111111@1 Progetto grafico dell'architetto CAROLINA VACCARO. e-. ANNO L-N. 3-4 LUGLIO -DICEMBRE 1998 RAEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO ROMA 1999 ABBONAMENTI ANNO 1999 ABBONAMENTO A.NNuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L. 70.000 UN NUMERO SEPARATO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18.000 Per abbonamenti e acquisti rivolgersi a: ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO Direzione Marketing e Commerciale Via Marciana Marina, Pal. A -00198 Roma Tel. 0685084127 -0685082307 e/e postale n. 387001 Stampato in Italia -Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma-Decreto n. ll089 del 13 luglio 1966 (2219010) Roma, 1999 -Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato -P.V. INDICE Parte prima: GIURJSPRUDENZA Sezione prima: GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE (a cura di Ignazio Francesco Caramazza) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 219 Sezione seconda: GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE (a cura di Oscar Fiumara) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 332 Sezione terza: GIURISPRUDENZA DI (a cura di Sergio Laporta) DIRITTO E PROCEDURA CIVILE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 386 Sezione quarta: GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA (a cura di Raffaele Tamiozzo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 435 Sezione quinta: GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA (a cura di Carlo Bafile) . . . . 482 Sezione sesta: GIURISPRUDENZA PENALE (a cura di Paolo di Tarsia di Be/monte) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 537 Parte seconda: DOTTRINA -RASSEGNA BIBLIOGRAFICA OSSERVATORIO LEGISLATIVO -CONSULTAZIONI RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ........................................... OSSERVATORIO LEGISLATIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONSULTAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 21 25 37 Comitato di redazione: C. Aiello -F. Basilica P. Gentili -D. Giacobbe G. Mangia G. Palmieri P. Palmieri G. P. Polizzi -F. Quadri -F. Scia/ani L. Ventrella Hanno collaborato inoltre al presente numero: Giuseppe Albenzio Massimo Bachetti -Luigi Mazzella La pubblicazione diretta da PLINIO SACCHETTO ARTICOLL NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI F. BASILICA, Brevi osservazioni zn materia di rimborso della tassa sulle societ: dalla decadenza triennale all'art. 11 della legge n. 44811998 collegata alla legge finanziaria. . ............................................ . F. BASILICA, Brevi osservazioni in ordine ali' accesso agli atti interni. . . . . . . . . . . . F. BASILICA, Interessi e rivalutazione sui crediti dei pubblici dipendenti: il chiarimento del! 'Adunanza Plenaria. . ............................... . I. F. CARAMAZZA, Brevi note sul! 'incidente di costituzionalit nella fase cautelare. . P. DI TARSIA DI BELMONTE, Sull'art. 513 del Codice di Procedura Penale: un difficile equilibrio tra ius puniendi e ius libertatis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . O. FIUMARA, Le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunit europee pronunciate nel corso del 1998, in cause alle quali ha partecipato l'Italia. . ..... . O. FIUMARA, Somiglianza dei marchi e dei prodotti o servizi da essi contraddistinti e rischio di confusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ........... . O. FIUMARA, La tutela comunitaria di denominazioni di prestigio: whisky e bevande spiritose . ..................................................... . G. MANGIA, Il problema del metodo Di Bella davanti alla Corte Costituzionale . .. . L. MAzzELLA, La disapplicazione di un bando di gara (o pi in generale di concorso) nella giurisidizione amministrativa . ............................ . G. PALMIERI, Brevi osservazioni in tema di questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto. . .................................................. . G. P. POLIZZI, La questione del numero chiuso all'Universit. . ............. . F. QUADRI, Recensione a: Lo Stato autonomista. Funzioni statali, regionali e locali nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini n. 59 del 1997. Commento a cura di Giandomenico Falcon .............. . I, 525 I, 464 I, 435 I, 255 I, 261 I, 332 I, 380 I, 353 I, 220 I, 453 I, 402 I, 316 Il, 21 PARTE PRIMA INDICE ANALITICO -ALFABETICO DELLA GIURISPRUDENZA AMBIENTE: PROTEZIONE E RISANAMENTO -Contributo concesso ai sensi dell'art. 14 comma 3 del decreto legge 31 agosto 1987 n. 361 conv. in legge 29 ottobre 1987 n. 441 -Revoca del beneficio -Attribuzione al Ministero dell'Ambiente di un autonomo potere di valutazione della congruit dell'intervento autorizzato -Esclusione Previo parere della commissione tecnico scientifica per la valutazione della congruit dei progetti -Necessit, 473. ATTO AMMINISTRATIVO -Diritto d'acesso alla relazione riservata della direzione dei lavori -Sussiste, con nota di F. BASILICA, 464. BELLEZZE NATURALI -Annullamento ministeriale di nulla-osta paesaggistico -Termine -Decorrenza Deliberazione Giunta Comunit Montane Esclusione -Provvedimento Presidente Invio documentazione -Motivazione - Pretermissione valutazione compatibilit ambientale -Sufficienza, 476. CALAMIT-PUBBLICHE -Terremoto 1980 in Campania e Basilicata Occupazione d'urgenza d'immobile Durata -Proroga oltre il quinquennio - Leggittimit, 389. COMPETENZA CIVILE -Competenza per territorio -Foro della Pubblica Amministrazione -Indegorabilit -Procedimenti cautelari -Provvedimento d'urgenza o possessorio -Reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. -Applicabilit Deroga ex art. 7 R.D. n. 1611 del 1933 Esclusione, 424. COMUNIT EUROPEE -Concorrenza -Trasporti su strada -Tariffa obbligatoria -Normativa nazionale Nozioni di interesse generale e di interesse pubblico, 343. -Definizione, designazione e presentazione delle bevande spiritose -Modalit d'uso del termine generico whisky -Bevande composte esclusivamente di whisky ed acqua, con nota di O. FIUMARA, 353. -Diritto di marchio -Rischio di confusione Somiglianza fra prodotti e servizi, con nota di O. FIUMARA, 380. -Disposizioni fiscali -Imposizioni interne discriminatorie -Imposta nazionale di consumo sui prodotti audiovisivi e fotoottici -Incompatibilit eventuale con il diritto comunitario, 338. -Libera circolazione delle merci -Tutela della propriet industriale e commerciale Diritto di marchio -Esaurimento -Merce messa in commercio nella Comunit o in un paese terzo, 360. -Libera circolazione delle merci -Tutela della propriet industriale e commerciale Diritto di marchio -Mezzi di tutela nazionali, 360. -Ricorso per inadempimento -Intesa Fissazione di tariffe professionali Spedizionieri doganali -Normativa che rafforza gli effetti dell'intesa, 343. -Tasse di concessione governativa Ripetizione dell'indebito -Interessi, 366. -Tasse di concessione governativa Ripetizione dell'indebito Termini processuali nazionali, 365. CONCESSIONI GOVERNATIVE (TASSE SULLE) -Tassa sulle societ -Azione di rimborso Competenza territoriale, con nota di F. BASILICA, 524. -Tassa sulle societ -Termine triennale di decadenza dell'azione di rimborso Decorrenza, con nota di F. BASILICA, 524. CORTE COSTITUZIONALE -Conflitto fra poteri dello Stato -Immunit dalla giurisdizione del parlamentare per le opinioni espresse -Limiti, 230. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO VI -Giustizia Amministrativa -Composizione del relativo organo di autogoverno -Sua conformit a Costituzione -Manifesta inammissibilit, con nota di I. F. CARAMAZZA, 254. DELIBAZIONE (GIUDIZIO DI) -Sentenza straniera recante condanna agli alimenti -Sopravvenienza di sentenza italiana recante diversa decorrenza dell'obbligazione alimentare -Delibazione della sentenza straniera per il periodo anteriore a quello considerato dal giudicato italiano -Ammissibilit, 386. ESECUZIONE FORZATA -Pignoramento presso terzi -Contabilit speciale delle Prefetture -Impignorabilit fondi speciali -Onere notifica pignoramento al direttore di ragioneria Nullit rilevabile d'ufficio -Legittimit, con nota di G. P. Pouzzr, 239. ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILIT -Occcupazione d'urgenza -Opere militari Trasformazione irreversibile del terreno Danni, 410. -Retrocessione totale -Prescrizione Decorrenza, 399. -Retrocessione -Totale -Presupposti, 398. FAMIGLIA -Marito affetto da impotentia generandi Consenso all'inseminazione artificiale etewloga della moglie -Disconoscimento della paternit ai sensi dell'art. 235 primo comma, n. 2) codice civile -Questione di legittimit costituzionale -Inammissibilita, 236. GIUDIZIO INCIDENTALE DI COSTITUZIONALIT -Costituzione del pubblico ministero Inammissibilit -Questione di legittimit costituzionale degli artt. 23 e 25 della legge Il marzo 1953, n. 87 -Infondatezza (artt. 23 e 25 legge Il marzo 1953, n. 87; Cost. art. 3), con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. GIUDIZIO PENALE -Avvocatura dello Stato -Costituzione di parte civile per l'Amministrazione Manifestazione esplicita della volont di esercitare la pretesa risarcitoria prova Non richiesta, 547. -Decreto di rinvio a giudizio -Nullit Ordinanza di restituzione degli atti G .l.P. - Abnormit -Non esiste, 537. -Udienza preliminare -Costituzione di parte civile -Termine -Non sussiste, 547. GIURISDIZIONE -Comitato per la formazione e la revisione degli albi dei consulenti tecnici del giudice -Natura -Organo amministrativo Deliberazioni -Ricorribilit ex art. 111 cost. -Esclusione, 396. -Contabilit pubblica Ordinamento contabile regionale -Fermo amministrativo (provvedimenti di) Carenza di potere Giurisdizione dell' A.G.O., 406. GIURISDIZIONE CIVILE -Giurisdizione civile e amministrativa Opere pubbliche -Equiparazione ex,art. 31-bis della legge n. 109 del 1994 delle concessioni di opere pubbliche agli appalti ai fini della tutela giurisdizionale Applicabilit ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge Sussistenza -Art. 5 codice procedura civile -Influenza -Esclusione, 413. -Regolamento di giurisdizione sollevato dalla pubblica amministrazione che non parte in causa -Ricorso alle Sezioni Unite -Parte pi diligente -Termine perentorio -Inosservanza -Conseguenze -Inammissibilit, con nota di G. PALMIERI, 402. GIURISDIZIONE CIVILE E AMMINISTRATIVA -Giudicato amministrativo di rigetto del ricorso -Successiva disapplicazione dell'atto da parte dell' A.G.O. Ammissibilit -Condizioni, 388. GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA -Bando di gara -Disapplicazione Possibilit -Esclusione, con nota di L. MAzZELLA, 453. -Disapplicazione -Possibilit -Limiti, con nota di L. MAzZELLA, 453. -Giudicato -Estensione agli estranei alla lite -Discrezionalit, 478. INDICE ANALITICO ALFABETICO DELLA GIURISPRUDENZA -Giudicato -Estensione ai soli soggetti titolari di giudizi pendenti-Legittimit, 479. IMPIEGO PUBBLICO -Cessazione della materia del contendere Provvedimento pienamente satisfattorio dell'interesse giuridico a base del ricorso originario, 469. -Decreto legislativo 29/1993 -Trattamenti economici fissati dai contratti collettivi - Indegorabilit anche in melius, 458. -Indennit particolare percepite solo dal personale medico a parit di stipendio tabellare con dirigenti amministrativi Legittimit -Estensione per analogia ai dirigenti amministrativi -Esclusione, 458. -Servizi pubblici essenziali -Ordinanza di precettazione -Presupposti procedimentali -Obbligo di richiesta della proposta dalla Commissione di vigilanza -Violazione Conseguenze -Ordinanza di precettazione e sanzione -Illegittimit, 419. -Stipendi assegni ed indennit -Interessi e rivalutazione su crediti previdenziali e retributivi -Rapporti pendenti ed ambito applicativo delle leggi n. 412/1991 e n. 724/1994 -Criteri di computo di interessi e rivalutazione, con nota di F. BASILICA, 435. ISTRUZIONE E SCUOLE -Professore associato -Diritto di svolgere attivit assistenziale presso un Policlinico Non sussiste -Vincolo di dipendenza gerarchica dal primario -Sussiste, 471. -Professori ordinari ed associati -Unitariet della funzione docente -Sussiste Equiparazione quanto allo status, compiti e responsabilit -Esclusione, 4 71. ISTRUZIONE PUBBLICA -Universit -Limitazione del numero degli accessi. Potere del Ministro -Riserva di legge -Direttive comunitarie e decreto legislativo di attuazione -Legittimit, con nota di G. P. Pouzz1, 316. PROCEDIMENTI CAUTELARI -Provvedimento d'urgenza o possessorio Reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. Allegazione di fatti preesistenti o di nuove circostanze di fatto o di diritto Produzione di nuovi documenti Ammissibilit, 424. -Reclamo -Provvedimento d'urgenza o possessorio -Reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. -Natura devolutiva-sostitutiva, 423. - Reclamo -Provvedimento d'urgenza o possessorio reso inter alias -Terzo pregiudicato -Reclamo ex art. 669terdecies c.p.c. -Ammissibilit, 424. PROCEDIMENTO PENALE -Art. 21 O, comma IV codice procedura penale -Contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost. Infondatezza, con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. -Art. 238 -Commi II-bis e IV codice procedura penale -Contrasto con gli artt. 3, 1O1 e 111 Cost. -Infondatezza, con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. -Art. 238 codice procedura penale, IV comma -Imputato in procedimento connesso -Rifiuto di rispondere in dibattimento su fatti oggetto di sue precedenti dichiarazioni -Non prevista applicazione dell'art. 500, commi 2-bis e 4 -Incostituzionalit, con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. -Art. 513, codice procedura penale, II comma -Art. 500, codice procedura penale -Diversit di disciplina -Irragionevolezza Incostituzionalit per violazione dell'art. 3 Cost., con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. -Art. 513, II comma codice procedura penale, questione di costituzionalit per violazione art. 3 Cost. -Contrasto con il comma I dell'art. 513, codice procedura penale -Inammissibilit, con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE, 260. -Giudizio immediato Richiesta dell'imputato -Poteri del G.I.P. -Riunione e separazione dei processi -Interesse dell'imputato alla rinuncia all'udienza preliminare -Prevalenza, 544. -Questione di costituzionalit dell'art. 514 codice procedura penale -Contrasto con gli artt. 3, 24, 101 e 112 Cost. Inammissibilit, con nota di P. DI TARSIA DI BELMONTE 260. SANIT PUBBLICA -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma sottoposti per legge a RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO VIII sperimentazione clinica -Erogazione gratuita a favore di soggetti privi di sufficienti disponibilit economiche Esclusione -Incostituzionalit, con nota di G. MANGIA, 219. -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma sottoposti per legge a sperimentazione clinica -Modalit della sperimentazione -Disparit di trattamento Legge provvedimento Questione infondata di costituzionalit, con nota di G. MANGIA, 219. TRATTATI INTERNAZIONALI -Regioni -Conflitto di attribuzione per riserva allo Stato del potere estero Inammissibilit del ricorso proposto oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla effettiva conoscenza dell'atto impugnato Fattispecie -Subordinazione dell'efficacia del trattato stipulato dalla Regione e successiva approvazione -Irrilevanza, 234. TRIBUTI (IN GENERALE) -Accertamento -Metodo induttivo Accertamento dell'imponibile I.V.A. mediante utilizzazione di elementi acquisiti per la determinazione del reddito -Impiego degli studi di settore -Legittimit -Limiti, 504 -Accertamento -Motivazione -Prova dei fatti -Non attiene alla motivazione, 504 -Accertamento -Prova -Fatti accertati nel giudizio penale Sentenza di proscioglimento o di assoluzione Dichiarazione d'estinzione del reato per prescrizione a seguito del riconoscimento di attenuanti -Enunciazione di fatti rilevanti sulla decisione -Efficacia nel giudizio civile o amministrativo fra le parti presenti, 495 -Contenzioso tributario -Rimborsi -Diritto al rimborso gi accertato con sentenza Giurisdizione delle commissioni per la condanna,515 -Contenzioso tributario -Tributi soppressi con la riforma del 1973 -Imposta di ricchezza mobile Rimborsi Giurisdizione delle commissioni, 515 -Riscossione delle imposte sul reddito Esecuzione esattoriale -Opposizione di terzo -Limiti di prova circa l'appartenenza di beni pignorati -Legittimit, 252 TRIBUTI ERARIALI DIRETTI -Accertamento -Prova -Presunzioni Indicazione dei fatti - sufficiente Dimostrazione dei fatti -Pu essere data in giudizio, 493 -Imposta sul reddito delle persone fisiche Redditi di capitale -Capitali dati a mutuo Presunzione di fruttuosit - assoluta, 493 -Imposta sul reddito delle persone fisiche Redditi di lavoro dipendente Trattamento di fine rapporto -Polizza l.N.A. Pagamento del caP.itale da parte dell'istituto assicuratore - soggetto alla ritenuta di acconto -Parte eccedente la misura legale del trattamento -Quota corrispondente ai premi a carico del dipendente, 519 - Rimborsi -Ritenute -Dichiarazione del reddito relativo - necessaria, 513 TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI -Imposta di registro -Concordato con cessione dei beni - soggetto alla imposta fissa, 485 -Imposta di registro -Decreto ingiuntivo per il pagamento di crediti per prestazioni soggette all'imposta sul valore aggiunto Registrazione ad imposta fissa -Si estende al rapporto accessorio di fideiussione, 491 -Imposta di registro -Privilegio speciale Esecuzione contro il terzo possessore Preventiva esecuzione del debitore Esclusione, 490 -Imposte doganali -Incompatibilit con norme comunitarie Rimborso Traslazione del tributo -Prova -Richiesta di esibizione di fatture e scritture contabili -Legittimit -Rifiuto -Valutazione ai fini della prova -Scadenza dell'obbligo di conservazione -Irrilevanza, 482 -Riscossione -Ingiunzione -Gil!dizio di opposizione -Onere della prova -E sempre a carico dell'Amministrazione -Opponente attore -Irrilevanza, 495 INDICE CRONOLOGICO DELLA GIURISPRUDENZA CORTE COSTITUZIONALE 26 maggio 1998, n. 18S .............................................. . pag. 219 18 luglio 1998, n. 289 ............................................... . 230 24 luglio 1998, n. 332 ................................................ . 234 26 settembre 1998, n. 347 ............................................ . 236 9 ottobre 1998, n. 3SO ............................................... . 239 9 ottobre 1998, n. 3Sl ............................................... . 2S2 ordinanza 13 ottobre -20 novembre 1998 n. 377 ........................... . 2S4 2 novembre 1998, n. 361 ............................................. . 260 27 novembre 1998, n. 383 ............................................ . 316 CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNIT EUROPEE 6a sez. 17 giugno 1998, nella causa C-68/96 .............................. . pag. 338 Sa sez., 18 giugno 1998, nella causa C-3S/96 .............................. . 343 Sa sez., 16 luglio 1998, nella causa C-136/96 ............................. . 3S3 Plenum, 16 luglio 1998, nella causa C-3SS/96 ............................. . 360 Plenum, I S settembre 1998, nella causa C-231/96 .......................... . 36S Plenum, IS settembre 1998, nelle cause riunite C-279, 280 e 281/96 ............ . 366 Plenum, 29 settembre 1998, nella causa C-39/97 ........................... . 380 2a sez., 1 ottobre 1998, nella causa C-38/97 .............................. . 343 GIURISDIZIONI CIVILI CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 20 marzo 1998, n. 29S3 ........................................ . pag. 482 Sez. I, 20 marzo 1998, n. 29S7 ........................................ . 48S Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3481 .......................................... . 386 Sez. I, 4 aprile 1998, n. 3488 .......................................... . 490 Sez. I, 7 aprile 1998, n. 3S72 .......................................... . 491 Sez. I, 8 aprile 1998,.n. 3661 .......................................... . 493 Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3937 ......................................... . 49S Sez. I, 18 aprile n. 39S3 .............................................. . S04 Sez. I, 23 aprile 1998, n. 4202 ......................................... . Sl3 Sez. Un., 6 maggio 1998, n. 4S73 ...................................... . 388 Sez. Un., ordinanza 21maggio1998, n. 460 .............................. . 396 Sez. Un., 8 giugno 1998, n. S619 ....................................... . 398 Sez. Un., 8 luglio 1998, n. 662S ........................................ . SIS Sez.Un., 27 luglio 1998, n. 7340 ....................................... . 402 Sez. Un., 29 luglio 1998, n. 7414 ....................................... . 406 Sez. I, 18 agosto 1998, n. 8128 ........................................ . S19 INDICE CRONOLOGICO DELLA GIURISPRUDENZA X Sez. I, 27 agosto 1998, n. 8522 ........................................ . pag. 524 Sez. I, 12 settembre 1998, n. 9094 ...................................... . 410 Sez. Un., 15 settembre 1998, n. 9167 .................................... . 413 Sez. I, 3 novembre 1998, n. 10970 ...................................... . 419 TRIBUNALE DI CATANZARO Sez. I, ordinanza 25 marzo 1997 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 423 Sez. I, ordinanza 27 maggio 1997 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 424 GIURISDIZIONI AMMINISTRATIVE CONSIGLIO DI STATO Ad. Plen., 15 giugno 1998, n. 3 ........................................ . pag.435 Ad. Plen., 20 luglio 1998, n. 6 ......................................... . 435 Sez. IV, 27 agosto 1998, n. 568 ........................................ . 453 Sez. IY, 15 settembre 1998, n. 1161 ..................................... . 458 Sez. IY, IO dicembre 1998, n. 1171 ..................................... . 464 Sez. VI, 15 luglio 1998 n. 1078 ........................................ . 469 Sez. VI, l 7luglio 1998 n. 1097 ........................................ . 471 Sez. VI, 17 luglio 1998 n. Il00 ........................................ . 473 Sez. VI, 4 settembre 1998 n. 1210 ...................................... . 476 Sez. VI, 29 settembre 1998 n. 1317 ..................................... . 478 GIURISDIZIONI PENALI CORTE DI CASSAZIONE Sez. Un., 12 febbraio 1998, n. 17 ........................................ pag. 537 TRIBUNALE DI ROMA Sez. IV, ordinanza 27 novembre 1998 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 547 TRIBUNALE DI BRINDISI G.l.P., decreto 17 novembre 1998 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 544 PARTE SECONDA RASSEGNA BIBLIOGRAFICA . .'. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 21 OSSERVATORIO LEGISLATIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 CONSULTAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . . . . 37 PAR TE PRIMA I 6 ~ f.' " GIURISPRUDENZA SEZIONE PRIMA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE CORTE COSTITUZIONALE, 26 maggio 1998, n. 185 -Pres. Granata-Red. Guizzi -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Pagano). Sanit pubblica -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma sottoposti per legge a sperimentazione clinica -Erogazione gratuita a favore di soggetti privi di sufficienti disponibilit economiche -Esclusione Incostituzionalit. (Cost. artt. 3 e 32; d. I. 17 febbraio 1998, n. 23, Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria, artt. 2, 3; legge 8 aprile 1998, n. 94, conversione in legge, con modificazioni, del d. I. 17 febbraio 1998, n. 23, art. 1). Sanit pubblica -Assistenza sanitaria -Farmaci antitumorali non compresi nel provvedimento di classificazione della commissione unica del farmaco ma sottoposti per legge a sperimentazione clinica -Modalit della sperimentazione -Disparit di trattamento -Legge provvedimento Questione infondata di costituzionalit. (Cost. artt. 3, 70, 77; d. I. 17 febbraio 1998, n. 23, artt. 2, 3; legge 8 aprile 1998, n. 94, art. 1 ). incostituzionale il combinato disposto dell'art. 2, comma 1, ultima proposizione, e dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 1998, n. 94, nella parte in cui nn prevede l'erogazione a carico del servizio sanitario nazionale dei medicinali impiegati nella cura delle patologie tumorali, per le quali disposta la sperimentazione di cui all'art. 1, a favore di coloro che versino in condizioni di insufficienti disponibilit economiche, secondo i criteri stabiliti dal legislatore, nei seguenti limiti oggettivi, soggettivi e temporali: a) di oggetto, e cio in relazione ai farmaci rientranti nel multitrattamento Di Bella, di cui all'art. 1 del decreto-legge n. 23 del 1998; b) di soggetti, e cio in relazione ai soli pazienti affetti da patologie tumorali comprese tra quelle sottoposte alla sperimentazione in corso, di cui all'art .1, rispetto ai quali il medico ritenga sotto la propria responsabilit, e sulla base di elementi obiettivi, che non esistano valide alternative terapeutiche tramite medicinali o trattamenti gi autorizzati per tali patologie; e) di tempo, in RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO , 220 relazione al periodo della sperimentazione di cui all'art. 1, cio fino al momento in cui sia possibile disporre di dati scientificamente attendibili, in base ai quali si possa uscire dalla situazione di incertezza attuale. infondata la questione di legittimit costituzionale del!' art. 2, comma 1, ultima proposizione, e dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 23 del 1998, sollevata in riferimento agli artt. 3 -in relazione alla disparit di trattamento che si sarebbe determinata a danno dei farmaci compresi nella multiterapia Di Bella -70 e 77 della Costituzione (1). (omissis) 1. -Il Consiglio di Stato dubita della legittimit costituzionale dell'art. 2, comma 1, ultima proposizione, del decreto-legge n. 23 del 1998 (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 1998, n. 94, con riguardo, innanzitutto, all'art. 3 della Costituzione, che risulterebbe violato sotto due profili: -per disparit a danno dei farmaci che compongono il multitrattamento Di Bella, poich soltanto per essi -sostiene il rimettente -il decreto-legge n. 23 richiede la disponibilit di risultati di studi clinici di fase seconda quale condizione per il loro inserimento nell'elenco dei medicinali innovativi, mentre l'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996 reputa sufficiente che il medicinale sia sottoposto a sperimentazione clinica, indipendentemente dalla fase in cui giunta, o che esso sia gi autorizzato per diverse indicazioni terapeutiche; -per disparit di trattamento fra i malati terminali selezionati ai fini della sperimentazione (per i quali la somministrazione gratuita) e quelli che non vi sono stati ammessi, e sono autorizzati, s, a utilizzare detti farmaci, ma a loro spese (art. 3, (1) Il problema del metodo Di Bella davanti alla Corte Costituzionale. 1. Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha fissato degli importanti principi in una mtiteria in cui si era creata una preoccupante confusione a seguito di una serie di diverse e contraddittorie pronunce sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo. Come noto, della questione Di Bella si sono occupati, a partire circa da luglio 1997, svariati Pretori sparsi in tutta Italia, che, con una serie cospicua di provvedimenti d'urgenza, hanno in alcuni casi ordinato e in altri casi negato la somministrazione urgente e gratuita dei costosi farmaci contemplati nel cosiddetto metodo Di Bella. Successivamente stato coinvolto in tale delicato settore anche il giudice amministrativo, che ha emanato le due ordinanze sulle quali stata chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale. 2. La vicenda trae origine da un ricorso notificato in data 20 gennaio 1998 dal CODACONS, Associazione per la tutela dei diritti del malato, De Lipsis Emilio, Sposetti Maria, Primerano Maria Rosa, Spadoni Santino al T.A.R. Lazio per l'annullamento previa sospensiva della nota prot. n. 800/uff. Xl/AG 13/1995 in data 7 novembre 1997 a firma del Dirigente dell'Ufficio XII del Dipartimento Valutazioni Medicinali e Farmaco-vigilanza del Ministero della Sanit, nonch di altri atti presupposti e conseguenziali, tra cui due pareri della C.U.F. dell'8 gennaio e del 10-12 settembre 1997, con l'ultimo dei quali la C.U.F. aveva ritenuto non accettabile l'inclusione della somatostatina nell'elenco previsto dall'art. 1, comma 4, decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 221 comma 4, del decreto-legge n. 23 del 1998): disposizione sospetta, considerato il tipo di patologia, giacch non sarebbe ragionevole pretendere il completamento della seconda fase nella sperimentazione quale condizione per la somministrazione gratuita dei farmaci. Sarebbe leso, altres, il diritto alla salute, salvaguardato dall'art. 32 della Costituzione. Si eccepisce, infine, il carattere singolare della norma denunciata, in violazione del principio di generalit e astrattezza delle leggi nonch del principio di divisione tra potere legislativo e amministrativo, senza che si riscontri alcun ragionevole motivo per l'adozione di una legge-provvedimento (e qui si richiamano gli artt. 3, 70 e 77 della Costituzione). 2. -Appare evidente, dal tenore delle ordinanze di rimessione, che il giudice a quo intende censurare tutte le norme del decreto-legge n. 23 del 1998 che precludono la somministrazione gratuita dei farmaci in esame ai malati esclusi dalla sperimentazione, ai quali si riconosce libert di cura, ma a loro spese (art. 3, comma 4). Le disposizioni che formano oggetto della questione sono quindi l'art. 2, comma 1, ultima proposizione, e l'art. 3, comma 4, del decreto-legge; va cos precisata l'incompleta indicazione delle disposizioni sottoposte al vaglio di questa Corte ( cfr. l'ordinanza n. 350 del 1994, e ivi i richiami alle sentenze nn. 115 del 1990, 138 del 1986, 47 del 1962). Stante l'identit delle due ordinanze di rimessione, i giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza. 3. - ammissibile la costituzione in giudizio della regione Emilia-Romagna, parte intimata nel giudizio pendente innanzi al tribunale amministrativo regionale per il Lazio, seppur non costituita nel procedimento cautelare d'appello: quest'ultimo non convertito nella legge 23 dicembre 1996, n. 648, in quanto dall'analisi critica delle informazioni disponibili dalla letteratura scientifica si evince la mancanza di evidenza di efficacia per la somatostatin e per il suo analogo di pi lunga durata octreotide nel trattamento dei tumori, con l'eccezione per quest'ultimo del trattamento delle sindromi da tumori endocrini gastroenteropancreatici, indicazione gi approvata. Il T.A.R. Lazio, Sez. 1-bis, con ordinanza n. 225/98 (1), ha ritenuto che l'art. l, comma 4, decreto-legge n. 536/96, convertito nella legge n. 648/96, consente, sempre che non vi sia valida alternativa terapeutica, l'erogazione del farmaco a carico del S.S.N. quando sussista una concreta possibilit dell'efficacia del farmaco stesso, e non soltanto nei casi in cui sia accertata l'evidenza della sua efficacia, e ritenuta altres esulante dai propri poteri l'inserzione della somatostatina nell'apposito elenco in sostituzione della Commissione Unica del Farmaco, cui tale potere compete, ha disposto che la C.U.F. procedesse al riesame della questione, al fine di valutare se ricorrano le condizioni per consentire l'erogazione gratuita (ai sensi della cit. disposizione del decreto-legge n. 536/96, come sopra interpretata), fino al termine della sperimentazione in atto, della somatostatina in ambiente ospedaliero, laddove i sanitari ospedalieri la considerino utile per il malato in quanto non esista valida alternativa terapeutica, ed ha accolto la domanda incidentale di sospensiva nei termini indicati nella parte motiva. (1) Si veda il testo in Guida al diritto 1998, fase. 12, 10. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 222 sottende, infatti, un diverso rapporto processuale, ma si configura soltanto come una fase del processo in ordine alla quale intervenuta l'impugnazione del provvedimento cautelare devoluta alla cognizione del Consiglio di Stato; e la Regione comunque titolare di un evidente interesse sostanziale, con riguardo sia all'oggetto della controversia di merito, sia all'incidente di costituzionalit (v. sentenze nn. 223 e 171 del 1996; cfr. pure la recente ordinanza n. 67 del 1998). 4. -Sono da respingere le eccezioni di inammissibilit avanzate dalla Regione Emilia-Romagna. Non fondata l'eccezione di manifesta irrilevanza, perch il decreto-legge n. 23 del 1998, ius .superveniens, incide direttamente sul quadro normativo che il giudice rimettente deve considerare, anche in vista dell'esercizio del potere cautelare. La valutazione del giudice a quo, su questo punto, plausibile. Non fondata , altres, la seconda eccezione per difetto di incidentalit, perch non pu ritenersi che le due ordinanze si risolvano in una critica in astratto del decreto-legge sopravvenuto; n appare esaurito il potere di dec.idere sulla domanda cautelare, secondo quanto si evince dalla lettura delle stesse ordinanze. 5. -Si deve dunque passare al merito, e per meglio comprendere la questione necessario muovere dal decreto-legge n. 536 del 1996, e dagli atti conseguenti alla sua conversione in legge. La C.U.F., nella seduta del 27 gennaio 1998, ha riesaminato la questione e, rilevato che allo stato erano stati disposti protocolli di sperimentazione del multitrattamento Di Bella, includente tra l'altro anche l'impiego della somatostatina, ha escluso che vi fossero elementi tali da fondare quella concreta possibilit di efficacia cui fa riferimento l'ordinanza del T.A.R., e che potranno soltanto eventualmente derivare dai risultati delle preannunciate sperimentazioni, ma non trarsi dalla semplice pianificazione di esse, in quella data soltanto resa possibile dalla disponibilit del prof. Di Bella a fornire precisi elementi conoscitivi della terapia da lui praticata. Di qui da parte del solo CODACONS istanza per l'esecuzione dell'ordinanza n. 225/98 e nuova .istanza di sospensiva nonch istanza di riesame dell'ordinanza n. 225/98 e istanza per l'accesso, notificata il 30 gennaio 1998. Con l'ordinanza n. 384/98 (2) il T.A.R. Lazio la Sezione bis, rilevato che la C.U.F. ha espresso la sua valutazione in modo compatibile con l'interpretazione della normativa contenuta nell'ordinanza n. 225/98, ma, ritenuto che il criterio seguito dalla C.U.F. <>, requisito imposto solo per i medicinali del Metodo Di Bella, quale limite all'esercizio dei poteri tecnici della C.U.F. Discriminazione, secondo il Consiglio di Stato, irragionevole, atteso che sarebbe stata scientificamente assodata la non tossicit del metodo Di Bella e che sarebbe esistito un certo _unale RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 288 denuncia, in primo luogo, la violazione degli artt. 3, 25, 101 e 112 della Costituzione in quanto la norma impugnata attribuisce rilevanza al consenso espresso dalla difesa ai fini della valutazione della prova, consistente in dichiarazioni rese da coimputati e da imputati o indagati in procedimento connesso o probatoriamente collegato di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 codice procedura penale previgente. Al riguardo il rimettente osserva che il principio di eguaglianza e il principio di legalit in materia penale, da cui discende l'indisponibilit pubblica e privata della pretesa punitiva dello Stato, il principio di obbligatoriet dell'azione penale e la regola dell'obbligo di motivazione delle sentenze (con il corollario della necessaria coerenza intrinseca tra premesse e conclusioni) conducono a ritenere incompatibile con l'ordinamento costituzionale una interferenza tra volont delle parti del processo e valutazione della prova, che potrebbe costringere il giudice a pervenire ad una pronuncia irragionevolmente discriminatrice e contraddittoria, che si fondi non sulla valutazione razionale degli elementi legittimamente acquisiti, ma anche sulla volont insindacabile delle parti processuali. In particolare, risulterebbe evidente la lesione del principio di eguaglianza in quanto, in conseguenza di differenti condotte processuali della difesa (consenso prestato o meno dai vari difensori prima della entrata in vigore della legge), il giudice, utilizzando nei confronti di ciascun imputato un materiale probatorio diverso, potrebbe pervenire alla condanna dell'uno e alla assoluzione dell'altro, pur in presenza di una identica posizione processuale. In secondo luogo il Tribunale, con riferimento agli artt. 3, 101, comma 2, 111, comma 1, Cost., ravvisa la intrinseca irrazionalit dell'art. 6 comma 5 legge n. 267/1997 nella parte in cui vieta di valutare le dichiarazioni acquisite ai sensi del testo previgente dell'art. 513 codice procedura penale: infatti la norma transitoria, mentre consente l'utilizzazione a fini di prova delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate dall'art. 513 se la loro intrinseca attendibilit riscontrata anche soltanto da altri elementi di natura logica, vieta al giudice di utilizzare come riscontro dichiarazioni della stessa natura provenienti da persone div~rse delle quali abbia riconosciuto l'attendibilit e l'autonomia rispetto a quella da riscontrare, cos imponendogli di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della medesima decisione. In terzo luogo il giudice a quo ritiene violato l'art. 3 Cost. per disparit di trattamento tra chi raggiunto da pi chiamate in correit convergenti, acquisite ex art. 513 e chi lo soltanto, o anche, da dichiarazioni acquisite ex art. 503 codice procedura penale per avere il dichiarante rifiutato di rispondere soltanto a singole domande, o, ancora, da dichiarazioni predibattimentali acquisite ex art. 512 codice procedura penale. In ordine alla questione relativa all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, rilevante in ordine alle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso citato a comparire per rendere esame dopo l'entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, il Tribunale deduce, innanzi tutto, la violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui prevede un diverso regime di lettura e conseguente utilizzabilit delle dichiarazioni del coimputato a seconda che questi sia giudicato contestualmente o separatamente. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Si osserva al riguardo che la coesistenza di due regimi di utilizzabilit, a seconda che si tratti di imputato giudicato contestualmente (art. 513, comma 1) o separatamente (art. 513, comma 2) evidenzia una irragionevole disparit di trattamento, analoga a quella che aveva dato luogo alla declaratoria di incostituzionalit pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992. Inoltre, il giudice a quo ravvisa la violazione degli artt. 3 e 112 Cost., nella parte in cui (l'art. 513, comma 2, codice procedura penale novellato) non consente la lettura di dichiarazioni rese al P.M., alla P.G. delegata o al G.I.P. nella fase delle indagini ovvero al G.U.P. senza le forme degli artt. 498 e 499 codice procedura penale da persone indagate o imputate in procedimento connesso o probatoriamente collegato che si siano avvalse della facolt di non rispondere nel caso che le dichiarazioni siano state assunte prima dell'entrata in vigore della novella. Rileva il Tribunale che tale assetto normativo si risolve in una pura e semplice sottrazione al processo di materiale probatorio ritualmente assunto, senza che fosse possibile, prima della entrata in vigore della novella, rimediare a tale conseguenza con il ricorso all'incidente probatorio: ci non solo determina una irragionevole disparit di trattamento tra imputati, a seconda che il dichiarante si sia o meno avvalso della facolt di non rispondere, ma anche un impedimento alla utilizzazione di prove raccolte dal pubblico ministero, non pi in grado di chiederne l'assunzione con modalit tali da impedirne la dispersione. Ancora, sarebbe ravvisabile la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui la norma subordina l'acquisizione delle dichiarazioni al consenso di tutte le parti. Ed infatti, attribuire ad una qualsiasi delle parti, sia pubbliche che private, compresa la parte civile, la facolt di paralizzare l'acquisizione della prova nel processo, anche favorevole a questo o a quello imputato, mentre conduce a conseguenze inammissibili con gli stessi principi del processo accusatorio, dove la iniziativa della parte mezzo per ampliare, e non per restringere, la conoscenza del giudice, determina conseguenze lesive degli stessi interessi difensivi, che potrebbero essere sacrificati dalle peculiari strategie difensive di ciascuna parte. 9 .1. - intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, che, riportandosi, stante l'analogia delle questioni, all'atto di intervento relativo ai giudizi di costituzionalit promossi con le ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1.997, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. 10. -Nel corso di un procedimento penale a carico di diversi imputati dei delitti di falsit ideologica e abuso di ufficio, il Tribunale di Trani disponeva ex art. 21 O codice procedura penale la citazione per l'udienza del 16 ottobre 1997 di un ex coindagato nei cui confronti era stata disposta l'archiviazione ai sensi dell'art. 408 codice procedura penale. All'udienza indicata, successiva all'entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, tale soggetto si avvaleva della facolt di non rispondere e il pubblico ministero chiedeva che fossero acquisite le dichiarazioni dallo stesso rese in sede di RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 290 interrogatorio. All'acquisizione si opponevano i difensori degli imputati in base a quanto disposto dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, di immediata applicabilit nel processo in corso. Il pubblico ministero eccepiva l'illegittimit costituzionale della suddetta norma per contrasto con gli artt. 3, 97 e 112 Cost. Il Tribunale, valutata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimit prospettata e ritenuto di dover estendere d'ufficio, in riferimento agli stessi parametri costituzionali, la cnsura, formulata dal pubblico ministero in relazione all'art. 513 codice procedura penale, agli artt. 238 codice procedura penale e 6 della legge n. 267 del 1997, con ordinanza del 16 ottobre 1997 (registro ordinanze n. 913 del 1997) rimetteva il giudizio dinanzi alla Corte. A giudizio del Tribunale rimettente l'art. 513, comma 2, codice procedura penale, novellato dalla legge n. 267 del 1997, viola in primo luogo l'art. 3 Cost., in quanto determina una irragionevole disparit di trattamento fra situazioni processuali equipollenti: mentre, infatti, nel caso in cui il testimone rifiuti di rispondere possibile ai sensi dell'art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale procedere alle contestazioni e cos recuperare le dichiarazioni precedentemente rese, quando a deporre sia un imputato di reato connesso il recupero delle sue dichiarazioni pu avvenire solo su accordo delle parti. Al riguardo il rimettente osserva che a venire in discussione , sotto questo profilo, direttamente l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, che attribuisce la facolt di non rispondere all'indagato o imputato in un procedimento connesso anche con riferimento a fatti riguardanti la responsabilit di terzi, ipotesi nella quale il dichiarante ex art. 21 O codice procedura penale in una situazione equiparabile a quella del testimone. Di qui la censura mossa, in riferimento all'art. 3 Cost., anche all'art. 21 O codice procedura penale per i riflessi sull'attuale disciplina dell'art. 513 codice procedura penale. Un ulteriore profilo di disparit di trattamento viene ravvisato dal giudice a quo in relazione alla disciplina transitoria prevista dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997. Infatti la norma impugnata, pur introducendo ai commi 2 e 5 una disciplina di salvaguardia delle situazioni in cui il dichiarante sia gi stato esaminato prima dell'entrata in vigore della legge, nulla dispone in ordine alla situazione del tutto equipollente in cui, come nella specie, il dichiarante, esaminato in dibattimento dopo l'entrata in vigore della legge, si avvalga della facolt di non rispondere e tuttavia il pubblico ministero non abbia avuto alcuna possibilit, ai sensi del comma 1, di ricorrere all'incidente probatorio, essendo gi esaurite le fasi in cui tale mezzo consentito. L'art. 513, comma 2, codice procedura penale violerebbe inoltre il principio del buon andamento della pubblica amministrazione in quanto determina un rilevante spreco di attivit amministrativa, finalizzata all'espletamento delle indagini e all'introduzione del giudizio dibattimentale, allorch tale attivit venga vanificata in conseguenza della impossibilit non prevedibile di poter utilizzare una fonte di prova, nonch l'art. 112 della Costituzione in quanto la norma impugnata di ostacolo al valido esercizio dell'azione penale promossa. 10.1. - intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato che, richiamandosi integralmente PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE all'atto di intervento relativo ai giudizi di costituzionalit promossi con le ordinanze iscritte ai numeri 776 e 787 del registro ordinanze del 1997, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. Considerato in diritto 1. -Preliminarmente la Corte deve prendere in esame le questioni della ammissibilit della costituzione in giudizio del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino (registro ordinanze n. 915 del 1997) e della provincia di Bologna, qualificatasi come persona offesa nel procedimento avanti al tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776 del 1997). 1.1. -Come questa Corte ha pi volte avuto occasione di affermare (sentenze numeri 1 e 375 del 1996 e ordinanza n. 327 del 1995), la costituzione del pubblico ministero nel giudizio incidentale di costituzionalit deve ritenersi inammissibile: infatti, nonostante al pubblico ministero debba riconoscersi la qualit di parte nel processo a quo, da un lato la peculiarit della sua posizione ordinamentale e processuale, dall'altro l'attuale disciplina (articoli 20, 23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), che tiene distinti il pubblico ministero e le parti, inducono ad escludere la costituzione in giudizio di tale soggetto. La peculiarit del ruolo del pubblico ministero fa poi ritenere non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di distinguere tale organo rispetto alle parti del procedimento a quo, non prevedendone la legittimazione a costituirsi nel giudizio sulle leggi. Appare pertanto priva di fondamento la questione di legittimit costituzionale degli artt. 23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui non contemplano il pubblico ministero tra i soggetti che possono costituirsi, prospettata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino nelle deduzioni scritte presentate sotto forma di atto di costituzione, nonch nell'illustrazione delle ragioni che stato ammesso a rendere nell'udienz.a pubblica. 1.2. - del pari inammissibile la costituzione della persona offesa provincia di Bologna, che non era parte nel procedimento a quo. 2. -Le numerose questioni di legittimit costituzionale sottoposte all'esame della Corte riguardano l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, nonch gli artt. 238, commi 2-bis e 4, e 513, commi 1 e 2, codice procedura penale -questi ultimi nelle parti modificate, rispettivamente, dagli artt. 3 e 1 della legge 7 agosto 1997, n. 267 (Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove) -e l'art. 6, commi 2 e 5, della predetta legge, contenente norme transitorie circa la nuova disciplina dell'art. 513 codice procedura penale. In estrema sintesi, tutte le questioni attengono alle regole di acquisizione probatoria di dichiarazioni sul fatto altrui rese in precedenza da imputati, sia nel medesimo procedimento, sia in procedimento separato, non comparsi in dibattimento, ovvero che rifiutino di sottoporsi all'esame o si avvalgano della RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 292 facolt di non rispondere. Le questioni si riferiscono dunque, nell'ambito dell'articolato e complesso sistema normativo che disciplina la formazione della prova in dibattimento, ad una peculiare categoria di dichiarazioni, caratterizzate dall'essere rese da imputati e dall'avere per oggetto fatti concernenti la responsabilit di altri imputati. In particolare, le questioni investono: -con riguardo all'art. 513, comma 1, codice procedura penale, la regola che subordina al consenso degli altri imputati l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato nel medesimo procedimento che in dibattimento rifiuti di sottoporsi all'esame; -con riguardo all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, la regola che condiziona all'accordo delle parti la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato in procedimento separato che in dibattimento si avvale della facolt di non rispondere; -con riguardo alle disposizioni transitorie dettate dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997 in relazione all'art. 513 codice procedura penale, la diversit di disciplina circa l'utilizzazione delle dichiarazioni nei giudizi in corso, a seconda che, al momento di entrata in vigore della legge, non fosse ancora ovvero fosse gi stata disposta la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza; -con riguardo all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura penale, la disciplina che prevede la utilizzazione delle dichiarazioni rese in altro dibattimento soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato all'assunzione della prova nel procedimento separato, ovvero soltanto nei confronti dell'imputato che vi consenta; -infine, con riguardo all'art. 210, comma 4, codice procedura penale, non modificato dalla legge n. 267 del 1997, la facolt di non rispondere riconosciuta all'imputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato. Poich le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, comup.que coinvolgenti complessivamente gli articoli del codice di procedura penale sostituiti o modificati dalla legge n. 267 del 1997 e le relative norme transitorie, nonch l'art. 210, comma 4, codice procedura penale, ad essi strettamente collegato, opportuno disporre la riunione dei relativi giudizi. 2.1. -L'esame delle molteplici questioni prospettate dai giudici rimettenti presuppone l'individuazione preliminare dei valori costituzionali coinvolti dal complesso sistema normativo sottoposto al giudizio della Corte. Viene innanzitutto in gioco l'inviolabilit del diritto di difesa dell'imputato, nella sua dimensione di diritto fondamentale della persona, garantito dall'art. 24 della Costituzione, con particolare riferimento, per quanto qui interessa, sia all'imputato che ha reso dichiarazioni sul fatto altrui, sia all'imputato nei cui confronti tali dichiarazioni sono rivolte. Quanto al primo, l'intangibilit del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e conseguentemente del diritto al silenzio, si PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE manifesta nella garanzia dell'esclusione, anche quando l'imputato abbia reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di altri, dell'obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilit proprie. Quanto al secondo, manifestazione irrinunciabile del diritto di difesa che all'imputato sia assicurata la possibilit, salvo che egli stesso vi abbia rinunciato, di sottoporre al vaglio del contraddittorio le dichiarazioni che lo riguardano, in conformit al metodo di formazione dialettica della prova davanti al giudice chiamato a decidere. Sul piano costituzionale, viene inoltre in gioco la funzione del processo penale, che strumento, non disponibile dalle parti, destinato all'accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilit. Tale funzione non pu essere utilizzata per attenuare la tutela -piena e incoercibile -del diritto di difesa, coessenziale allo stesso processo. Sono invece censurabili, sotto il profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie per realizzare le garanzie della difesa, pregiudichino la funzione del processo. 3. -La maggior parte delle ordinanze sollevano problemi di costituzionalit dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale riguardante il rifiuto di rispondere in dibattimento della persona imputata in separato procedimento connesso o collegato, che abbia in precedenza reso dichiarazioni sul fatto altrui. Il Tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776/1997), il Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale militare di Torino (registro ordinanze. n. 898/1997), il Tribunale di Savona (registro ordinanze n. 908/1997), il Tribunale di Trani (registro ordinanze n. 913/1997) e il Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) dubitano della legittimit costituzionale dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni predibattimentali delle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale (imputati del medesimo reato, di reati connessi ovvero di reati probatoriamente collegati nei confronti dei quali si procede o si proceduto separatamente), che si avvalgano in dibattimento della facolt di non rispondere. Il Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) formalmente impugna, unitamente all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, che detta i criteri cui subordinata la lettura delle suddette dichiarazioni, anche l'art. 514 codice procedura penale, che, al contrario, quale norma di chiusura, disciplina le letture vietate. Il Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale militare di Torino (registro ordinanze n. 898/1997) e il tribunale di Trani (registro ordinanze n. 913/1997) impugnano inoltre il regime processuale delle letture dettato dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale in relazione al comma 4 dell'art. 210, codice procedura penale, che attribuisce la facolt di non rispondere ai soggetti indicati nel comma 1 del medesimo articolo. 3.1. -A parere dei rimettenti l'art. 513, comma 2, violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione: a) perch l'ingresso delle dichiarazioni rese in precedenza fra il materiale probatorio sottoposto alla valutazione del giudice viene fatto dipendere dalla volont delle parti (registro ordinanze n. 776/1997 con esclusivo riferimento alla RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .. 294 intrinseca irragionevolezza): in particolare, attribuendo ad una qualsiasi di essa, compresa la parte civile, la facolt di paralizzare l'acquisizione della prova, anche ~ se favorevole ad un imputato (registro ordinanze n. 908/1997), violando la parit tra ~ accusa e difesa nella partecipazione al processo, la garanzia del diritto delle parti I private e del pubblico ministero ad ottenere l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova, ed impedendo al giudice di assumere le prove a discarico e a carico I dell'imputato (registro ordinanze n. 861/1997); I b) in quanto tale disposizione determina una irragionevole disparit di trattamento tra la disciplina della utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso I delle indagini dal testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere e quella delle dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso, giacch mentre nel caso in cui il testimone si rifiuti di rispondere possono, ai sensi del comma 2-bis dell'art 500 codice procedura penale, recuperarsi le sue dichiarazioni, viceversa nel caso in cui il dichiarante ex art. 21 O codice procedura penale (che sostanzialmente altri non che un testimone seppure fornito di particolari garanzie) si rifiuta di rispondere, il recupero delle sue dichiarazioni non pu avvenire che con l'accordo delle parti (registro ordinanze n. 913/1997); e) perch, in riferimento anche agli artt. 2, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost., la norma impugnata -comportando la perdita, ai fini della decisione, di quanto I acquisito prima del dibattimento e che sia oggettivamente irripetibile in tale sede, per via della decisione di non rispondere a dibattimento di persone che avevano I f; precedentemente scelto di non avvalersi di tale facolt rendendo dichiarazioni I ~ indizianti nei confronti di altri -pone il giudice nell'impossibilit di emettere una giusta decisione e viola ad un tempo i principi di uguaglianza, legalit, esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo, indefettibilit della giurisdizione ed essenzialmente lo stesso diritto al contraddittorio (il conflitto reale non tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari Ii diversi soggetti -registro ordinanze n. 898/1997). 3.2. -Facendo riferimento agli stessi parametri sopra indicati, richiamati per lo piu congiuntatnente, alcune ordinanze denunciano inoltre la violazione: I a) del principio di indefettibilit della giurisdizione, del libero convincimento del giudice e della sua soggezione solo alla legge, in quanto il diritto riconosciuto I all'imputato di opporsi ad libitum all'utilizzazione di prove a suo carico gli consentirebbe di disporre del processo e impedirebbe al giudice di conoscere i fatti J del processo oggetto del giudizio, nonch di valutare complessivamente il materiale probatorio (registro ordinanze n. 81/1998, registro ordinanze n. 776/1997, registro I I ~ ordinanze n. 861/1997, in riferimento agli articoli 111 e 112 Cost. e registro ordinanze n. 898/1997, in riferimento all'art. 101, comma 2, Cost.); b) del principio di non dispersione della prova, enucleato dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 254 e 255 del 1992, e tendente a contemperare il rispetto del principio guida dell'oralit con l'esigenza di evitare la perdita di quanto l ~'. acquisito prima del dibattimento, cos che non sia sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che consiste nella ricerca della verit e in una decisione giusta, I ~ ! ~ PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE nonch, sotto altro profilo, del diritto di difesa della parte civile la quale, non potendo chiedere n partecipare all'incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari, potrebbe vedere irrimediabilmente compromesso il suo interesse alla acquisizione della prova a carico dell'imputato, e tuttavia potrebbe anche, per il suo singolare interesse, opporsi alla acquisizione di dichiarazione che scagionino l'imputato (registro ordinanze n. 81/1998, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 101, 102, 111 e 112 Cost.); e) del principio dell'obbligatoriet dell'azione penale, in quanto la disciplina impugnata produrrebbe l'effetto di paralizzare ex post l'iniziativa penale, cos di fatto violando il principio dell'obbligatoriet dell'azione penale che comporta che l'organo della pubblica accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente l'azione promossa (registro ordinanze n. 913/1997, in riferimento all'art. 112 Cost.). Per il Tribunale militare di Torino e per il tribunale di Trani sarebbero inoltre violati l'art. 25, comma 2, Cost., perch i principi in esso affermati implicano la punibilit dei colpevoli di reati (registro ordinanze n. 898/1997), e l'art. 97 Cost., in quanto la norma impugnata determina un rilevante spreco di attivit amministrativa, finalizzata all'espletamento delle indagini e all'introduzione del giudizio dibattimentale, ( ...) vanificata in conseguenza della impossibilit non prevedibile di poter utilizzare una fonte di prova (registro ordinanze n. 913/1997). 3.3. -Il Tribunale di Savona e il Tribunale di San Remo censurano il medesimo art. 513, comma 2, codice procedura penale per la irragionevole diversit dei regimi di utilizzabilit dettati nel caso in cui l'imputato -dello stesso reato, di reato connesso o di reato probatoriamente collegato -sia giudicato contestualmente (art. 513, comma 1, codice procedura penale) o separatamente (art. 513, comma 2, codice procedura penale) (registro ordinanze n. 861/1997 e n. 908/1997). 4. -Le censure mosse all'art. 513, comma 2, codice procedura penale sono sostanzialmente riconducibili a quattro profili, sovente prospettati come concorrenti o interdipendenti. In primo luogo, viene eccepita, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l'illegittimit costituzionale della norma in esame per l'irragionevolezza di una disciplina che subordina alla volont delle parti l'acquisizione del materiale probatorio suscettibile di essere valutato dal giudice ai fini della decisione, attribuendo ad una qualsiasi delle parti, ivi compresa la parte civile, la facolt di paralizzare l'acquisizione della prova. Verrebbe cio introdotto un inammissibile principio dispositivo in materia di prova, e si consentirebbe allo stesso imputato di disporre del processo, attribuendogli ad libitum il diritto di opporsi all'utilizzazione di prove a suo carico e impedendo correlativamente al giudice di conoscere i fatti di causa e di valutare complessivamente il materiale probatorio. Consequenziali a questo profilo sarebbero la violazione del principio della parit tra accusa e difesa e del diritto delle parti di ottenere l'ammissione e l'acquisizione dei mezzi di prova. La violazione del principio di ragionevolezza viene eccepita anche sotto il diverso profilo della ingiustificata disparit di trattamento tra la disciplina delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone, che poi rifiuta o omette in RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO n 296 tutto o in parte di rispondere durante l'esame in dibattimento, e quella riservata alle dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato in un procedimento connesso, che poi si avvale in dibattimento della facolt di non rispondere: nel primo caso, infatti, le dichiarazioni del testimone possono essere recuperate mediante il meccanismo delle contestazioni, operante ex art. 500, comma 2-bis codice procedura penale anche nel caso di rifiuto parziale o totale di rispondere, mentre nel caso in cui l'imputato in procedimento connesso, che sostanzialmente non sarebbe altro che un testimone, seppure fornito di particolari garanzie, si avvale in dibattimento della facolt di non rispondere, le dichiarazioni rese in precedenza possono essere recuperate solo se vi l'accordo delle parti. Un ulteriore profilo pone l'accento sulla violazione del diritto al contraddittorio, in riferimento all'art. 24 Cost.: a seguito della disciplina impugnata, il conflitto reale non si porrebbe tra diritto di difesa ed esercizio della giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono rispettivamente titolari l'imputato in procedimento connesso dichiarante contra alias che si avvale della facolt di non rispondere, e l'imputato destinatario delle dichiarazioni, che perderebbe il diritto al contraddittorio. Infine, un quarto gruppo di censure chiama in causa anche la violazione degli artt. 101, comma 2, 102, comma 1, 111 e 112 Cost.: la norma impugnata, in quanto comporta la perdita, ai fini della decisione, di elementi di prova divenuti oggettivamente irripetibili in dibattimento a causa della decisione di non rispondere di persone che in precedenza non si erano avvalse di tale facolt ed avevano reso dichiarazioni a carico di altri, porrebbe il giudice nell'impossibilit di emettere una giusta decisione e inciderebbe sul libero convincimento del giudice e sulla sua soggezione solo alla legge, sulla funzione conoscitiva del processo, sull' indefettibilit della giurisdizione, sull'obbligatoriet dell'esercizio dell'azione penale. 4.1 -Le questioni sono fondate, nei limiti di seguito precisati, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. L'art. 513, comma 2, codice procedura penale prevede i casi in cui possibile procedere alla lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese in precedenza al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare dalle persone indicate nell'art. 210 codice procedura penale (imputati in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 codice procedura penale e imputati di un reato probatoriamente collegato a norma dell'art. 3 71, comma 2, lettera b), codice procedura penale, nei cui confronti si procede o si proceduto separatamente). Si tratta di persone che, proprio in quanto esaminate in un procedimento diverso da quello a loro carico, sono necessariamente sentite su fatti concernenti la responsabilit di altri imputati. In base all'originaria disciplina del codice, ove il dichiarante, presente, si fosse avvalso della facolt di non rispondere, riconosciutagli dall'art. 210, comma 4, codice procedura penale, secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale non era possibile disporre la lettura delle precedenti dichiarazioni, espressamente ammessa solo nel caso in cui lo stesso non fosse presente. Alla stregua di tale PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE interpretazione, si ritenne che la disciplina differisse da quella stabilita nell'art. 513, comma 1, codice procedura penale in caso di rifiuto dell'imputato nel medesimo procedimento di sottoporsi all'esame:. tale norma prevedeva infatti che, a richiesta di parte, poteva esser disposta la lettura-acquisizione delle precedenti dichiarazioni sia nei casi di contumacia o assenza, sia in quello di rifiuto dell'imputato, presente, di sottoporsi all'esame. La ritenuta disparit di trattamento tra il comma 2 e il comma 1 dell'art. 513 codice procedura penale venne giudicata da questa Corte (v. sentenza n. 254 del 1992) del tutto sfornita di ragionevole giustificazione: da un lato la Corte ha rilevato che, essendo riconosciuta anche all'imputato in procedimento connesso la facolt di non rispondere, e di sottrarsi quindi, in tutto o "in parte, all'esame, si versava in una situazione di impossibilit sopravvenuta di ripetizione dell'atto del tutto analoga alla indisponibilit dell'imputato di sottoporsi all'esame, che a norma del comma 1 determinava la lettura delle precedenti dichiarazioni; dall'altro, che la palese irragionevolezza della norma impugnata si manifestava con particolare evidenza ove si considerasse che la diversit di disciplina in ordine alla possibilit di lettura delle dichiarazioni rese in precedenza, a seconda che si procedesse in un unico processo cumulativo ovvero separatamente, dipendeva da Scelte o valutazioni contingenti di natura strettamente processuale ..., se non da eventi del tutto casuali; con la conseguenza che la circostanza che al simultaneus processus non si addivenga per qualsiasi causa non pu ragionevolmente mutare il regime di leggibilit in dibattimento (e quindi di utilizzabilit ai fini della decisione) delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dagli imputati di detti procedimenti. L'art. 513, comma 2, codice procedura penale stato pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale, che si erano avvalse della facolt di non rispondere. La disciplina risultante da tale intervento additivo stata radicalmente modificata dalla legge n. 267 del 1997. Dalla nuova formulazione dell'art. 513, comma 2, odice procedura penale emerge in primo luogo che stata reintrodotta, ai fini della disciplina della lettura, la distinzione tra impossibilit di ottenere la presenza del dichiarante (ovvero di procedere all'esame a domicilio o alla rogatoria internazionale o all'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio) e esercizio da parte del dichiarante presente della facolt di non rispondere. Ove ricorra la prima situazione, il giudice, a richiesta di parte, dispone a norma dell'art. 512 codice procedura penale la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza qualora la impossibilit di ripetizione dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Ove il dichiarante, presente, si avvalga della facolt di non rispondere, la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni pu invece essere disposta soltanto con l'accordo delle parti. Si quindi ritornati, sia pure con alcune variazioni, ad una disciplina analoga a quella vigente prima della sentenza n. 254 del 1992: in caso di esercizio della facolt di non rispondere, la lettura non preclusa in modo assoluto, ma risulta condizionata all'accordo delle parti; in caso di impossibilit di ottenere la presenza RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 298 del dichiarante, la lettura non ammessa sempre, ma solo nelle ipotesi in cui la impossibilit di ripetizione dell'atto dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. 4.2. -La scelta del legislatore del 1997 venuta incontro all'indiscutibile esigenza di precludere, in mancanza del consenso dei soggetti interessati, l'acquisizione meramente cartolare delle dichiarazioni precedentemente rese sul fatto altrui dall'imputato" di reato connesso o collegato che in dibattimento rifiuti di rispondere: il metodo di acquisizione di queste dichiarazioni, raccolte in un contesto in cui non assicurata la garanzia del contraddittorio, impediva infatti all'imputato a cui erano rivolte di esercitare in dibattimento il fondamentale diritto di confrontarsi con la fonte di accusa. Lo stesso legislatore del 1997 ha poi allargato le ipotesi in cui possibile disporre con incidente probatorio l'esame su fatti concernenti la responsabilit di altri sia della persona sottoposta alle indagini nel medesimo procedimento, sia delle persone indicate nell'art. 210 codice procedura penale (art. 392, comma 1, lett. e) e d), codice procedura penale), ed ha esteso all'udienza preliminare la possibilit di esaminarle con le forme dell'esame diretto e del controesame (art. 421, comma 2, codice procedura penale), ampliando, mediante strumenti attivabili anche per iniziativa della difesa dell'imputato, gli spazi del contraddittorio (sia pure anticipato) su atti destinati ad essere utilizzati in dibattimento. Ci che invece nella legge n. 267 del 1997 delinea un sistema privo di ragionevole giustificazione che la utilizzabilit delle precedenti dichiarazioni venga fatta dipendere dalla scelta meramente discrezionale dell'imputato in procedimento connesso di rispondere in dibattimento su fatti concernenti la responsabilit di altri, dopo che il medesimo imputato, pur avendo la facolt di non rispondere a norma dell'art. 210, comma 4, codice procedura penale, si era in precedenza consapevolmente risolto a rendere dichiarazioni erga alios. Va infatti considerato che, da un lato, l'ordinamento consente di assumere nel corso delle indagini preliminari dichiarazioni dell'indagato o dell'imputato su fatti concernenti la responsabilit di altri; dall'altro lato, la norma impugnata subordina la possibilit di fare rientrare le precedenti dichiarazioni tra il materiale suscettibile di valutazione probatoria alla scelta del dichiarante, assolutamente discrezionale e potestativa, di non avvalersi della facolt di non rispondere. Specularmente, la scelta del dichiarante di rifiutare in dibattimento di sottoporsi al contraddittorio con il destinatario delle sue precedenti dichiarazioni viene a combinarsi con la prevedibile mancanza dell'accordo di tutte le parti -portatrici di contrastanti interessi processuali -alla lettura. L'irragionevolezza e l'incoerenza di tale meccanismo sono di immediata evidenza: l'esclusione delle dichiarazioni rese in precedenza dal patrimonio di conoscenze del giudice risulta infatti rimessa alla concorrente volont dell'imputato in procedimento connesso e della parte processualmente interessata a impedire l'acquisizione e l'utilizzazione delle dichiarazioni stesse. Ne risulta pregiudicata la stessa funzione essenziale del processo, che appunto quella di verificare la sussistenza dei reati oggetto del giudizio e di accertare le relative responsabilit. {'.: 1. fil & ;: ~: .~ ~ PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Da un lato, non conforme al principio costituzionale di ragionevolezza una disciplina che precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa impone che l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze del giudice sia subordinato alla possibilit di instaurare il contraddittorio tra il dichiarante e il destinatario delle dichiarazioni. La mancata previsione di contestazioni in caso di esercizio della facolt di non rispondere preclude invece in modo assoluto la possibilit di esaminare il dichiarante. L'effetto che ne consegue -perdita definitiva delle precedenti dichiarazioni impedisce, proprio in virt della disciplina contenuta nell'art. 513, comma 2, codice procedura penale, la formazione dialettica della prova davanti al giudice. Diversamente, nel disciplinare l'esame dei testimoni, i commi 2-bis e 4 dell'art. 500, codice procedura penale -introdotti dal decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, dopo che questa Corte, con sentenza n. 255 del 1992, aveva dichiarato illegittima la precedente disciplina nella parte in cui non prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se erano state utilizzate per le contestazioni, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone -stabiliscono che le parti possono procedere alle contestazioni anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni, e che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilit. Ebbene, il meccanismo disegnato dall'art . .500, comma 2-bis codice procedura penale indica la soluzione, offerta dallo stesso ordinamento, per porre rimedio ai vizi di legittimit costituzionale dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. Va tenuto infatti presente che sul terreno processuale l'imputato in procedimento connesso in gran parte gi sottoposto alla disciplina propria dei testimoni: l'art. 210, comma 2, codice procedura penale prevede la citazione mediante le norme per i testimoni, l'obbligo di presentazione al giudice e l'accompagnamento coattivo. Tali simmetrie trovano appunto spiegazione e giustificazione nella analogia tra le posizioni processuali di soggetti le cui dichiarazioni sono contraddistinte dall'essere rivolte, e dall'essere destinate a valere, nei confronti di altri. dunque coerente con il rispetto dei principi costituzionali di cui stata denunciata la violazione che alle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale vengano applicate le regole relative alle contestazioni previste per i testimoni anche in caso di rifiuto di rispondere: mediante il sistema delle contestazioni di cui all'art. 500, comma 2-bis codice procedura penale, alla parte che ha chiesto l'esame infatti data la possibilit di portare direttamente davanti al giudice il contenuto delle dichiarazioni rese in precedenza e alle controparti di sottoporle al vaglio critico, sollecitando e favorendo eventuali ritrattazioni, correzioni e chiarimenti. Risulta cos possibile: -superare la manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono all'autorit giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni nel corso delle RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 300 indagini preliminari e che, poi, ne affidano la possibilit di acqmslZlone in dibattimento alla scelta discrezionale di chi in precedenza ha liberamente reso quelle dichiarazioni; -salvaguardare il diritto di difesa dell'imputato dichiarante e insieme dell'imputato destinatario delle dichiarazioni: il diritto al silenzio non viene scalfito ove il dichiarante venga sottoposto alle contestazioni sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni; il diritto al contraddittorio dell'accusato non pu identificarsi con il potere di veto, ma va correttamente inteso come diritto a contestare tali dichiarazioni in contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice, adottando il meccanismo gi previsto dal legislatore in caso di rifiuto totale o parziale di rispondere del testimone. Al riguardo, opportuno precisare che, ove le dichiarazioni sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilit sul fatto proprio, la contestazione ad iniziativa delle parti di singoli contenuti narrativi appare un meccanismo idoneo a consentire al soggetto chiamato all'esame di identificarne concretamente la portata probatoria e, quindi, l'eventuale pregiudizio che potrebbe derivarne alla sua difesa. In particolare, poich l'acquisizione mediante contestazione di singoli contenuti narrativi potrebbe in ipotesi esporre l'imputato in procedimento connesso a nuovi o pi gravi profili di responsabilit, diversi e ulteriori rispetto a quelli risultanti dalle sue precedenti dichiarazioni, la garanzia di un consapevole esercizio del diritto di difesa del dichiarante, nel rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e, nello stesso tempo, quella del diritto al contraddittorio di tutte le parti, sono assicurate dalla pi ampia esplicazione del metodo dialettico-contestativo proprio del dibattimento, cui funzionale l'onere, per la parte che chiede l'esame ex art. 210 codice procedura penale, di presentare la lista dei soggetti da esaminare con l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame, secondo il disposto dell'art. 468, comma 1, codice procedura penale, implicitamente richiamato dal rinvio, contenuto nell'art. 210, comma 2, codice procedura penale, alle norme per la citazione dei testimoni. 4.3. -In accoglimento delle questioni elencate sub 3.1.a), 3.1.b) e 3.1.c), in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l'art. 513, comma 2, ultimo periodo, codice procedura penale va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilit di altri gi oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si applica l'art. 500, commi 2-bis e 4 codice procedura penale. Risultano cos assorbite le questioni -indicate sub 3.1.c) e 3.2. -sollevate in riferimento agli artt. 2, 25, 97, 1O1, 102, 111 e 112 Cost. opportuno precisare che nell'intervento additivo sull'art. 513, comma 2, codice procedura penale il richiamo anche al comma 4 dell'art. 500 codice procedura penale funzionale a rendere applicabile il meccanismo di acquisizione nel fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni: il criterio di giudizio che subordina il valore probatorio delle precedenti dichiarazioni PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE alla sussistenza di altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilit, stabilito per i testimoni nello stesso comma 4, infatti dettato dall'analoga regola prevista in via generale dall'art. 192, comma 3, codice procedura penale per il coimputato e per l'imputato in procedimento connesso. Non invece necessario alcun richiamo all'art. 500, comma 5, codice procedura penale, in quanto la situazione ivi contemplata rimane attratta nella disciplina delle contestazioni prevista in via generale in caso di rifiuto o di omissione totale o parziale di rispondere; n vi motivo di applicare la regola di valutazione probatoria dettata dal comma 5, in quanto le dichiarazioni sul fatto altrui rese dall'imputato in procedimento connesso continuano ad essere sottoposte, proprio perch provenienti da un imputato, alla regola di giudizio dettata dall'art. 192, comma 3, codice procedura penale. La valutazione dell'efficacia probatoria di tali dichiarazioni -raccolte dall'autorit giudiziaria fuori del contraddittorio, rese da un imputato che si poi avvalso in dibattimento della facolt di non rispondere, acquisite mediante il meccanismo delle contestazioni .......,.. dovr avvenire con la cautela e il rigore richiesti da tali caratteristiche, ferma restando la facolt del legislatore di tradurre queste ovvie esigenze in una appropriata formula normativa. 4.4. -Le questioni sollevate dal Tribunale di San Remo e dal Tribunale di Savona esposte sub 3.3., relative al comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale, in riferimento all'art. 3 Cost. per disparit di trattamento rispetto al regime di utilizzabilit dettato dal comma 1 del medesimo articolo, difettano di rilevanza. Tenendo presenti le differenze di disciplina tra il comma 1eilcomma2 dell'art. 513 codice procdura penale, risulta che entrambe le ordinanze di rimessione si riferiscono all'ipotesi del rifiuto di rispondere del soggetto citato ex art. 210 codice procedura penale, accompagnato dal dissenso sulla utilizzazione da parte dell'imputato a cui si riferiscono le dichiarazioni rese in precedenza: situazione nella quale la disciplina dei commi 1 e 2 dell'art. 513 codice procedura penale conduce alle medesime conseguenze in punto di lettura e di utilizzabilit erga alios delle dichiaraziop.i predibattimentali. Le questioni vanno pertanto dichiarate inammissibili per difetto di rilevan:za. 4.5. -Il Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997) impugna, unitamente all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, anche l'art. 514 dello stesso codice. In realt, la disciplina cui si riferiscono i dubbi di legittimit costituzionale interamente contenuta nell'art. 513, comma 2, mentre l'art. 514 non ha autonomo contenuto normativo rispetto alle regole di utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese in precedenza. Ne consegue che, essendo l'art. 514 codice procedura penale erroneamente evocato dal rimettente, la relativa questione deve essere dichiarata inammissibile. 5. -Il Tribunale di Cagliari (registro ordinanze n. 153/1998) dubita della legittimit costituzionale dell'art. 513, comma 1, codice procedura penale, nella parte in cui, in assenza di consenso degli altri imputati, esclude l'utilizzabilit RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 302 nei confronti di ciascuno di essi delle dichiarazioni rese da un imputato nel corso delle indagini preliminari qualora in dibattimento questi si sia avvalso della facolt di non rispondere. 5 .1. -A giudizio del rimettente sarebbero violati: a) l'art. 3 Cast., in quanto irragionevolmente la norma impugnata fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall'esercizio della facolt di non sottoporsi all'esame da parte di imputati che in sede di indagini abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri e alla mancanza del contraddittorio fa conseguire l'impossibilit per il giudice di conoscere le dichiarazioni sul fatto altrui da essi precedentemente rese, sacrificando il principio di non dispersione degli elementi di prova; b) l'art. 3 Cast., per la irragionevole disparit di trattamento che la norma impugnata determina fra la disciplina delle dichiarazioni in precedenza rese dal coimputato che si avvalga in dibattimento della facolt di non rispondere, dichiarazioni delle quali vietata l'utilizzabilit nei confronti di altri senza il loro consenso, e quella riservata agli atti irripetibili per cause originarie o sopravvenute, delle quali invece sempre consentita la lettura; e) ancora l'art. 3 Cast., in quanto sarebbe irragionevole non attribuire alcun rilievo alle ragioni sopravvenute di irripetibilit dell'atto, mentre tali ragioni comportano che, previo ricorso al meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 500 codice procedura penale, venga attribuito valore di prova alle precedenti dichiarazioni del testimone che sia stato indotto a non deporre o a deporre il falso in dibattimento; d) gli artt. 3 e 101 Cast., in quanto la norma impugnata determinerebbe l'aberrante conseguenza che il dichiarante potrebbe in un determinato procedimento sottrarsi all'esame dibattimentale e in un diverso proedimento sottoporsi all'esame nei confronti di altri imputati, consentendo o negando a suo arbitrio l'ingresso in dibattimento delle stesse precedenti dichiarazioni. 5.2. -Ad avviso del rimettente la norma impugnata si pone inoltre in contrasto con: a) gli artt. 25 e 112 Cast., in quanto produrrebbe l'effetto di paralizzare ex post l'iniziativa penale, cos di fatto violando il principio dell'obbligatoriet dell'azione penale il quale comporta che l'organo della pubblica accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente l'azione promossa; b) l'art. 101 Cast., in quanto la norma censurata, subordinando ad insondabili scelte del dichiarante la conoscenza delle prove da parte del giudice, si pone in contrasto con il principio della sottoposizione del giudi1e soltanto alla legge. . 6. -L'art. 513, comma 1, codice procedura penale, sia nella formulazione originaria, sia a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 267 del 1997, si riferisce alle dichiarazioni rese in precedenza (al pubblico ministero o alla polizia PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare) dall'imputato nel medesimo procedimento, sia sul fatto proprio, sia su fatti concernenti la responsabilit di altri. Al riguardo, va precisato che le eccezioni di legittimit costituzionale, si riferiscono esclusivamente alle dichiarazioni aventi per oggetto la responsabilit di altri, la cui utilizzazione subordinata, in caso di contumacia, assenza o rifiuto dell'imputato di sottoporsi all'esame, al consenso degli altri imputati. Rimane ferma la disciplina relativa alla utilizzazione delle dichiarazioni sul fatto proprio, per la quale non sono stati sollevati dubbi di costituzionalit. 6.1. -Le questioni di legittimit costituzionale ricalcano sostanzialmente quelle prospettate in ordine all'art. 513, comma 2, codice procedura penale. Viene in primo luogo eccepita l'intrinseca irragionevolezza di una disciplina che fa dipendere il dispiegarsi del contraddittorio dibattimentale dall'insindacabile scelta di non sottoporsi all'esame dell'imputato che in precedenza aveva reso dichiarazioni nei confronti di altri, e poi, in caso di dissenso degli imputati alla loro utilizzazione, comporta l'esclusione di tali dichiarazioni dal patrimonio di conoscenze del giudice. Sotto un diverso profilo, viene denunciata l'irragionevole disparit di trattamento tra la disciplina riservata a tali dichiarazioni, utilizzabili solo se vi il consenso degli altri imputati, e la disciplina degli atti irripetibili per cause originarie o sopravvenute, dei quali invece sempre consentita la lettura, con particolare riferimento alla sentenza n. 179 del 1994, con la quale sono state ritenute utilizzabili le dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari dal prossimo congiunto che in dibattimento abbia poi esercitato la facolt di astenersi. La disciplina impugnata viene denunciata sotto il profilo dell'irragionevole disparit di trattamento anche perch non attribuisce alcun rilievo alle ragioni della sopravvenuta irripetibilit dell'atto, mentre di tali ragioni il legislatore tiene conto in tema di esame dei testimoni, attribuendo valore di prova piena, previo ricorso al meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 500 codice procedura penale, alle precedenti lichiarazioni del teste che sia stato indotto a non deporre o a deporre il falso in dibattimento. In riferimento anche all'art. 101 Cost., viene infine denunciata l'irragionevolezza della disciplina impugnata in quanto consentirebbe al dichiarante di rifiutarsi di sottoporsi all'esame dibattimentale in un determinato procedimento, cos rendendo non conoscibili al giudice di quel procedimento le precedenti dichiarazioni, e di sottoporsi all'esame in un diverso procedimento a carico di altri imputati, cos facendo entrare nel patrimonio di conoscenze di quel giudice le medesime dichiarazioni e attribuendovi valore di prova. 6.2. -I dubbi di costituzionalit sono fondati in riferimento all'art. 3 Cost., nei termini di seguito precisati, ma vanno pi propriamente risolti intervenendo sull'art. 21 O, codice procedura pena1e. Occorre in via preliminare tenere presente che, mediante la modifica dell'art. 513, comma 1, codice procedura penale, la legge n. 267 del 1997 ha introdotto una particolare disciplina per il caso in cui si intenda utilizzare nei confronti di altri le RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 304 dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato: ove l'imputato sia contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, la norma impugnata prevede appunto che le precedenti dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di altri non siano utilizzabili senza il loro consenso, mentre continuano ad essere utilizzabili a richiesta di parte le dichiarazioni riguardanti il fatto proprio. Tale differenza di regole in tema di utilizzabilit implica un'autonomia concettuale e sistematica dell'esame su fatti concernenti la responsabilit di altri, del resto gi desumibile dalla specifica disciplina ad esso riservata nella fase delle indagini preliminari e in tema di valutazione della prova. Il codice del 1988 ha infatti preso atto dell'indiscutibile fenomeno processuale, sempre pi frequente non solo nei procedimenti per fatti di criminalit organizzata, rappresentato da soggetti che abbinano alla qualit di imputati quella di dichiaranti sulla posizione di altri imputati, dettando appunto regole peculiari per l'esame su fatti concernenti la responsabilit di altri, comuni sia per l'imputato nel medesimo procedimento, sia per l'imputato in procedimento connesso. Tra i casi in cui possibile ricorrere all'incidente probatorio -non ammesso per l'esame dell'imputato sul fatto proprio -l'art. 392, comma 1, lettera e), codice procedura penale contempla l'esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilit di altri e la lettera d) l'esame delle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale, cio dei soggetti nei cui confronti si proceduto o si procede separatamente e che vengono quindi esaminati su fatti concernenti la responsabilit di altri. Ove si presenti la necessit di anticipare rispetto al dibattimento la formazione della prova relativa a dichiarazioni concernenti la responsabilit di altri, le due categorie di imputati risultano cos accomunate dalla possibilit di sottoporli ad esame mediante incidente probatorio. Al fine di procedere all'esame mediante incidente probatorio sui fatti concernenti la responsabilit di altri, inoltre possibile ordinare l'accompagnamento coattivo sia dell'imputato nel medesimo procedimento, sia dell'imputato in procedimento connesso. Previsto dall'art. 399 codice procedura penale quando la persona sottoposta alle indagini non compaia senza addurre alcun legittimo impedimento e la sua presenza sia necessaria per compiere un atto da assmere mediante incidente probatorio, l'accompagnamento coattivo espressamente richiamato in via generale dall'art. 210, comma 2, codice procedura penale per l'esame dell'imputato in procedimento connesso e, quindi, anche per l'esame di cui all'art. 392, comma 1, lettera d), codice procedura penale. Infine, in tema di valutazione della prova l'art. 192, comma 3, codice procedura penale detta una specifica regola di giudizio per le dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di altri, rese sia dal coimputato, sia dall'imputato in un procedimento connesso. Ma tali simmetrie di disciplina vengono meno nella fase dibattimentale. Mentre per l'esame dell'imputato in procedimento connesso o collegato sono sempre previsti l'obbligo di presentarsi al giudice e l'accompagnamento coattivo (art. 21d, comma 2, codice procedura penale), in dibattimento l'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit di altri in tutto e per tutto assimilato all'esame sul fatto proprio. L'art. 503 codice procedura penale prevede, infatti, che l'esame venga disposto solo se l'imputato ne abbia fatto PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE richiesta o vi abbia consentito, a norma dell'art. 208 codice procedura penale; non revisto l'obbligo di comparire e non consentito l'accompagnamento coattivo dell'imputato (art. 490 codice procedura penale). Tali regole sono conformi all'intangibilit del diritto di difesa dell'imputato esaminato sul fatto proprio: la decisione di chiedere l'esame ovvero di consentirvi, alla stregua della valutazione dei rischi che pu rispettivamente comportare il contro-esame ovvero l'esame diretto ad iniziativa della parte che lo ha chiesto, rientra tra le insindacabili scelte relative alla strategia difensiva adottata; conseguentemente, congeniale all'esercizio del diritto di difesa che non sia contemplato l'obbligo di comparire e che non possa essere ordinato l'accompagnamento coattivo. Ma quando l'esame verte su fatti non propri, bens concernenti la responsabilit di altri, assumono prevalenza la specificit di tale istituto rispetto all'esame sul fatto proprio, la sostanziale coincidenza tra questa forma di esame e l'esame dell'imputato in procedimento connesso, che dal primo si distingue solo perch disposto in un separato procedimento, l'esigenza di non escludere a priori il diritto dell'imputato destinatario delle dichiarazioni di confrontarsi con il dichiarante in contraddittorio. La disciplina dell'esame dibattimentale dell'imputato nel medesimo procedimento sul fatto altrui risulta pertanto priva di ragionevole giustificazione sotto una duplice prospettiva. Ove la si confronti, da un lato, con quanto previsto per l'esame mediante incidente probatorio, che altro non che una anticipazione della prova assunta in dibattimento, dall'altro con la disciplina dell'esame dell'imputato in procedimento connesso, che si svolge separatamente solo per circostanze processuali meramente occasionali e contingenti, incoerente che per l'esame dell'imputato nel medesimo procedimento sul fatto altrui non siano contemplati anche nella fase dibattimentale l'obbligo di presentarsi e l'eventuale accompagnamento coattivo, analogamente a quanto disposto, rispettivamente, dagli artt. 399 e 210, comma 2, codice procedura penale. Questa duplice asimmetria si ovviamente riflessa sulle regole dettate dall'art. 513, comma 1, codice procedura penale in tema di lettura e di utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza sul fatto altrui; il suo superamento costituisce pertanto la "premessa logica e sistematica per ricondurre a legittimit costituzionale la disciplina riservata all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit di altri. 6.3. -Al riguardo, occorre tenere presente che, come sopra precisato, le censure del rimettente, significativamente coincidenti con quelle sollevate nei confronti del comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale, attengono esclusivamente all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit di altri. L'esame di tali censure deve pertanto muovere dalla constatazione che la figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento o in separato procedimento connesso, sostanzialmente identica, in quanto l'esame sul fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l'una piuttosto che l'altra veste per ragioni meramente processuali e occasionali (v. sentenza n. 254 del 1992). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO .. 306 Ne deriva che le censure, bench formalmente rivolte all'art. 513, comma 1, codice procedura penale, debbono pi propriamente intendersi riferite all'art. 21 O codice procedura penale, del quale va pertanto dichiarata l'illegittimit costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non ne prevista l'applicazione anche all'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilit di altri, gi oggetto delle sue precedenti dichiarazioni rese all'autorit giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. L'equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e imputato in procedimento connesso consente di concentrare nell'art. 513, comma 2, codice procedura penale la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto del dichiarante di rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea la disciplina dell'esame avente ad oggetto fatti concernenti la responsabilit di altri, e cos superando anche le ulteriori disparit di trattamento tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale; conseguentemente, il comma 1 risulta ora riservato esclusivamente all'esame dell'imputato sul fatto proprio (art. 208 codice procedura ~ penale), per il quale pienamente conforme all'esercizio del diritto di difesa che l'imputato scelga di rimanere assente o contumace, ovvero rifiuti di sottoporsi all'esame. Le questioni formalmente sollevate nei confronti dell'art. 513, comma 1, codice procedura penale rimangono pertanto risolte attraverso l'intervento additivo sull'art. ..:-; I I;.:: 21 Ocodice procedura penale. 6.4. -La sfera di applicazione rispettivamente riservata al primo e al secondo W comma dell'art. 513 codice procedura penale implica che, ove le dichiarazioni rese ~~ in precedenza dall'imputato nel medesimo procedimento riguardino fatti , I1 concernenti la responsabilit di altri, spetter al pubblico ministero, o alle parti private interessate, fare richiesta perch l'imputato venga sottoposto ad esame su tali , dichiarazioni a norma dell'art. 210 codice procedura penale. ~ Anche nei confronti dell'esame dell'imputato nel medesimo procedimento su 'I; fatti concernenti la responsabilit di altri giova precisare che, ove le dichiarazioni sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di responsabilit sul I fatto proprio e il meccanismo della contestazione-acquisizione di singoli contenuti , narrativi possa in concreto recare pregiudizio alla posizione dell'imputato dichiarante, valgono le considerazioni svolte in precedenza (par. 4.2.) per rendere I effettivo il rispetto del principio nemo tenetur se detegere e garantire il diritto al I contraddittorio di tutte le parti. ~ Ove, invece, nessuna delle parti abbia presentato specifica richiesta di esame ill sui fatti concernenti la responsabilit di altri, n tale esame sia stato disposto dal r:. giudice a norma dell'art. 507 codice procedura penale, coerente con la piena . esplicazione del diritto di difesa che l'imputato nel medesimo procedimento ;ll rimanga contumace, assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, anche se le sue ~ii precedenti dichiarazioni si riferiscono a fatti concernenti la responsabilit di altri; t:: specularmente, coerente con l'esercizio del diritto di difesa degli altri imputati che } tali dichiarazioni possano essere utilizzate solo con il loro consenso, seco.ndo quanto li;:;::,;:i::,:' previsto dall'art. 513, comma 1, codice procedura penale. . ~. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE 7. -Il Tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776/1997) e il Tribunale di Perugia (registro ordinanze n. 787 /1997) dubitano della legittimit costituzionale dei commi 2-bis e 4 dell'art. 238 codice procedura penale, nella parte in cui limitano l'utilizzabilit delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale agli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, o che consentano a tale utilizzazione. 7 .1. -Ad avviso del Tribunale per i minorenni di Bologna le norme censurate violano l'art. 3 Cost., perch discriminano irragionevolmente, quanto a utilizzabilit, le dichiarazioni testimoniali, che sono sempre utilizzabili, e quelle rese ex art. 21 O codice procedura penale, che sono utilizzabili solo se il difensore dell'imputato era presente nel momento in cui le dichiarazioni venivano rese nel procedimento connesso. 7.2. -Sarebbero inoltre violati: a) l'art. 24 Cost., perch mentre non sono utilizzabili le dichiarazioni rese a norma dell'art. 21 O codice procedura penale, possono essere utilizzate le sentenze irrevocabili, in forza dell'art. 238-bis dello stesso codice; b) gli artt. 3, 111 e 112 Cost., perch la normativa impugnata fa irragionevolmente dipendere la utilizzabilit delle dichiarazioni dal consenso dell'imputato, determinando una disparit tra accusa e difesa. 7.3. -Per il Tribunale di Perugia le medesime norme si pongono in contrasto con l'art. 3 Cost.: a) perch, in riferimento alle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale, assunte senza la presenza del difensore dell'imputato, derogano irragionevolmente al principio di non dispersione dei mezzi di prova e determinano una ingiustificata diversit di disciplina rispetto al regime previsto per altre dichiarazioni (quelle testimoniali o quelle divenute irripetibili), delle quali invece consentito il recupero in sede dibattimentale; b) perch irragionevole far dipendere il regime di utilizzazione da contingenti valutazioni opportunistiche dell'imputato sul contenuto degli atti da utilizzare; e) perch la disposizione del comma 2-bis postula un contraddittorio che a volte non avrebbe potuto essere realizzato, ome nel caso del procedimento a quo, nel quale non si procedeva a carico del dichiarante divenuto imputato solo successivamente; d) perch, ove il dichiarante nel precedente dibattimento abbia avuto la veste di testimone, e solo successivamente sia divenuto, per indizi sopraggiunti, imputato di reato connesso, il pubblico ministero avrebbe potuto confidare nella utilizzabilit delle sue dichiarazioni; e) perch irragionevole che si imponga una serie indeterminata di ripetizioni delle dichiarazioni nei vari processi a scapito dell'economia processuale, della chiarezza e della verit, quando utilizzabile la sentenza irrevocabile pronunciata a carico di terzi, ex art. 238-bis codice procedura penale;}) perch si discrimina tra soggetti che hanno la qualit di imputato di reato connesso, ex art. 21 O codice procedura penale, e di imputato nello stesso procedimento qualora quest'ultimo abbia reso dichiarazioni in un separato procedimento. Secondo lo stesso rimettente sarebbero inoltre violati gli artt. l O 1, comma 2, e 111 Cost., in quanto la giurisdizione non viene esercitata dal giudice in base al suo convincimento, espresso sulla base del materiale probatorio raccolto, ma RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO.. 308 condizionata da elementi spuri, quali la selezione del materiale utilizzabile ad opera dell'imputato, e cio del soggetto la cui condotta forma oggetto dell'accertamento penale. 7.4. -Ancora, per il Tribunale di Perugia l'art. 238 codice procedura penale violerebbe l'art. 3 Cast. perch mentre per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 codice procedura penale l'art. 6 della legge n. 267 del 1997 introduce una disciplina transitoria che consente, in caso di nuovo rifiuto di rispondere del soggetto chiamato all'esame ex art. 210 codice procedura penale, una utilizzazione attenuata (correlata alla sussistenza di altri elementi di conferma), irragionevolmente nulla di simile previsto per le analoghe dichiarazioni acquisite (prima dell'entrata in vigore della legge) da altro procedimento a norma dell'art. 238, le quali, in mancanza di consenso dell'imputato, restano radicalmente inutilizzabili. 8. -L'art. 238 codice procedura penale, inserito nel Libro III (Prove), Titolo II (Mezzi di prova), Capo VII (Documenti), disciplina l'acquisizione dei verbali di prove provenienti da altri procedimenti; prove che, appunto perch non formate nello stesso procedimento in cui sono destinate ad essere utilizzate, sono considerate documenti, aventi natura giuridica di mezzi di prova. Nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla legge n. 267 del 1997, l'art. 238 codice procedura penale prevedeva che i verbali delle prove assunte nell'incidente probatorio o in dibattimento fossero in ogni caso utilizzabili come prove nel procedimento ad quem. Mediante l'inserimento nell'art. 238 codice procedura penale di un apposito comma 2-bis questa regola generale, contenuta nel comma 1, rimasto formalmente immutato, ha subito una deroga per le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale: l'utilizzabilit di tali dichiarazioni come prova nel procedimento ad quem stata infatti subordinata al presupposto della partecipazione alla loro assunzione nel procedimento a quo dei difensori degli imputati nei cui confronti dovrebbero essere utilizzate. In mancanza di tale partecipazione, la nuova formulazione dell'art. 238, comma 4, ca.dice procedura penale prevede che le dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale siano utilizzabili come prova nel dibattimento ad quem solo nei confronti dell'imputato che vi consenta. L'ultima parte del comma 4 stabilisce poi che, in mancanza di consenso, le dichiarazioni possono essere utilizzate solo per le contestazioni, a norma, per quanto qui interessa, dell'art. 503 codice procedura penale, che disciplina l'esame delle parti, tra cui rientra, appunto, l'esame dell'imputato in procedimento connesso. Al riguardo, si deve precisare che 1'art. 503 codice procedura penale non consente, a differenza di quanto previsto per l'esame dei testimoni dall'art. 500 codice procedura penale, anch'esso richiamato per la prova testimoniale dall'art. 238, comma 4, codice procedura penale, di impiegare per le contestazioni le dichiarazioni rese in precedenza nel caso in cui il dichiarante rifiuti o ometta in tutto o in parte di rispondere: ne deriva che, in mancanza di consenso dell'imputato, il silenzio del dichiarante determina la non utilizzabilit delle dichiarazioni da lui rese in precedenza in sede di incidente probatorio o nel dibattimento del procedimento a quo. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Si deve inoltre tenere presente che l'art. 238 codice procedura penale costituisce il veicolo di trasmigrazione da altri procedimenti non solo di atti costituenti mezzi di prova, assunti in incidente probatorio o in dibattimento, ma anche di atti di natura investigativa (o, comunque, predibattimentali), assunti nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare. Come si ricava dall'esordio dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, ove si fa riferimento a verbali di dichiarazioni diversi da quelli relativi agli atti menzionati nel comma 1 (prove assunte nell'incidente probatorio o in dibattimento), le dichiarazioni diverse non possono che riferirsi agli atti assunti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o dal giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare. Si tratta, cio, di atti formati in un contesto predibattimentale, utilizzabili in giudizio per le contestazioni nel corso dell'esame a norma degli artt. 500 e 503 codice procedura penale, a seconda della loro natura di deposizioni testimoniali o di dichiarazioni delle parti, e presi in considerazione anche da varie altre disposizioni che ne ammettono a determinate condizioni la lettura, tra cui l'art. 513 codice procedura penale, che fa appunto riferimento a dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato all'autorit giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Anche tale categoria di atti dichiarativi risulta pertanto compresa nella disciplina prevista dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, cos come modificato dalla legge n. 267 del 1997. 8.1. -Le questioni relative all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura penale ricalcano sostanzialmente le argomentazioni poste a sostegno delle censure sollevate nei confronti dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. In sintesi, viene denunciata l'irragionevole disparit tra la disciplina riservata alle dichiarazioni testimoniali, recuperabili, in caso di rifiuto o di omissione totale o parziale di rispondere, mediante il meccanismo delle contestazioni di cui all'art. 500, comma 2-bis codice procedura penale, e quella prevista dalle norme impugnate, che in caso di rifiuto di rispondere da parte dell'imputato in procedimento connesso subordinano la utilizzazione delle precedenti dichiarazioni al dato estrinseco ed eventuale della partecipazione dei difensori nel momento della loro assunzione nel procedimento a quo ovvero, in mancanza della partecipazione, al consenso degli imputati nel procedimento ad quem. 8.2. -Le censure rivolte all'art. 238, comma 4, codice procedura penale muovono dal rilievo che, ove le dichiarazioni delle persone indicate nell'art. 21 O codice procedura penale siano state acquisite a norma dell'art. 238 codice procedura penale in quanto assunte in un diverso procedimento, non vi ragione di non assoggettarle alle regole previste per le dichiarazioni raccolte nel medesimo procedimento. In effetti, la disciplina di cui all'art. 238, comma 4, codice procedura penale appare priva di ragionevole giustificazione proprio in quanto non prevede che trovi applicazione una normativa analoga a quella stabilita dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale, cos come modificato dalla contestuale declaratoria di illegittimit della Corte. L'analogia tra le due situa~ioni (tanto pi stretta ove si consideri che le RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 310 dichiarazioni rese nell'incidente probatorio o in dibattimento hanno natura di veri e propri mezzi di prova), comporta di conseguenza che, in caso di rifiuto del dichiarante di rispondere e di mancanza di consenso dell'imputato alla utilizzazione I di tali dichiarazioni, ne venga prevista la possibilit di recupero stabilita in tema di deposizioni testimoniali dall'art. 500, commi 2-bis e 4, codice procedura penale. I In accoglimento delle questioni indicate sub 7.1. e 7.2., va pertanto dichiarata l'illegittimit costituzionale dell'art. 238, comma 4, codice procedura penale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che, qualora in dibattimento la persona esaminata a norma dell'art. 21 O codice procedura penale rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilit di altri gi oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di consenso dell'imputato alla utilizzazione si applica l'art. 500, commi 2-bis e 4 codice procedura penale. La dizione precedenti dichiarazioni consente, formalmente, di comprendere nella disciplina delle contestazioni non solo le dichiarazioni assunte in sede di incidente probatorio o in dibattimento, ma anche quelle altrimenti rese all'autorit giudiziaria o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero. Tale conseguenza, peraltro, discende gi dall'intervento additivo sull'art. 513, comma 2, codice procedura penale: come si ricava implicitamente dalla sentenza della Corte n. 254 del 1992 -riguardante appunto un caso di rifiuto di un imputato di reato connesso di rispondere su fatti gi oggetto di sue precedenti dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari di altro procedimento -deve infatti ritenersi che, una volta confluite nel fascicolo del pubblico ministero, tali dichiarazioni siano assoggettate, al pari di quelle rese nel medesimo procedimento, alla disciplina dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. opportuno, infine, rilevare che l'intervento sull'art. 238, comma 4, codice procedura penale, collegato con quello sull'art. 210 codice procedura penale, consente di eliminare una irragionevole disparit di trattamento provocata dalla disciplina impugnata. Tenendo presente che le dichiarazioni concernenti il fatto altrui acquisite da altro procedimento possono essere state rese da un soggetto che nel procedimento ad quem riveste la qualit di imputato, alla stregua della disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima tali dichiarazioni erano incondizionatamente e direttamente utilizzabili, mentre l'utilizzazione delle analoghe dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso o collegato era subordinata al consenso dell'imputato nei cui confronti dovevano essere utilizzate. Questo profilo di irragionevolezza viene appunto a cadere a seguito dell'unificazione sub art. 210 codice procedura penale dell'esame dell'imputato nel medesimo procedimento all'esame dell'imputato in procedimento connesso o collegato quando sia l'uno che l'altro abbiano comunque reso dichiarazioni concernenti la responsabilit di altri: risulta infatti applicabile ad entrambi la disciplina delle contestazioni conseguente all'intervento additivo sull'art. 238, comma 4, codice procedura penale. 8.3. -Sono infondate tutte le censure indicate sub 7.3., prospettate dal Tribunale di Perugia. Il rimettente chiede, infatti, esclusivamente il recupero delle PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE precedenti dichiarazioni mediante la lettura dei verbali assunti in altro procedimento (senza che si sia proceduto, in quanto non richiesto da alcuna delle parti, all'esame del dichiarante, e senza che il giudice abbia provveduto a disporlo d'ufficio ex art. 507 codice procedura penale), mentre il meccanismo che consente la salvaguardia di tutti i beni costituzionali coinvolti quello delle contestazioni, secondo le modalit indicate nel paragrafo 8.2. 8.4. -Infine, circa la questione indicata sub 7.4., la censura, bench formalmente rivolta all'art. 238, comma 4, codice procedura penale, riferita in realt alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 6 della legge n. 267 del 1997, nella parte in cui non prevede un meccanismo di recupero delle dichiarazioni gi acquisite ex art. 238 codice procedura penale nel momento di entrata in vigore della legge, analogo a quello stabilito per le dichiarazioni gi acquisite a norma dell'art. 513, comma 2, codice procedura penale. La questione verr pertanto trattata unitamente alle altre relative alla disciplina transitoria (paragrafi 11 e 12). 9. -Il Tribunale di Bergamo (registro ordinanze n. 81/1998), il Tribunale militare di Torino (registro ordinanze n. 898/1997) e il Tribunale di Trani (registro ordinanze n. 913/1997) dubitano della legittimit costituzionale dell'art. 210, comma 4, codice procedura penale nella parte in cui prevede che l'imputato in procedimento connesso, per il quale si procede o si proceduto separatamente, che abbia in precedenza reso dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di terzi, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolt di non rispondere. L'art. 210, comma 4, codice procedura penale viene impugnato unitamente all'art. 513, comma 2, codice procedura penale, per i riflessi che l'eliminazione del diritto al silenzio produrrebbe sulla disciplina delle letture nel caso in cui i soggetti indicati dall'art. 210, comma 1, rifiutino di rispondere in dibattimento. 9.1. -A parere dei rimettenti risulterebbero violati: a) l'art. 3 Cost., in quanto si determina una irragionevole disparit di trattamento tra la disciplina delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere (dichiarazioni di cui consentita, ex art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale, l'utilizzazione attraverso le contestazioni) e la disciplina delle dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso (la cui utilizzazione in caso di esercizio della facolt di non rispondere possibile solo su accordo delle parti) (registro ordinanze n. 913/1997); b) l'art. 24 Cost., perch la salvaguardia del contraddittorio dibattimentale pu essere realizzata solo se il soggetto che sottoposto all'esame incrociato, e che abbia consapevolmente rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte, mentre l'attuale disciplina consente al soggetto esaminato di essere arbitro di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame (registro ordinanze n. 898/1997); e) gli artt. 3 e 24 Cost. perch, escludendo l'obbligo di rispondere del soggetto sottoposto ad esame, viene irragionevolmente sacrificato l'equilibrio tra i diritti di difesa di cui sono titolari i soggetti del procedimento (registro ordinanze n. 81/1998); RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 312 d) gli artt. 2, 3, 25, comma 2, 101, comma 2, 102 e 111 Cost. perch, tutelandosi sino all'estremo limite, con la norma impugnata, il diritto degli imputati a non sottoporsi all'esame dibattimentale, e mediante l'art. 513, comma 2, codice procedura penale il diritto all'assunzione delle prove in contraddittorio, viene ad essere sacrificato l'esercizio della giurisdizione penale e la possibilit di una decisione giusta (registro ordinanze n. 81/1998). 10. -L'art. 210 codice procedura penale, non modificato dalla legge n. 267 del 1997, detta specifiche regole per l'esame delle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 codice procedura penale ovvero imputate di un reato probatoriamente collegato, nei confronti delle quali si proceduto o si procede separatamente. La peculiarit della disciplina -sostanzialmente analoga a quella dettata dall'art. 9 della legge 8 agosto 1977, n. 534, con il quale venne introdotto nel codice di procedura penale del 1930 l'art. 348-bis sotto la rubrica Interrogatorio libero di persona imputata di reati connessi -rispecchia la particolare condizione dell'imputato in procedimento connesso esaminato su fatti concernenti la responsabilit di altri. Mentre sono previsti l'obbligo di presentarsi al giudice, con la possibilit di ordinare l'accompagnamento coattivo, nonch la citazione mediante le norme sui testimoni (art. 21 O, comma 2, codice procedura penale), ed contemplata l'applicazione dell'art. 194 codice procedura penale, relativo all'oggetto e ai limiti della testimonianza (art. 210, comma 5, codice procedura penale), il permanere della qualit di imputato emerge dal diritto di essere assistito da un difensore (art. 210, comma 3, codice procedura penale), dal richiamo all'art. 503 codice procedura penale, relativo all'esame delle parti private (comma 5) e dal riconoscimento della facolt di non rispondere (comma 4), nei cui confronti sono appunto dirette le censure di legittimit costituzionale. 1 O .1. -Le doglianze dei giudici rimettenti sono sostanzialmente riconducibili a due profili, entrambi connessi alle ricadute della disciplina denunciata sul regime di utilizzazione probatoria dettato dall'art. 513, comma 2, codice procedura penale, cos come modificato dalla legge n. 267 del 1997: in riferimento all'art. 3 Cost., viene denunciata l'irragionevole disparit di trattamento tra il regime previsto per le dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato in procedimento connesso che si sia avvalso in dibattimento della facolt di non rispondere, la cui utilizzazione subordinata all'accordo delle parti, e la disciplina riservata alle dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari, delle quali, in caso di rifiuto o omissione totale o parziale del testimone di rispondere, consentita l'utilizzazione, previa contestazione a norma dell'art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale; in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., viene censurato lo squilibrio tra i diritti di difesa degli imputati, a causa dell'irragionevole sacrificio del diritto al contraddittorio dell'imputato nei cui confronti sono rivolte le dichiarazioni e della prevalenza della tutela del diritto al silenzio del dichiarante, che diviene cos arbitro del diritto degli altri imputati di sottoporre al contraddittorio dibattimentale la fonte delle accuse a loro mosse. 10.2. -Nei termini in cui sono poste, e in riferimento all'attuale formulazione dell'art. 210, comma 4, codice procedura penale, le questioni sono infondate. PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Cosi come regolato dalla norma impugnata, il diritto al silenzio non suscettibile di censure di costituzionalit. Il carattere ibrido della disciplina contenuta nell'art. 21 O codice procedura penale, ove sono appunto richiamate alcune delle regole operanti nei confronti dei testimoni, una conseguenza della peculiarit della posizione dell'imputato in procedimento connesso, chiamato a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di altri, ma comunque non identificabile, sul terreno sostanziale, con la figura del testimone, sicch appare coerente la scelta del legislatore di attribuirgli la facolt di non rispondere, irrinunciabile manifestazione del diritto di difesa dell'imputato. Altri sono gli strumenti offerti dall'ordinamento processuale penale per porre rimedio alle censure dei giudici rimettenti, gi indicati da questa Corte mediante il contestuale intervento additivo sull'art. 513, comma 2, codice procedura penale (par. 4.2. e 4.3.). L'estensione della disciplina delle contestazioni prevista dall'art. 500, comma 2-bis, codice procedura penale all'esame dell'imputato in procedimento connesso su fatti concernenti la responsabilit di altri consente infatti di garantire sia il diritto dell'imputato dichiarante di avvalersi della facolt di non rispondere, sia il diritto al contraddittorio dell'imputato destinatario delle dichiarazioni, nel rispetto del principio della formazione dialettica della prova in dibattimento. Le questioni sollevate vanno pertanto dichiarate infondate, non essendo riscontrabili i denunciati vizi di costituzionalit nell'attuale disciplina del diritto al silenzio riconosciuto dall'art. 210, comma 4, codice procedura penale anche agli imputati in procedimento connesso chiamati a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilit di altri. 11. -Il Tribunale di Torino (registro ordinanze n. 915/1997) e il Tribunale di Bologna (registro ordinanze n. 143/1998) impugnano la disciplina transitoria introdotta dall'art. 6 della legge n. 267 del 1997; la stessa disciplina censurata, unitamente alle norme a regime, dal Tribunale per i minorenni di Bologna (registro ordinanze n. 776/1997), nonch dal Tribunale di Cagliari (registro ordinanze n. 153/1998), dal Tribunale di San Remo (registro ordinanze n. 861/1997), dal Tribunale d;i Savona (registro ordinanze n. 908/1997), dal Tribunale di Trani (registro ordinanze n. 913/1997). Il Tribunale di Perugia (registro ordinanze n. 787/1997) denuncia poi, in riferimento all'art. 238, commi 2-bis e 4, codice procedura penale, la mancata previsione di una disciplina transitoria analoga a quella prevista per le dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 codice procedura penale, mentre il Tribunale di Savona, che pure impugna autonomamente la disciplina transitoria, e specificamente i commi 2 e 5 dell'art. 6 della legge n. 267 del 1997, solleva nei confronti della disciplina a regime (art. 513, comma 2, codice procedura penale) censure che in realt afferiscono alla regola di valutazione di cui all'art. 6, comma 5. Tutti i rimettenti denunciano la disciplina transitoria nella parte in cui esclude o limita l'utilizzabilit delle dichiarazioni rese in altra fase del procedimento o in altro dibattimento da coimputati o imputati in procedimento connesso, gi acquisite ai sensi dei previgenti art. 513, comma 2 (Tribunale di Torino, di Bologna, di San Remo, di Savona e di Trani) e comma 1 (Tribunale di Cagliari), nonch art. 238 codice procedura penale (Tribunale per i minorenni di Bologna e Tribunale di Perugia). Le censure appaiono quindi rivolte ai commi 2 e 5 dell'art. 6 della legge RASSEGNA AVVOCAT.RA DELLO STATO 314 n. 267 del 1997, anche quando non vi formale impugnativa di tali commi (registro ordinanze nn. 776/1997, 153/1998, 913/1997), ovvero quando il vulnus viene r, I riferito alla disciplina a regime in quanto immediatamente applicabile (registro ordinanze n. 787/1997 e 908/1997, per quanto sopra specificato). I 11.1. -I rimettenti dubitano della legittimit costituzionale della disciplina ~ transitoria perch, in relazione ad atti gi acquisiti prima della entrata in vigore della legge n. 267 del 1997, irragionevolmente contraddice il principio tempus regit actum, limitandone o escludendone la utilizzabilit in ragione dello stato del procedimento nonostante la prova concerna reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge, senza offrire rimedio diretto alla conservazione delle dichiarazioni erga alias rese, da coimputati o imputati in procedimento connesso, quando la normativa in vigore non consentiva di ricorrere all'incidente probatorio a norma dell'art. 392, comma 1, lettere e) ed), codice procedura penale ovvero all'assunzione ai sensi degli artt. 498 e 499 codice procedura penale in udienza preliminare a norma dell'art. 421 codice procedura penale, come novellati dalla legge n. 267 del 1997. La censura viene formulata in riferimento all'art. 3 Cost. dal Tribunale per i minorenni di Bologna, nonch dai Tribunali di Torino, San Remo e Trani; in riferimento anche all'art. 24 dal Tribunale di Torino; in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. dal Tribunale di Savona; in riferimento all'art. 112 dal Tribunale di Cagliari. Il Tribunale di Savona e il Tribunale di Trani prospettano la violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto il profilo della irragionevole disparit di trattamento, in quanto il giudice pu pervenire alla condanna di un imputato e alla assoluzione di un altro imputato pur in presenza di una identica posizione processuale, utilizzando nei confronti di ciascun imputato un materiale probatorio diverso, a causa: a) del consenso prestato o meno dagli imputati alla utilizzazione delle dichiarazioni acquisite prima dell'entrata in vigore della legge (registro ordinanze n. 908/1997); b) della circostanza che alcuni imputati siano stati raggiunti da dichiarazioni acquisite ex art. 503 codice procedura penale per avere il dichiarante rifiutato di rispondere a singole domande, altri solo da dichiarazioni acquisite in virt del previgente art. 513, altri "infine da dichiarazioni acquisite ex art. 512 codice procedura penale (registro ordinanze n. 90811997); e) ovvero della scelta del chiamante in correit di avvalersi della facolt di non rispondere, occasionalmente esercitata prima invece che dopo l'entrata in vigore della legge (registro ordinanze n. 913/1997). Il Tribunale di Bologna ritiene che la normativa transitoria violi anche gli artt. 24, 101 e 112 Cost., perch impone al giudice, soprattutto in processi con numerosi imputati, alcuni dei quali soltanto esaminati prima dell'entrata in vigore della legge, metodiche decisionali contrarie ai principi di legalit, di soggezione del giudice soltanto alla legge e dell'obbligatoriet dell'azione penale, costringendolo ad ignorare nei confronti di alcuni (per effetto della immediata applicabilit ad essi della nuova disciplina a regime) quanto tenuto invece a valutare in relazione alla posizione di altri (in virt della disciplina transitoria contenuta nei commi 2 e 5 impugnati). Il Tribunale di Savona prospetta inoltre la lesione degli artt. 3, 101, comma 2, 111, comma 1, Cost., ritenendo che la disciplina in questione sia irrazionale nella PARTE I, SEZ. I, GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE parte in cui prevede l'utilizzabilit ai fini della decisione delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate dall'art. 513 codice procedura penale se la loro intrinseca attendibilit confermata anche soltanto da altri elementi di natura logica, ma vieta l'utilizzazione come riscontro di dichiarazioni della stessa natura, cos imponendo al giudice una motivazione contrastante con la propria intima convinzione. Infine, il Tribunale di Torino rivolge alla disciplina transitoria censure analoghe a quelle espresse in relazione alla disciplina a regime da altri rimettenti, in particolare censurando il comma 5 dell'art. 6 in riferimento: a) all'art. 3 Cost., perch irragionevole il diverso trattamento processuale riservato a chi si rende irreperibile per non rispondere, rispetto a chi a viso aperto dichiari di non volere rendere la dichiarazione, in quanto il rifiuto dei soggetti di cui al comma 1 o al comma 2 dell'art. 513 codice procedura penale di rispondere in dibattimento rende le precedenti dichiarazioni da costoro rese irripetibili, al pari delle altre situazioni imprevedibili di cui all'art. 512 codice procedura penale; b) all'art. 1O1, secondo comma, Cost., perch risulterebbe vulnerato il principio per il quale il giudice soggetto soltanto alla legge, in quanto consente che la utilizzazione delle dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato in procedimento connesso sia impedita dal veto delle parti; e) all'art. 112 Cost., in quanto l'esercizio dell'azione penale verrebbe ostacolato da facolt attribuite ad una delle parti, con conseguente completo stravolgimento del processo; d) al principio di non dispersione della prova pi volte riconosciuto dalla Corte costituzionale. 12. -Pur nella loro articolazione assai analitica, le censure di illegittimit delle norme transitorie sono tutte riconducibili alla denuncia di irragionevolezza, e delle relative ricadute in termini di ingiustificata disparit di trattamento, di una disciplina che subordina la valutazione probatoria delle dichiarazioni acquisite a norma dell'art. 513, commi 1 e 2, codice procedura penale ad un nuovo criterio di giudizio, ovvero ne sottopone l'utilizzazione alle nuove regole introdotte dalla legge n. 267 del 1997, in base al dato meramente occasionale che al momento di entrata in vigore della legge le dichiarazioni fossero gi state acquisite mediante lettura, ovvero, pur essendo gi stato disposto il rinvio a giudizio, non si fosse ancora proceduto all'esame del dichiarante. In sostanza, i rimettenti vorrebbero ripristinare integralmente nei procedimenti in corso la disciplina antecedente alla riforma del 1997, e conseguentemente mantenere ferma la gi intervenuta acquisizione delle precedenti dichiarazioni, ovvero, se il dichiarante non ancora stato sottoposto all'esame, procedere, in caso di rifiuto di rispondere, all'acquisizione mediante lettura. Occorre al riguardo considerare che la disciplina risultante dal contestuale intervento della Corte sugli artt. 513, comma 2, e 210 codice procedura penale incide su entrambi i termini di riferimento delle censure rivolte alle norme transitorie: il meccanismo di acquisizione, previa contestazione, di singoli contenuti narrativi delle precedenti dichiarazioni delinea, infatti, una disciplina diversa sia da quella antecedente al 1997, che prevedeva l'acquisizione delle precedenti dichiarazioni mediante la loro lettura integrale, sia da quella introdotta dalla legge n. 267 del 1997, che subordinava l'acquisizione al consenso delle parti. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 316 Si impone pertanto la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, perch valutino se le questioni sollevate sulle norme transitorie conservano la loro rilevanza, oppure I r se risultano superate alla luce della disciplina che ora permette di recuperare mediante il sistema delle contestazioni singoli contenuti narrativi delle dichiarazioni rese in precedenza (omissis). I CORTE COSTITUZIONALE, 27 novembre 1998, n. 383 -Pres. Granata -Red. Zagrebelsky -Presidente del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Sacchetto). Istruzione pubblica -Universit -Limitazione del numero degli accessi. Potere del Ministro -Riserva di legge -Direttive comunitarie e decreto legislativo di attuazione -Legittimit. (Cost. art. 33, 34; art. 17, comma 116, legge 15 maggio 1997, n. 127; art. 9, comma 4, legge 19 novembre 1990, n. 341). Non viola il principio della riserva relativa di legge la norma che attribuisce al Ministro per la ricerca scientifica il potere di delimitare il numero degli accessi all'Universit, poich i criteri cui tale potere vincolato possono trarsi dalle previgenti direttive comunitarie sul reciproco riconoscimento dei titoli di studio negli Stati membri, che hanno trovato attuazione nei relativi decreti legislativi (1). omissis) 1. -Con undici ordinanze di rimessione, di analogo tenore (registro ordinanze nn. 64, 190, 199, 296, 323, 335, 336, 345, 390, 391 e 421 del 1998), alcuni Tribunali amministrativi regionali (Lazio, Abruzzo, Liguria e Marche) hanno sollevato questione di legittimit costituzionale dell'art. 9, comma 4, della legge 19 novembre 1990, n. 341 (Riforma degli ordinamenti didattici universitari), come modificato dall'art. 17, comma 116, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure .(1) La questione del <> -Bevande composte esclusivamente di whisky ed acqua. (direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE, artt. 2, 3 e 7; regolamento CEE del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, artt. 1, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 12; regolamento CEE della Commissione 24 aprile 1990 n. 1014 e succ. mod., art. 7). L'art. 5 del regolamento (CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, che stabilisce le regole generali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande spiritose, osta all'inclusione del termine generico whisky tra i termini della denominazione di vendita di una bevanda spiritosa contenente whisky diluito con acqua avente un titolo alcolometrico volumico inferiore al 40%, oppure all'ggiunta del termine whisky alla denominazione bevanda spiritosa applicata a una bevanda del genere (1). (Omissis). 1. -Con ordinanza 23 febbraio 1996, pervenuta alla Corte il 25 aprile successivo, il Tribunal de grande instance di Parigi ha presentato, ai sensi dell'art. 177 del Trattato CE, una questione pregiudiziale vertente sull'interpretazione del regolamento (CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, che stabilisce le regole gene( 1) La tutela comunitaria di denominazioni di prestigio: whisky e bevande spiritose. Il regolamento CEE del Consiglio 29 maggio 1989 n. 1576, adottato a norma degli articoli 43 e 1 OOA del Trattato di Roma, stabilisce le regole generali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande spiritose. Dichiarato scopo della normativa impedire che denominazioni di prestigio possano essere utilizzate come denominazioni di vendita di bevande di imitazione ottenute con costi di produzione notevolmente inferiori. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 354 rali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande spiritose (Gazzetta Ufficiale legge 160, pag. 1). 2. -Tale questione stata sollevata nell'ambito di una controversia che oppone la The Scotch Whisky Association; societ di diritto scozzese avente ad oggetto la tutela e la promozione degli interessi del commercio del whisky scozzese nel mondo e la difesa in giudizio di tali interessi, alla Compagnie financire europenne de prises de participation (in prosieguo: la Cofepp, precedentemente denominata La Martiniquaise LM), alla Prisunic SA e alla Centrale d'achats et de services alimentaires SARL (Casal), riguardo alla distribuzione da parte di queste ultime di una bevanda dal titolo alcolometrico volumico pari a 30 con una denominazione comprendente il termine whisky. (omissis) 22. -La Cofepp titolare del marchio Gold Rivern, depositato il 30 marzo 1988, utilizzato per vini, bevande spiritose, liquori e in particolare whisky che essa adopera per una bevanda avente titolo alcolometrico minimo di 30, elaborata attraverso l'unione di taluni whisky di origine scozzese, canadese e nord americana con acqua. Sull'etichetta delle bottiglie contenenti tale bevanda vi sono i termini Blended Whisky Spirit e spiriteux au whisky (bevanda spiritosa a base di whisky). 23. -La Scotch Whisky Association ha fatto accertare dall'ufficiale giudiziario, in due occasioni, nel 1992 e nel 1993, che la Prisunic SA vendeva, in svariati negozi parigini, bevande alcoliche di marca Gold River sugli stessi scaffali in cui si trovavano i whisky. 24. -La Scotch Whisky Association ha citato davanti al Tribuna! de grande instance di Parigi le societ Cofepp, Prisunic SA e la Centrale d'achats et de services alimentaires SARL (Casal) al fine, in particolare, di far accertare gli atti di concorrenza sleale che queste ultime avevano commesso nei suoi confronti. La Corte, affrontando il problema della vendita di un prodotto formato da whisky miscelato con acqua s da portare la gradazione complessiva della bevanda a soli 30% voi., ha adottato una soluzione rigida, cos come proposto dal Governo italiano e da alcuni degli altri Governi intervenuti nell'intento di assicurare una tutela reale ed effettiva ai vari prodotti di classe. L'art. 1 n. 2 del reg. 1576/89 definisce bevanda spiritosa il liquido alcolico destinato al consumo umano, con determinate caratteristiche organolettiche e ottenuto con determinati procedimenti, che abbia un titolo alcolometrico minimo di 15%: bevanda spiritosa innanzitutto una bevanda destinata al consumo umano. Il successivo n. 4 lett. b) dello stesso articolo definisce whisky la bevanda spiritosa, cio una bevanda destinata al consumo umano, ottenuta per distillazione di un mosto di cereali avvenuto attraverso uno specifico procedimento. E infine l'art. 3 n. 1 precisa che per poter essere destinata al consumo umano la bevanda spiritosa specificamente classificata come whisky deve possedere un titolo alcolometrico minimo di 40%. Queste tre disposizioni -aveva osservato il Governo italiano -vanno lette congiuntamente. Se bevanda spiritosa il liquido alcolico destinato al consumo umano (prima disposizione), vuol dire che il titolo alcolometrico minimo di 40% perch una bevanda spiritosa possa essere PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 355 25. -Secondo la Scotch Whisky Association, poich il regolamento n. 1576/89 fissa al 40% il titolo alcolometrico minimo del whisky, contrario ad esso smerciare una bevanda spiritosa a 30 con una denominazione comprendente il termine whisky. 26. -La Cofepp afferma di non far pi uso, dopo l'entrata in vigore del regolamento n. 1576/89, della denominazione whisky>> per la distribuzione di whisky a gradazione alcolica ridotta. Essa l'ha sostituita con quella di Blended Whisky Spirit in inglese e di spiriteux au whisky>> in francese, denominazione che essa ritiene conforme al regolamento n. 1576/89. Essa ritiene tale regolamento. non chiaro a causa dell'introduzione del regolamento n. 2.675/94 che definisce le bevande per le quali nell'etichettatura deve essere utilizzata la denominazione di bevande spiritose senza altri aggettivi. La Cofepp interpreta il regolamento n. 1576/89 nel senso che necessario distinguere tra l'aggiunta di alcol etilico di origine agricola da un lato, nel qual caso vietato l'utilizzo del termine whisky nella denominazione di una bevanda spiritosa, e la diluizione dall'altro. Quest'ultima, dato il modo in cui ottenuta, e cio attraverso un aggiunta di acqua tale da abbassare da 40 a 30 il tasso di alcol della miscela di whisky da essa smerciata, non si vedrebbe colpita dal divieto di utilizzazione del termine generico whisky>>. 27. -Ritenendo necessario per la soluzione della lite un'interpretazione del regolamento n. 1576/89, il Tribuna! de grande instance de Paris ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione: Se, tenuto conto della disciplina europea e, in particolare, dell'art. 5 del regolamento (CEE) del Consiglio 29 maggio 1989, n. 1576, il termine generico whisky possa comparire tra i termini della denominazione di vendita delle bevande spiritose composte esclusivamente di whisky diluito in acqua in modo che il titolo alcolometrico volumico inferiore a 40. 28. -Per risolvere tale questione, occorre anzitutto chiarire che una bevanda come il Gold River costituisce una bevanda spiritosa ai sensi dell'art. 1, n. 2, del regolamento n. 1576/89 e che, di conseguenza, rientra nel suo campo di applicazione. destinata al consumo umano con la denominazione di whisky (terza disposizione) caratterizza e individua lo whisky al di l e in pi della composizione del prodotto e del procedimento di fabbricazione indicati nella seconda disposizione. In altre parole whisky solo la bevanda spiritosa ottenuta conformemente a quanto dispone il n. 4 lett. b) e che abbia una gradazione alcolica di almeno 40%. Se manca uno di questi due elementi, abbiamo una bevanda spiritosa (sempre che il titolo alcolometrico sia di almeno 15%), ma non abbiamo uno whisky. Non pu, quindi, ritenersi (come pur era stato sostenuto in giudizio da alcuni) che una bevanda che abbia le caratteristiche di cui all'art. 1 n. 4 punto b) sia pur sempre uno whisky, sol che -a norma del successivo articolo 3 -non potrebbe essere denominato tale. Se cos fosse sarebbe whisky anche un prodotto con un titolo alcolometrico di 16% che di whisky non ha nulla se non forse un vago odore. Certamente una bevanda che abbia come sua componente un qualcosa proveniente dalla distillazione di mosto di cereali con il procedimento di cui al n. 4 lett. b) o pi specificatamente un qualcosa che gi sia formato come whisky, sar senz'altro, dal punto di vista naturalistico, una bevanda al whisky: una bevanda spiritosa al whisky se la gradazione di almeno 15%, ovvero una pura e semplice bevanda al whisky (coca cola al whisky; pepsi cola al whisky) se la gradazione inferiore. Ma non whisky e non pu essere denominata whisky. 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 29. -Si deve rilevare, poi, che l'art. 5, n. 1, primo comma, del regolamento n. 1576/89 riserva la denominazione whisky alle bevande spiritose aventi le caratteristiche di cui agli artt. 1, n. 4, lett. b), e 3, n. 1. 30. -Ne risulta che una bevanda come il Gold River, composta esclusivamente di whisky diluito con acqua in modo che il titolo alcolometrico volumico sia inferiore a 40, non costituisce un whisky ai sensi del regolamento n. 1576/89 e non pu essere venduta sotto tale denominazione, cosa che d'altronde non contestata nel giudizio a quo. 31. -L'art. 5, n. 1, secondo comma, prima e seconda frase, del regolamento n. 1576/89 dispone che per le bevande che non rispondono ai requisiti prescritti all'articolo 1, n. 4, non possono essere utilizzate le denominazioni ivi precisate e devono essere denominate bevande spiritose. 32. -Secondo la Cofepp, l'art. 5, n. 1, secondo comma, seconda frase, del regolamento n. 1576/89 dovrebbe essere interpretato nel senso che le bevande ivi contemplate devono presentare nella loro denominazione di vendita i termini bevanda spiritosa, ma che altri termini, come whisky, potrebbero esservi aggiunti dal momento che tale disposizione non disciplina il caso in cui altri termini diretti ad informare il consumatore sui componenti della miscela e in particolare sull'unico componente alcolico vi siano aggiunti. 33. -Tale interpretazione non pu essere accolta. Come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 17 e 18 delle sue conclusioni, l'art. 5, n. 1, del regolamento n. 1576/89 prescrive che un prodotto come il Gold River deve essere denominato bevanda spiritosa e non pu ricevere le denominazioni di cui all'art. 1, n. 4, di tale regolamento, ossia il termine whisky non pu figurare nella denominazione di vendita di tale prodotto. 34. -La Cofepp e il governo francese si sono anche fondati sull'art. 6 del regolamento n. 1576/89, in forza del quale disposizioni particolari possono disciplinare Pu chiamarsi allora bevanda al whisky? Se non vi fosse alcuna regolamentazione, certamente s, perch la denominazione corrisponde alla realt della composizione. Ma una regolamentazione c', per quanto riguarda le bevande spiritose, quelle cio il cui grado alcolometrico come minimo 15%. Ed appunto l'art. 5 n. 1 a dire che le bevande spiritose che non rispondono ai requisiti minimi di cui agli articoli precedenti possono essere chiamate solo e semplicemente bevande spiritose; cio una bevanda spiritosa che abbia in s una componente di whisky, non solo non pu essere chiamata whisky, perch whisky non , ma non pu essere neppure chiamata bevanda spiritosa al whisky (o espressione similare), ma solo bevanda spiritosa. Non v' alcuna altra disposizione che consenta una aggiunta alla mera dizione di bevanda spiritosa: non lo consente l'art. 6 dello stesso regolamento 1576/89, perch non esistono disposizioni particolari che lo prevedano; non lo consente l'art. 7quater del reg. 1014/90 mod. dal reg. 2675/94, perch esso riguarda specificamente tutt'altra fattispecie. Ma il divieto di aggiunta della componente specifica confermato addirittura testualmente dall'art. 8 del reg. 1576/89, che vieta l'associazione di parole o formule quali genere, tipo, modo, ecc. Tutto ci dovuto ad una precisa scelta legislativa, che trova la sua logica ragione nella opportunit di proteggere:-da un lato la reputazione di qualit di certe bevande spiritose di grande rinomanza (che richiedono un certo investimento e un certo costo, anche fisca- " l0 ~=' ~:~ 1~,,_!__:_!_-_ , @ [ ~1 iliI I W'''"--v''l''q;'='"1~x1::::we.r:'"w-lw~JWl..J{riflfj-''T""?)ffl'""m'=;:---;.:''i:~"'-':>.x'"':'-''~'''lfll,:!:::::.. ~....~..,.,-i!?."Z.~-4i1~:-...:'.y,m,... _,W&f&-:.f~,x,.,...tm:1,-.~---yx...,,~---.,,...,.L.,,y,-.] PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 357 le indicazioni aggiunte alla denominazione di vendita, per sostenere che l'uso di indicazioni aggiunte alla denominazione di vendita bevande spiritose imposta dall'art. 5, n. 1, secondo comma, seconda frase, del regolamento n. 1576/89, libero, dal momento che non sono state adottate disposizioni ai sensi dell'art. 6 per escluderlo espressamente. 35. -A questo proposito si deve osservare, come ha fatto l'avvocato generale ai paragrafi 23 e 25 delle sue conclusioni, che l'aggiunta di indicazioni alla denominazione di vendita non libera. 36. -In primo luogo, essa presuppone un'autorizzazione da parte della Commissione in base al potere di deroga conferitole dall'art. 6, n. 1 del regolamento n. 1576/89. 3 7. -Infatti dalla sentenza 7 luglio 1993 (causa C-217 /91, Spagna/Commissione Racc., 1-3923, punto 20) emerge che il divieto posto dall'art. 5, n. 1, del regolamento n. 1576/89 di utilizzare una denominazione di cui all'art. 1, n. 4, del regolamento per designare bevande spiritose diverse da quelle ivi definite, pienamente applicabile fatta salva unicamente la facolt, attribuita dal Consiglio alla Commissione, di derogarvi espressamente nell'ambito delle competenze che le sono devolute dall'art. 6, n. 1. 38. -In secondo luogo, dal dettato stesso dell'art. 6 del regolamento n. 1576/89 emerge che il potere di deroga riconosciuto alla Commissione dal n. 1 limitato, ai sensi del n. 3, a quanto necessario per evitare che le denominazioni di vendita comportanti indicazioni addizionali creino confusione, tenuto conto specialmente dei prodotti esistenti al momento dell'entrata in vigore del presente regolamento . 39. -L'uso di un'indicazione addizionale come whisky nella denominazione di vendita dunque escluso dall'art. 5 del regolamento n. 1576/89, salvo il caso di deroghe ai sensi dell'art. 6 del regolamento, che mancano nel caso di specie. le);-da un altro lato il consumatore che pu essere tratto in inganno dalla presentazione e dalla denominazione di un prodotto che visivamente richiami un altro prodotto (non tutti i consumatori sono in grado di distinguere <) al marchio di impresa anteriore rispetto ad un successivo marchio allorch vi sia identit fra i due e identit PARTE I, SEZ. Il, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 381 2. -Detta questione stata sollevata nell'ambito di una controversia sorta tra la societ giapponese Canon Kabushiki Kaisha (in prosieguo: la CKK) e la societ americana Metro-Goldwyn-Mayer Inc., gi Pathe Communications Corporation, (in prosieguo: la MGM), dopo che quest'ultima aveva depositato in Germania, nel 1986, una domanda di registrazione del marchio denominativo CANNON destinato a contraddistinguere i seguenti prodotti e servizi: film registrati su videocassette (videocassette preregistrate); produzione, locazione e proiezione di film per sale di proiezione e aziende televisive. (omissis) 11. -Il Bundesgerichtshof ha sospeso il procedimento per sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: Se, nel valutare la somiglianza dei prodotti o dei servizi contraddistinti dai due marchi, si debba tener conto del carattere distintivo, in ispecie della notoriet, del marchio anteriore (al momento determinante per il rango nel tempo del marchio successivo), di modo che, in particolare, il rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104/CEE deve ritenersi sussistere anche qualora per il pubblico i prodotti o i servizi di cui trattasi hanno luoghi d'origine ( Herkunftsstatten) diversi. 12. -Con la prima parte della questione, il Bundesgerichtshof chiede in sostanza se l'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva vada interpretato nel senso che il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notoriet, vada preso in considerazione per valutare se la somiglianza tra i prodotti o i servizi contraddistinti dai due marchi sia sufficiente per provocare un rischio di confusione. 13. -La CKK, il governo francese, quello italiano, nonch la Commissione sono concordi in sostanza per dare soluzione affermativa a detta questione. 14. -La MGM e il governo del Regno Unito ritengono invece che la somiglianza tra i prodotti o i servizi vada valutata in modo obiettivo ed autonomo, e quinfra i prodotti o servizi che vengono con essi contraddistinti. La successiva lett. b) della stessa norma accorda una tutela anche allorch vi sia identit o somiglianza fra i due marchi e identit o somiglianza fra i prodotti o servizi, se ci pu dar adito a un rischio di confusione per il pubblico comportante anche un rischio di associazione fra il marchio di impresa ed il marchio di impresa anteriore. La valutazione del rischio di confusione -spiega il citato decimo considerando -dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notoriet del marchio d'impresa sul mercato, dall'associazione che pu essere fatta fra il marchio di impresa e il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza fra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati.... Se la nozione di identit non pu dar luogo a dubbi, consistendo l'identit in una perfetta uguaglianza verificabile attraverso tutti i valori o gruppi di valori che caratterizzano i due termini del raffronto s da dare una perfetta coincidenza di essi (nel caso sottoposto all'attuazione della Corte v'era una identit fonetica ma non grafica dei due marchi e non v'era identit fra i prodotti), la nozione di somiglianza si presta per sua natura ad una gamma di ipotesi che vanno da un minimo, che sfiora la diversit, ad un massimo che sfiora la identit: se somiglianza ci che simile, vuoi per l'aspetto esteriore, vuoi per aspetti, qualit o caratteri intrinseci, essa potr essere pi o meno accentuata, pi o meno rilevante. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO' 382 di prescindendo dal carattere distintivo del marchio anteriore, ed in particolare dalla sua notoriet. 15. -A questo proposito si deve ricordare anzitutto che nel decimo 'considerando' della direttiva si rileva che la tutela che accordata dal marchio di impresa registrato e che mira in particolare a garantire la funzione di origine del marchio di impresa, assoluta in caso di identit tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi;(...) la tutela accordata anche in caso di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi; ( ...) indispensabile interpretare la nozione di somiglianza in relazione al rischio di confusione; ( ...) il rischio di confusione, la cui valutazione dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notoriet del marchio di impresa sul mercato, dall'associazione che pu essere fatta tra il marchio di impresa e il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza tra il marchio d'impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati, costituisce la condizione specifica della tutela. 16. -In secondo luogo si deve osservare che, secondo la giurisprudenza della Corte, il rischio di confusione nella mente del pubblico, che determina l'applicazione dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, dev'essere valutato globalmente, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie (sentenza 11 novembre 1997, causa C-251/95, SABEL, Racc., I-6191, punto 22). 17. -La valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in linea considerazione, e in particolare la somiglianza dei marchi e quella dei prodotti o dei servizi designati. Cos, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati pu essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa. L'interdipendenza tra questi fattori trova in effetti espressione nel decimo 'considerando' della direttiva, secondo il quale indispensabile interpretare la nozione di somiglianza in relazione al rischio di confusione, la cui valutazione a sua volta dipende in particolare dalla notoriet del Implicando la somiglianza un giudizio di comparazione, non pu prescindersi in esso dalla posizione del destinatario del prodotto o servizio, cio di colui che deve percepire la somiglianza, di clui nei confronti del quale rilevante il rapporto fra i due termini a raffronto. E considerato che la norma in questione esplicitamente fa riferimento ad un rischio di confusione per il pubblico, all'impatto con il pubblico, cio con l'uomo medio cui i prodotti in questione sono destinati, che occorre far riferimento per verificare la somiglianza dei prodotti stessi (fuori discussione essendo, nel caso di specie, la somiglianza ad ogni livello dei due marchi, identici foneticamente e marcatamente simili per la composizione grafica, al di l dell'aspetto ornamentale del nuovo marchio, che non era noto in causa). Sono simili, quindi, due prodotti che alla percezione del pubblico come sopra inteso possono essere ritenuti avere aspetti esteriori, funzionali o di qualit, di collegamento o completamento in tutto o in parte comuni, si da poter essere confusi l'uno con l'altro. La flessibilit della norma, che fluttua nella zona intermedia fra la identit e la diversit, rende necessario il ricorso ad una valutazione del caso in concreto, valutazione che va eseguita tenendo conto dell'impatto che l'immagine rappresentata dai segni distintivi in conflitto e dai prodotti o servizi offerti sotto l'uno o l'altro segno possa avere sul pubblico medio, cio sul consumatore finale cui i prodotti o i servizi sono destinati. E questa valutazione va quindi fatta tenendo conto del rischio di confusione cui soggetto tale consumatore, valutabile attraverso una serie di elementi che, esemplificativamente e non tassativamente, lo stesso legislatore comunitario ha indicato nel decimo considerando della direttiva. PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 383 marchio sul mercato e dal grado di somiglianza tra il marchio e il contrassegno e tra i prodotti o servizi contraddistinti. 18. -D'altro canto, emerge dalla giurisprudenza della Corte che il rischio di confusione tanto pi elevato quanto pi rilevante il carattere distintivo del marchio anteriore (sentenza SABEL, cit., punto 24). Dunque, poich la tutela di un marchio depositato dipende, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, dall'esistenza di un rischio di confusione, i marchi che hanno un elevato carattere distintivo o intrinsecamente o a motivo della loro notoriet sul mercato, godono di una tutela pi ampia rispetto ai marchi il cui carattere distintivo inferiore. 19. -Ne consegue che, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, pu esservi motivo di negare la registrazione di un marchio, nonostante il minor grado di somiglianza tra i prodotti o servizi designati, allorch la somiglianza dei marchi grande e grande il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notoriet. 20. -A questa interpretazione la MGM ed il governo del Regno Unito hanno obiettato che la presa in considerazione del carattere distintivo pi o meno rilevante del marchio anteriore durante l'esame della somiglianza tra i prodotti o i servizi designati rischia di ritardare il procedimento di registrazione. Il governo francese invece ha sostenuto che, secondo la sua esperienza, la presa in considerazione di questo fattore durante l'esame della somiglianza tra i prodotti o i servizi designati non ha l'effetto di ritardare oltre misura o di complicare il procedimento di registrazione. 21. -A questo proposito si deve rilevare che, anche supponendo che l'interpretazione auspicata abbia l'effetto di ritardare notevolmente il procedimento di registrazione, ci non potrebbe essere determinante per l'interpretazione dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva. comunque opportuno, per motivi di certezza del diritto e di buona amministrazione, assicurarsi che i marchi il cui uso potrebbe venir contestato validamente in sede giudiziaria non vengano registrati. Questo aspetto era stato gi esattamente espresso dalla Corte, nella sentenza, citata in motivazione, 11 no~embre 1997, nella causa C-25/95, SABEL, laddove essa -pur esaminando una problematica parzialmente diversa, relativa alla rilevanza del rischio di associazione -aveva precisato che una somiglianza pu assumere rilevanza ai fini dell'esclusione del riconoscimento del marchio posteriore allorch possa dar adito ad un rischio di confusione. E questo rischio deve essere oggetto di una valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti nel caso di specie: valutazione globale che deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi. sull'impressione complessiva prodotta dai marchi in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi. poco utile stabilire se occorra prima verificare il grado di somiglianza e poi, solo in caso positivo, verificare se c' un rischio di confusione, o viceversa se occorra prima verificare se c' un rischio di confusione per poi capire se c' somiglianza. lo stesso decimo considerando della direttiva che stabilisce che Ǐ indispensabile interpretare l'azione di somiglianza in relazione al rischio di confusione cio praticamente una somiglianza rilevante solo se c' rischio di confusione. Le nozioni di somiglianza e di rischio di confusione sono quindi strettamente legate, pur se costituiscono due nozioni giuridiche indipendenti che, sul piano dell'economia giuridica, vanno esaminate separatamente. La somiglianza dei marchi pu essere grafica o auditiva, ma va da una vaghissima comunanza di elementi, visivi o fonetici, a una coincidenza quasi assoluta: basti pensare proprio al caso RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 384 22. -Tuttavia, si deve sottolineare che, ai fini dell'applicazione dell'art. 4, n. 1, lett. b), resta necessario, anche nell'ipotesi in cui sussista identit con un marchio il cui carattere distintivo particolarmente forte, dimostrare che sussiste somiglianza tra i prodotti o servizi contraddistinti. Infatti -e contrariamente a quanto previsto, ad esempio, dall'art. 4, n. 4, lett. a), che riguarda esplicitamente l'ipotesi in cui i prodotti o servizi non siano somiglianti-l'art. 4, n. 1, lett. b), stabilisce che un rischio di confusione presuppone un'identit o una somiglianza tra i prodotti o i servizi designati. 23. -Per valutare la somiglianza tra i prodotti o i servizi in questione, si deve tener conto, come hanno ricordato i governi francese e del Regno Unito nonch la Commissione, di tutti i fattori pertinenti che caratterizzano il rapporto tra i prodotti o i servizi. Questi fattori includono, in particolare, la loro natura, la loro destinazione, il loro impiego nonch la loro concorrenzialit o complementarit. 24. -In considerazione di quanto precede, la prima parte della questione pregiudiziale, dev'essere risolta come segue: l'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva dev'essere interpretato nel senso che il carattere distintivo del marchio anteriore, in particolare la sua notoriet, va preso in considerazione per valutare se la somiglianza tra i prodotti o i servizi contraddistinti dai due marchi sia sufficiente per provocare un rischio di confusione. 25. -Con la seconda parte della questione il Bundesgerichtshof chiede in sostanza se possa sussistere un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva anche qualora per il pubblico i prodotti o i servizi abbiano luoghi d'origine ('Herkunftsstatten') diversi. 26. -A questo proposito si deve rilevare che un rischio di confusione sussiste, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, allorch il pubblico pu sbagliare quanto all'origine dei prodotti o dei servizi in questione. 27. -Infatti, da un lato emerge dall'art. 2 della direttiva che un marchio deve essere idoneo a distinguere i prodotti o servizi di un'impresa da quelli di un'altra di specie dove la fonetica uguale (CANON e CANNON, con una o due N). Ma la grafica, pur quasi identica per la composizione delle lettere alfabetiche, potrebbe essere anche assai diversa per 1a forma assunta nella rappresentazione. La somiglianza dei prodotti e/o dei servizi offre una gamma ancora pi vasta. Si parlato di raffronto fra la loro natura, la loro destinazione, la loro utilizzazione la loro origine, il circuito di distribuzione, il luogo di vendita. Sono tutti elementi indicativi, ma nessuno tassativo. Basti pensare che un tempo il giornalaio vendeva i giornali, il tabaccaio i prodotti da fumo, il fruttivendolo la frutta, mentre oggi il giornalaio oltre ai giornali vende i libri, le musicassette, le videocassette e tanti altri prodotti, che il tabaccaio a volte una specie di bazar, che il fruttivendolo vende anche il vino, la birra ecc.; per non parlare delle reti di grande distribuzione dei supermercati, che affiancano i prodotti della pi varia natura a volte in scaffali difficilmente distinguibili l'uno dall'altro. Ecco perch il concetto di somiglianza resta molto vago ed ha bisogno di essere caratterizzato da un qualcosa che prescinda da un discutibile criterio oggettivo, fondato sul raffronto fra una somma di elementi differenziali, e che tenga conto invece dell'impressione che ne ricava il pubblico, della percezione che esso ha della realt del prodotto, onde evitare che esso possa fare confusione fra un prodotto e l'altro, fra un servizio e l'altro. E il pubblico dovrebbe essere il consumatore finale, cio colui cui il prodotto essenzialmente destinato, che potr essere pi o meno colto, pi o meno smaliziato, pi o meno competente, a seconda della natura del prodotto stesso, se di massa o destinato a un pubblico selezionato. PARTE I, SEZ. II, GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E INTERNAZIONALE 385 impresa; d'altro canto, precisato nel decimo 'considerando' della direttiva che lo scopo della tutela conferita dal marchio consiste, in particolare, nel garantire la sua funzione d'origine. 28. -Si deve inoltre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la funzione essenziale del marchio consiste segnatamente nel garantire al consumatore o all'utilizzatore finale l'identit di origine del prodotto o del servizio contrassegnato consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa; inoltre, per poter svolgere la sua funzione di elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato che il Trattato intende istituire, il marchio deve costituire la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne sono contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un'unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilit della loro qualit (v., in particolare, sentenza 17 ottobre 1990, causa C-10/89, HAG II, Racc., 1-3711, punti 13 e 14). 29. -Costituisce perci un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva la possibilit che il pubblico possa credere che i prodotti o servizi in questione provengono dalla stessa impresa o eventualmente da imprese economicamente legate tra loro (v. in questo senso sentenza SABEL, cit., punti 16-18). Di conseguenza, come ha osservato l'avvocato generale nel paragrafo 30 delle sue conclusioni, per escludere l'esistenza di tale rischio di confusione, non sufficiente dimostrare semplicemente l'insussistenza del rischio di confusione nella mente del pubblico quanto al luogo di produzione dei prodotti o servizi di cui trattasi. 30. -Si deve quindi risolvere la seconda parte della questione pregiudiziale dichiarando che pu sussistere un rischio di confusione ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva anche qualora, per il pubblico, i prodotti e i servizi di cui trattasi abbiano luoghi di produzione diversi. Per contro, l'esistenza di un tale rischio esclusa se non risulta che il pubblico possa credere che i prodotti o i servizi provengano dalla stessa impresa, o eventualmente, da imprese economicamente legate tra loro (omissis). Avvalora queste considerazioni la previsione da parte della stessa normativa comunitaria (trasponibile 0 pur con un margine di discrezionalit nelle legislazioni nazionali) di un grado sia pur limitato di tutela per i marchi notori anche allorch i prodotti in concorrenza non siano simili (art. 4 n. 3 e n. 4 della direttiva): qui la ratio della norma appare essere quella di proteggere il marchio anteriore notorio a causa della confusione in cui potrebbe cadere il pubblico, il quale potrebbe ritenere simili i prodotti con il nuovo marchio solo in conseguenza della loro presentazione sotto un segno identico o simile a quello preesistente che gi caratterizza e garantisce prodotti ampiamente immessi e conosciuti sul mercato. Si tratterebbe cio in sostanza di una similitudine indotta, pur non derivante dall'esistenza di aspetti oggettivi comuni ma desumibili dal rischio di una sussumibilit di entrambi i prodotti sotto l'unico marchio notorio per il solo fatto di tale notoriet (cfr. il citato decimo considerando). L'accertamento dell'impatto cio del rischio di confusione (correlato alla verifica dell'esistenza di una indispensabile serie di elementi comuni oggettivi) non pu essere compiuta che dal giudice nazionale, con riferimento al caso di specie, come si desume dallo stesso decimo considerando della direttiva che rimanda alle normative nazionali per la disciplina dei mezzi grazie a cui pu essere constatato il rischio di confusione e in particolare l'onere della prova. OSCAR FIUMARA RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 386 SEZIONE TERZA GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 4 aprile 1998, n. 3481 -Pres. Grieco -Re!. Felicetti -P.M. Buonajuto (diff.) -Ministero dell'interno (avv. Stato Tortora) c. Di Tonno. Delibazione (giudizio di) -Sentenza straniera recante condanna agli alimenti Sopravvenienza di sentenza italiana recante diversa decorrenza dell'obbligazione alimentare -Delibazione della sentenza straniera per il periodo anteriore a quello considerato dal giudicato italiano -Ammissibilit. (Codice procedura civile, art. 797 n. 5) La sentenza di divorzio pronunciata da un giudice italiano, passata in giudicato, la quale abbia attribuito ad uno dei coniugi, ponendolo a carico dell'altro, un assegno di mantenimento in favore del figlio minore da una certa data, non osta alla delibabilit, con efficacia sino al passaggio in giudicato della sentenza italiana, del capo della sentenza di divorzio anteriormente pronunciata dal giudice straniero e passata in giudicato, la quale abbia attribuito allo stesso coniuge, ed a carico dell'altro, un assegno di mantenimento in favore del figlio minore, con diversa misura e per un periodo anteriore alla sentenza di divorzio pronunciata fra le stesse parti dal giudice italiano (1 ). (1) Massima ufficiale, formulata in relazione all'ormai abrogato art. 797 n. 5 codice procedura civile (art. 73, legge 31 maggio 1995, n. 218). Nella disciplina vigente, la corrispondente disposizione contenuta nell'art. 64, lett. e) della citata legge n. 218/1995 che espressamente richiede, tra le altre condizioni per il riconoscimento della sentenza straniera (definitiva), la non contrariet di questa al giudicato italiano. Per questo aspetto, la norma del 1995 non introduce alcun elemento di novit rispetto alle acquisizioni giurisprudnziali (ricordate nella motivazione della sentenza in rassegna) consolidatesi a riguardo di quella abrogata, che pure, proponendosi di impedire la contemporanea operativit nell'ordinamento italiano di giudicati contrastanti, era stata interpretata nel senso reso, ora, esplicito dalla nuova disposizione. Sulle convenzioni (di New York e dell' Aja) in tema di recupero di crediti alimentari in favore di minori, e segnatamente sul ruolo di istituzione intermediaria svolto dal Ministero dell'interno e sulla prescrittibilit (esclusa) dell'azione per il riconoscimento di sentenza straniera, v. in generale P. PALMIERI, L'imprescrittibilit del! 'azione di delibazione ecc., in questa Rassegna, 1996, I, 285. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE (omissis) 1. -Con i due motivi di ricorso, il Ministero dell'Interno deduce la violazione del1' art. 797, n. 5 codice procedura civile, nonch la contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la sentenza impugnata dato atto che la sentenza della quale si chiedeva la delibazione aveva data anteriore a quella emessa in Italia, en-oneamente e contraddittoriamente negando la delibazione della sentenza straniera anche per il periodo anteriore all'emissione della sentenza italiana e cio in relazione agli alimenti dovuti in forza della sentenza straniera dal 1 marzo 1984 al 3 ottobre 1988. 2. -Il ricorso fondato. Va premesso che il Ministero ricorrente aveva chiesto, ai sensi della Convenzione di New York 20 giugno 1956, resa esecutiva nell'ordinamento italiano con legge 23 marzo 1958, n. 338, la dichiarazione di efficacia di una sentenza di divorzio del Tribunale di grande Istanza di Annecy il giorno 1 marzo 1984, con la quale Di Tonno Piero era stato condannato a pagare in favore del coniuge divorziato, Tochon-Danguy Christine, quale contributo al mantenimento del figlio minore Alexander, la somma mensile di 1500 franchi francesi, da rivalutarsi annualmente in base ad apposito indice. Va premesso, altres, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, alla stregua della su detta Convenzione, il capo della sentenza relativo alla obbligazione alimentare deve considerarsi scindibile da ogni altro e suscettibile di autonoma delibazione (Cass. 16 novembre 1988, n. 6196; 28 luglio 1980, n. 4854). La Corte di appello di Torino, con la sentenza impugnata, ha rigettato la domanda, motivando il rigetto in base al disposto dell'art. 797, n. 5 codice procedura civile -il quale esclude la delibabilit della sentenza straniera quando essa sia contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano -poich nel caso di specie, in data 3 ottobre 1988 il Tribunale di Torino, parimenti decidendo in una causa di divorzio tra le parti, con sentenza passata in giudicato, aveva quantificato il su detto assegno nella minor misura di lire 280.000 mensili, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici Istat. Tali essendo la ratio decidendi e la motivazione della sentenza impugnata, va considerato -al fine di identificare la ratio dell'art. 797, n. 5, codice procedura civile e stabilire se in relazione ad essa il ricorso sia fondato -che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, a norma dell'art. 797, applicabile alla fattispecie ratione temporis, l'azione di delibazione preclusa solo nel caso in cui si sia gi formato il giudicato nel giudizio interno, non costituendo impedimento alla delibazione il solo fatto della pronuncia di una sentenza da parte del giudice italiano in quanto, dalla disciplina dettata da tale articolo del rapporto di litispendenza fra il giudizio di delibazione e il giudizio di merito proposto in Italia ed avente lo stesso oggetto, si evince che la prevenzione operante a favore del giudizio di delibazione quando il passaggio in giudicato della sentenza straniera sia anteriore all'instaurazione del giudizio interno di merito, e ci anche se l'azione di delibazione sia stata promossa quando era gi pendente il giudizio interno e anche se, nel corso di tale giudizio, sia gi stata emessa una sentenza non ancora passata in giudicato (Cass. 15 maggio 1978, n. 2363). Ci perch la voluntas legis espressa nei nn. 5 e 6 dell'art. 797 era quella di dare prevalenza al giudicato in precedenza formatosi, cosicch l'esistenza del giudicato italiano escludeva la delibabilit della sentenza straniera, mentre la RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT6" 388 domanda di delibazione di questa, se compiuta nel corso del giudizio pendente in Italia prima del formarsi del giudicato interno, precludeva la prosecuzione di questo ove in esso dedotta e, ove non dedotta, precludeva la delibabilit della sentenza straniera dal momento del formarsi del giudicato italiano. Ne deriva che la ratio della preclusione posta dall'art. 797, n. 5 deve ritenersi unicamente quella di impedire la contemporanea operativit nell'ordinamento italiano di giudicati contrastanti. Tale essendo detta ratio, in relazione al ricorso in esame, va ritenuto che, ove si siano formati due giudicati, uno anteriore in un ordinamento straniero ed uno posteriore nell'ordinamento italiano ed entrambe le sentenze, quella straniera della quale si chiede la delibazione, e quella italiana, abbiano statuito in materia di alimenti in favore di Un coniuge divorziato ed a carico dell'altro per il mantenimento di un figlio minore, ma con decorrenze iniziali diverse, al limitato fine che viene in considerazione in questa sede, della delibabilit del solo capo della sentenza straniera che ha statuito sull'assegno alimentare in favore del figlio minore, va considerato che il sovrapporsi di giudicati diversi, in relazione a detto petitum, costituito da prestazioni protraentesi nel tempo, deve ritenersi operante unicamente dal momento in cui si reso operante al riguardo il giudicato italiano che ha diversamente statuito sulla misura di esse, cosicch solo da tale momento il giudicato straniero, se reso operante in Italia, confliggerebbe con quello italiano. In relazione ad una simile evenienza deve, pertanto, affermarsi che l'art. 727, n. 5, codice procedura civile -interpretato in relazione alla sua ratio, che secondo le considerazioni che precedono quella di impedire l'operativit nell'ordinamento italiano di giudicati contrastanti -non esclude la delibabilit del capo della sentenza straniera relativo agli alimenti, con efficacia nell'ordinamento interno sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza italiana, riguardando la prima, sino a tale momento, un petitum sul quale la sentenza italiana non ha disposto ed in relazione al I quale, pertanto, non esiste una statuizione con la quale possa esistere un contrasto. Ne deriva che, in conseguenza di dette considerazioni, il ricorso fondato e deve essere accolto, e la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Corte di appello di I Torino affinch faccia applicazione del seguente principio di diritto: La sentenza di divorzio pronunciata da un giudice italiano, passata in giudicato, la quale abbia attriI buito ad uno dei coniugi, ponendolo a carico dell'altro, un assegno di mantenimento in favore del figlio minore da una certa data, non osta alla delibabilit, con efficacia sino al passaggio in giudicato della sentenza italiana, del capo della sentenza di divorzio anteriormente pronunciata dal giudice straniero e passata in giudicato, la quale abbia attribuito allo stesso coniuge, ed a carico dell'altro, un assegno di mantenimento in favore del figlio minore, con diversa misura e per un periodo anteriore alla sentenza di divorzio pronunciata fra le stesse parti dal giudice italiano (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 6 maggio 1998 n. 4573 -Pres. La Torre -Rei. Vittoria -P.M. Morozzo Della Rocca (conf.) -Baiano (avv. D'Acunto) c. Funzionario C.I.P.E. (avv. Stato Polizzi) e Consorzio C.O.R.I. (avv. Magri). Giurisdizione civile e amministrativa -Giudicato amministrativo di rigetto del ricorso -Successiva disapplicazione dell'atto da parte dell' A.G.O. Ammissibilit -Condizioni. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 389 Calamit pubbliche -Terremoto 1980 in Campania e Basilicata -Occupazione d'urgenza d'immobile -Durata -Proroga oltre il quinquennio Legittimit. Il giudicato amministrativo di rigetto dei motivi di ricorso non preclude al giudice ordinario la disapplicazione dell'atto per inesistenza del potere, quando tale questione non sia stata prospettata davanti al giudice amministrativo(!). In situazioni straordinarie legittima, sempre che tempestiva e motivata da concrete ragioni di pubblico interesse, la proroga della durata dell'occupazione d'urgenza d 'immobili oltre il limite massimo fissato, in materia, dalla norma comune(2). (omissis) 2. -Il ricorso contiene cinque motivi. 3.1. -Il primo ed il secondo dovranno essere esaminati insieme: per meglio comprendere il senso delle questioni che essi propongono conviene ripercorrere, per quanto concerne tali questioni, lo sviluppo del procedimento amministrativo e delle modificazioni normative, nonch quello del processo. 3.2.1. -L'ordinanza n. 1 del 28 maggio 1981 d avvio al procedimento amministrativo. Il sindaco di Napoli, commissario straordinario di governo, individua con tale ordinanza le aree disponibili ed immediatamente utilizzabili per la realizzazione di un programma straordinario di edilizia residenziale nell'area metropolitana di Napoli. Quando l'ordinanza emessa, l'art. 80, comma 4, legge 14 maggio 1981, n. 219 le attribuisce, in rapporto alla vicenda espropriativa, il solo valore di una dichiarazione di indifferibilit ed urgenza delle opere da realizzare. L'ordinanza n. 2 del 3 giugno 1981, che segue la precedente, autorizza l'occupazione di urgenza e ne stabilisce la durata. Dopo c.he questa ordinanza stata emessa ed eseguita, entra in vigore il decreto legge 26 giugno 1981, n. 333, convertito in legge 6 agosto 1981, n. 456 -per questa parte senza modifiche -il cui art. 4, al comma 2, sostituisce il comma 4 del1' art. 80 della legge n. 219 del 1981 : vi si dispone che l'individuazione delle aree comporta anche la dichiarazione di pubblica utilit; vi si dispone, altres, che I (1) Chiave di volta del principio affermato a precisazione dell'orientamento risultante dalla pi recente giurisprudenza (richiamata in motivazione), sembra essere la sottolineata estraneit della domanda di nullit del provvedimento amministrativo alla competenza giurisdizionale del G.A. (2) L'interpretazione della norma speciale, attributiva di poteri d'ordinanza ai Commissari straordinari di Governo per le zone terremotate della Campania e della Basilicata, si affida alla constatazione dell'inesistenza, nella Carta fondamentale e nel complesso della legislazione in materia di espropriazione per p.u., d'un principio generale per cui la durata dell'occupazione non possa oltrepassare un predeterminato limite massimo di tempo . .-.-...z .-.-.-....-.-.-...-.--wm-.....................-.-............"......",.,...z .. .......................... ........................................................ :-:.... .---,,.x.... .-........................::.:..... }':-:.-:::::: 1W6lila:r11Jr..r1r111..,.1111.11aJ.m RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 390 commissari straordinari del governo sono competenti per tutti gli atti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione. Successivamente, la legge 18 aprile 1984, n. 80 -di conversione del decreto legge 28 febbraio 1984, n. 19 -all'art. 11, dettando disposizioni per l'edilizia a Napoli, introduce nella legge 14 maggio 1980, n. 219, dopo l'art. 84, oltre ad un art. 84-bis, un art. 84-ter. Questo -nell'ambito di un complesso di disposizioni che prevedono varie possibilit attuative del programma straordinario -al comma 7 stabilisce: I poteri per l'occupazione temporanea e per l'espropriazione per pubblica utilit conferiti ai commissari straordinari hanno decorrenza dal 18 maggio 1981. 3.2.2. -Il punto della decisione contro cui si rivolgono il primo e secondo motivo del ricorso quello in cui la Corte d'appello ha esaminato la questione se all'ordinanza n. 2 del 3 giugno 1981 corrispondeva o no, nel Sindaco commissario straordinario di governo, il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza. Il tribunale lo aveva negato, in base alla considerazione che quel potere, al commissario, era stato attribuito successivamente; il funzionario delegato del C.I.P.E. aveva sostenuto dovesse trovare applicazione l'art. 11, comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 80. La Corte d'appello ha ritenuto di non dover esaminare il merito di tale questione: ha considerato che al riguardo operava una preclusione e che questa derivava dal fatto che l'ordinanza fosse stata fatta oggetto di impugnazione davanti al giudice amministrativo, che per l'aveva rigettata. 3.2.3. -L'argomento su cui ha basato la propria decisione la Corte d'appello oggetto della critica svolta nel secondo motivo. Il ricorrente denunzia vizi riconducibili allo schema della violazione di norme di diritto, di norme sul procedimento e di difetto di motivazione (art. 360, nn. 3, 4 e 5, codice procedura civile): sostiene che, davanti al giudice amministrativo, non s'era discusso del se il commissario avesse il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza, ma di come l'aveva esercitato, sicch sulla questione non s'era formato alcun giudicato; sostiene che, invece, ad essere passata in giudicato sul punto la sentenza del Tribunale e ci come conseguenza del fatto che la Corte d'appello ha omesso di esaminare nel merito il motivo di impugnazione proposto contro questo punto della decisione. Comunque, con il primo motivo -nel quale denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 codice procedura civile, in relazione all'art. 11, comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 80) -il ricorrente sostiene che la questione non esaminata dal giudice di secondo grado non potrebbe essere risolta nel modo postulato dagli appellanti, cio sulla base della disposizione contenuta nell'art. 11, comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 80. Quanto a tale norma poi, gradatamente, il ricorrente solleva una questione di legittimit costituzionale per contrasto gli artt. 42 e 97 Cost. 3.2.4. -Le questioni poste con i due motivi debbono essere risolte attraverso la correzione della motivazione, che non conforme a diritto, mentre lo il dispositivo (art. 384, comma 2, codice procedura civile). PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 3.2.5. -Il giudice amministrativo, al quale, in sede di giurisdizione generale di legittimit, proposta domanda di annullamento di un provvedimento amministrativo, conosce di tale domanda sulla base dei motivi di illegittimit dell'atto che la parte prospetta, sicch la sua decisione, quando di rigetto, mentre nega alla parte il bene della vita rappresentato dall'effetto di annullamento dell'atto, lo fa sul presupposto che i vizi del medesimo atto, dedotti come ragioni della domanda di annullamento, non sussistono. Si tratta di stabilire quali limiti incontri il giudice, amministrativo od ordinario, nel conoscere di una domanda con la quale la parte, in relazione al medesimo provvedimento, ma sulla base di diversi motivi, chieda o al giudice amministrativo una pronuncia di annullamento o al giudice ordinario una pronuncia incidentale di disapplicazione, nel caso in cui egli possa proporre al giudice ordinario una domanda di accertamento di un suo diritto. La questione pu trovare in linea di principio pi soluzioni. Fondamentalmente la scelta tra postulare l'esistenza di un diritto all'annullamento dell'atto illegittimo o di tanti diritti all'annullamento quanti sono i motivi per cui pu essere richiesto: la parte, se si accoglie la prima soluzione, non potr dedurre in un secondo giudizio i motivi che avrebbe potuto ma in concreto non ha dedotto nel primo giudizio; lo potr invece fare se si accoglie la seconda soluzione. La conclusione cui la giurisprudenza della Corte pervenuta, nell'individuare gli effetti del giudicato amministrativo, stata quella di negare alla parte la possibilit di ottenere dal giudice ordinario la disapplicazione del provvedimento inutilmente, anche se per altri motivi, impugnato davanti al giudice amministrativo: in tal senso le sentenze 3 agosto 1990 n. 7806, 3 febbraio 1997 n. 982 e 27 marzo 1997 n. 2721. Si affermato, in particolare, che la pronuncia di rigetto della domanda dichiarativa dell'illegittimit copre il provvedimento impugnato sia sotto l'aspetto dell'esistenza del potere dell'organo che ha emesso il provvedimento, sia della sostanza dello stesso, precludendo al giudice ordinario ogni indagine al riguardo. Questa conclusione non appare peraltro poter essere seguita, quando a venire in questione il motivo di invalidit del provvedimento rappresentato da ci che l'autorit amministrativa che lo ha posto in essere mancava del potere di farlo. Se anche questo motivo sia stato dedotto davanti al giudice amministrativo, sia stato esaminato e rigettato e la decisione sia passata in giudicato, l'accertamento formatosi pure su questo punto non consente di rimetterlo in discussione. Ma, quando, come nell'ipotesi che si viene discutendo e come viene sostenuto dal ricorrente nel caso concreto, la questione dell'inesistenza del potere non sia stata prospettata davanti al giudice amministrativo, il suo esame da parte del giudice ordinario in sede di disapplicazione non pu essere considerato precluso. Ed invero, ci su cui si forma il giudicato, in caso di rigetto del ricorso da parte del giudice amministrativo, non la legittimit dell'atto, ma la mancanza nel ricorrente del diritto ad ottenerne l'annullamento; e l'ostacolo a che il giudice esamini un diverso motivo di illegittimit, se lo si ammette, deriver da un fenomeno di preclusione, cio dal fenomeno per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, ossia non solo i motivi per cui la parte ha agito, ma anche quelli per cui avrebbe potuto agire e non lo ha fatto. RASSEGNA AVVOCATURA DE-LO STATO 392 Se non che la ragione di invalidit del provvedimento, che la giurisprudenza assegna all'area dell'inesistenza giuridica ed rappresentata dal fatto che l'autorit amministrativa che ha emanato l'atto non aveva il corrispondente potere, sostanzia una domanda non di annullamento, ma di nullit ed estranea all'area della competenza giurisdizionale del giudice amministrativo: ed allora, rispetto ad essa non pu operare la preclusione cui vanno incontro le questioni deducibili, ma non dedotte. Orbene, la Corte d'appello, non si attenuta a tali principi di diritto quando, sulla base del fatto che l'ordinanza era stata impugnata e che il ricorso era stato rigettato, ha affermato che ci le precludeva l'esame della questione consistente nel1' accertare se il commissario straordinario di governo aveva il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza. La Corte d'appello avrebbe dovuto invece accertare se l'ordinanza fosse stata impugnata per questo motivo, il che non era. Le pur fondate critiche mosse per questa parte dal ricorrente non traggono per con s la conseguenza che la sentenza del Tribunale sia sul punto passata in giudicato, perch, sebbene in base ad una motivazione non conforme a diritto, la sentenza di primo grado stata riformata. Si tratta allora di stabilire in qual modo la questione andasse decisa e deve affermarsi che avrebbe dovuto esserlo nel senso sostenuto nell'appello, con conseguente accertamento che l'ordinanza aveva prodotto gli effetti propri di un provvedimento di autorizzazione all'occupazione di urgenza. Questi effetti le sono stati infatti, con norma retroattiva, attribuiti dall'art. 11, comma 7, della legge 18 aprile 1984, n. 80. La successione delle disposizioni richiamate al punto precedente mostra che la disciplina dell'attuazione del programma straordinario previsto dall'art. 80, comma 1, della legge n. 219 del 1981, per quanto attiene all'impiego dei necessari strumenti ablatori, stata oggetto di successivi interventi da parte del legislatore, volti a completarne la strutturazione e ad eliminare incertezze interpretative che traevano origine dalle sue originarie imperfezioni. Cos, all'individuazione delle aree, che inizialmente comportava la sola dicliiarazione di indifferibilit ed urgenza delle opere (art. 80, comma 4, legge n. 219 del 1981) stata aggiunta l'idoneit a fungere da dichiarazione di pubblica utilit (art. 4, comma 2, decreto legge 26 giugno 1981, n. 333); il commissario straordinario, cui gi spettava di adottare il provvedimento di individuazione, stato dichiarato competente a porre in essere tutti gli atti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione (art. 4, comma 2, decreto legge 333 del 1981); la portata di tale attribuzione stata resa esplicita dal punto di vista effettuale e temporale con la disposizione dell'art. 11, comma 7, legge n. 80 del 1984, che ha disposto nel senso che i poteri per l'occupazione temporanea e per l'espropriazione di pubblica utilit conferiti ai commissari straordinari hanno decorrenza dal 18 maggio 1981, cio dal giorno di pubblicazione della legge n. 80 del 1981 (nello stesso senso si espresso Consiglio di Stato, con la decisione 23 novembre 1988 n. 892 della sezione IV). Manifestamente infondata deve d'altro canto ritenersi la questione di legittimit costituzionale della norma, cos interpretata, in rapporto agli artt. 42 e 97 Cost. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 393 L'art. 42, comma 3, Cost. consente che la propriet privata, nei casi previsti dalla legge, sia espropriata per motivi di interesse generale. L'art. 80 della legge n. 219 del 1981 contiene l'indicazione del motivo di pubblico generale interesse, individuato nella realizzazione del programma di edilizia residenziale nell'area metropolitana di Napoli. La circostanza che il legislatore non abbia eccettuato dall'espropriazione immobili per i quali fosse stata gi rilasciata concessione edilizia non rileva in rapporto all'art. 42 Cost., che, in presenza di un motivo di pubblico generale interesse, non pone limiti all' espropriabilit. La norma neppure presenta profili di contrasto con l'art. 97 Cost. ed i principi di buon andamento ed imparzialit dell'amministrazione fissati nel suo primo comma. La legge generale sulle espropriazioni per causa di utilit pubblica attribuisce al prefetto il potere di autorizzare l'occupazione di urgenza (artt. 71 e 72 legge 25 giugno 1865, n. 2359), potere che, dopo l'entrata in vigore dell'ordinamento regionale, il prefetto ha mantenuto in relazione alle opere di competenza statale, ma che, quanto alle opere di interesse regionale, stato trasferito alle regioni ( artt 2 e 3 decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 105), le quali, non infrequentemente, per le opere di competenza degli enti locali territoriali, lo hanno delegato agli stessi enti. Orbene, l'attribuzione di tale competenza ad un commissario straordinario di governo consentanea al disegno volto ad accentrare presso il medesimo organo, dotato di una propria struttura di supporto (art. 84, comma 1) e di poteri di ordinanza (art. 84, comma 3), anche le attribuzioni inerenti ai procedimenti espropriativi, nell'intento di accelerare l'attuazione del programma di edilizia residenziale voluto dal legislatore statale con l'art. 80 della legge n. 219 del 1980 e dichiarato di preminente interesse nazionale. La norma, per questa ragione, deve essere considerata attuare l'esigenza di buon andamento della pubblica amministrazione, mentre, come la Corte costituzionale ha pi volte affermato, appunto a proposito della legislazione regionale prima richiamata, la riunione, presso un unico organo, dell'insieme dei poteri ordinati a rendere possibile la realizzazione delle opere pubbliche programmate dall'amministrazione, non contraria al principio di imparzialit (Corte cost. 20 ottobre 1983 n. 319), il cui rispetto non impone la distinta attribuzione di tali funzioni a diversi organi. 4.1. -Il terzo motivo denunzia vizi di violazione di norme di diritto e di norme sul procedimento, nonch di difetto di motivazione (art. 360 nn. 3, 4 e 5, codice procedura civile, in relazione all'art. 84 della legge 14 maggio 1981, n. 219). Il ricorrente osserva d'aver sostenuto, davanti ai giudici di merito, che il commissario di governo non aveva il potere di prorogare la durata dell'autorizzazione all'occupazione di urgenza oltre il limite massimo preveduto dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865. La sentenza impugnata presenterebbe i vizi denunciati, da un lato per aver considerato tale questione estranea all'ambito della giurisdizione del giudice ordinario, dall'altro per averla decisa nel senso che il commissario aveva quel potere, in ci argomentando da quanto disposto dall'art. 84, comma 3, della legge n. 219 del 1980 . ,,,,........1~.. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 394 Il motivo non fondato. 4.2. -La questione stata esaminata e decisa nel merito dalla Corte d'appello e, poich essa ha riguardo all'interpretazione di una norma di diritto, come non sussiste il vizio di difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, cos non pu profilarsi un vizio di difetto di motivazione. Deve essere dunque verificata la corrispondenza a diritto della soluzione che al punto stata data dalla Corte d'appello. 4.3. -L'art. 84, comma 3, legge 14 maggio 1981, n. 219 -al comma 3 dispone: Nell'espletamento delle funzioni attribuite con le disposizioni del presente titolo, .il sindaco di Napoli ed il presidente della giunta regionale agiscono nella qualit di commissari straordinari di governo nominati dal Presidente del Consiglio dei ministri e sono soggetti soltanto alle norme di cui al presente titolo, della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento. l Come si gi veduto, attraverso le modificazioni subite dall'art. 80 della legge, incluso nel medesimo titolo dell'art. 84, tra le funzioni attribuite ai commissari sono da considerare comprese quelle attinenti all'espropriazione per pubblica utilit ed all'occupazione di urgenza. I Dal collegamento tra l'art. 80 e l'art. 84 si trae che, nell'esercizio di tali funzioni, i commissari sono tenuti al rispetto della Costituzione, dei principi generali dell'ordinamento e delle norme che, in tema di occupazione di urgenza ed espro I priazione per pubblica utilit sono dettate nello stesso titolo della legge: poich, queste ultime, nulla dispongono a riguardo della durata dell'occupazione di urgenza e del suo rapporto con l'espropriazione per pubblica utilit, per individuare i limiti entro i quali debbono svolgersi i poteri dei commissari di governo nel campo che si IIconsidera si deve avere riguardo alle norme della Costituzione ed ai principi generali dell'ordinamento. I ~ Il primo profilo che viene all'esame consiste nello stabilire se dalle norme della Costituzione e dal complesso della legislazione in tema di espropriazione per pub. blica utilit si tragga il principio per cui l'autorit competente ad autorizzare l'occupazione di urgenza abbia anche il potere di disporne la proroga. II La risposta al quesito certo positiva. Determinare la durata degli effetti di un provvedimento costituisce un aspetto del potere di cura dell'interesse pubblico che si esercita attraverso quel tipo di provvedimento: l'ordinamento pu eventualmente porre limiti alla durata di quegli effetti, imponendo che la situazione una volta presa in considerazione, decorso un certo lasso di tempo, sia rivalutata o disciplinata con l'impiego di altri strumenti; per, nell'ambito dl tali limiti, qualora esistano, la durata degli I p effetti pu essere dimensionata nel tempo con successivi provvedimenti, adotta (: re i quali spetta, se diversamente non disposto, all'autorit cui attribuita la l~ funzione. L'ordinamento conosce specifiche norme che, nel settore dell'espropriazione I per causa di utilit pubblica dispongono in tal senso (l'art. 13, comma 2, legge 25 i giugno 1865, n. 2359, in tema di proroga della durata della dichiarazione di pub! I ~ blica utilit; l'art. 11, comma 3, legge 24 luglio 1961, n. 729, in tema di proroga != dell'occupazione di urgenza oltre i limiti di durata previsti dall'art. 73 della legge . I PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 395 n. 2359 del 1865; l'art. 20, comma 2, legge 22 ottobre 1971, n. 865, che, nell'interpretazione della giurisprudenza, consente di protrarre a cinque anni la durata del1 'occupazione anche con provvedimenti di proroga: in tal senso, Sez. Un. 3 febbraio 1978 n. 481 e, tra le altre, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la decisione 3 luglio 1979 n. 558 della sezione IV). Il secondo profilo che viene all'esame se dalle norme della Costituzione e dal complesso della legislazione in tema di espropriazione per pubblica utilit si tragga il principio per cui la durata dell'occupazione non possa oltrepassare un predeterminato limite temporale massimo. avviso della Corte che la risposta al quesito debba essere negativa. La legge generale sull'espropriazione per causa di utilit pubblica contiene indubbiamente una norma in tal senso (l'art. 73 della legge n. 2359 del 1865), che, per, come si veduto, ha conosciuto deroghe (l'art. 11, comma 3, della legge n. 729 del 1861, che approvava un piano di nuove costruzioni stradali ed autostradali, ha infatti disposto che quel termine, prima della sua scadenza, potesse essere prorogato dal prefetto, se, per esigenze sopravvenute, i progetti approvati avessero dovuto essere modificati: e, di questa norma, la Corte costituzionale, con la sentenza 21 dicembre 1972 n. 188, ha escluso il contrasto con lart. 42, comma 2, Cost. ). La durata del termine biennale preveduto dall'art. 73 stata per portata a cinque anni dall'art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 e, nello stesso tomo di anni in cui si venuta sviluppando la vicenda che qui si esamina, l'ordinamento ha conosciuto l'introduzione di numerose leggi, che hanno avuto la comune portata di attuare una protrazione della durata delle occupazioni gi in atto. Si ha qui riguardo alla legge 1 marzo 1985, n. 42-che ha aggiunto un comma 5-bis all'art. 1 del decreto legge 22 dicembre 1984, n. 901, prorogando di un anno la scadenza dei termini di cui al secondo comma dell'art. 20 della legge n. 865 del 1971; al decreto legge 29 dicembre 1987, n. 534 -il cui art. 14, comma 2, convertito senza modifiche nella legge 29 febbraio 1988, n. 47, ha prorogato di altri due anni la scadenza di quel termine; ed infine alla legge 20 maggio 1991, n. 158 -il cui art. 22 ha ancora prorogato quella scadenza di due anni -s che, occupazioni iniziate dopo l'l gennaio 1983, hanno potuto conoscere una durata complessiva di dieci anni. Orbene, appunto vagliando la legittimit costituzionale di tali norme in rapporto agli artt. 24 e 42 Cost., la Corte costituzionale (con la sentenza 19 maggio 1993 n. 244) pervenuta alla conclusione che, in presenza di una ragione concreta che le giustifichi, norme che protraggono per il tempo corrispondente la durata di occupazioni gi in atto, non realizzino per s una violazione delle norme considerate, perch se determinano remore temporali alla conclusione del procedimento espropriativo, non tolgono intanto al privato il diritto al ristoro del pregiudizio che egli risente in quanto nel frattempo privato del godimento del bene. Si pu allora attingere la conclusione che, in presenza di situazioni straordinarie le quali giustificano la scelta del legislatore ordinario di attribuire all'autorit governativa poteri di ordinanza, non contrasta con gli artt. 23 e 42 Cost. assegnare, alla norma attributiva di tale potere ed in rapporto all'esercizio della funzione di RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT 396 autorizzare l'occupazione di urgenza, la portata di consentire che la durata dell 'occupazione, dopo che l'occupazione medesima sia stata decretata, possa essere protratta anche oltre il limite massimo altrimenti fissato dalla legge, purch in presenza di circostanze che facciano apparire giustificato nel caso concreto il ricorso alla indicata proroga. Assegnare alla norma tale portata in rapporto al potere di autorizzare l'occupazione di urgenza non poi in contrasto con principi generali dell'ordinamento nel campo del rapporto tra propriet privata e potere dell'amministrazione di disporne per motivi di pubblico generale interesse. Principio generale in tal senso appare essere non gi quello per cui l'occupazione non possa protrarsi oltre i termini che il solo legislatore pu stabilire (l'art. 11, comma 3, della legge n. 729 del 1961 ne costituisce una smentita), quanto che la durata dell'autorizzazione all'occupazione debba essere determinata nel provvedimento iniziale e non possa essere protratta se non nel duplice presupposto che l'esigenza di pubblico generale interesse che ne stata alla base resti attuale e che il procedimento di espropriazione non abbia potuto essere completato per effe:ttive ed incolpevoli difficolt. N il privato, da una tale norma, risulta sottoposto ad un potere dell'amministrazione suscettibile d'essere arbitrariamente esercitato. La proroga non potr che essere disposta prima della scadenza del termine, ch, altrimenti, il provvedimento cesser d'essere riconducibile al suo schema legale; l'atto dovr presentare la motivazione necessaria a dare conto delle situazioni concrete che hanno impedito la pronuncia dell'espropriazione come del permanere delle ragioni di pubblico generale interesse che sono all'origine del procedimento; la legittimit del provvedimento sar sindacabile in sede giurisdizionale. E per tale sindacato spetta non al giudice ordinario, ma a quello amministrativo. Concludendo, deve affermarsi che la Corte d'appello ha compiuto la verifica dell'esistenza del potere in capo al commissario e lo ha fatto in modo corrispondente a diritto, mentre non avrebbe potuto compiere sindacato sul modo in cui il commissario aveva esercitato il suo potere di prorogare la durata dell'autorizzazione all' occupazione di urgenza (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., ordinanza 21 maggio 1998 n. 460 -Pres. Sgroi -Est. Finocchiaro -P. G. Delli Prisco li ( concl. conf.) -Jacobini Marco (avv. Recchia, Mastroviti, Spinelli) c. Ministero Grazia e Giustizia (avv. Stato Palmieri G.). Giurisdizione -Comitato per la formazione e la revisione degli albi dei consulenti tecnici del giudice -Natura -Organo amministrativo -Deliberazioni - Ricorribilit ex art. 111 cost. -Esclusione. (Artt. 14,15,18 disp. art. codice procedura civile; art. 111 Cost). I Comitati previsti dagli artt. 14 e 15 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile hanno natura di organi amministrativi e non giurisdizionali e, PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA crVILE 397 pertanto, avverso le loro deliberazioni non proponibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Costituzione(!). (omissis) La Corte di cassazione, a sezioni unite, -considerato che Marco Jacobini ha proposto ricorso per cassazione avverso il provvedimento dell'l dicembre 1995 del Comitato costituito presso la Corte d'appello di Bari, con il quale stato respinto il reclamo dallo Jacobini stesso presentato avverso provvedimento, con il quale il Comitato costituito presso il Tribunale di Bari di cui all'art. 14 disp. att. codice procedura civile, preposto alla formazione e alla revisione degli albi dei consulenti tecnici del giudice, aveva deliberato la cancellazione dall'albo predetto in cui era iscritto nella categoria dei dottori commercialisti; -considerato che a sostegno del ricorso lo Jacobini deduce che erroneamen te con il provvedimento impugnato stata affermata la non reclamabilit del provvedimento emesso dal Comitato istituito presso il tribunale; -considerato che i Comitati di cui agli artt. 14 e 15 disp. att. codice procedura civile hanno natura di organi amministrativi e non giurisdizionali, con la conseguenza che i provvedimenti dagli stessi adottati non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell'art. 111 cost.; (1) In base agli artt. 61, 2 comma e 22 disp. att. c.p.c., la nomina del consulente tecnico d'ufficio deve essere effettuata tra le persone iscritte nell'albo del tribunale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che la dispone. La formazione e la tenuta dell'albo sono disciplinate dagli artt. 13 e ss. delle disp. att. codice procedura civile, in particolare, dall'art. 14, per quanto riguarda la composizione del comitato che provvede alla tenuta dell'albo e dall'art. 15, che indica le modalit per l'iscrizione all'albo dei consulenti e i rimedi contro i provvedimenti del Comitato. Sulla natura del Comitato va osservato che si tratta di una commissione che non esiste nella sua organicit se non di volta in volta ed occasionalmente, (A. LEVONI, Le disposizioni di attua zione al codice di procedura civile, Giuffr, Milano, 1992, 22; R. V ACCARELLA, G. VERDE, Codi ce di procedra civile commentato, UTET, Torino, 1997, 574), costituendosi soltanto in conse guenza di una domanda di iscrizione all'albo da parte di un candidato, e non ha, quindi, natura di organo permanente. La dottrina, comunque, distingue l'organismo comitato sotto due diversi pro fili: il primo che attiene al procedimento previsto dall'art. 15 citato; il secondo che riguarda l'at tivit disciplinare prevista dai successivi articoli 19 e 21. Nel primo caso, che concerne la fattispecie sottoposta all'esame della Commissione (can cellazione dall'albo dei CTU categoria dei dottori commercialisti), il Comitato preposto a svol gere esami ed assumere delibere con ampie indagini di forma e di sostanza (LEVONI, op. cit., 25). Secondo la dottrina prevalente le attivit svolte dal Comitato hanno i caratteri propri della funzione amministrativa ed il procedimento d'iscrizione ha natura di procedimento amministrativo (V ACCARELLA, VERDE, op. cit., 575) o meglio di processo amministrativo, privo, per, del connotato giurisdizionale e pi esattamente ascrivibile al quadro dell'autotutela decisoria della P. A. (LEVONI, ivi, 26). Vi contrasto, poi, in ordine alla tutela giurisdizionale riconosciuta al richiedente avverso il provvedimento finale. Secondo alcuni, concludendosi il procedimento in questione con la formazione di un atto amministrativo non giurisdizionale, il provvedimento di diniego e impugnabile innanzi al TAR in base agli artt. 2, lett. b), e 4 legge n. 1134/71 (LEVONI, ivi, 27); secondo RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATOC 398 -considerato che, pertanto, in conformit alle conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte, il ricorso va dichiarato inammissibile; -considerato che la natura della controversia giustifica la compensazione fra le parti delle spese di questa fase di giudizio; P.Q.M. La Corte di cassazione, a sezioni unite, dichiara inammissibile il ricorso. (omissis) CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5619 -Pres. Sgroi V. -Rei. Pigna taro -P.M. Morozzo Della Rocca ( conf.) -Ministero Difesa ( avv. Stato Cosentino) c. Ziino (avv. Conte). Espropriazione per pubblica utilit -Retrocessione -Totale -Presupposti. (Legge 25 giugno 1865, n. 2359, art. 63). altri, invece, per il fatto che contro il provvedimento non previsto uno specifico rimedio, esperibile il ricorso al Consiglio di Stato per vizio di legittimit (FRANCHI, Del consulente tecnico, in Commentario Allorio, I, UTET, Torino, 1973, 693); o, ancora, secondo una dottrina meno recente, sarebbe proponibile il reclamo al Ministro di Grazia e Giustizia che decide nell'esercizio del generale potere di controllo e di sorveglianza spettantegli in materia di ausiliari del giudice e, successivamente, il decreto ministeriale sarebbe impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato in sede di legittimit o con ricorso straordinario (ANDREOLI, Commento al codice procedura civile, II, 12 e 13 ss.; per una fattispecie in materia decisa dal Consiglio di Stato su ricorso straordinario v. Cons. Stato. Sez. III, 30 gennaio 1996, n. 1550/1995, in Cons. Stato, 1996, I, 1671). Infine, va ricordato che l'albo dei consulenti permanente e, quindi, le iscrizioni, una volta avvenute, restano ferme, salvo eventi sopravvenuti che portino alla cancellazione ex art. 18 disp. att. codice procedura civile. Parte della dottrina ritiene, perci, che contro il provvedimento di cancellazione possa sperimentarsi lo stesso reclamo previsto, contro il provvedimento di diniego di ammissione, dal1' art. 15, 4 comma, cit., ricorrendone l'eadem legis ratio, essendo le delibere di revisione dell'albo riconducibili al quadro dell'attivit formativa in senso di conservazione funzionale (LEVONI, ivi, 32). Nel caso di specie, comunque, correttamente la Cassazione ha dichiarato l'inammissibilit del ricorso proposto ex art. 111 Cost. contro la deliberazione del Comitato con la quale era stato dichiarato inammissibile il reclamo avverso il provvedimento di cancellazione dall'albo dei C.T.U. Si tratta, infatti, di ricondurre la questione sotto l'esatta prospettiva della natura (amministrativa) dell'attivit svolta che, come si detto supra, non assume alcun connotato giurisdizionale e non definisce un conflitto inerente a diritti soggettivi; rispondendo tale attivit ad una e$igenza di garanzia di buon funzionamento dei giudizi e, quindi, ad un interesse pubblico e trattandosi, comunque, di provvedimenti modificabili e revocabili in ogni tempo, come sottolineato anche dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni. G.P. PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 399 Espropriazione per pubblica utilit -Retrocessione totale -Prescrizione Decorrenza. (Legge 25 giugno 1865 n. 2359, art. 63; codice civile, art. 2935). Ricorre l'ipotesi della retrocessione totale, con conseguente giurisdizione del1' A. G. O. a conoscere del relativo diritto soggettivo azionato dal proprietario espropriato, allorch l'immobile abbia ricevuto da parte dell'espropriante una destinazione diversa da quella prevista nella dichiarazione di p. u. (Nella specie, i beni, espropriati per la costruzione di opere di fortificazione militare, erano stati in concreto utilizzati, nello stato originario, per uffici della Marina Militare e, poi, per alloggi del personale da questa dipendente) (1). Il termine, ordinario, di prescrizione del diritto alla retrocessione decorre dal momento in cui la situazione di fatto sia tale da dare certezza della sopravvenuta impossibilit del compimento del!' opera considerata nella dichiarazione di p. u. (2). (Omissis) 2. -Col primo, secondo e quarto motivo del ricorso principale (ancorch prospettati in via gradata) il Ministero della difesa ripropone l'eccezione di difetto di giurisdizione dell'autorit giudiziaria ordinaria. Con i primi due motivi, denunziando violazione degli artt. 60, 61 e 63 della legge 25 giugno 1865 n. 2359 in relazione all'art. 360 nn. 1 e 3 codice procedura civile, il ricorrente addebita alla Corte d'appello l'errore di avere ritenuto applicabile alla fattispecie l'istituto della retrocessione totale senza considerare: a) che non era neppure ipotizzabile la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilit per la mancata attuazione dell'opera programmata, poich l'espropriazione era stata pronunciata -col decreto prefettizio del 22 agosto 1942 -per generiche esigenze militari e non per realizzare un'opera pubblica; b) che ricorreva un'ipotesi assimilabile alla retrocessione parziale in quanto, non essendo stato fissato un termine per la realizzazione dell'opera pubblica, rientrava nella discrezionalit della pubblica amministrazione stabilire se e quando dichiarare l'inutilizzabilit del complesso immobiliarn espropriato. (l) Nella fattispecie, la preveduta destinazione di un edificio e del terreno circostante, espropriati nel 1942, era stata la costruzione di opere di fortificazione dello stretto e della piazza di Messina (mai realizzate mentre l'edificio, facente parte del complesso, era stato utilizzato -allo stato originario -nei modi ricordati in sentenza). Da notare, peraltro, che questa, ritenendolo non decisivo, non s' data carico del punto relativo alla scadenza dei termini assegnati con la dichiarazione di p.u. (v. art. 63 legge n. 2359/1865), verosimilmente -ancorch per implicito -rifacendosi alla sclassificazione, intervenuta nel 1954, da demanio a patrimonio del compendio immobiliare espropriato: circostanza che, meritevole forse di pi specifica illustrazione, finisce col rendere sostanzialmente condivisibile la soluzione offerta al caso concreto. (2) Tale momento, alla stregua della sottolineata insindacabilit -in proposito -della pronuncia di merito, fatto, nella specie, coincidere col 1954 e dunque con quello dell'atto formale di sclassificazione che torna cos a proporsi, anche per altro verso, come punto nodale della vicenda. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 400 Con il quarto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione su punti decisivi e deduce che la Corte d'appello: a) sarebbe incorsa in contraddizione nell'affermare la giurisdizione del giudice ordinario sul rilievo che non erano state esegui~ te opere di interesse militare e nel riconoscere (respingendo l'eccezione di prescrizione del diritto fatto valere dagli attori) che fino al 1954 vi era stata una utilizzazione del fabbricato destinato agli uffici della marina; b) avrebbe affermato in Imodo illogico che, per carenza documentale non poteva darsi per certo che gli adempimenti prescritti dalla legge n. 2359/1865 (circa i termini ed il piano particolareggiato di esecuzione dell'opera) fossero stati effettivamente omessi. I motivi, da esaminarsi congiuntamente essendo strettamente connessi, non meritano accoglimento. Ai fmi della risoluzione della prospettata questione di giurisdizione si rileva: che il fondamento del provvedimento di espropriazione del prefetto di Messina in data 22 agosto 1942 era costituito dalla dichiarazione di pubblica utilit della costruzione delle opere di fortificazione dello stretto e della piazza di Messina, contenuta, nel regio decreto 7 dicembre 1882 n. 1128; che questo decreto era specificamente indicato nell'atto del Ministero della marina in data 20 dicembre 1941, di approvazione dell'elenco degli immobili da espropriare in Messina; che il decreto prefettizio emesso ai sensi della legge n. 2359/1865 sull'espropriazione per pubblica utilit richiamava il predetto atto di approvazione; che sul complesso immobiliare espropriato agli Ziino non fu compiuta alcuna opera poich esso fu utilizzato dal Ministero nello I stato e con le caratteristiche in cui si trovava al tempo dell'espropriazione. pertanto evidente che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente facendo leva sulla intitolazione del decreto prefettizio, l'espropriazione fu pronunciata I I @ non gi per generiche esigenze militari, ma al fine specifico della costruzione di opere di fortificazione prevista dal regio decreto di dichiarazione di pubblica utilit; con la conseguenza che, non essendo stata compiuta l'opera prevista da tale dichiarazione n alcun' altra opera, la fattispecie stata correttamente inquadrata dalla Corte d'appello nell'ipotesi della retrocessione totale prevista dall'art. 63 della legge n. 2359/1865. ~=: La giurisprudenza di queste Sezioni Unite (v., tra le altre, le sentenze 4 novembre 1994 n. 9131, 6 febbraio 1984 n. 870) costante nel distinguere l'ipotesi prevista da tale norma per il caso in cui l'opera non sia stata eseguita neppure in parte, da quella contemplata dagli artt. 60 e 61 per il caso di parziale esecuzione dell'opera, e nell'affermare l'esistenza -nel primo caso -di un diritto soggettivo alla retrocessione immediatamente tutelabile davanti al giudice ordinario, e -nel secondo -di un interesse legittimo tutelabile davanti al giudice amministrativo, in relazione al provvedimento dell'amministrazione con il quale si dichiari che taluni beni non servono pi all'opera pubblica. Si inoltre precisato che, al fine di stabilire se ricorra l'una o l'altra ipotesi, deve considerarsi non solo il decreto di espropriazione ma anche e soprattutto la ~ e dichiarazione di pubblica utilit e l'opera in essa indicata e che non si pu prescin fil dere dal considerare, contemporaneamente, la condizione dei beni inutilizzati per 11 accertare se si sia verificata una causa che, escludendone la destinazione all'opera ~~ programmata, abbia reso inoperante la dichiarazione di pubblica utilit rispetto al provvedimento ablatorio che li riguarda. . ,I . I ~=~~.,A:~~'~@,==- ~ PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE Sotto questo profilo si affermato che cessa il rapporto che vincola il bene alla realizzazione dell'opera e si versa, quindi, nella fattispecie di cui all'art. 63 cit. quando l'opera programmata risulti realizzata in luogo diverso dagli immobili all'uopo espropriati (v. sentenze nn. 240/1979, 290811969), quando la pubblica amministrazione abbia dato ad essi una destinazione diversa ed incompatibile con l'attuazione dell'opera (v. sentenze nn. 3353/1976, 3632/1968), ovvero questa sia radicalmente diversa da quella in concreto realizzata (v. sentenze nn. 3851/1975, 870/1984 gi cit., 539/1991). La Corte territoriale ha accertato la mancata esecuzione dell'opera pubblica prevista nella dichiarazione di pubblica utilit -costituente peraltro circostanza incontroversa -e ha indicato in modo logico ed adeguato le ragioni del proprio convincimento. Non sussistono, infatti, i vizi di motivazione su punti decisivi denunziati dal ricorrente col quarto motivo e sopra indicati. La Corte territoriale non ha, in realt, affermato che l'utilizzazione del fabbricato per uffici potesse ricondursi allo scopo giustificativo della dichiarazione di pubblica utilit (esecuzione di opere di fortificazione) e, di fronte ad una totale mancanza di esecuzione di siffatte opere, ha ritenuto sostanzialmente irrilevante l'accertamento del termine della dichiarazione di pubblica utilit e della sua scadenza (con la conseguenza che le censure mosse al riguardo dal ricorrente non attengono ad un punto decisivo). 3. -Con il terzo motivo di ricorso il Ministero della difesa, denunziando violazione degli artt. 2934, 2935 e 2946 codice civile, deduce: a) che, ai fini della decorrenza della prescrizione decennale del diritto fatto valere dagli attori si sarebbe dovuto tener conto della data di cessazione giuridica dello stato di guerra (15 aprile 1946) a norma dell'art. 1 del d.l.lgt. 8 febbraio 1946 n. 49 per essere stata disposta l'espropriazione per esigenze militari in periodo bellico; b) che la Corte d'appello avrebbe errato nel fissare il dies a quo del termine di prescrizione nella data (26 maggio 1954) del verbale di passaggio del complesso immobiliare dal demanio al patrimonio, poich detto verbale costituiva un atto predisposto a fini contabili interni dell' amn;i.inistrazione ed era, perci, inidoneo a far decorrere la prescrizione a sfavore dei privati. Il motivo non merita accoglimento. La Corte territoriale ha correttamente considerato, in conformit al costante orientamento di questa Suprema Corte ribadito anche di recente (v., tra le altre, la sentenza 26 gennaio 1993 n. 954) che, al fine di verificare il momento in cui l'espropriato pu esercitare il diritto potestativo alla retrocessione, occorre far riferimento alla situazione di fatto, obiettiva e concreta, tale da dare la certezza della sopravvenuta impossibilit del compimento dell'opera considerata nella dichiarazione di pubblica utilit (che nella specie, come si sopra rilevato, non era stata emessa -nel 1942 -in periodo bellico n era collegata allo stato di guerra). In applicazione di tale principio la stessa Corte d'appello ha individuato detta situazione nell'utilizzazione, dal 1954 in poi, del fabbricato per alloggi degli ufficiali di marina e tale accertamento di fatto, adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimit di questa Corte (omissis). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 402 CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 27 luglio 1998 n. 7340 -Pres. Sgroi -Rei. Carbone -P.G. Morozzo della Rocca (concl. conf.) -Consorzio Italiano Oleificio Sociale CIOS (avv. Vitale) c. Prefetto di Bari (avv. Stato G. Palmieri), Pinoli Alimentari (avv. Bracciodieta), Elaiopolio Cooperativo s.r.l. (avv. Conserva e avv. Prof. Lipari), Curatela fallimento CIOS (avv. De Palo). Giurisdizione civile -Regolamento di giurisdizione sollevato dalla pubblica amministrazione che non parte in causa -Ricorso alle Sezioni Unite Parte pi diligente -Termine perentorio -Inosservanza -Conseguenze Inammissibilit. (Art. 41,.2 comma, e art. 368 codice procedura civile). Nel caso in cui la P.A. che non sia parte in causa abbia fatto valere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario ex art. 41, 2 comma, codice procedura civile ed abbia ottenuto la sospensione del processo, la parte pi diligente deve investire la Corte di Cassazione della questione di giurisdizione con ricorso da proporsi nel termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione del decreto prefettizio a pena d'inammissibilit (1). (1) Brevi osservazioni in tema di questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto. La decisione si segnala non solo perch la pi recente pronuncia in questa materia, in cui peraltro i precedenti non abbondano, ma anche perch nella motivazione ricostruito l'iter storico- giuridico dell'istituto contemplato dalla norma di cui all'art. 41, 2 comma, citato. Si tratta di uno strumento processuale del quale solo raramente si sono avvalsi i Prefetti, ma di recente sembra che l'utilizzo stia diventando pi frequente e, quindi, la sentenza che si annota costituisce uno spunto di riflessione su quest'istituto che sembrava quasi obsoleto. Il quadro di riferimento normativo scarno ed costituito da due articoli del codice di procedura civile. L'art. 41, 2 comma, codice procedura civile, il quale prevede che la Pubblica Amministrazione, che non parte in causa, possa chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge ali' Amministrazione stessa, finch la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato. Il successivo art. 368 che disciplina le modalit del procedimento avviato ex art. 41 citato ed, in particolare, statuisce che la Corte di Cassazione investita della questione di giurisdizione con ricorso a cura della parte pi diligente nel termine, dalla norma stessa definito perentorio, di trenta giorni dalla notificazione del decreto prefettizio con il quale stata sollevata la questione di giurisdizione. In concreto il meccanismo delineato dalla legge processuale non appare pienamente idoneo a tutelare le ragioni di pubblico interesse che il Prefetto intende far valere soprattutto perch, in mancanza del ricorso delle parti private, le Sezioni Unite della Cassazione non possono pronunciarsi sulla questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto. Infatti, in dottrina prevale l'orientamento secondo il quale la P.A. non pu essere considerata parte diligente ai fini predetti; argomentando essenzialmente dalla netta distinzione contenuta nell'art. 41 c.p.c. tra gli oneri e i poteri attribuiti alla P.A., al pubblico Ministero ed alle parti ed individuando l'intento del legislatore nel senso di non conferire alla P.A. che non sia parte in causa poteri immediati sul processo vertente fra altri soggetti (G. FLORE, voce Giurisdizione, (regolamento di), in Enc. Dir., voi. XIX, Milano, Giuffr, 323-324; R. VILLATA, Il conflitto di attribuzioni sollevato dal Prefetto, in Riv. Trim. di Proc. Civ., 1967, 894 e ss., in particolare p. 936). PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO EPROCEDURA CIVILE 403 (omissis) Con carattere pregiudiziale si presenta l'esame della tempestivit del ricorso, tenuto conto che nel caso di specie si tratta di questione di giurisdizione sollevata dal Prefetto, ai sensi dell'art. 368 codice procedura civile e il ricorso alle sezioni unite deve essere proposto nel termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto prefettizio. La disposizione, che ha trovato scarsa applicazione nella vita dell'attuale codice di rito, regola una forma del tutto particolare di regolamento di giurisdizione, che si pu esercitare in ogni stato e grado del processo, finch la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato (cos, Cass. 4 aprile 1969, n. 1103). Le poche applicazioni di questa norma si riscontrano in materia fallimentare nei rapporti tra liquidazione coatta amministrativa e dichiarazione di fallimento (Cass. 23 novembre 1994, n. 912, ord.; Cass., sez. un., 30 ottobre 1992, n. 11848; Cass. 17 luglio 1980, n. 4681). Con una norma di raccordo, per evitare conflitti di attribuzione, il capoverso dell'art. 41 codice procedura civile consente alla P.A., che non sia parte in causa, tramite il Prefetto, di far dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario dalle sezioni unite della Corte di cassazione. Alla P.A., quando non parte del giudizio, consentito di far valere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, senza il limite temporale della preclusione della Non seguono questa impostazione S. SATTA, (Commentario al codice di procedura civile, II, 238), il quale ritiene che per parte diligente possa intendersi anche la P.A. e E. CANNADA BARTOLI, il quale, alla luce del dettato costituzionale, riconduce l'istituto nell'ambito della teoria del processo ed ammette che la P.A. che non sia parte in causa possa assumere tale qualit nei limiti del processo incidentale di c.d. giurisdizione, nel quale fa accertare i propri poteri in relazione all'oggetto dedotto in un giudizio in concreto (voce Giurisdizione (conflitti di), in Enc. Dir., vol. XIX, 302 e ss.). La giurisprudenza ha affrontato la questione sotto questo particolare profilo solo una volta, con la sentenza delle Sezioni Unite Civili 13 marzo 1965, n. 425 (in Foro Jt., 1965, I, 618; in Giust. Civ., 1965, I, 434 e in questa Rassegna, 1965, I, 2, 293, con nota Osservazioni sul conflitto di attribuzioni di G. DEL GRECO, nella quale anche pubblicato integralmente l'atto difensivo presentato dall'Avvocatura Generale, nella cui prima parte sono esaminati i problemi connessi al conflitto soilevato dal Prefetto ed alla sua rilevanza anche costituzionale, e nella cui seconda parte trattata la questione di merito). Infatti, nelle decisioni sinora intervenute la parte privata ha sempre (tempestivamente) provveduto ad investire la Corte di Cassazione. In una fattispecie, peraltro molto particolare, la Corte si pronunciata espressamente, ed in senso positivo, sull'ammissibilit del ricorso del Prefetto proposto per tutelare le ragioni dello Stato del Giappone (SS. UU., 30 settembre 1968, n. 3029, in Giust. Civ., 1968, 962). In ogni caso, una volta che la parte privata pi diligente abbia investito la Cassazione, si deve ritenere che anche il Prefetto possa costituirsi in giudizio attraverso l'Avvocatura dello Stato al fine di far presenti le tesi e le argomentazioni della P.A. nel giudizio di risoluzione del conflitto (VILLATA, op. cit., 937). Secondo parte della dottrina, nell'ipotesi d'inosservanza del termine previsto dall'art. 368 cit. per investire la Cassazione, il processo deve ritenersi estinto ex art. 307 codice procedura civile (VILLATA, ivi) e se nessuno si fa parte diligente, manca la decisione del giudice di merito e sar escluso ogni pregiudizio dell'autorit amministrativa (CANNADA BARTOLI). 2. -Inoltre, dalla proposizione del regolamento ex art. 41 cit. scaturisce l'obbligo per il capo dell'ufficio giudiziario davanti al quale pende la causa di sospendere il procedimento RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 404 decisione nel merito di primo grado, caratteristica peculiare del regolamento preventivo di giurisdizione, esperibile dalle parti del processo. La disposizione trova corrispondenza nel comma 1 dell'art. 37 codice procedu-< ra civile -che consente la rilevabilit d'ufficio del difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo -e legittima a sollevare la questione di giurisdizione il Prefetto del luogo ove pende il giudizio di merito, quale rappresentante della P.A. che non sia parte in causa (art. 19 comma 2, regio decreto 3 marzo 1934 n. 383). L'attuale disciplina del regolamento di giurisdizione, di cui agli artt. 41, 367 e 368 codice procedura civile, risale alla legge 31 marzo 1877, n. 3761, sui conflitti di attribuzione, dovuta alla riforma del guardasigilli del tempo Pasquale Stanislao Mancini, rimasta sostanzialmente intatta. Sintomatico di quanto sopra, ed a livello di vero e proprio antiquariato giuridico, l'articolo in esame, non toccato dalla riforma del 1990, consente, ancora oggi, al Prefetto, competente per territorio, di sollevare la questione di giurisdizione. Con la semplice differenza che l'effetto sospensivo non pi connesso direttamente al decreto prefettizio, ma a un meccanismo procedimentale che parte dalla notifica alla magistratura requirente -ali' epoca dell'introduzione del codice di rito del 1942 ancora sottoposta all'esecutivo la quale ne d comunicazione al capo dell'ufficio giudiziario che provvede a (art. 368, 3 comma, codice procedura civile) ed dubbio in dottrina se tale effetto sospensivo decada o meno per effetto della mancata proposizione del ricorso alle Sezioni Unite. fil In un remoto precedente attinente ad una fattispecie analoga a quella oggetto della decisio-I~.'.. ne che si annota, il Tribunale di Milano, con un decreto in data 15 ottobre 1979, (in Giur. It., 1979, I, 2, 296, con nota Il prefetto ed il processo civile di F. CrPRJANI), ha precisato che la proposizio-I',: ne del regolamento di giurisdizione da parte del Prefetto nei confronti di una sentenza dichiarativa di fallimento obbliga il capo dell'ufficio giudiziario a sospendere sia il processo di opposizione alla sentenza stessa sia la procedura esecutiva concorsuale. Nel citato commento a tale provvedimento stato sottolineato come il regolamento ex art. 41 costituisca uno strumento pi micidiale di quello su istanza di parte proprio perch consente di scavalcare il giudice naturale investito della causa, sottraendogli il potere di sospendere il processo e perch non assume alcuna particolare importanza la fondatezza della richiesta prefettizia. Inoltre, il regolamento per decreto del Prefetto si differenzia da quello su istanza di parte non solo quanto ai presupposti (la P.A. che non sia parte in causa), ma anche per i termini finali per proporlo (il giudicato sulla giurisdizione) e l'oggetto (difetto della giurisdizione dell'autorit giudiziaria ordinaria a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'Amministrazione). Altro connesso profilo di rilievo riguarda l'interpretazione della locuzione contenuta nel terzo comma dell'art. 368 codice procedura civile capo dell'ufficio giudiziario davanti al quale pende la causa. Secondo la dottrina (VILLATA, op. cit., 929; CIPRIANI, op. cit., 298), il capo dell'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice davanti al quale pende la causa (nella specie, il Presidente ~ Capo del Tribunale). ~ Inoltre, il giudice deve solo accertare l'esistenza delle condizioni oggettive (I'Amministra-?J zione non sia parte in causa e non vi sia stato il giudicato sulla giurisdizione) per emanare il prov li_, vedimento di sospensione. i: 3. -Resta da esaminare un ultimo aspetto: la disposizione di cui all'art. 41 stata emanata !i prima della entrata in vigore della Costituzione e della legge 11 marzo 1957, n. 87, sulla costitu-~ zione e sul funzionamento della Corte Costituzionale, e ci rende necessario non solo e non tanto ~ valuWe la compatibmt dell'fatituto pmito dal codice di pmcedura civile con l~ dIBpoi,mn~ . ~~~........,.... PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 405 sospendere immediatamente il processo in corso. Questo tipo di intervento va inquadrato storicamente, perch collegato alla fine dell'avocazione reale, che consentiva al re di attribuirsi qualsiasi processo civile o penale per deciderlo nel merito. Si ritenne, intorno all'ultimo quarto del secolo scorso, sotto la spinta di una forte corrente di pensiero, sostenuta dalla dottrina dell'epoca, di introdurre l'istituto dei conflitti, al fine di bloccare le eventuali invasioni del potere giudiziario nel campo riservato all'esecutivo, non pi protetto dall'avocazione reale. Il Governo del 1877 risolse il problema mediante l'arma di guerra, cos qualificata dal guardasigilli Mancini, costituita dall'intervento del Prefetto posto in grado di bloccare l'autorit giudiziaria, anche quando la P.A. non parte in causa, come, ancor oggi, recita l'attuale art. 41, comma 2. In questo modo si consente al Governo, tramite il Prefetto, di far valere il difetto assoluto del potere giurisdizionale, in ogni stato e grado del giudizio, finch la giurisdizione non sia coperta dal giudicato, mediante un potere di veto con cui la P.A. ottiene la sospensione del processo, ai sensi dell'art. 368, comma 3, codice procedura civile. La regolamentazione attuale prevede, infatti, che costituisce onere dell'altra parte, rimasta bloccata dal veto con cui la P.A. ha ottenuto la sospensione del processo, di ricorrere alle sezioni unite affinch provvedano sulla questione di giurisdizione. costituzionali successive, ma soprattutto valutare se l'interesse pubblico possa essere pi convenientemente fatto valere sollevando il conflitto di attribuzioni con il giudice ordinario. Infatti, nei casi verificatisi in concreto il Prefetto ha contestato la competenza giurisdizionale del giudice ordinario a dichiarare il fallimento di una societ, ritenendo, invece, quest'ultima soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa. In sostanza, il Prefetto ha contestato l'esercizio del potere giurisdizionale del giudice ordinario nella particolare fattispecie a causa dei poteri invece spettanti alla Pubblica Amministrazione. Tanto che il regolamento de quo viene anche denominato regolamento di giurisdizione per conflitto di attribuzioni. La questione potrebbe, quindi, essere utilmente fatta valere anche sollevando conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato innanzi alla Corte Costituzionale. Sebbene la dottrina ed anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale traccino una decisa linea di demarcazione fra questioni di giurisdizione e conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato, escludendo che sia sottoponibile a sindacato di costituzionalit il modo come un determinato organo abbia concretamente esercitato i poteri che gli spettano, nel particolare caso di specie, il conflitto potrebbe essere sollevato ricorrendo alla categoria concettuale, elaborata dalla dottrina, di conflitto da menomazione (L. PALADIN, Diritto Costituzionale, CEDAM, Padova, 1991). Non occorre, quindi, che si contenda circa la spettanza dell'attribuzione stessa, ma sufficiente che sussista la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata al soggetto che solleva il conflitto di attribuzioni. Infine, va ricordato che in un recente passato (nota vicenda Baffi-Sarcinelli, in cui la divergenza di vedute fra la Banca d'Italia e l'autorit giudiziaria, a proposito dell'esistenza o meno di un obbligo di denuncia a quest'ultima da parte della prima, delle irregolarit riscontrate in certi finanziamenti effettuati dal Credito Industriale Sardo alla SIR, sfoci in un conflitto fra l'autorit giudiziaria stessa e governo), si sostenne da autorevole dottrina (Sandulli) la possibilit di deferire da parte dei Governo alla Corte Costituzionale la soluzione del conflitto di attribuzione insorto con l'autorit giudiziaria, al fine di assicurare la coordinata funzionalit dello Stato nelle sue varie articolazioni, rimettendo alla Corte la definizione dei limiti e delle prerogative dei due poteri in dissonanza. GABRIELLA PALMIERI ' ~. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 406 La richiesta del prefetto contenuta in un decreto motivato, notificato alle parti e al pubblico ministero presso il Tribunale, se si tratta di un processo di primo grado, o al procuratore generale presso la Corte d'Appello, se il processo sia in grado di appello. Il P.M. o il P.G. si rivolge non al giudice investito della causa, ma al capo dell 'u:fficio giudiziario, il quale, senza alcuna delibazione (a differenza di quanto previsto dal comma 2 dell'art. 2 legge 31 marzo 1877, n. 3761 per i conflitti di attribuzione) sospende il processo, dandone notizia alle parti e mettendo in grado quella pi diligente di rivolgersi -entro il termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto prefettizio -alla Corte di Cassazione perch si pronunci sulla giurisdizione. Sebbene la legge definisca il decreto del prefetto come richiesta per la decisione sulla giurisdizione della Corte di cassazione, in realt si tratta non di una domanda, ma piuttosto dell'esercizio di un potere di veto, con cui la P.A. da un lato ottiene la sospensione del processo, e dall'altro, su ricorso a carico della parte pi diligente, la decisione sulla giurisdizione ad opera delle sezioni unite. Nel caso in esame, il decreto del prefetto risulta notificato, ai sensi dell'art. 3 68 codice procedura civile in data 18 dicembre 1996 e di ci d atto lo stesso decreto di sospensione del presidente del Tribunale, quando richiama la nota del P.M. del 20 dicembre 1996, contenente, appunto, notizia del decreto ai fini della sospensione di rito. La disposizione contenuta nell'art. 368 codice procedura civile prevede che il ricorso contenente la questione di giurisdizione deve essere proposto nel termine perentorio di 30 giorni dalla notifica del decreto prefettizio, avvenuta nella specie il 18 dicembre 1996. Orbene, il C.I.O.S. avrebbe dovuto proporre il ricorso entro trenta giorni dalla notifica del decreto prefettizio. Nel caso di specie, il termine perentorio non risulta rispettato perch il ricorso per regolamento di giurisdizione stato tardivamente notificato, in data 29 gennaio 1997. La giurisprudenza ferma nel ritenere che il ricorso notificato oltre il termine perentorio sia inammissibile (Cass., 12 agosto 1995, n. 8857). In considerazione della natura della controversia le spese possono essere interamente compensate tra le parti. P.Q.M. La Corte a sezioni unite, dichiara il ricorso inammissibile (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 29 luglio 1998, n. 7414 -Pres. Vessia -Rei. Paolini -P.M Dettori (diff.) -SOGEMA s.r.l. (avv. Colarizi) c. Regione Valle d'Aosta (avv. Stato Sica). Giurisdizione -Contabilit pubblica -Ordinamento contabile regionale Fermo amministrativo (provvedimenti di) -Carenza di potere -Giurisdizione dell' A.G.O. (Regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440, art. 69; legge regionale V dA 27 dicembre 1989 n. 90). PARTE I, SEZ. III, GIURISPRUDENZA DI DIRITTO E PROCEDURA CIVILE 40T Per il carattere di eccezionalit che lo connota, oltre che per la diversit delle strutture organizzative statuale e regionale, l'istituto del fermo amministrativo, di cui all'art. 69 del regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440, non pu ritenersi inserito nell'ordinamento contabile della Valle d'Aosta in forza del generale rinvio operato, con disposizione di legge regionale, alle norme di contabilit generale dello Stato. Con la conseguenza che spetta al giudice ordinario la cognizione delle controversie sulla esigibilit dei crediti oggetto di provvedimenti di < za piuttosto recente attribuibili anche al Giudice Amministrativo a determinate condizioni. Il caso di specie era il seguente. Un'impresa, esclusa da una gara per avere prodotto un documento non sottoscritto secondo le modalit prescritte dal bando, aveva impugnato davanti al T.A.R. competente la delibera di aggiudicazione dell'appalto, ritenendo illegittima la prescrizione. Il T.A.R., rilevato che effettivamente la prescrizione del bando risultava in contrasto con l'articolo 18 della legge 55/1990 oltre che con altri principi dell'ordinamento vigente, accoglieva il ricorso previa disapplicazione delle disposizioni del bando di gara che imponevano l'autenticazione della sottoscrizione ed annullava conseguentemente il provvedimento di aggiudicazione. Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, ha dichiarato, invece, che il ricorso di primo grado doveva essere dichiarato inammissibile dal Tribunale Regionale Amministrativo. La decisione importante perch pone principi molto chiari in materia ed evita i fraintendimenti che pure vi erano stati sia in dottrina che in giurisprudenza. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 455 sciuti ex art. 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, al Giudice ordinario. Detto potere pu esercitarsi contro tutti gli atti amministrativi incidenti su diritti. Sulla base di tali considerazioni, si distingue tra la disapplicazione normativa e quella provvedimentale, la prima inerente ad atti regolamentari e la seconda a provvedimenti puntuali della pubblica Amministrazione. 3) La gerarchia delle fonti di per s sufficiente a supportare giuridicamente il riconoscimento in capo al Giudice amministrativo del potere di disapplicare gli atti normativi illegittimi, indipendentemente dalla natura della posizione giuridica coinvolta (diritto soggettivo o interesse legittimo). 4) La disapplicazione delle clausole del bando di gara discende direttamente dal suo contrasto con le previsioni legislative, che non contengono elementi atti a sostenere la scelta dell'Amministrazione. Nel caso esaminato, il bando -ad avviso del T.A.R. non fornisce alcuna indicazione circa le modalit che il concorrente deve seguire nel manifestare la propria volont in ordine al profilo da cui scaturita l'esclusione della ricorrente, n appaiono altrimenti desumibili ragioni idonee a giustificare la decisione della Amministrazione di imporre alle imprese aspiranti a partecipare alla gara l'onere di autenticare la sottoscrizione della dichiarazione. L'art. 18 della legge 19 marzo 1990 n. 55 (come modificata dall'art. 34 del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n.406) subordina, una volta esaurita la procedura concorsuale, l'affidamento di opere in subappalto o a cottimo alla previa autorizzazione della stazione appaltante ed impone all'aggiudicatario di comunicare i nominativi dei soggetti a cui intende subappaltare o dare in cottimo i lavori. evidente che la dichiarazione richiesta prima della gara a tutti i concorrenti, seppur finalizzata ad esigenze di conoscenza e di tutela dell'Amministrazione, funzionale alla produzione di effetti che si determineranno solo nella fase successiva alla scelta del contraente, esclusivamente in capo dello stesso ed a condizione che quest'ultimo adempia ad ulteriori oneri. A fronte della posizione assunta dal T.A.R. della Lombardia, l'inammissibilit del ricorso di primo grado, dedotta con i due appelli, comporta per il Collegio il dovere di definire i precisi limiti della disapplicazione oltre a quello di esaminare la natura delle clausole del bando di gara. In primo luogo, il Consiglio di Stato esclude che la disapplicazione possa operare quando le posizioni soggettive oggetto di lesione abbiano la struttura dell'interesse legittimo, restringendo la possibilit del Giudice Amministrativo di disapplicare l'atto della Pubblica Autorit solo quando la natura della posizione garantita dall'ordinamento giuridico assuma la valenza di diritto soggettivo perfetto e l'ordinamento non attribuisca alcun potere di degradarlo. In secondo luogo, il Consiglio di Stato esige per la disapplicazione normativa che la norma -legislativa o regolamentare -disciplini direttamente il rapporto facendo essa immediatamente sorgere la situazione di diritto soggettivo perfetto. In terzo luogo, in modo conseguente, il Consiglio di Stato esclude la disapplicazione quando tale rapporto diretto non sussiste a causa dell'intermediazione di atti autoritativi e quindi provvedimentali in senso proprio, qual' da ritenersi un bando di gara. Atti immediatamente impugnabili qualora contengano prescrizioni illegittime suscettibili di arrecare una lesione. LUIGI MAZZELLA RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 456 Nel disapplicare le prescrizioni del bando, che ponevano a carico dei partecipanti l'onere di produrre, a pena di esclusione, la dichiarazione delle opere da affidare a subappalto o a cottimo con l'autentica delle firme, la sentenza impugnata muove da recenti affermazioni della Sezione V di questo Consiglio intese, nel caso conflitto, a dare preminenza alla norma legislativa rispetto a quella regolamentare allorch quest'ultima precluda al privato l'esercizio di un diritto soggettivo: la V Sezione ha, invero, superato la precedente giurisprudenza che riteneva preclusa al Giudice amministrativo la disapplicazione degli atti regolamentari, ravvisando, in sede di giurisdizione esclusiva, la possibilit di disapplicare i regolamenti, gli atti generali e anche quelli a contenuto puntuale, sebbene non tempestivamente impugnati, allorch dalla loro applicazione vengano compromessi diritti soggettivi: tali sono state ravvisate, da ultimo, le posizioni dei professionisti costituiti in societ interessate a stipulare convenzioni con le unit sanitarie locali (Cons. Stato, V, 7 aprile 1995 n. 531) o quelle del lavoratore dipendente, divenuto inabile, ad essere adibito ad altra mansione compatibile con il suo stato (Cons. Stato, V, 19 settembre 1995 n. 1332). L'orientamento segue quello gi manifestato in sede di esecuzione del giudicato (Cons. Stato, V, 27 gennaio 1989 n. 7) che ritiene il giudice amministrativo, limitatamente agli atti paritetici, destinatario -come il giudice ordinario -del generale disposto dell'art. 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, circa la possibilit di disapplicare gli atti amministrativi riconosciuti illegittimi. Pur condividendo l'orientamento della V Sezione, il Collegio non ritiene che la disapplicazione possa operare quando le posizioni soggettive oggetto di lesione abbiano la struttura dell'interesse legittimo, anche a fronte di disposizioni di supposto carattere regolamentare, come sembrerebbe avere qualificato il T.A.R. della Lombardia le clausole del bando. N, tantomeno, considera possibile affermare che la posizione vantata dalla impresa Perregrini abbia conservato natura di diritto soggettivo a fronte del preciso onere di autenticazione prescritto dal bando, nonostante che l'art. 18 della legge 19 marzo 1990 n. 55 (come modificata dall'art. 34 del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n. 406) non preveda l'autenticazione della firma relativa alla dichiarazione delle opere che il partecipante voglia affidare in subappalto o a cottimo. Va, innanzitutto ribadito che la possibilit del Giudice amministrativo di disapplicare l'atto della pubblica autorit discende dalla natura della posizione garantita dall'ordinamento giuridico: opera solo quando tale posizione assuma la valenza di diritto soggettivo perfetto e l'ordinamento non attribuisca alcun potere di degradarlo. In questo caso il rapporto si instaura pariteticamente fra l'Amministrazione e il privato, s che il Giudice lo conosce direttamente in quanto tale, e indipendentemente dalla sua funzione di Giudice amministrativo. La potest che egli esercita in sede di disapplicazione , pertanto, analoga a quella del Giudice ordinario, non esistendo alcuna ragione, neanche ravvisabile nell'art. 4 legge legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, per la quale gli sia preclusa la conoscenza del rapporto sostanziale dedotto nel giudizio, nonostante l'esistenza dell'atto. Di fronte agli atti paritetici, il giudice amministrativo non esercita, invero, alcun potere di annullamento, ma prescrive i comportamenti necessari a ricondurre alla legalit la condotta dell 'Amministrazione, disattendendo gli atti posti in essere difformemente dagli obblighi previsti dall'ordinamento e ripristinando le posizioni soggettive violate. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA Ricondotta in questi termini la disapplicazione cosiddetta normativa, evidente la sua possibilit di operare solo quando la norma -legislativa o regolamentare -che si assume violata regoli direttamente e congiuntamente il rapporto, instaurando situazioni aventi spessore di diritto perfetto e non di interesse. La disapplicazione nel processo amministrativo, in quanto limitata a realizzare le sole pretese discendenti direttamente dalla legge, viene meno di fronte ad atti aventi carattere squisitamente autoritativo e, pertanto, provvedimentale in senso proprio, ove il rapporto non regolato direttamente dalla legge, ma tramite l'esercizio di un potere che la legge stessa conferisce all'amministrazione. Il sindacato giurisdizionale si esercita, in questo caso, sulle modalit con le quali il rapporto stato regolato in via autoritativa dall'amministrazione. Esso non pu spingersi sino al punto di disattendere, anche con lo strumento della disapplicazione, un assetto d'interessi oramai divenuto definitivo per la generalit dei soggetti, una volta scaduto il tempo prescritto per la sua impugnazione. Il divieto della disapplicazione cosiddetta provvedimentale per il Giudice amministrativo deriva, pertanto, dall'assetto concreto del rapporto, che non dettato in via primaria dalla legge, ma dall'Amministrazione, nell'esercizio di una sua potest discrezionale. Che il bando di gara sia riconducibile a manifestazione di volont provvedimentale e non ad atto regolamentare o, comunque, normativo, stabilito dall'unanime giurisprudenza che stabilisce l'immediata impugnabilit del bando stesso, qualora contenga prescrizioni suscettibili di arrecare una lesione diretta ed immediata (Cons. Stato, V, 17 dicembre 1991n.1369). Ancorch illegittime, le prescrizioni del bando di gara entrano a far parte del1' ordinamento come regola concreta del rapporto, da osservare per tutti i partecipanti in sostanziale posizione di parit, stante il principio dell'imperativit del provvedimento amministrativo, nei cui confronti il criterio teleologico che impone l'applicazione della gerarchia delle fonti sicuramente recessivo (Cons. Stato, VI, 11 ottobre 1990 n. 891; id. V, 20 novembre 1987 n. 711; id. VI, 31gennaio1984 n. 38). 3. Nella gara indetta dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche per la Lombardiii;, al fine dell'appalto dei lavori relativi alla sede del Tribunale per i minorenni di Milano, il bando (pubblicato il 27 marzo 1993) prevedeva espressamente l'onere di produrre una dichiarazione nella quale indicare espressamente, ai sensi del1' art. 18, comma 3, punto 1, della legge n. 55 del 1990 quali opere il partecipante intendeva subappaltare o affidare in cottimo e avvertiva, altrettanto, espressamente che tale dichiarazione, valida alla data fissata per la gara, si sarebbe dovuta rendere forme e per gli effetti di cui agli artt. 20 e 26 della legge 4 gennaio 1968 n. 15. Subordinare tale dichiarazione a dette formalit corrisponde, invero, ad una specifica potest attribuita all'Amministrazione dall'art. 65, n. 6, del regolamento di contabilit dello stato di cui al regio decreto 23 maggio 1924 n. 827, che considera requisito dell'avviso di asta pubblica (bando), la indicazione dei documenti comprovanti l'idoneit o le altre condizioni prescritte per essere ammessi all'asta medesima, condizioni fra le quali ben pu essere ricompresa la formalit dell'autenticazione della sottoscrizione del documento da produrre. , pertanto, da disattendere la sentenza impugnata, ove ritiene che le prescrizioni dell'art. 18, comma 3, della legge 19 marzo 1990 n. 55, come modificata dall'art. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO e 458 del decreto legislativo 19 dicembre 1991 n. 406, circa l'affidamento in subappalto o in cottimo delle lavorazioni oggetto della gara, attribuiscano uno specifico diritto dell'appaltatore non assoggettabile a specifici limiti e condizioni dall'Amministrazione e, conseguentemente, non degradabile alla posizione d'interesse legittimo dal bando di gara. A fronte dei suesposti rilievi, sono prive di fondamento le deduzioni riportate nel controricorso della societ appellata, circa il contrasto delle disposizioni del bando con il citato art. 18, che non esclude per la stazione appaltante la potest di regolare sotto l'aspetto formale, con specifiche prescrizioni le dichiarazioni alla cui produzione sono tenuti i partecipanti. Da ci deriva la legittimit dell'esclusione della societ Costruzioni Perregrini in assenza della richiesta autenticazione, senza che sia possibile disapplicare la relativa clausola del bando di asta pubblica. 4. I due appelli sono, quindi, fondati e meritano accoglimento, data la inammissibilit del ricorso di primo grado per omessa impugnazione del bando in parola. (omissis) CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 15 settembre 1998 n. 1161 -Pres. !annotta -Est. De Nictolis -Magarotto Elia (avv. Testa e Manzi) c. Co.re.co. della Regione Veneto (avv. Stato Aiello C.). Impiego pubblico -Indennit particolari percepite solo dal personale medico a parit di stipendio tabellare con dirigenti amministrativi -Legittimit Estensione per analogia ai dirigenti amministrativi -Esclusione. Impiego pubblico -Decreto legislativo 29/1993 -Trattamenti economici fissati dai contratti collettivi -Inderogabilit anche in melius. da ritenere pienamente legittimo il sistema normativo in base al quale a parit di stipendio tabellare con i dirigenti amministrativi, il personale medico gode di particolari indennit (indennit medico-professionale di tempo pieno e sue maggiorazioni, indennit di dirigenza medica e per strutture specialistiche) per cui percepisce, globalmente, un compenso mensile maggiore. Le peculiari indennit percepite dai medici non possono essere estese per analogia ai dirigenti amministrativi, perch connesse alla specificit della prestazione professionale sanitaria (1). da ritenere, alla luce di una interpretazione sistematica, che anche nel disegno del decreto legislativo 29 del 1993 i trattamenti economici fissati dai contratti collettivi siano inderogabili anche in melius oltre che in peius (2). (omissis). 1. Con il ricorso di primo grado erano stati dedotti, con il primo motivo, i vizi di violazione e falsa applicazione degli artt. 4 7 legge n. 833 del 1978, 30 del decre( 1 -2) La sentenza che si annota riafferma il costante orientamento del Consiglio di Stato sul trattamento retributivo dei dirigenti amministrativi delle uu.ss.11. Il ricorrente, dirigente amministrativo di una u.s.l. veneta, aveva in primo grado impugnato il provvedimento di controllo negativo del Co.re.Co. di annullamento della delibera del Comitato f PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 459 to del Presidente della Repubblica n. 761 del 1979, 2, 3, 4, 9, 17 e 18 legge n. 93 del 1983, 3, 5, 36, 51 e 97 della Costituzione, nonch eccesso di potere sotto il profilo della violazione del principio di perequazione retributiva, dell'ingiustizia manifesta e della disparit ingiustificata di trattamento; con il secondo motivo, l'eccesso di potere per incongruit ed erroneit della motivazione. 1.1. Il T.A.R. adito, con la sentenza in epigrafe, ha disatteso tutte le censure osservando che il ricorrente, quale direttore amministrativo, inquadrato nel 10 livello retributivo funzionale ai sensi dell'art. 3 7 decreto del Presidente della Repubblica n. 348 del 1983, e percepisce uno stipendio tabellare identico a quello dei medici che esercitano pari funzioni (coadiutore sanitario, vice direttore sanitario, aiuto corresponsabile). Tuttavia, a parit di stipendio tabellare, il personale medico gode di particolari indennit (indennit medico professionale di tempo pieno e sue maggiorazioni, indennit di dirigenza medica e per strutture specialistiche), per cui percepisce, globalmente, un compenso mensile maggiore. Tale sistema non , ad avviso del T.A.R., illegittimo. Vero che nell'ordinamento anteriore alla istituzione delle uu.ss.ll. gli enti ospedalieri godevano di una certa discrezionalit in tema di trattamento economico dei propri dipendenti, e potevano stabilire per essi un trattamento pi favorevole di quello previsto dalla contrattazione collettiva, ritenuto inderogabile solo nel minimo; specie dopo la sentenza della Corte Costituzionale 29 luglio 1982 n. 161, che aveva dichiarato illegittimo l'art. 7 della legge 17 agosto 197 4 n. 3 86, nella parte in cui faceva divieto agli enti ospedalieri di corrispondere al proprio personale un trattamento economico superiore a quello previsto dagli accordi sindacali nazionali, era pacifico che gli enti ospedalieri potessero equiparare il trattamento economico dei dirigenti amministrativi a quello dei dirigenti sanitari. Tuttavia, il contesto normativo radicalmente mutato con la legge n. 833 del 1978, in base alla quale, secondo il Tribunale, gli ospedali non hanno pi persona- di gestione della u.s.l., con cui si concedeva l'equiparazione del trattamento economico tra personale ammfoistrativo e personale medico svolgente corrispondenti funzioni, ritenendo ingiustificata la sperequazione retributiva tra gli stessi. Il T.A.R. adito disattendeva tutte le censure prospettate dal ricorrente e, in secondo grado, il Consiglio di Stato ha integralmente confermato la sentenza appellata. La decisione annotata, che si muove del resto nel solco tracciato dalle precedenti pronunce dello stesso Consiglio di Stato (v. Cons. Stato, V, 13 dicembre 1993 n. 1282; Cons. Stato, V, 6 aprile 1991 n. 449) appare pienamente condivisibile. Ritenendo legittima la mancata corresponsione ai dirigenti amministrativi di indennit connesse con l'esercizio della professione medica, che nulla hanno a che vedere con l'espletamento di funzioni amministrative, il Consiglio di Stato ribalta la prospettiva del ricorrente, profilando semmai dubbi di legittimit sulla corresponsione ai dirigenti sanitari di indennit connesse con le prestazioni mediche qualora ci si trovi in presenza esclusiva di identit o analogia di funzioni con i dirigenti amministrativi. Del resto, anche alla luce di un criterio di ragionevolezza, appare legittima la non attribu zione ai dirigenti amministrativi delle indennit connesse alla specificit della prestazione pro fessionale sanitaria, sia a causa di una diversa posizione funzionale dei direttori sanitari e ammi nistrativi, sia per la diversit di preparazione professionale loro richiesta. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO"' 460 lit giuridica, ma sono elementi dell'organizzazione delle uu.ss.11., le quali a loro volta sono prive di personalit giuridica e di autonomia finanziaria. In tale quadro va letto l'art. 47 legge 23 dicembre 1978 n. 833, che demanda al contratto collettivo nazionale la determinazione del trattamento economico del personale delle uu.ss.11., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale compensi, indennit o assegni di qualsiasi natura che modifichino direttamente o indiretta mente il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. Tale disposizione appare pienamente legittima, essendo le uu.ss.ll. prive di risorse finanziarie proprie, di proprio patrimonio, e di autonomia contabile. Inoltre, il contratto collettivo (decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983 n. 348) attua la perequazione tra dirigenti amministrativi e dirigenti sanitari, essendo identico lo stipendio tabellare. Ci che diversifica in concreto le retribuzioni sono le peculiari indennit percepite dai medici, che non possono essere estese per analogia, perch connesse alla specificit della prestazione professionale sanitaria. Aggiunge la sentenza appellata che non pertinente, nel caso di specie, la giurisprudenza del Consiglio di Stato invocata dal ricorrente, in quanto la stessa si riferisce ad un caso diverso, in cui l'equiparazione del trattamento economico era stata chiesta dagli interessati gi agli enti ospedalieri, prima della loro soppressione: limim tatamente a tale ipotesi, la u.s.l. pu disporre l'equiparazione del trattamento eco I nomico, ora per allora, permanendo la pretesa degli interessati a che l'ente si prom nunciasse sulla loro domanda. 0 l l lli 2. L'appellante critica la sentenza impugnata rilevando, anzitutto, che oggetto . del ricorso di primo grado era l'atto negativo di controllo del Co.Re.Co.; invece, ' parte della motivazione della sentenza del T.A.R. sarebbe dedicata a contestare la legittimit della delibera u.s.l. di equiparazione dei trattamenti economici, delibera . annullata dal Co.Re.Co., sotto profili diversi da quelli esaminati dall'organo di conill trollo. L'appellante ripropone, pertanto, i motivi del ricorso di primo grado. I . l Il Consiglio di Stato perviene alla decisione in esame attraverso un'apprezzabile ed armonica ricostruzione dell'intero sistema normativo, a livello legislativo e di contrattazione collettiva, che disciplina la materia de qua. Il punto di partenza, nell'ambito della materia del pubblico impiego in generale, costituito, come noto, dalla legge n. 93 del 1983 che all'art. 11 ha previsto l'inderogabilit dei trattamenti economici stabiliti dalla contrattazione collettiva sia in peggio che in meglio. Il Consiglio di Stato, approvando l'operato del legislatore, ritiene nella sentenza annotata che la ratio del principio della inderogabilit in melius debba rinvenirsi sia nell'esigenza di contenimento della spesa pubblica che in esigenze di omogeneizzazione e di perequazione della retribuzione. I Ma lo stesso Consiglio di Stato si spinge anche oltre, affermando che il decreto sulla privam tizzazione del pubblico impiego, decreto legislativo 29/1993, il quale si limita a stabilire che le ID amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti ........ parit di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (art. I 49, 2 comma) da interpretare sistematicamente nel senso che i trattamenti economici fissati dai contratti collettivi sono inderogabili anche in melius oltre che in peius. r f:'. Quindi lo strumento della contrattazione collettiva ritenuto tanto dal legislatore che dalla giurisprudenza amministrativa quello maggiormente idoneo a disciplinare i trattamenti economici ~ ~ m; dei dipendenti pubblici per diverse ragioni: in primo luogo, perch i trattamenti economici fissa1!: ~ j::; ~ . r ~ PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 461 3. L'appello infondato. Non sussiste, nella decisione impugnata, il lamentato vizio di extrapetizione. Il provvedimento di controllo negativo impugnato afferma che con l'entrata in vigore della riforma sanitaria attuata con la legge 23 dicembre 1978 n. 833, in base all'art. 47 di detta legge preclusa alla u.s.l. ogni autonoma potest in materia di trattamento economico; la stessa, pertanto, non legittimata ad attribuire ai dirigenti amministrativi lo stesso trattamento economico dei dirigenti sanitari, con decorrenza anteriore a quella di costituzione delle uu.ss.ll. Rispetto a tale contenuto della delibera del Co.Re.Co., e considerati i motivi del ricorso di primo grado, la motivazione della sentenza gravata, sopra sintetizzata, appare del tutto pertinente e puntuale. 3 .1. Passando all'esame delle censure di primo grado, riproposte con l'atto di appello, il Collegio ritiene che la sentenza appellata meriti integrale conferma. Il ricorrente, quale direttore amministrativo, inquadrato nel 10 livello retributivo funzionale ai sensi dell'art. 37 decreto del Presidente della Repubblica n. 348 del 1983, e percepisce uno stipendio tabellare identico a quello dei medici che esercitano pari funzioni (coadiutore sanitario, vice direttore sanitario, aiuto corresponsabile). Tuttavia, a parit di stipendio tabellare, il personale medico gode di particolari indennit (indennit medico professionale di tempo pieno e sue maggiorazioni, indennit di dirigenza medica e per strutture specialistiche), per cui percepisce, globalmente, un compenso mensile maggiore. Tale sistema da ritenere pienamente legittimo. Vero che nell'ordinamento anteriore alla istituzione delle uu.ss.11. gli enti ospedalieri godevano di una certa discrezionalit in tema di trattamento economico dei propri dipendenti, e potevano stabilire per essi un trattamento pi favorevole di quello previsto dalla contrattazione collettiva, ritenuto inderogabile solo nel minimo; specie dopo la sentenza della Corte Costituzionale 29 luglio 1982 n. 161, che aveva dichiarato illegittimo l'art. 7 del decreto-legge 8 luglio 1974 n. 264, convertito nella legge 17 agosto ti dalla contrattazione collettiva sono sottoposti, prima dell'autorizzazione alla sottoscrizione dei contratti collettivi, a verifica di compatibilit finanziaria; in secondo luogo, la legge disciplina compiutamente i tempi e le modalit di formazione del contratto collettivo nazionale (art. 47, legge. 833/1978; artt. 3, 5 ss. e 13 legge 93/1983; artt. 24, 45 ss., 49 decreto legislativo 2911993). In tale sistema normativo si inquadra dunque perfettamente l'art. 47 della legge 833 del 1978 che riserva al contratto collettivo nazionale la determinazione del trattamento economico del personale delle uu.ss.ll., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale compensi, indennit o assegni di qualsiasi natura che modifichino, direttamente o indirettamente, il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. Viene quindi anche per questa via legittimato quanto stabilito nella materia de qua dal contratto collettivo nazionale, recepito con decreto del Presidente della Repubblica n. 348 del 1983, cos come riaffermato nella sentenza che si commenta, che i dirigenti amministrativi e qelli sanitari percepiscono un identico stipendio tabellare, anche se le retribuzioni degli stessi risultano in concreto diverse perch i medici hanno diritto a peculiari indennit che non possono essere estese per analogia al personale non medico, in quanto connesse alla specificit della prestazione professionale sanitaria. L.V. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STArcr 462 1974 n. 386, nella parte in cui faceva divieto agli enti ospedalieri di corrispondere al proprio personale un trattamento economico superiore a quello previsto dagli accordi sindacali nazionali, fu affermato che gli enti ospedalieri potessero equiparare il trattamento economico dei dirigenti amministrativi a quello dei dirigenti sanitari. Tuttavia, il contesto normativo radicalmente mutato con la legge n. 833 del 1978, in base alla quale gli ospedali, per il periodo anteriore al decreto legislativo n. 502 del 1992, non hanno pi personalit giuridica, ma sono strutture dell'organizzazione delle uu.ss.11. In tale quadro va letto l'art. 47 legge n. 833 del 1978, che demanda al contratto collettivo nazionale la determinazione del trattamento economico del personale delle uu.ss.11., facendo divieto alle stesse di concedere al proprio personale compensi, indennit o assegni di qualsiasi natura che modifichino direttamente o indirettamente il trattamento economico stabilito in sede di contrattazione collettiva. 3.2. Tale disposizione appare pienamente conforme al dettato costituzionale: anzitutto le uu.ss.ll., in base alla legge n. 833 del 1978, sono prive di risorse finanziarie proprie e di autonomia contabile. Va ancora ricordato che anche la successiva legislazione relativa all'impiego pubblico si mossa nell'ottica di considerare inderogabili i trattamenti economici stabiliti dalla contrattazione collettiva, non solo in peggio, ma anche in meglio ( v. art. 11, comma 2, legge 29 marzo 1983 n. 93). E siffatta inderogabilit in melius ha la sua giustificazione, da un lato, in esigenze di contenimento della spesa pubblica, e, dall'altro lato, in esigenze di omogeneizzazione e perequazione delle retribuzioni. E sebbene l'art. 49, comma 2 del decreto legislativo n. 29 del 1993 (contenente la riforma del pubblico impiego), si limiti ad affermare che le pubbliche amministrazioni sono tenute a rispettare i trattamenti economici minimi fissati dalla contrattazione collettiva, non ponendo alcun divieto di attribuzione di trattamenti economici superiori, tuttavia da ritenere, alla luce di una interpretazione sistematica, che anche nel disegno del decreto legislativo n. 29 del 1993 i trattamenti economici fissati dai contratti collettivi siano inderogabili anche in melius oltre che in peius. Da un lato, i trattamenti economici fissati dalla contrattazione collettiva sono sottoposti, prima dell'autorizzazione alla sottoscrizione dei contratti collettivi, a verifica di compatibilit finanziaria, e, dall'altro lato, sono stabilite specifiche autonomie e corrispondenti resppnsabilit dei dirigenti, di talch l'eventuale attribuzione di trattamenti economici superiori a quelli fissati in sede di contrattazione collettiva esigerebbe la preventiva verifica della capienza di bilancio e comporterebbe, in caso di insufficienza dei fondi disponibili, specifiche responsabilit dirigenziali. 3.2.1. N potrebbe invocarsi l'illegittimit costituzionale dell'art. 47 legge n. 833 del 1978 alla luce della decisione della Corte Costituzionale n. 161 del 1982, che ha dichiarato incostituzionale l'art. 7 decreto legge 8 luglio 1974 n. 264, conv. nella legge 17 agosto 197 4 n. 3 86, che conteneva analogo divieto, per gli enti ospedalieri, di modificare i trattamenti economici stabiliti con la contrattazione collettiva. La citata decisione afferm l'incostituzionalit della norma perch demandava l'autorit pi porre nel nulla clausole di contratti individuali e di contratti sindacali locali a una contrattazione collettiva nazionale, quella di cui all'art. 40 legge 12 febbraio 1968 n. 132, di cui non erano delineate sufficienti garanzie quanto ai tempi e le modalit di formazione, e ci in contrasto con l'art. 97 Cast.; a dire del giudice delle leggi, l'art. 7 in commento riconosceva alla contrattazione collettiva nazionale e soltanto alla PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA contrattazione collettiva nazionale senza limiti di tempo n prescrizioni procedimentali autorit per la quale l'art. 97 comma 1 esige il rispetto della riserva di legge. Ma il quadro normativo, in ordine alla contrattazione collettiva, radicalmente mutato rispetto a quello avuto presente dalla Corte Costituzionale, che faceva riferimento ai contratti collettivi nazionali di cui all'art. 40 legge 12 febbraio 1968 n. 132, che si limitava a rinviare genericamente agli accordi collettivi, senza nulla dire a tempi e modi di formazione. L'art. 47 legge n. 833 del 1978 non si espone alle medesime censure dell'art. 7 decreto-legge n. 264 del 1974, in quanto non demanda sic et simpliciter alla contrattazione collettiva la determinazione dei trattamenti economici, senza il tramite del rispetto della riserva relativa di legge, in quanto disciplina compiutamente i tempi e le modalit di formazione del contratto collettivo nazionale, il che quanto era richiesto dalla Corte Costituzionale con la decisione n. 161 del 1982. Anche la successiva legislazione, che ha disciplinato la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, dalla legge 29 marzo 1983 n. 93 al decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, ha compiutamente delineato tempi e modalit di formazione dei contratti collettivi, e regolato con legge gli aspetti essenziali della disciplina del trattamento economico dei dipendenti pubblici (v. artt. 3, 5 ss., 13 legge n. 93 del 1983; artt. 24, 45 ss., 49, decreto legislativo n. 29 del 1993). Ne consegue la piena legittimit costituzionale dell'art. 47 legge n. 833 del 1978. 3.3. Inoltre, il contratto collettivo (decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983 n. 348) attua la perequazione tra dirigenti amministrativi e dirigenti sanitari, essendo identico lo stipendio tabellare. Ci che diversifica in concreto le retribuzioni sono le peculiari indennit percepite dai medici, che non possono essere estese per analogia, perch connesse alla specificit della prestazione professionale sanitaria. E se vero che si potrebbe obiettare che i dirigenti sanitari svolgono funzioni per certi versi omogenee a quelle dei dirigenti amministrativi, a tale obiezione pu replicarsi che il ragionamento del ricorrente deve essere rovesciato, vale a dire che in presenza di identit o analogia di funzioni deve dubitarsi della legittimit della corresponsione ai dirigenti sanitari di indennit connesse con le prestazioni mediche, ma non pu, viceversa, ritenersi illegittima la mancata corresponsione ai dirigenti amministrativi di indennit connesse con l'esercizio della professione medica, che nulla hanno a che vedere con l'espletamento di funzioni amministrative. Va inoltre considerato che dalla normativa vigente si desume la diversa posizione funzionale di direttori sanitari e amministrativi (decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979 n. 761, allegato E), e la diversit di preparazione professionale loro richiesta (decreto ministeriale 30 gennaio 1982 in Gazzetta Ufficiale 22 febbraio 1982 n. 51, s.o., come integrato dal decreto ministeriale 3 dicembre 1982, in Gazzetta Ufficiale 7 febbraio 1983 n. 36), di talch non appare irragionevole la non attribuzione ai dirigenti amministrativi delle indennit connesse alla specificit delle prestazioni dei dirigenti sanitari. 3.4. Deve per completezza ricordarsi che il Consiglio di Stato si gi pronunciato sulla questione dell'equiparazione del trattamento economico dei dirigenti amministrativi a quelli sanitari dopo l'entrata in vigore della legge n. 833 del 1978, risolvendolo, alla luce dell'art. 4 7 di detta legge, nel senso che non pi consentita siffatta equipara RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STAT, 464 zione (C.d.S., sez. V, 13 dicembre 1993 n. 1282; Id., 6 aprile 1991 n. 449: dopo l'entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978 n. 833, non pi consentito alle Unit sanitarie locali di modificare il trattamento economico del direttore amministrativo, fissato dagli accordi sindacali recepiti con decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi del1' art. 47 della legge citata, al fine di equipararlo a quello del direttore sanitario). 3.5. N a sostegno della tesi del ricorrente possono essere poste le precedenti decisioni del Consiglio di Stato invocate nell'atto di appello (C.d.S., sez. V, 21 dicembre 1992 n. 1539; C.d.S., sez. V, 13 ottobre 1993 n. 1043), in quanto le stesse si riferiscono a fattispecie concrete diverse, in cui l'equiparazione del trattamento economico era stata gi chiesta agli enti ospedalieri di appartenenza prima della loro soppressione, e pertanto la u.s.l. aveva provveduto in quanto ente subentrante in rapporti giuridici pregressi, in cui erano gi maturate aspettative degli interessati in base alla normativa previgente. Nel caso di specie, invece, la domanda di equiparazione stata presentata solo nel 1986, direttamente alla u.s.l., e pertanto quest'ultima non poteva provvedere alla equiparazione in un mutato contesto normativo, e non poteva neppure accordare tale equiparazione, come ha fatto, a decorrere dal 1 luglio 1979, in quanto a detta data era gi in vigore l'art. 47 legge n. 833 del 1978. 3.6. Quanto, infine, al rilievo dell'appellante secondo cui la delibera del Co.Re.Co. sarebbe viziata da eccesso di potere per incongruit ed erroneit della motivazione, perch la u.s.l. non avrebbe modificato il trattamento economico del ricorrente pure per il passato a decorrere dal 1 luglio 1979, ma avrebbe eliminato, con effetto retroattivo, una sperequazione di carattere economico, valgono le considerazioni svolte nel paragrafo che precede. La u.s.l. non poteva disporre la richiesta equiparazione in un mutato contesto normativo, attribuendovi oltretutto una decorrenza -1 luglio 1979 -che ricade nel periodo in cui l'art. 47 legge n. 833 del 1978 era gi vigente. 4. In conclusione, l'appello va respinto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. IV, 10 dicembre 1998 n. 1171 -Pres. !annotta -Est. Falcone -Carpineto Nicola Costruzioni Generali S.r.l. (avv. Biasiotti Mogliazza) c. ANAS (avv. Stato Linguiti). Atto amministrativo -Diritto d'accesso alla relazione riservata della direzione dei lavori -Sussiste. La relazione del direttore dei lavori, sebbene costituisca un atto interno, non si sottrae al diritto di accesso (1). (1) Brevi osservazioni in ordine all'accesso agli atti interni. a) Il caso. Un'impresa di costruzioni proponeva ricorso al T.A.R., ex art. 25 legge n. 241/1990, chiedendo l'accesso alla relazione riservata del Direttore lavori e alla relazione riservata della Commissione di collaudo sulla riserva relativa ad una vertenza insorta con l'A.N.A.S., nel corso dell'esecuzione di un contratto d'appalto. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 465 (omissis). 1. Con ricorso in primo grado, la societ Carpineto Nicola Costruzioni ha chiesto al T.A.R. del Lazio di ordinare all'A.N.A.S. Ente Nazionale per le Strade di fornire copia della relazione riservata della Direzione lavori, redatta dall'Ing. Gianluigi Oliva, concernente l'esecuzione dei lavori di cui al contratto di appalto n. 18724 del 4 settembre 1996, e successivi atti aggiuntivi, per la eliminazione di strettoie e gravi viziosit piano-altimetriche mediante costruzione di una variante tra i Km. 3+700 e 4+700 della S.S. 313 di Passo Corese, nonch copia della relazione riservata del Collaudatore Ing. Roberto Lucietti relativa al contratto di cui sopra. La societ ha fatto presente che la richiesta motivata dalla necessit di apprestare le proprie difese nel giudizio arbitrale, attivato con la costituzione del relativo Collegio. L'Avvocatura dello Stato si era opposta sostenendo che l'accesso -finalizzato ad assicurare la trasparenza dell'attivit amministrativa -ha ad oggetto qualunque documento anche interno , formato ed utilizzato ai fini della attivit amministrativa, mentre la relazione oggetto della richiesta d'accesso sarebbe un atto che l'Amministrazione contraente non utilizza per svolgere un'attivit amministrativa, ma per fare delle scelte nello svolgimento di una attivit contrattuale (perci di tipo privatistico). Il T.A.R. del Lazio respingeva il ricorso, escludendo la possibilit di accesso sul presupposto della strumentalit della relazione all'esercizio di un'attivit privatistica della P.A. Questa tesi stata contestata dall'impresa, che ha impugnato la decisione dei giudici di prime cure proponendo l'appello accolto dal Consiglio di Stato, con la sentenza che si pubblica. b) La soluzione del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, con la decisione in epigrafe, riconosce la sussistenza del diritto di accesso, posto che la natura di un atto interno non esclude l'applicazione di tale disciplina. In sostanza, la sentenza che si pubblica ribadisce la soluzione data in un precedente caso analogo, chiarendo che la relazione del direttore dei lavori si inserisce nella fase amministrativa dell'esame e della decisione sulle riserve, nella quale la pubblica amministrazione compie un'attivit di valutazione che ha le caratteristiche di un procedimento amministrativo di definizione delle controversie, soggetto al principio di imparzialit ed i cui atti, anche se relativi ad un rapporto sostanziale di diritto privato, sono sottoposti alla disciplina della legge 7 agosto 1990 n. 241 (Cons. Stato sez. VI, 11 dicembre 1996, n. 1744, in Giust. Civ., 1997, I, 547; Giur. It., 1997, III,l, 187; Riv. Giur. Edil., 1997, I, 342). Per il Consiglio di Stato, la relazione del direttore dei lavori inerisce ad un rapporto meramente professionale con l'Amministrazione per l'assolvimento dei compiti della medesima e non ha pertanto alcuna esigenza di riservatezza idonea a sottrarla al diritto di accesso ai sensi degli artt. 22 ss. della legge 7 agosto 1990 n. 241. L'Amministrazione ha l'obbligo di consentire ali'appaltatore l'accesso alla relazione separata e segreta del collaudatore, prevista dall' art.100 regio decreto n. 350 del 1895, in quanto atto necessario del procedimento di collaudo, reso nei confronti dell'Amministrazione e dell'appaltatore. Si aggiunge che, nella fattispecie, troverebbe applicazione il principio per cui non pu essere negato l'accesso ad un atto, la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, anche se, al momento della domanda, sia pendente un giudizio fra le parti riguardante l'esecuzione del contratto di appalto. e) I dubbi della tesi contraria. La premessa teorica da cui prende le mosse tale indirizzo giurisprudenziale risulta chiaramente indicata in una recente decisione, in cui si infatti precisato che il diritto di accesso ai documenti amministrativi si configura come autonoma posizione giuridica, tutelata indipendentemente dalla pendenza di un procedimento giurisdizionale, ed finalizzato ad assicurare la tra RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 466 L'adito T.A.R. ha respinto il ricorso. 2. La societ appellante sostiene di aver diritto d'accesso ai documenti in questione, contestando le affermazioni della sentenza appellata. In quella sede, il primo giudice ha negato il diritto d'accesso, assumendo che la relazione del Direttore dei lavori sulle riserve dell'appaltatore prevista dall'art. 63, comma 4, lett. i), del regio decreto 25 maggio 1895 n. 350, mentre quella del collaudatore, prevista dall'art. 100, penultimo comma, qualificata separata e segreta ; nella specie, trattasi di relazione che l'amministrazione contraente non utilizza per svolgere una attivit amministrativa, ma per operare delle scelte nel dispiegamento di una attivit contrattuale (privatistica). 3. L'amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, ha sostenuto l'infondatezza del ricorso, chiedendone il rigetto. 4.Ad avviso del Collegio, il ricorso merita accoglimento. 4.1. Nell'ambito delle norme in materia di procedimento amministrativo, di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241, il Capo V pone un principio generale di diritto d'acsparenza dell'azione amministrativa ed a favorirne lo svolgimento imparziale per la tutela di situazioni giuridiche rilevanti, cos concorrendo alla visibilit del potere pubblico. Ne consegue che tale diritto azionabile sia allorquando si manifesta in sede partecipativa al procedimento amministrativo (accesso partecipativo) sia quando attiene alla conoscenza di atti che abbiano spiegato effetti diretti o indiretti nei confronti dell'istante (accesso informativo) (Cons. Stato, sez. IV, 15 gennaio 1998 n. 14, resa nella nota controversia tra la Soc. Salini costruzioni e la SACE, in Foro Amm., 1998, 26; ed in Cons. Stato, 1998, I, 2). Si aggiunge che l'attivit amministrativa, alla quale il diritto di accesso correlato, comprende sia l'attivit di diritto amministrativo sia l'attivit di diritto privato, che, come la prima, costituisce cura concreta di interessi della collettivit. Pertanto, pu essere escluso il diritto di accesso solo nei casi di attivit di tipo puramente privatistico, ancorch svolta dalla p.a., e del tutto disancorata dall'interesse pubblico di settore istituzionalmente rimesso alle cure dell'apparato amministrativo (Cons. Stato, sent. n. 14/1998, cit., nello stesso senso: Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 1997 n. 82). Ci in quanto sono considerati documenti amministrativi, nei confronti dei quali"pu essere esercitato il diritto di accesso, sia i documenti relativi ad atti di diritto pubblico e sia quelli relativi ad atti di diritto privato della P.A.: infatti, la legge n. 241 del 1990 correla il diritto di accesso all'attivit amministrativa, la quale comprende non solo le ipotesi in cui l'amministrazione agisca con poteri autoritativi, ma anche quelle in cui sussista una connessione dell'attivit con le finalit di ordine generale, per il perseguimento delle quali il soggetto ha ricevuto l'investitura di diritto pubblico (sent. ult. cit.). Si va dunque consolidando la tesi secondo la quale il diritto di accesso ai documenti amministrativi correlato all'attivit e non agli atti della p.a., e pertanto esso pu esercitarsi anche con riferimento ad atti di diritto privato della medesima amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 1998 n. 716, in Foro Amm., 1998, 1041; Cons. Stato, 1998, I, 583; ma si veda pure Cons. Stato, sez. VI, 14 aprile 1998 n. 484, in Foro Amm., 1998, 1118, in cui si esclude il diritto di accesso per acquisire la conoscenza di atti e documenti inerenti ad attivit di diritto privato, quale quella svolta dall'Ente poste italiane nell'ambito di rapporto giuridici privatistici di risarcimento di danni extracontrattuali per fatto di privati). Non sembra, tuttavia, che simili postulati teorici possano giustificare appieno la conclusione cui perviene la decisione in rassegna, che ad un esame attento non resiste ad una serie di obiezioni. Come noto, infatti, lo stesso Consiglio di Stato ha chiarito che l'accesso agli atti amministrativi non pu risolversi in uno strumento di controllo generalizzato sull'intero operato del PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 467 cesso ai documenti amministrativi, con le modalit stabilite dalla stessa legge, al fine di assicurare la trasparenza dell'attivit amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale. Il diritto riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e concerne i documenti amministrativi, ivi compresi gli atti interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini del1' attivit amministrativa (art. 22). Il successivo art. 24 della legge n. 241/1990 autorizza il Governo a disciplinare le modalit di esercizio del diritto d'accesso, per contemperarlo con l'esigenza di salvaguardare altri interessi pubblici e privati, tra cui la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese; in tal caso, per, garantita agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici. 4.2. In base ai principi sopraenunciati, la natura interna della relazione del direttore dei lavori non vale a sottrarla al diritto di accesso posto che la natura di un atto interno non esclude l'applicazione di tale disciplina (Cons. Stato sez. VI, 11 dicembre 1996 n. 1744). l'amministrazione, come se fosse un'azione popolare (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 1997 n. 1359, in Cons. Stato 1997, I, 1658 (s.m.); nello stesso senso: Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 1997 n. 362, in Foro amm. 1997, 1095 (s.m.) ed in Cons. Stato 1997, I, 508). Invero, il diritto di accesso rappresenta una sorta di contrappeso in favore del privato nei confronti dell'Amministrazione, che si trovi in una posizione di supremazia speciale ed eserciti poteri pubblicistici (Cons. Stato, sez. IV, 5 giugno 1995 n. 4121; 17 dicembre 1996 n. 1559 e 11 dicembre 1996 n. 1734). Ne deriva che laddove, come nel caso di specie, il privato e la P.A. siano in condizione di sostanziale pariteticit, perch parti di un rapporto contrattuale, qual quello di appalto, non esiste la materia oggetto dell'istituto dell'accesso. La stessa finalit dell'accesso -come evidenziata dalla legge n. 241/1990 -e cio la verifica della trasparenza ed imparzialit dell'attivit amministrativa renderebbe chiaro che l'accesso utilizzabile solo in presenza di posizioni di interesse legittimo e cio dove vi sia stato esercizio di attivit amministrativa in senso tecnico. La circostanza che il contratto di appalto di opere pubbliche conosca ed applichi, per la fase della scelta ciel contraente, regole a tutela di interessi pubblici, non consente di estendere alla fase dello svolgimento del rapporto l'esercizio di poteri pubblicistici che giustifichino l'utilizzabilit del contrappeso dell'accesso da parte del privato. Soprattutto tale utilizzabilit non ha ragione d'essere con riferimento al profilo della soluzione delle vertenze nascenti nel corso della esecuzione del contratto d'appalto: trattasi di vertenze la cui soluzione affidata al giudice ordinario (o al collegio arbitrale) per la natura sostanziale di diritti soggettivi delle posizioni fatte valere in giudizio, dove il giudice chiamato ad interpretare ed applicare i patti contrattuali, non gi a valutare eventuali difformit del comportamento dell'Amministrazione contraente dall'interesse pubblico perseguito. Infatti, nelle vertenze nascenti dalle riserve (o domande) dell'appaltatore l'Amministrazione contraente ha come suo interlocutore solo il proprio appaltatore e come metro di giudizio le norme contrattuali. Il procedimento attraverso il quale l'Amministrazione opera le sue scelte interpretative e, quindi, comportamentali resta del tutto irrilevante ai fini della soluzione delle vertenze proposte dal1 'appaltatore. Voler conoscere gli atti interni e prodromici a tali scelte significa voler entrare nei processi di formazione della volont dell'Amministrazione e come ci per il privato non consentito, n rilevante ai fini del decidere, altrettanto non consentito ed irrilevante per il soggetto pubblico. Si osserva poi, con riferimento al caso di specie, che la natura assolutamente interna della relazione del Direttore dei lavori e della relazione separata e segreta del collaudatore discendono, oltre che dalla loro qualificazione di atti segreti (la qualifica espressamente dettata per la rela RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 468 Peraltro, la relazione del direttore dei lavori si inserisce nella fase amministrativa dell'esame e della decisione sulle riserve, nella quale la pubblica amministrazione compie un'attivit di valutazione che ha le caratteristiche di un procedimento amministrativo di definizione delle controversie, soggetto al principio di imparzialit ed i cui atti, anche se relativi ad un rapporto sostanziale di diritto privato, sono sottoposti alla disciplina della legge 7 agosto 1990 n. 241 (Cons. Stato -sez. VI, n. 1744/1996 cit.). 4.3. Parimenti, l'amministrazione ha l'obbligo di consentire all'appaltatore l'accesso alla relazione separata e segreta del collaudatore, prevista dall'art. 100 regio decreto n. 350 del 1895, in quanto atto necessario del procedimento di collaudo, reso nei confronti dell'amministrazione e dell'appaltatore. Peraltro, nella fattispecie, trova applicazione il principio per cui non pu essere negato l'accesso ad un atto, la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici, anche se, al momento della domanda, sia pendente un giudizio fra le parti riguardante l'esecuzione del contratto di appalto. 5. Per le considerazioni svolte, il ricorso va accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata. Sussistono equi motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. zione del collaudatore, ed per coerenza da attribuirsi anche a quella del decreto legge finalizzata allo stesso scopo), dal fatto che rappresentano manifestazioni di opinioni rese da organi straordinari e provvisori della P.A. nell'esercizio di speciali attivit intellettuali affidate a soggetti molto spesso estranei alla P.A. ed altrettanto spesso dotati di qualifiche professionali che rappresentano le ragioni dell'incarico. Sono dunque pareri tecnici nei quali vengono rappresentati tutti gli argomenti a sostegno di una certa soluzione del caso sottoposto che l'amministrazione deve acquisire senza per dovervisi conformare (si tratta di pareri non vincolanti), senza dover neppure motivare la ragione di eventuale dissenso e senza doverli neppure menzionare nelle proprie determinazioni. Quest'impostazione sembra peraltro chiaramente avallata dal dato normativo che, espressamente per la relazione dell'organo di collaudo (art. 700 penultimo comma Reg. 350/1895) ed implicitamente, secondo una nota prassi, per la relazione del decreto legge, vuole che detti documenti siano destinati solo ali' Amministrazione appaltante con i caratteri della separatezza e segretezza. Tali caratteri sono evidentemente finalizzati a consentire scelte consapevoli dell'opinione di due organi tecnici, ma non condizionate da queste. E, soprattutto, ci deve essere vero e valido quando lAmministrazione, come qualsiasi altro soggetto, deve difendersi in giudizio contro pretese che nella sua scelta definitiva ed autonoma abbia ritenuto di respingere. Riservatezza, separatezza e segretezza sono dettate e volute per lasciare alla amministrazione contraente libert di scelta ed autonomia di difesa. Lo stesso Consiglio di Stato, del resto, aveva sempre circoscritto in passato la sfera dell'accesso ai soli atti inerenti all'esercizio di potest pubblicistiche (v. per tutte: Cons. Stato, sez. IV, sent. 5 giugno 1995, n. 412, in Giorn. dir. amm., 1995) finch non ha mutato orientamento con la sentenza n. 82/97, che accoglieva l'opposto principio dell'accesso agli atti di diritto privato. Ma la sentenza n. 14/98 (gi citata) ha notevolmente ridimensionato il revirement giurisprudenziale, riconoscendo che potrebbe condurre ad effetti ultronei ... arrivando a rendere estensibile -sempre e comunque -ogni tipo di documento posto in essere ... da una Pubblica Amministrazione. La sentenza che si pubblica non pu dunque essere condivisa, perch mostra di ignorare tali precedenti insegnamenti, accogliendo un'interpretazione eccessivamente estensiva che mal si coniuga con l'esatta portata delle norme di cui agli artt. 22 e segg. della legge 241/90. FEDERICO BASILICA PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 469 P.Q.M Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, accoglie il ricorso in epigrafe specificato (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 15 luglio n. 1078 -Pres. Giovannini -Est.Caringella -De Cristofaro Antonio (avv. Zampone) c. Sovrintendenza scolastica della Lombardia e Ministero della Pubblica Istruzione (avv. Stato Guida). Impiego pubblico -Cessazione della materia del contendere -Provvedimento pienamente satisfattorio dell'interesse giuridico a base del ricorso originario. Deve dichiararsi la cessazione della materia del contendere quando l 'amministrazione, adottando provvedimento pienamente satisfattorio in ordine all'interesse giuridico posto a sostegno del ricorso originario, ha annullato il provvedimento impugnato (1 ). (1) La decisione del Consiglio di Stato in epigrafe offre lo spunto per riesaminare l'istituto della cessazione della materia del contendere alla luce delle pronunce della giurispmdenza amministrati va. Per cause di cessazione della materia del contendere si intendono in genere tutte quelle che assicurano soddisfacimento delle pretese e degli interessi del ricorrente da parte dell'amministrazione. Il giudice amministrativo dovr in tal caso pronunciare una sentenza dichiarativa di improcedibilit e di conseguente estinzione del giudizio. Si soliti distinguere tra sentenze di improcedibilit per cessazione della materia del contendere e sentenze di improcedibilit per sopravvenuta carenza di interesse, ancorch l'art. 23, 7 comma della legge 1034/1971 faccia riferimento soltanto alla cessata materia del contendere, stabilendo che se entro il termine per la fissazione dell'udienza l'amministrazione annulla o riforma l'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale d atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese. In realt, a ben vedere, dichiarare il ricorso improcedibile per cessata materia del contendere o per soprvvenuta carenza di interesse non comporta alcuna differenza pratica, posto che in entrambi i casi si produce l'estinzione del giudizio, venendo meno l'interesse del ricorrente. Il giudice dichiarer la cessazione della materia del contendere quando l'amministrazione avr provveduto ad annullare o a riformare l'atto nel senso richiesto dal ricorrente; nei giudizi non impugnatori, quando l'amministrazione abbia versato al ricorrente il pagamento delle somme che le sono state richieste. Effetti satisfattivi per il ricorrente possono aversi anche attraverso l'emanazione di nuovi atti che gli attribuiscono una posizione di vantaggio, ed anche in seguito ad un intervenuto mutamento della situazione di fatto o di diritto, attraverso l'emanazione di nuove norme. I casi di sopravvenuta carenza di interesse sono costituiti invece da situazioni che non si pongono come satisfattive dell'interesse del ricorrente, ma impediscono o vanificano il risultato vantaggioso che il ricorrente voleva perseguire attraverso l'accoglimento del ricorso. Si pensi all'ipotesi in cui il provvedimento abbia esaurito i suoi effetti, o all'emanazione di nuove norme o al mutamento della situazione di fatto o di diritto che non consentano pi l'adozione in favore del ricorrente di provvedimenti ampliativi della sua sfera giuridica. La carenza di interesse pu essere altres causata dal venir meno dell'oggetto stesso del provvedimento impugnato o dal venir meno del soggetto o ancora dal venir meno della sua posizione legittimante. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 470 (omissis). Il Collegio, aderendo all'istanza formulata dalla difesa del ricorrente, deve dichiarare la cessazione della materia del contendere in quanto l'Amministrazione, adottando provvedimento pienamente satisfattorio in ordine all'interesse giu ! Ma il vero nodo da sciogliere in relazione alle pronunce di cessata materia del contendere se sia sufficiente la mera eliminazione dell'atto impugnato da parte della pubblica amministrazione, oppure occorra che tale annullamento produca il pieno ed integrale soddisfacimento dell'interesse del ricorrente. Prima dell'entrata in vigore della legge n. 1034 si dividevano il campo due distinti orientamenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato: l'uno (v. per tutte Cons. Stato, V, 27 agosto 1966 n. 1079; Cons. Stato, V, 9 marzo 1963 n. 933; Cons. Stato, VI, 9 dicembre 1959 n. 930) riteneva che la cessazione della materia del contendere si verificasse solo quando l'atto impugnato fosse rimosso dall'amministrazione e ne venissero completamente eliminati gli effetti, in modo che il ricorrente potesse ottenere il medesimo risultato che avrebbe ottenuto attraverso la sentenza del giudice di accoglimento del ricorso. Altra parte della giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 12 ottobre 1967 n. 477; Cons. Stato, V, 4 dicembre 1964 n. 1455; Cons. Stato, IV, 17 settembre 1965 n. 544), di segno opposto all'orienta mento precedente, riteneva invece che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere ~ potesse intervenire in seguito all'eliminazione formale dell'atto ed alla sua sostituzione con altro atto, ancorch tale ultimo atto si ponesse come lesivo dell'interesse sostanziale del ricorrente. 1 Il legislatore ha accolto il primo orientamento, richiedendo nell'art. 23, ultimo comma della ffi legge 1034 del 1971 l'annullamento o la riforma dell'atto impugnato in modo conforme alla I istanza del ricorrente. ~ La giurisprudenza prevalente successiva sembra aver tenuto in debito conto la portata innovati-ID va di tale disposizione normativa richiedendo ai fini della pronuncia della sentenza di rito per cessa-ru zione della materia del contendere che il nuovo atto emanato dall'amministrazione soddisfi piena-~ mente le richieste del ricorrente ( Cons. Stato, IV, 7 maggio 1974 n. 348; Cons. Stato, IV, 11 aprile 1978 ~ n. 207; Cons. Stato, V, 22 giugno 1979 n. 335). Tuttavia, nonostante il disposto restrittivo dell'art. 23 fil ultimo comma della citata legge 1034, si riscontra ancora qualche pronuncia contraria che ammette la ~ declaratoria di improcedibilit anche se il nuovo provvedimento, completamente sostitutivo del pre-~ cedente, risulti ugualmente negativo per il ricorrente: v. per tutte Cons. Stato, VI, 18 marzo 1994 n. I 386, laddove si afferma che cessa la materia del contendere e dev'essere dichiarata la improcedibilit ~j del giudizio, in relazione all'art. 23 comma ultimo, legge 6 dicembre 1971 n. 1034, ogni qualvolta si ~:: verifichi la sostituzione del provvedimento impugnato ad opera di altro atto, non meramente confer-~ mativo o elusivo, che senza essere propriamente satisfattivo della specifica pretesa dedotta in giudizio, ,~ modifichi la situazione di diritto e di fatto -in senso favorevole o no -in guisa tale da togliere al ricorrente ogni interesse alla pronuncia in ordine alla legittimit dell'atto impugnato. Permane dunque nel tempo l'oscillare della giurisprudenza dei supremi giudici amministra-ID tivi circa l'esatta individuazione della formula della cessazione della materia del contendere. I Tuttavia, a ben vedere, sembra scorgersi nel percorso evolutivo della medesima giurispru- I denza una linea di tendenza sempre pi garantista dell'interesse del ricorrente, richiedendosi pre-,._ valentemente che il nuovo atto produca effetti pienamente satisfattivi e sia conforme alle istanze ,. del ricorrente medesimo (in tal senso Cons. Stato, V, 11 aprile 1991 n. 546; Cons. Stato, VI, 6 ~- marzo 1992 n. 158; Cons. Stato, VI, 13 aprile 1992 n. 258; Cons. Stato, VI, 22 maggio 1992 n. ffi 416; Cons. Stato, V, 3 maggio 1994 n. 400; Cons. Stato, IV, 9 ottobre 1997 n. 1125). f~_:. Si segnala tuttavia, pur nel solco del riferito orientamento prevalente, una decisione del Consi-~ glio di Stato resa in sede di ottemperanza (Cons. Stato, IV, 4 settembre 1996 n. 1007) che ha ritenu-~: to sufficiente, ai fini della declaratoria della cessazione della materia del contendere, l'adozione di un , autonomo provvedimento o di una serie di atti o comportamenti denotanti una chiara volont del-I':: l'autorit amministrativa di soddisfare -ancorch con programmi e tempi rimessi alla sua valuta-:: zione discrezionale -l'interesse che il privato ha fatto valere nel giudizio principale. te .. LV I fil 1'mlli!llll~;:::~'..:::~:;.='.::;,;:~~=::~ PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 471 ridico posto a sostegno del ricorso originario, ha annullato il provvedimento impugnato con il quale il De Cristoforo era stato escluso dalla sessione riservata di insegnamento per la classe LXII/Inglese di cui all'O.M. n. 395/1989 (cfr. decreto sovrintendentizio 24 luglio 1997, prot. n. 5056 allegato all'istanza difensiva).(omissis) CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 17 luglio 1998, n. 1097 -Pres. de Lise -Est. Millemaggi Cogliani -Cagossi (avv. Paoletti) c. Ministero dell'Universit; Universit Cattolica del Sacro Cuore; Regione Lazio (avv. Stato Arena G.). Istruzione e scuole -Professori ordinari ed associati -Unitariet della funzione docente -Sussiste -Equiparazione quanto allo status, compiti e responsabilit -Esclusione. Istruzione e scuole -Professore associato -Diritto di svolgere attivit assistenziale presso un Policlinico -Non sussiste -Vincolo di dipendenza gerarchica dal primario -Sussiste. L'unitariet della funzione docente, alla quale si accompagna uguale garanzia di libert didattica e di ricerca per i professori ordinari e per quelli associati, ha riguardo alla prestazione didattica che l'istituzione universitaria fornisce alla collettivit studentesca ma non esclude la persistenza di un differente status, comportante compiti e responsabilit differenziate nell'ambito dell'organizzazione universitaria in cui il docente inserito. legittimo, pertanto, il provvedimento con cui l'universit cattolica del Sacro Cuore non riconosce ai professori associati il diritto di svolgere attivit assistenziale presso il Policlinico Gemelli in completa autonomia, libert didattica e scientifca, senza vincolo di dipendenza dal primario (1 ). (l) La sentenza in esame approfondisce il problema relativo alla equiparazione dei professori ordinari e dei professori associati, riferibile, secondo il Consiglio di Stato, esclusivamente al piano dell'attivit didattica e della libert scientifica e ci nel pieno rispetto dell'art. 33 Cost. Diverso il rapporto tra le due figure di docenti sotto il profilo dell'espletamento della funzione assistenziale e considerata l'equiparazione del professore associato ad aiuto ospedaliero e del professore ordinario al medico in posizione apicale ai sensi dell'art. 102 del decreto del Presidnete della Repubblica 11 luglio 1980 n. 382, dove le differenze di responsabilit e di compiti ad essi rispettivamente attribuite riemergono alla luce della normativa in materia. Sebbene non constino precedenti in termini, la problematica della unitariet della funzione docente contrapposta alle differenze di status e di compiti risulta gi affrontata in C. Cost. 24/25 ottobre 1988 n. 990. Sulla operativit della equiparazione dei professori associati alla qualifica di aiuto solo a condizione che vi sia stata una previa stipulazione delle convenzioni tra Universit e Regione, ovvero nei limiti di spesa e di organico previsti dalle preesistenti convenzioni tra Regioni, universit ed enti ospedalieri: Cons. di St., sez. V, 10 agosto 1992 n. 725; Cons. di St., sez. V, 5 agosto 1992 n. 699 e la consolidata giurisprudenza in materia. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 472 (omissis). 2.1. Nel merito l'appello infondato. 2.2. L'unitariet della funzione docente, alla quale si accompagna uguale garanzia di libert didattica e di ricerca per i professori ordinari e per i professori associati, ha riguardo alla prestazione didattica che l'istituzione universitaria fornisce alla collettivit studentesca, ma non esclude la persistenza di una differenza di status, comportante compiti e responsabilit differenziate, nell'ambito dell' organizzazione universitaria, in cui il docente inserito. 2.3. Alla suddetta differenziazione si ricollega la disciplina contenuta nell'art. 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, che prevede l'equiparazione dei professori di prima fascia (ordinari) al medico del servizio sanitario nazionale in posizione apicale (primario) e di quelli di seconda fascia (associati) al medico della posizione intermedia (aiuto). La norma in questione non lascia adito a dubbi interpretativi nella parte in cui attribuisce ai professori associati una posizione in tutto corrispondente a quella dei medici in posizione intermedia dei ruoli regionali, per quanto concerne le posizioni funzionali (art. 102 4 comma), rispetto alle quali, l'equiparazione economica del tutto conseguenziale, restando dunque escluso che la norma abbia inteso disciplinare soltanto il trattamento economico, come erroneamente sostenuto dall'interessato nel ricorso introduttivo e ribadito in appello. Lo stesso appellante, del resto, sembra avere, da ultimo, abbandonato l'originaria linea difensiva (note di udienza del 13 giugno 1997), dando per pacifica la differente posizione giuridica dei professori di prima e seconda fascia, alla stregua di quanto disposto dall'art. 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980. 2.4. Del pari non pu essere condiviso il dubbio di illegittimit costituzionale sollevato dall'appellante con riferimento alla pretesa violazione della legge di delega e dell'art. 33 della Costituzione, ad opera del citato art. 102 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980. Il principio della piena equiparazione dei compiti e delle responsabilit dei docetJ.ti delle due fasce sopra indicate non trova riscontro nella legge di delega e non salvaguardato dall'art. 33 della Costituzione il quale fa riferimento esclusivamente alla funzione docente in s considerata, e non anche a quella assistenziale, alla quale si accompagnano esigenze organizzative della Universit che esercita il governo sulle strutture di ricovero e di cura. La Corte costituzionale -come correttamente ricordato dalla Universit resistente -ha avuto modo di precisare (sia pure con riferimento a diversa fattispecie) che le differenziazioni inerenti ai compiti ed alle responsabilit delle due categorie di personale docente (mantenute presenti nell'assetto universitario malgrado l' unitariet della funzione docente e l'uguale garanzia di libert didattica e di docenza) non in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione (Corte cost. 990 del 24-25 ottobre 1988). A maggior ragione non ravvisabile alcun contrasto con l'art. 33 Cost., ove sia ben chiaro che la relazione con i discenti, cui inerisce la garanzia costituzionale, non si riferisce ai compiti ed alle responsabilit dei docenti nell'assetto organizzativo dell'Universit, i quali ben possono essere differenziati sulla base delle differenze di status tuttora presenti fra professori di prima e seconda fascia. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA In tale ambito devono essere ricondotte le corrispondenze funzionali tra personale medico dei ruoli universitari ed il personale medico del servizio sanitario nazionale e le correlative differenze fra doveri e compiti, del tutto coerenti con la prescrizione dell'art. 3 1 comma della legge di delega 21 febbraio 1980 n. 28 la quale non ipotizza alcun ruolo unico dei professori delle due fasce e pone invece l'accento sulla differenziazione dei compiti e delle responsabilit, come dato distinto dalla unitariet della funzione docente. Quest'ultima, del resto, per la correlazione esistente con la funzione assistenziale espletata dai sanitari universitari negli Istituti di ricovero e cura di cui l'Universit si avvale, trova sufficiente garanzia nella posizione di aiuto riservata al professore associato, ove si consideri il rilevante grado di autonomia di cui gode il sanitario in questione, nell'area dei servizi a lui affidati (art. 63 decreto del Presidente della Repubblica n. 761 del 1979) in contrapposizione al potere generale di indirizzo e verifica attribuiti al primario (nel rispetto dell'autonomia professionale operativa del personale dell'unit operativa assegnatagli). 3. L'appello pertanto deve essere respinto, restando indifferenti nel presente giudizio, le modifiche intervenute nella dirigenza del ruolo sanitario (art. 15 del decreto legislativo n. 502 del 1992) e quelle statutarie della Universit cattolica del Sacro cuore (art. 42). La norma da ultimo citata fra l'altro, non ha eliminato la differenziazione di status fra le due categorie di professori, ma ha semplicemente reso possibile (come anche reso evidente dalle successive determinazioni adottate dal consiglio di amministrazione e dagli accordi intervenuti con le organizzazioni sindacali) l'inquadramento provvisorio e per la durata dell'incarico -nel II livello, proprio dei dirigenti medici -dei professori associati, ai quali sono state assegnate funzioni di primario o di aiuto dirigente. 4. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono l'appello deve essere respinto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 17 luglio 1998 n. 1100 -Pres. Giovannini -Est. Millemaggi Cogliani -Ministero Ambiente, Tesoro e Industria ( avv. Stato Figliolia) c. Soc. ITA -Industria trasformazioni agroalimentari S.r.l. (avv.ti Alba e Manzi). Ambiente: protezione e risanamento -Contributo concesso ai sensi dell'art. 14 comma 3 del decreto legge 31 agosto 1987 n. 361 conv. in legge 29 ottobre 1987 n. 441 -Revoca del beneficio -Attribuzione al Ministero dell' Ambiente di un autonomo potere di valutazione della congruit dell'intervento autorizzato -Esclusione -Previo parere della commissione tecnico scientifica per la valutazione della congruit dei progetti -Necessit. illegittima la revoca del contributo concesso ad una societ a norma del/'art. 14, comma 3, del decreto legge 31agosto1987 n. 361 conv. in legge 29ottobre1987 n. 441, senza che il Ministero del/ 'Ambiente acquisisca il parere della Commissio RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . 474 ne tecnica di cui all'art. 14 comma 7 legge 4111986 alla quale demandata, ai sensi dell'art. 4 del decreto ministeriale 5 luglio 1988 la valutazione degli interventi ai fini della loro ammissibilit al contributo (1). (omissis) 1. Nella controversia in esame, concernente il provvedimento con il quale stato revocato il contributo concesso ad una societ (allo stato dichiarata fallita) a norma dell'art. 14 comma 3 del decreto legge 31agosto1987, n. 361, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, 1 comma, legge 29 ottobre 1987, n. 441, assumono preminente rilievo le disposizioni contenute negli artt. 1, 2 e 4 del decreto 5 luglio 1988, n. 283, emanato dal Ministro dell'ambiente, su parere conforme della commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale di cui all'art. 14, comma 7, della legge 28 febbraio 1986, n. 41, i quali, rispettivamente, hanno disposto l'ammissione a contributo de la gestione e lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti (art. 1), sulla base di un programma sommariamente rappresentato in una scheda progetto da compilarsi secondo l'allegato A) al decreto ministeriale cit. (art. 3), e la rimessione dell'istruttoria e della valutazione alla commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale di cui all'art 14, comma 7, della legge n. 41 dei 1986, sopra citata, da effettuarsi sulla base dell'analisi delle schede progetto, con particolare riferimento ai costi previsti, ai benefici attesi, al valore attuale netto, al saggio di rendimento interno, alle ipotesi di gestione ed alla soluzione tecnica prospettata (art. 4). 2. Nel suddetto quadro regolamentare, mentre demandato al Ministro dell'ambiente di determinare la lista degli interventi ammessi al contributo, e di definire le modalit per il trasferimento dei fondi e le fasi dell'attivit per il controllo e la verifica degli interventi medesimi non si rinviene n l'attribuzione, alla medesima Autorit, di alcun potere autonomo di valutazione della congruit dell'intervento autorizzato, in relazione, in particolare, ai benefici attesi, al valore attuale netto, al saggio di rendimento interno, alle ipotesi di gestione ed alla soluzione tecnica prospettata, n, tanto meno, la comminatoria di un'automatica ipotesi decadenziale per effetto della non coincii:lenza della realizzazione con il progetto di larga massima delineato nella scheda. Ne consegue che la revoca del beneficio accordato, proprio in quanto basantesi su accertamenti e valutazioni tecniche di organi differenti da quello normativamente deputato alla valutazione tecnico-scientifica dell'intervento, avrebbe richie I I ' (1) Non constano precedenti in termini. La decisione respinge la tesi, proposta dal Ministero dell'Ambiente, in ordine alla configurabilit della revoca del contributo quale misura sanzionatoria nei confronti della societ inizial ii mente ammessa al finanziamento, derivante dalla non corrispondenza tra la scheda -progetto pre ~jj sentata ai fini dell'ammissione e l'impianto di smaltimento realizzato, ovvero quale effetto risolutivo conseguente alle rilevate inadempienze. lll Il Consiglio di Stato, configurando la misura applicata quale atto di revoca vero e proprio, , richiede, secondo il principio del contrarius actus, la valutazione tecnico-scientifica del medesi. l mo organo deputato alla verifica della congruit dell'intervento autorizzato. !!l I I ~ j PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA sto (a prescindere dalla osservanza delle prescrizioni di cui alla legge n. 241 del 1990, delle quali pure parte ricorrente ha denunciato la violazione con il ricorso introduttivo) il previo, vincolante parere della medesima Commissione tecnicoscientifica per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale di cui all'art. 14, comma 7, della legge n. 41 del 1986, alla quale, in definitiva, doveva essere rimesso l'apprezzamento discrezionale della rilevanza delle diversit riscontrate fra la realizzazione ed il progetto rappresentato nella scheda, in relazione agli obiettivi che avevano giustificato l'ammissione al finanziamento. 3 .1. Alla luce delle considerazioni che precedono, il provvedimento impugnato non si sottrae n alla censura di genericit della motivazione, n a quella di violazione del decreto ministeriale n. 283 del 1988 (rispettivamente contenute nel terzo e nel secondo motivo del ricorso originari), sulla cui base il Tribunale pervenuto alla decisione di accoglimento. 3.2. Per il primo profilo, deve rilevarsi che le diversit tardivamente riscontrate in sede di sopralluogo erano state, al contrario opportunamente evidenziate e giustificate dalla stessa impresa mediante la presentazione di un ulteriore progetto di massima sul finire del 1990, senza che a ci avessero fatto seguito osservazioni del1 'Amministrazione o interruzioni delle erogazioni dei ratei di contributo. Ci posto, considerata la sommariet della progettazione richiesta in sede di presentazione della domanda, a norma del pi volte citato decreto ministeriale del 1988, l'irrilevanza della tipologia del rifiuto trattato o della forma di recupero ai fini della ammissibilit al contributo, secondo quanto previsto dall'art. 14 3 comma dell'art. 14 decreto legge n. 361 del 1987, e la mancanza di tempestive contestazioni dell'Amministrazione al nuovo progetto di massima presentato dalla societ interessata, avvalora i rilievi mossi dalla ricorrente e condivisi dal giudice di primo grado in ordine alla inidoneit delle ragioni addotte a giustificare il provvedimento di revoca, adottato sulla mera base di un sopralluogo tecnico ed in assenza della valutazione dell'organo tecnico-scientifico a ci deputato. 3.3. Sotto differente ed assorbente profilo, deve ritenersi illegittimo il provvedimento con il quale il Ministro dell'ambiente revoca il contributo in conto capitale accordato a norma dell'art. 14, comma 3, del decreto legge 31 agosto 1987, n. 361, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, 1 comma, legge 29 ottobre 1987, n. 441 (per i programmi di investimento destinati a realizzare o adeguare impianti per il recupero dai rifiuti di materiali e di fonti energetiche, ovvero ad attuare progetti pilota per la gestione e lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti) sulla base di sopralluoghi tecnici che abbiano accertato modifiche strutturali rispetto alle indicazioni di massima contenute nella scheda progetto, implicanti la valutazione della mancanza di collegamento funzionale degli impianti realizzati con il recupero energetico prefigurato nel progetto -senza la previa acquisizione del parere della Commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale di cui all'art. 14, comma 7, della legge 28 febbraio 1986, n. 41, alla quale demandata, a norma dell'art. 4 del decreto ministeriale 5 luglio 1988, n. 283 la valutazione degli interventi, ai fini della loro ammissibilit al contributo. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO' 476 4. Per completezza di indagine, va poi detto che -abbandonato dalla stessa appellante l'argomento relativo alla garanzia fideiussoria -l'ipotesi sanzionatoria sulla quale si incentra la difesa dell'Amministrazione non appare legittimamente sostenibile neppure alla luce delle ulteriori ragioni poste alla base del provvedimento impugnato, essendo sufficientemente emerso, nel giudizio di primo grado come la mancanza delle prescritte autorizzazioni fosse riconducibile esclusivamente a difficolt frapposte dalle varie amministrazioni (regionale, comunale e sanitaria) di volta in volta superate, anche con l'intervento dell'autorit giudiziaria. 5. Sulla base, dunque, di tutte le considerazioni che precedono, l'appello deve essere respinto (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 4 settembre 1998 n. 1210 -Pres. de Lise -Est. Caringella -Ministero dei beni culturali ed ambientali (avv. Stato Ferri) c. Comunit Montana degli Alburni (avv. Marenghi e avv. Lanocita) e nei confronti di Societ Italiana per condotte d'acqua S.p.A. (avv. Clarizia) e Associazione italiana per il WWF e Associazione Lega per L'Ambiente (avv. Petretti). Bellezze naturali -Annullamento ministeriale di nulla-osta paesaggistico -Termine -Decorrenza -Deliberazione Giunta Comunit Montane -Esclusione -Provvedimento Presidente -Invio documentazione -Motivazione -Pretermissione valutazione compatibilit ambientale -Sufficienza. (Art. 82, comma 9 d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616). La delibera di giunta della Comunit Montana, limitandosi alla mera ricognizione del parere favorevole della Commissione beni ambientali della Comunit Montana, assume i connotati di atto endoprocedimentale, dovendosi riconoscere al provvedimento autorizzativo del Presidente della Comunit Montana l'effetto di rimuovere il limite legale del!' attivit da autorizzare cui ricollegabile il decorso del termine per l'esercizio de potere di annullamento ministeriale (1). tempestivo il decreto adottato nel termine calcolato dal giorno in cui la Comunit ha inviato al Ministero la documentazione richiesta (2). (1) Non si rinvengono precedenti in termini. Va, peraltro, richiamata quella giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di deliberazioni di Giunta Regionale secondo cui, nel quadro del nostro ordinamento, pur spettando alla Giunta il compito di formare la volont dell'Ente, ovvero di determinare il contenuto dei provvedimenti amministrativi ad esso imputabili, tale volont non tuttavia in grado di attuarsi autonomamente necessitando dell'intervento dell'organo che ha la rappresentanza esterna dell'Ente, ossia del suo Presidente, il quale porta ad effetto la precedente deliberazione mediante un proprio decreto dotato di rilevanza esterna (C.d.S., sez. IV, 23 ottobre 1991 n. 847). Ai fini della decorrenza del termine per impugnare il relativo atto vedasi C.d.S., A.P., 12 gennaio 1984 n. 2, secondo cui, una volta conosciuto il decreto del Presidente della Giunta Regionale, emesso previa conforme delibera della Giunta, la tardiva conoscenza dell'atto collegiale non vale a riaprire il termine per il ricorso. (2) Sulla perentoriet del termine di sessanta giorni per l'adozione del provvedimento di annullamento ministeriale adottato ai sensi dell'art. 82, 9 comma del decreto del Presidente della Repubblica n 61611977 come modificato dalla legge 8 agosto 1985 n. 431, decorrente dalla rice PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 477 legittimo l'annullamento che si limiti a rilevare il vizio di legittimit del nulla-osta consistente nella pretermissione del vaglio di compatibilit dell'opera con il contesto ambientale (3). (omissis). Con il primo motivo di appello il Ministero appellante si duole che il Giudice di prime cure, nel fissare il dies a quo del termine di cui all'art. 82, 9 comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 61611977 per l'esercizio del potere di annullamento del nulla osta paesaggistico, abbia considerato la delibera della gil,mta della comunit montana, avente carattere meramente interno, e non il provvedimento autorizzatorio adottato dal Presidente. La censura fondata. Dalla documentazione in atti si ricava che la delibera giuntale, non prodotta in giudizio ma riportata nel provvedimento presidenziale, non riveste rilevanza esterna ma si limita, in un'ottica endoprocedimentale, alla mera ricognizione (presa d'atto) del parere favorevole della Commissione beni ambientali della Comunit montana. Per converso, la rimozione del limite legale all'esercizio dell'attivit autorizzanda, id est la manifestazione esterna di volont precettiva alla quale il legislatore ricollega il decorso del termine per l'esercizio del potere di annullamento, sancita dal provvedimento del Presidente delle Comunit, il quale, Visto il parere favorevole della Commissione beni ambientali, vista la delibera della Giunta esecutiva n. 334 del 17 giugno 1988, con la quale si prende atto del parere favorevole della commissione beni ambientali, autorizza i lavori di realizzazione della strada a scorrimento veloce Fondovalle Calore. Posto che, alla luce del tenore letterale della determinazione impugnata, con il solo provvedimento presidenziale stata resa definitiva ed efficace all'esterno la volont, precedentemente espressa in sede endoprocedimentale, di consentire la realizzazione dei lavori stradali, devesi ritenere che da questo momento sia decorso il termine per l'attivazione del potere ministeriale di annullamento, non potendosi agganciare detto termine ad una pregressa delibera giuntale che, limitandosi ad una zione da parte dell'autorit centrale (e non dei suo organi periferici) delle relative autorizzazioni con riferimento alla sola fase di esercizio del potere di annullamento con esclusione dell'ulteriore comunicazione o notificazione, v. C.d.S., sez. VI, 3 marzo 1994 n. 241; C.d.S., sez. VI, 16 luglio 1990 n. 728; C.d.S., sez. VI, 25 luglio 1994 n. 1267; C.d.S., sez. VI, 13 gennaio 1994 n. 19; C.d.S., sez. VI, 21febbraio1997 n. 313, oltre alle decisioni citate in sentenza. Sulla necessit di motivazione del relativo provvedimento cfr. C.d.S., sez. VI, 19 luglio 1996 n. 968. (3) Riguardo ai motivi dell'annullamento, costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato che tende a circoscrivere il potere ministeriale alla sola verifica di legittimit della autorizzazione (cfr. C.d.S., sez. VI, 29 gennaio 1994 n. 75; C.d.S., sez. VI, 12 maggio 1994 n. 772 favorevoli ad un sindacato esteso al merito T.A.R. Puglia, sez. I Lecce, 21 giugno 1993, n. 520; T.A.R. Lombardia, sez. III 2 maggio 1994 n. 289). Ci da riconnettersi al riconoscimento in capo all'autorit statale di un potere di vigilanza rispetto all'esercizio di funzioni delegate alle regioni in materia di gestione del vincolo che esclude un riesame del merito della valutazione tecnicodiscrezionale di compatibilit ambientale. F.Q. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STA1U" 478 mera presa d'atto, non si appalesava diretta ad esprimere in forma precettiva la volont dell'ente. In questa prospettiva non assume rilievo la valutazione della spettanza in capo al Presidente della competenza ad autorizzare i lavori, non essendo suscettibile di sindacato incidentale il provvedimento sul punto ed assumendo ai presenti fini rilievo il momento in cui il Ministero, legittimato ad un controllo successivo e non gi ad un vaglio preventivo di carattere endoprocedimentale, ha avuto contezza della definitiva autorizzazione all'effettuazione delle opere de quibus. Tanto premesso, considerato che il termine va individuato nel giorno in cui la Comunit, su sollecitazione ministeriale, ha inviato la documentazione richiesta (30 maggio 1990), deve concludersi per la tempestivit del decreto impugnato, adottato il 19 luglio 1990 (per il carattere non recettizio dell'annullamento ministeriale cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 16 aprile 1998 n. 496; 9 aprile 1998 n. 460). Parimenti fondato il secondo motivo con cui l'Amministrazione appellante censura la decisione di primo grado nella parte in cui la stessa ha stigmatizzato il difetto motivazionale del provvedimento ministeriale, limitatosi ad una mera enunciazione di valutazioni di merito reiterative di formule di stile senza considerare l'importanza della costruenda strada. Le conclusioni dei primi giudici non sono condivisibili. La determinazione ministeriale di ritiro, lungi dal trasbordare in una inammissibile valutazione di merito riservata nella specie alla Comunit montana, ha rimarcato la sussistenza di un vizio di legittimit rappresentato dalla mancanza, alla luce dei vincoli ex lege gravanti sulla zona, di un minimo di motivazione atto a giustificare il rilascio dell'autorizzazione. L'esame della documentazione in atti conforta l'esattezza della valutazione ministeriale. Il provvedimento presidenziale si limita a rinviare sul punto alla delibera giuntale, la quale a sua volta si concreta in una presa d'atto del parere della Commissione beni ambientali del 20 febbraio 1987. Detto ultimo parere pretermette expressis verbis qualsiasi verifica in merito alla compatibilit ambientale dei lavori autorizzandi nell'assunto che trattandosi di una infrastruttura attesa dalle popolazioni interessate da tempo immemore, da ritenersi superflua ogni ulteriore disc.ssione. In sostanza la valutazione della rilevanza sociale dell'opera si traduce nell'illegittima pretermissione del vaglio di armonizzabilit e compatibilit dell'opera con il contesto ambientale, alla luce del vincolo ex lege gravante sulla zona, ossia nella volontaria omissione della verifica che, anche in caso di notevole utilit sociale dell'opera, costituisce il proprium del provvedimento autorizzatorio. Le considerazioni che precedono impongono l'accoglimento dell'appello e, in riforma della sentenza appellata, la reiezione del ricorso introduttivo (omissis). CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 29 settembre 1998 n. 1317 -Pres. De Roberto Est. Minicone -Pagano (avv. Capunzo) c. Ministero dell'Universit e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (avv. Stato Bruni N.). Giustizia amministrativa -Giudicato -Estensione agli estranei alla lite Discrezionalit. PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA 479 Giustizia amministrativa -Giudicato -Estensione ai soli soggetti titolari di giudizi pendenti -Legittimit. L'estensione degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite costituisce, per l'Amministrazione, esercizio di un potere ampiamente discrezionale, e non adempimento di uno specifico obbligo, a fronte del quale non dato rinvenire, di norma, posizioni di pretesa azionabili in sede di giudizio di legittimit (1 ). Non pu qualificarsi discriminatorio il comportamento dell'Amministrazione che si sia risolta ad estendere il giudicato a dipendenti estranei alla lite, i quali avessero in corso giudizi pendenti per motivi analoghi a quelli positivamente risolti dalla sentenza passata in giudicato, senza disporre in ugual modo nei confronti di altri, le cui situazioni fossero divenute insuscettibili di annullamento in sede giurisdizionale, attesa la diversit delle posizioni dei dipendenti fra loro e dell'Amministrazione circa il pericolo di annullamento di atti da cui tali situazioni derivano (2). (omissis). 1. Il prof. Emilio Pagano, docente universitario partecipante con esito sfavorevole al concorso a 15 posti di prima fascia del raggruppamento Ml5 (prima disciplina: Diritto amministrativo internazionale), ripropone, in sede di appello, le proprie doglianze contro il provvedimento in data 7 agosto 1992, con cui il Ministero dell'Universit e della Ricerca Scientifica e Tecnologica ha negato l'estensione, in suo favore, del giudicato di cui alle sentenze del T.A.R. del Lazio, sez. I, n. 1773 del 1987 e di questa Sezione, n. 5 del 1989, che avevano annullato, per difetto di motivazione, il giudizio negativo formulato nei confronti di un altro candidato al medesimo concorso. 2. L'appello infondato. 3. principio consolidato in giurisprudenza che l'estensione degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite costituisce, per l'Amministrazione, esercizio di un potere ampiamente discrezionale -e non adempimento di uno specifico obbligo -a fronte del quale non dato rinvenire, di norma, posizioni di pretesa azionabili in sede di giudizio di legittimit. (1) Con la decisione in esame il Consiglio di Stato ribadisce la propria giurisprudenza in materia di estensione del giudicato a soggetti estranei alla lite, affermando che tale estensione rientra in un potere discrezionale dell'Amministrazione e non costituisce un vero e proprio obbligo giuridico, sindacabile sotto il profilo della manifesta ingiustizia e della disparit di trattamento (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, n. 1195 del 1997; sez. VI, n. 20, 21e22 del 1997; sez. VI, n. 1290 del 1996; sez. V, n. 888 del 1996; sez. VI, n. 1731del1994; sez. V, n. 411del1992). (2) In particolare, il Consiglio di Stato evidenzia che non discriminatorio il comportamento dell'Amministrazione che estende il giudicato a soggetti che avevano in corso giudizi analoghi, senza disporre in egual modo nei confronti di altri soggetti le cui situazioni fossero divenute insuscettibili di annullamento in sede giurisdizionale: cfr., in termini, Cons. Stato, sez. VI, 6 giugno 1989, n. 729, in Il Consiglio di Stato 1989, I, 757. Sulla natura e i limiti soggettivi del giudicato amministrativo, si veda, specificamente, F. BENVENUTI, Giudicato (dir. amm.), in Enc. del diritto, 893 e ss. ; SATTA, Giustizia amministrativa, Padova, Cedam 1997, 498 e ss. G.M. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO e 480 Ci in quanto, una volta che il rapporto giuridico si sia consolidato in capo ad un soggetto per effetto della mancata impugnazione dell'atto dal quale derivi, la possibilit di beneficiare degli effetti di un giudicato formatosi aliunde deve considerarsi un evento eccezionale, il quale deve risultare sorretto da un pubblico interesse di notevole spessore, che giustifichi, appunto, il riesame di situazioni da tempo gi portate ad effetto, con tutti i loro risultati conseguenziali. 3.1. D'altra parte, la regola codificata dall'art. 22 decreto del Presidente della Repubblica 1 febbraio 1986 n. 13, invocata dall'appellante (secondo la quale ove una pubblica amministrazione intenda procedere ad estendere in forma generalizzata gli effetti soggettivi di giudicati amministrativi in materia di impiego pubblico, le relative decisioni sono adottate previa consultazione con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale), persegue unicamente lo scopo di ricondurre ad unit le iniziative di ciascuna Amministrazione volte all'estensione a terzi di giudicati amministrativi, per esigenze di uniformit e di contenimento della spesa pubblica, ma non crea certo diritti di estensione erga omnes dei giudicati stessi. 3.2. Nel caso che interessa, oltretutto, non dato neppure ravvisare quella omologazione di posizioni soggettive, che costituisce il presupposto ineliminabile di qualsiasi iniziativa amministrativa volta a valutare l'opportunit di applicare su un piano pi generale una statuizione particolare resa in sede giurisdizionale, giacch, indipendentemente dalla circostanza concreta, rilevata dal primo giudice, che il prof. Pagano non era stato ammesso (a differenza del prof. Miele) alla valutazione finale, non pu non osservarsi che i giudizi nei confronti dei candidati ad una procedura concorsuale sono, per loro intrinseca natura, strettamente individuali, onde la caducazione di uno di essi, per vizio di difetto di motivazione, non immediatamente trasferibile ai giudizi resi nei confronti degli altri. 3.3. Ed invero, quel che il ricorrente pone a presupposto per invocare, in via estensiva, la rinnovazione del giudizio formulato nei propri confronti dalla Commissione esaminatrice (assenza della indicazione delle ragioni che avevano indotto quest'ultima a ritenere prevalenti, nel caso esaminato, gli elementi negativi) non vizio desumibile automaticamente dalla sua valutazione come non idoneo, ma postula che l'Amministrazione debba compiere una ulteriore analisi per verificare se, in detta valutazione, possano o no rinvenirsi le stesse carenze logiche rilevate dal giudice amministrativo nel caso sottoposto alla sua cognizione. In altri termini, l'attivit che si pretende, nel caso di specie, non si esaurisce nel mero esercizio del potere discrezionale di far luogo, per ragioni di equit, al trattamento uguale di posizioni incontestatamente identiche, ma comporta il previo accertamento, in via amministrativa, della sussistenza di elementi di assimilabilit fra la posizione dell'istante e quella interessata dal giudicato, ovverosia un riesame dell'operato della Commissione nel singolo caso, non esigibile, una volta che si sia prestata acquiescenza, attraverso la mancata impugnazione, al provvedimento negativo. 4. Per superare un siffatto ostacolo concettuale all'accoglimento della propria pretesa, l'istante, con il secondo motivo di appello, individua, peraltro, un vizio di disparit di trattamento nell'operato dell'Amministrazione, desumibile dalla circostanza che quest'ultima si sarebbe, in realt, risolta ad operare l'estensione del giudicato nei PARTE I, SEZ. IV, GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA confronti di altro concorrente (il prof. Valenti), anch'esso estraneo alla lite e versante nella medesima posizione di non idoneo, onde il diniego a lui opposto concreterebbe una manifesta ingiustizia, come tale sindacabile dal giudice amministrativo. 4.1. La doglianza, con riguardo alla fattispecie concreta, non appare condivisibile. 4.2. bens vero che, come stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la insindacabilit del potere di far luogo o no all'estensione del giudicato nei confronti di terzi trova un limite, allorch l'Amministrazione, illogicamente, si determini in senso favorevole solo per alcuni soggetti, omettendo, per contro, di considerare posizioni di altri assimilabili a quelle positivamente valutate. Senonch, nel caso che interessa, il Ministero dell'Universit, dopo una iniziale incertezza circa l'atteggiamento da assumere, ha, per la verit, negato l'estensione del giudicato non solo al prof. Pagano, ma anche a tutti gli altri concorrenti, provvedendo, anzi, a ritirare alcuni provvedimenti favorevoli gi emessi (e non registrati), fra i quali anche quello relativo al prof. Valenti. Questi, per, che aveva gi contestato il giudizio negativo emesso nei propri confronti, ha impugnato l'atto di ritiro, ottenendo dal T.A.R. l'affermazione della fondatezza della propria pretesa a tener ferma la estensione gi disposta. 4.3. Ci posto, appare evidente la diversit della posizione del prof. Valenti rispetto all'appellante Nei confronti del primo, infatti, come si evince dalla stessa decisione depositata dall'istante, l'Amministrazione si era originariamente determinata in senso favorevole, allo scopo di evitare una probabile soccombenza nel giudizio in corso. E, come questa Sezione ha gi avuto modo di affermare (dee. 6 giugno 1989, n. 729), non pu qualificarsi discriminatorio il comportamento dell'Amministrazione, che si sia risolta ad estendere il giudicato a dipendenti estranei alla lite, i quali avessero in corso giudizi pendenti per motivi analoghi a quelli positivamente risolti dalla sentenza passata in cosa giudicata, senza disporre in ugual modo nei confronti di altri, le cui situazioni fossero divenute insuscettibili di annullamento in sede giurisdizionale, attesa la diversit delle posizioni dei dipendenti fra loro e dell' Amministrazione circa il pericolo di annullamento degli atti da cui tali situazioni derivano. Ne consegue che la decisione di adeguarsi al giudicato del T.A.R., che ha, successivamente, annullato il provvedimento di ritiro, non concreta un trattamento immotivatamente ingiusto nei confronti dell'appellante, tale da incorrere nel dedotto vizio di eccesso di potere, dal momento che il rapporto intercorrente con il prof. Valenti, in ordine all'esito negativo del concorso, era ancora aperto e suscettibile, quindi, di risolversi sfavorevolmente per l'Amministrazione, mentre il rapporto intercorrente con il prof. Pagano era, ormai, definitivamente esaurito. (omissis) SEZIONE QUINTA GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 marzo 1998 n. 2953, Pres. Grieco -Est. Panebianco -P.M. Buonajuto (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Bellis) -c. Soc. Grosoli. Tributi erariali indiretti -Imposte doganali -Incompatibilit con norme comunitarie -Rimborso -Traslazione del tributo -Prova -Richiesta di esibizione di fatture e scritture contabili -Legittimit -Rifiuto Valutazione ai fini della prova -Scadenza dell'obbligo di conservazione Irrilevanza. (Legge 30 settembre 1982, n. 688, art. 19; legge 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29; codice civile art. 2220, 2709, 2711, 2714; codice procedura civile artt. 116, 118, 210, 212). Poich il rimborso delle imposte doganali incompatibili con le norme comunitarie escluso quando l'Amministrazione abbia dato la prova della traslazione a terzi dell'onere economico a norma dell'art. 29 della legge 29 dicembre 1990 n. 428, l'Amministrazione medesima ha il potere di domandare l'esibizione delle fatture e delle scritture contabili o, ricorrendone i presupposti, l'ispezione dei locali nei quali i documenti possono essere custoditi; il rifiuto di esibizione o di consentire l'ispezione pu essere valutato dal giudice a norma dell'art. 116 codice procedura civile mentre non pu invocarsi la scadenza del termine dell'art. 2220 codice civile per l'obbligo di conservazione delle scritture (1 ). (omissis) Il presente ricorso articolato in tre distinte censure. Con le prime due, si duole il Ministero delle Finanze, sia pure sotto distinti profili, della dichiarata impossibilit da parte della Corte d'Appello di servirsi di presunzioni ai fini della prova relativa all'avvenuta traslazione del tributo a terzi, incombente all'Amministrazione sulla scorta dello ius superveniens (art. 29 comma 2 legge 428/1990). (1) Ancora una importante conferma della tendenza ad ammettere la possibilit di un concreto ricorso ai mezzi istruttori per la dimostrazione della traslazione dell'onere economico del tributo. Notevole in particolare l'applicabilit dell'art. 116 codice procedura civile e l'ammissibilit dell'ispezione. Per i precedenti v. Cass. 12 marzo 1993 n. 3006 in questa Rassegna, 1993, 249; 26 ottobre 1994 n. 8764, ivi, 1995, liO. ' ,,,.,,,.........,,....,......................,,,,,,..w..'.'.'.'.''"''"''"""'-".W0' 0'.'U/,','.W,','.'.W.'.:-:0:ZZ<==>Z.':-:-:-:-:-:-:-:-:-:z:::-:'.'.'.Z'.Z:-:-:-:-:-:-:-::-::-:.'Z.'Z.'.':::-::::::-:::::::-:::-::CC.'Z.'C::::C.'ZZZ:::-:;c:-::>Z'.Z.'C-:'"'='''''''"""'''"'''''''%J .., 0' ,, lllt116e1 PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA Essendo rimesso, per, al giudice di merito l'apprezzamento in ordine alla presenza dei requisiti richiesti per far ricorso alla prova per presunzioni, appare prioritario su piano logico l'esame del terzo motivo il cui eventuale accoglimento potrebbe avere ripercussioni in sede di rinvio anche per un riesame in ordine a dette presunzioni. Con il terzo motivo di ricorso, infatti, il Ministero delle Finanze denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 210 codice procedura civile in relazione all'art. 360 n. 3 codice procedura civile nonch difetto di motivazione in relazione all'art. 360 n. 5 codice procedura civile. Sostiene il ricorrente Ministero che, erroneamente, la Corte di Appello abbia respinto l'istanza di esibizione delle fatture di vendita delle merci importate sul presupposto che mancasse la prova in ordine all'esistenza di tali documenti nonch la richiesta di produzione dei conti profitti e perdite e della dichiarazione dei redditi della societ in quanto volta a finalit meramente esplorative. Richiama al riguardo il diverso indirizzo della giurisprudenza di questa Corte. Orbene, opportuno premettere per una migliore comprensione del problema che l'azione di ripetizione esercitata per ottenere il rimborso dei diritti erariali, corrisposti in occasione di importazioni di merci ma dichiarati incompatibili con le norme comunitarie, era disciplinata dall'art. 19 del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688, convertito con modificazioni nella legge 27 novembre 1982, n. 873, che faceva carico al solvens di fornire la prova documentale della mancata traslazione a terzi dell'onere tributario. In forza dei principi fissati dalla Corte Costituzionale con sentenze n. 170 del 1984 e n. 113 del 1985 nonch delle indicazioni fomite in materia dalla Corte di Giustizia europea ( sent. 1 O luglio 1980 in cause nn. 811 ed 826 del 1979; sent. 9 novembre 1983 in causa n. 199 del 1982; sent. 24 marzo 1988 in causa n. 104/1986), tale norma stata ritenuta inapplicabile per incompatibilit con il diritto comunitario in quanto, condizionando l'esito delle richieste alla prova documentale della mancata traslazione dell'onere su altri soggetti (peraltro anche per le somme versate prima dell'entrata in vigore della legge), incideva sostanzialmente sulla possibilit di far valere in giudizio il diritto di rimborso. L'azione di ripetizione risultava, cos, assoggettata alle disposizioni generali della condictio indebiti (art. 2033 codice civile) fino all'entrata in vigore della legge 29 dicembre 1990 n. 428 che all'art. 29 ne ha nuovamente disciplinato l'esercizio (comma 2) nella particolare materia in esame con espressa efficacia retroattiva (comma 7). Tale disposizione, a differenza del richiamato art. 19 del decreto-legge n. 688/1982, che considerava la mancata traslazione del tributo (o di altro onere ad effetto equivalente) come elemento costituivo del diritto al rimborso il cui onere probatorio incombeva al solvens, prefigura invece tale fatto negativo come elemento impeditivo con la conseguenza che onere dell'Amministrazione Finanziaria fornire la relativa prova. In altri termini, in linea con la normativa comunitaria, la nuova disciplina non esclude che si tenga conto dell'avvenuto trasferimento ad altri soggetti dell'onere dei tributi indebitamente riscossi per impedirne in tal caso la ripetizione, ma si limita a rendere meno difficoltoso in giudizio il suo esercizio. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 484 Ora, proprio con la presente censura l'Amministrazione Finanziaria si duole dell'impossibilit (di assolvere ad un tale onere) in cui stata posta dall'impugnata sentenza con il rigetto di tutte le richieste istruttorie intese ad ottenere l'esibizione delle fatture e delle scritture contabili. La doglianza certamente fondata. Per quanto riguarda in particolare la documentazione contabile, sfuggita alla Corte di merito la portata degli artt. 2709 e 2711 codice civile che attribuiscono valenza di prove, anche contro l'imprenditore, ai libri ed alle scritture contabili e che consentono al giudice di ordinare, anche d'ufficio, l'esibizione delle singole scritture contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia. Non pu esservi alcun dubbio quindi sull'ammissibilit della loro esibizione quale mezzo di acquisizione della prova documentale. In correlazione con le norme sostanziali ora richiamate ( artt. 2709 e 2711 codice civile), l'ordine di esibizione alla parte espressamente previsto del resto per i documenti dall'art. 210 codice procedura civile, nonch, con specifico riferimento alle scritture contabili (artt. 2714 e segg. codice civile), dall'art. 212 codice procedura civile. N una tale esibizione, contrariamente a quanto stato sostenuto, potrebbe ritenersi nel caso in esame meramente esplorativa, essendo ben determinata invece nella sua finalit in quanto volta ad accertare l'avvenuta traslazione a terzi dei corrisposti diritti erariali gravanti sulle merci e di cui si pretende il rimborso. Del pari ammissibile, peraltro anche senza una formale e specifica richiesta delle parti, deve ritenersi anche l'ispezione dei locali nei quali possono essere custoditi detti documenti necessari ai fini della decisione, anche se in tal caso, data l'indispensabilit richiesta dall'art. 118 codice procedura civile, necessario che il giudice verifichi che la prova non possa essere fornita se non attraverso l'ispezione la quale assume, quindi, il carattere di extrema ratio di cui deve es$ere data adeguata motivazione. Ovviamente, l'eventuale mancata conservazione dei documenti od il rifiuto di esibizione o di consentire ad ispezioni ben potrebbe essere valutato dal giudice di merito ai sensi dell'art. 116 codice procedura civile per fame discendere in base a tale comportamento processuale conseguenze sul piano probatorio. N pu ritenersi giustificata una eventuale tesi difensiva basata sulla sopravvenuta distruzione, da parte della societ, della documentazione contabile risalente ad oltre un decennio, come consentirebbe l'art. 2220 codice civile. Questa Corte ha gi avuto modo di affermare che la parte tenuta a conservare la documentazione richiest3: finch il giudice non abbia definitivamente provveduto sulla relativa istanza e che nessuna rilevanza pu assumere, a tal fine, la maturazione, medio tempore, del termine decennale dell'obbligo di conservazione (Cass. 19 novembre 1994 n. 9839). Del resto, essendo l'inversione dell'onere della prova intervenuta con lo ius superveniens, nel corso del giudizio, lo stesso contribuente avrebbe dovuto possedere la documentazione contabile al tempo in cui la legge poneva a carico del solvens l'onere della prova dell'avvenuta traslazione. Assolutamente carente sotto il profilo motivazionale , poi, l'assunto contenuto nell'impugnata sentenza secondo cui l'ammissibilit di tali mezzi istruttori presuppone l'esistenza dei documenti di cui chiesta l'esibizione e che non PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 485 potrebbe invece escludersi la loro inesistenza, spiegabile con l'utilizzo nella produzione dei beni importati anzich nella loro vendita. Trattasi, infatti, di un'eventualit meramente ipotetica, tutta da verificare e priva quindi dei necessari elementi di concretezza alla cui acquisizione tendono proprio le prove richieste. Deve ritenersi, pertanto, che la prova dell'avvenuta traslazione possa essere fornita dall'Amministrazione con ogni mezzo consentito dall'ordinamento giuridico (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 20 marzo 1998 n. 2957 -Pres. Sgroi -Est. Ferro -P.M Cafiero (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Bellis) c. Fallimento Soc. Immobiliare Prato. Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Concordato con cessione dei beni - soggetto all'imposta fissa. (Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634, tariffa A, art. 8 lett. c),j). Il concordato con cessione dei beni non da luogo a trasferimento di beni, risolvendosi in una forma particolare di mandato, n alla assunzione di obbligazioni ed quindi soggetto alla sola imposta fissa di registro (1 ). (omissis). Con l'unico motivo di ricorso l'Amministrazione delle Finanze deduce violazione ed errata applicazione dell'art. 8 lettere j) e c) della tariffa all. A parte I del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634, in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 codice procedura civile, censurando specificamente la motivazione della denunziata sentenza nella parte in cui si afferma che il concordato preventivo con cessione dei beni non ha natura diversa da quella prevista dal codice civile (art. 1977 e seg.) che costituisce una fattispecie di mandato irrevocabile a liquidare in rem suam in favore dei creditori: in favore di questi non si verifica alcun trasferimento di beni n il debitore assume l'obbligo di pagare loro una determinata somma, ma mette a loro disposizione il proprio patrimonio con il rischio che essi possano ricevere, in soddisfazione delle loro ragioni, una percentuale anche minore del 40%. Assume l'Amministrazione ricorrente che tali affermazioni sarebbero, da un lato, erronee, e, dall'altro, non influenti, osservando: sotto il primo profilo, che anche nel caso di cessione dei beni come nel concordato per garanzia dovrebbe ritenersi che il debitore concordatario assuma l'obbligo di pagare la percentuale prevista ai creditori chirografari, e che anche nel concordato (1) Questione nuova affrontata con approfondita motivazione. Per l'assoggettamento alla imposta proporzionale, qui confermata, del concordato con garanzia v. Cass. 3 maggio 1994, n. 4253 in questa Rassegna, 1994, I, 355 con richiami. Resta confermata l'imponibilit della cessione di beni di terzi (i soci di societ) cosa gi ritenuta da Cass. 9 novembre 1981, n. 5913, ivi, 1982, I, 364. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 486 per cessione dei beni si verifica l'effetto remissorio con la liberazione del debitore da ogni altra obbligazione verso i creditori; sotto il secondo aspetto, che la soluzione del problema dovrebbe essere comunque rinvenuta, su base normativa testuale, nel disposto dell'art. 8 tariffa ali. A parte I let. e) del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634 che fa riferimento agli atti giudiziali aventi per oggetto beni e diritti diversi da quelli indicati nelle lett. a) e b). L'assunto dell'Amministrazione ricorrente si palesa infondato. Il problema se la sentenza di omologazione del concordato preventivo per cessione dei beni, previsto dall'art. 160 comma 2, n. 2 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, sia soggetta all'imposta proporzionale di registro di cui all'art. 8 lettera e) della tariffa allegata sub A al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634, applicabile ratione temporis in relazione alla fattispecie in esame, ovvero alla tassa fissa di registro di cui alla let. j) dello stesso articolo che contempla gli atti di omologazione (problema che non risulta essere stato, con riferimento al vigore del citato testo normativo, prima di oggi affrontato ex professo dalla giurisprudenza di legittimit, nella quale si rinvengono invece molteplici precedenti relativi alla tassazione della omologazione del concordato per garanzia), esige di essere risolto sulla base di una interpretazione contenutistica e sistematica che al di l del dato normativo testuale tenga conto del fondamentale principio enunciato nell'art. 19 della legge secondo cui le imposte sono applicate secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti, non disgiunta da una interpretazione storica per la quale si rende utile una preliminare disamina del regime che nella legislazione precedentemente vigente era riservato alle sentenze in questione. Nella tariffa allegata al regio decreto 23 dicembre 1923 n. 3269 trovavano collocazione le seguenti distinte disposizioni: l'art. 26 prevedeva l'applicazione della tassa fissa per le cessioni volontarie di beni fatte dal debitore alla massa dei suoi creditori per la vendita; l'art. 32 prevedeva l'imposta proporzionale da applicarsi a convenzioni o concordati tra i creditori e il loro debitore stipulati tanto prima che dopo la dichiarazione di fallimento e contenenti obbligazioni di somma; e l'art. 126 sottoponeva a tassa fissa le sentenze di omologazione di concordati nei giudizi di fallimento, con la espressa precisazione -di cui alla nota marginale che questa era dovuta indipendentemente dall'imposta proporzionale. Nel vigore di tale normativa, nel caso di concordato con garanzia l'Amministrazione sottoponeva all'imposta proporzionale il verbale di accertamento del voto nel quale veniva individuato il momento perfezionativo della convenzione privata, nonch, concorrentemente, alla tassa fissa la sentenza di omologazione; e tale duplice imposizione veniva riconosciuta legittima dalla giurisprudenza, espressa nelle sentenze della Corte di Cassazione 119/1980 e 5401/1981, e veniva ritenuta giustificata dalla prevalente dottrina in considerazione della rilevanza novativa del contenuto vincolante del concordato rispetto alle preesistenti obbligazioni facenti capo al debitore, ravvisandosi tale effetto novativo sia in ordine al titolo costitutivo, sia in ordine all'ammontare degli obblighi assunti in percentuale, sia in ordine alle scadenze per i pagamenti. In relazione all'ipotesi del concordato con cessione dei beni si riteneva invece che dovesse applicarsi soltanto la tassa fissa di cui all'art. 26 osservandosi che in tal caso non risultava configurabile alcun trasferimento di beni PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA n l'assunzione di un obbligo di pagare una determinata entit pecuniaria ai creditori, i quali si accollavano il rischio di ricevere un soddisfacimento maggiore o minore rispetto alla misura minima del 40% stabilita dalla legge fallimentare (Cass. 1793/1966; Cass. 1464/1972). E il dubbio circa la eventuale illegittimit costituzionale del coordinato disposto dei citati articoli 26 e 32 della tariffa all. A al regio decreto 30 dicembre 1923 n. 3269, sollevato in relazione all'art. 3 e all'art. 53 della Costituzione -sul rilievo che lo stato di insolvenza pone il debitore, relativamente alla capacit contributiva, sullo stesso piano qualunque sia il modo prescelto al fine di addivenire al concordato - stato dapprima ritenuto superabile nella giurisprudenza di merito osservandosi che il rapporto di imposta doveva ritenersi riferibile non al debitore ma al creditore che assume una diversa posizione nell'una e nell'altra forma di concordato, e poi, sottoposto alla Corte Costituzionale, ha ricevuto da questa risposta negativa (con la sentenza n. 212/197 5) sul rilievo che il concordato con garanzia implica l'obbligo del pagamento di somme determinate mentre la cessione dei beni per la vendita conferisce ai creditori soltanto la facolt di procedere alla liquidazione dei beni del debitore nell'interesse comune (atteggiandosi cos come cessio pro solvendo e non pro soluto). Nel decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634 non stata riprodotta la specifica menzione delle convenzioni e dei concordati stipulati tra creditori e debitori sia prima che dopo la dichiarazione del fallimento e portanti obbligazioni al pagamento di somme n quella delle cessioni volontarie dei beni alla massa dei creditori per la vendita; manca inoltre la esplicita menzione della sentenza omologativa del concordato tra i provvedimenti giurisdizionali soggetti a tassazione proporzionale. Con riferimento a tale situazione di diritto positivo, fermo restando -quale supporto dogmatico dell'indagine -il superamento della remota concezione contrattualistica e l'accoglimento di una ricostruzione dell'istituto del concordato in termini processualistici e quindi pubblicistici come procedimento complesso il cui momento conclusivo giudiziale assorbe il contenuto pattizio che in esso viene recepito, ritiene questo Collegio che, nella persistente invariata rilevanza delle caratteristkhe specifiche del concordato con cessione dei beni (considerato nella sua struttura giuridica e nel contenuto economico ad essa sotteso), debba essere affermata, come gi veniva affermata in relazione alla disciplina precedentemente vigente, l'applicabilit alla sentenza di omologazione della sola imposta fissa di cui alla let. j) dell'art. 8 della tariffa e non invece dell'imposta proporzionale che potrebbe trovare il suo presupposto soltanto in una fattispecie giuridica risolventesi in un trasferimento di beni (o di diritti) o nell'assunzione di obbligazioni (per tali intendendosi quelle che, non essendo meramente riproduttive della situazione debitoria del proponente, possano essere assunte come fonte genetica di una situazione giuridica autonomamente rilevante inter partes). Dell'una e dell'altra ipotesi infatti da escludere la configurabilit nel concordato per cessione dei beni, che in ci manifesta una connotazione intrinseca radicalmente differenziata rispetto al concordato per garanzia, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimit riconosce l'assoggettabilit della sentenza omologativa all'imposta proporzionale prevista dalla let. e) dell'art. 8 della tariffa (v. Cass. 681/1986, 1951/1986, 2970/1990, 4665/1990, 576911990, 11967 /1992). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 488 Il fatto, comunemente riconosciuto come rispondente alla realt giuridica, che dopo l'omologazione e durante la fase di liquidazione, fino al momento della alienazione (unitaria o frazionata) i beni del debitore concordatario rimangano oggetto di sua propriet, ancorch assoggettati ad un vincolo di destinazione al quale non possono essere sottratti, dimostra con carattere di evidenza che dalla omologazione della sentenza non deriva alcun trasferimento. Invero, il riconoscimento dell'assenza, nel concordato preventivo con cessione dei beni, di una finalit e di un effetto immediatamente traslativi emerge dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte che con la sentenza 417711981 ha inquadrato l'istituto in esame nell'ambito della figura della cessio bonorum di cui all'art. 1977 codice civile, mediante la quale il debitore incarica i propri creditori (o alcuni di essi) di liquidare tutte le sue attivit patrimoniali (o una parte di esse) e di ripartirne tra loro il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti, e, in altra occasione ha affermato espressamente che la cessione non produce in se stessa alcun effetto traslativo, integrando essa una forma particolare di mandato conferito anche nell'interesse del mandatario. E proprio sulle esigenze connesse all'attuazione di un mandato del genere risulta modellata la figura del liquidatore, che domina lo scenario della fase di esecuzione del concordato con cessione dei beni, e risultano determinati i poteri e i doveri a lui attribuiti dalla legge in una prospettiva che ovviamente non meramente privatistica e come tale rimessa all'autonomia negoziale delle parti, ma si colloca in un contesto istituzionalizzato. Sotto altro punto di vista, agevole constatare che dalla cessione concordataria non scaturisce a carico del debitore un obbligo giuridico in senso proprio, del quale infatti sarebbe vano ricercare un atto di adempimento da parte del debitore stesso nello sviluppo fisiologico della procedura. Il debitore non propone (e non sottopone all'approvazione dei creditori e al controllo giudiziale) l'assunzione di un nuovo obbligo bens una particolare modalit (almeno parzialmente) satisfattoria che possa essere giudicata conveniente nell'interesse comune: per contro i creditori si onerano del rischio della eventualit che la liquidazione non dia luogo in concreto ad un risultato satisfattorio corrispondente a quello previsto dalla legge in astratto e verificato preventivamente in concreto dai reditori stessi con l'approvazione e dall'autorit giudiziaria con l'omologazione, ma soltanto in via di attendibile probabilit, la cui mancata realizzazione non trova nel concordato con cessione, per espressa disposizione di legge, la sanzione della risoluzione, a differenza di quanto avviene nel concordato di garanzia nel caso di inadempimento (a prescindere dai temperamenti che la giurisprudenza tende a introdurre a tale principio a maggior tutela dei creditori). Viene meno quindi la possibilit di rinvenire nell'obbligo (inesistente) la fattispecie novativa della situazione obbligatoria pregressa che, nell'altro tipo di concordato, assume il rilievo di fatto costitutivo della pretesa tributaria: il differente sistema di soddisfacimento dei crediti, di cui l'Amministrazione ricorrente non pu non ammettere l'esistenza, si risolve, per tal modo, in una diversit di fenomenologia giuridica alla quale non pu restare indifferente il modo di atteggiarsi del presupposto impositivo. Non appare, invece, significativo il rilievo che in entrambe le ipotesi si verifica (o quanto meno tende a verificarsi) lo stesso effetto remissorio a favore del debitore concordatario. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA Sotto il profilo della natura e degli effetti dell'atto, la distinzione tra il regime applicabile al concordato con garanzia e quello che si ritiene congruente al concordato con cessione dei beni trova giustificazione razionale nella diversit che emerge dalla considerazione sostanziale del significato economico dei rispettivi presupposti impositivi, la quale non sfuggita all'attenzione del giudice delle leggi. Invero, come ha osservato la Corte Costituzionale nella citata sentenza 21211975 (pronunciata, come si detto, in relazione alla normativa di cui al regio decreto 2369 del 1923, ma sulla scorta di considerazioni significative anche nel vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 634 del 1972), la cessione dei beni , generalmente, prodromica alla cessazione dell'impresa (quanto meno con riguardo alla sua individualit soggettiva, cio con riguardo alla titolarit giuridica dell'attivit imprenditoriale in capo al debitore concordatario, pur nella prospettiva -bene spesso dominante -della conservazione del valore dell'azienda oggettivamente considerata), mentre l'altra forma di concordato ne consente la continuazione ed anzi tende a renderla praticamente possibile evitando la dichiarazione del fallimento; inoltre, il fatto stesso che un debitore abbia potuto reperire i mezzi e ottenere le garanzie occorrenti per rendere accettabile l'obbligazione di un adempimento parziale sta a dimostrare una capacit contributiva ben diversa da quella di altro debitore che per ottenere lo stesso scopo esdebitatorio debba cedere ogni suo avere: il che ha condotto la Corte Costituzionale a escludere la violazione del principio di uguaglianza. Per contro, non sembra che la citata sentenza della Corte Costituzionale possa offrire determinante contributo ermeneutico con l'obiter dictum col quale riconduce le convenzioni e i concordati tra creditori e debitori e le cessioni volontarie di beni, gi contemplate come tali dal regio decreto 3 269 del 1923, rispettivamente, alla categoria degli atti a contenuto patrimoniale cos genericamente definiti dall'art. 9 della tariffa del decreto del Presidente della Repubblica n. 634 del 1972, soggetti ad imposta proporzionale, e a quella dei contratti preliminari di ogni specie di cui all'art. 10 a cui si applica la tassa fissa. Del tutto inconferente si palesa, rispetto alla presente materia del contendere, il richiamo dell'Amministrazione ricorrente alla gi citata sentenza 681/1986, la quale attiene ad una ipotesi di concordato preventivo con garanzia e contiene la espressa precisazione che al suo fondamento motivazionale rimane estranea la considerazione del concordato con cessione dei beni, onde a tale precedente non risulta attribuibile una valenza generale che esso non pu (e dichiaratamente non vuole) assumere, e che risulterebbe smentito nella non riferibilit delle argomentazioni ivi svolte alle segnalate peculiarit del concordato preventivo con cessione dei beni. Esula dalla attuale materia del contendere, non essendo stata la decisione della Commissione Centrale censurata sul punto specifico dall'Amministrazione ricorrente, la esclusione dell'applicazione dell'imposta proporzionale all'ammontare delle fideiussioni complementarmente prestate: giova ricordare che nella giurisprudenza formatasi in ordine al concordato per garanzia tale esclusione viene riconosciuta fondata, peraltro sul rilievo -che non sembra sic et simpliciter ripetibile in tema di cessione dei beni -della obbligatoriet delle garanzie previste dalla legge in quella forma di concordato. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO' 490 opportuno aggiungere, per completezza, che la ratio decidendi qui esposta non impedisce di ritenere che nell'ipotesi -estranea alla vicenda concordataria sottoposta a questa Corte -in cui la cessione dei beni di una societ sia accompagnata dall'offerta dei beni personali dei soci possa configurarsi una fattispecie novativa nei confronti dei soci che per tal modo concorrono all'estinzione di un debito altrui (attesa l'alterit soggettiva tra la societ e i soci) caratterizzata da una certa analogia rispetto alla posizione dell'assuntore, e che, in tali limiti, possa risultare legittima la tassazione proporzionale, senza che, peraltro, ne venga a risultare snaturato il regime fiscale da riservarsi, nel senso di cui sopra, al concordato con cessione dei beni del debitore principale. Osservasi poi, conclusivamente, che l'interpretazione qui accolta e le conclusioni a cui essa conduce valgono anche con riferimento alla disciplina attualmente vigente di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986 n. 131, dappoich la formulazione dell'art. 8 della nuova legge di registro non sostanzialmente diversa da quella precedente, essendo state unificate nella nuova let. a) le previsioni delle lett. a), a bis), b) del precedente testo normativo nonch la prima parte della let. c) contenente la locuzione aventi per oggetto beni e diritti diversi da quelli indicati nelle lett. a), b) in modo da rendere possibile la completa applicazione delle aliquote previste in relazione alle corrispondenti fattispecie: sotto il quale profilo la giurisprudenza di legittimit ha riaffermato, in relazione all'ipotesi del concordato con garanzia, l'assoggettabilit della sentenza di omologazione all'imposta proporzionale (Cass. 4665/1990) (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 4 aprile 1998, n. 3488 -Pres. Sgroi -Est. Pignataro -P.M. Sepe (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Gentili) c. Siviglia. Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Privilegio speciale -Esecuzione contro il terzo possessore -Preventiva esecuzione del debitore -Esclusione. (I)ecreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 634, art. 54; decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643, art. 28 codice civile art. 2772). La preventiva escussione del debitore principale opera soltanto in virt di espressa previsione normativa; non pertanto richiesta preliminarmente alla esecuzione contro il terzo possessore del bene gravato di privilegio speciale in materia di imposta di registro e di JNVIM (1 ). (omissis). Col primo motivo del ricorso principale l'amministrazione finanziaria denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643 in relazione all'art. 360, n. 3 codice (1) Giurisprudenza ormai costante. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 491 procedura civile per avere la commissione tributaria centrale ritenuto necessaria, per la realizzazione del privilegio sull'immobile, non gi la semplice intimazione di pagamento al venditore, ma la preventiva escussione dello stesso. Il motivo fondato per le considerazioni -condivise dal collegio -poste a base della sentenza delle sezioni unite di questa corte 8 maggio 1997 n. 4021 che ha affermato il principio secondo il quale l'amministrazione finanziaria pu far valere il privilegio sull'immobile trasferito, al fine della realizzazione dei crediti di cui all'art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica n. 643/1972, senza necessit della preventiva escussione dei soggetti passivi dell'INVIM indicati nell'art. 4 dello stesso decreto del Presidente della Repubblica. La subordinazione dell'adempimento di una obbligazione prevista dalla legge o sorta per convenzione alla preventiva escussione di altro soggetto opera, infatti, oltre che in ipotesi di espressa pattuizione (artt. 1267, 1944 codice civile), solo in virt di espressa previsione normativa (artt. 2268 e 2304, 2356, 2481 codice civile); e questo principio di carattere generale si applica anche in materia tributaria che prevede solo nell'art. 41, comma 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 43 del 1973 (legge doganale) la responsabilit dello spedizioniere in caso di inutile escussione del proprietario delle merci (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 7 aprile 1998 n. 3572 -Pres. Sensale -Est. Graziadei -P.M. Buonajuto (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato De Stefano) c. Banca Agricoltura. Tributi erariali indiretti -Imposta di registro -Decreto ingiuntivo per il pagamento di crediti per prestazioni soggette all'imposta sul valore aggiunto -Registrazione ad imposta fissa -Si estende al rapporto accessorio di fideiussione. (Decreto legislativo 26 aprile 1986 n. 131, art. 40 e tariffa, art. 8 nota II). Il decreto ingiuntivo emesso per il recupero di un credito nascente da operazione soggetta all'imposta sul valore aggiunto va registrato con imposta fissa a norma dell'art. 40 e dell'art. 8 nota II della tariffa, anche se diretto contro il fideiussore (1). (omissis). L'art. 8 lett. b) della tariffa allegata al testo unico sull'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 sottopone alla tassazione proporzionale, con aliquota del 3%, il decreto ingiuntivo esecutivo che rechi condanna al pagamento di somma di denaro o di valori (ovvero ad altre prestazioni od alla consegna di beni). (1) Si deve prendere atto dell'indirizzo della Corte. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO, 492 La nota II, apposta in calce a detta disposizione dall'art. 23 del decreto legge 2 marzo 1989 n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 27 aprile 1989 n. 154), stabilisce che non si applica tale tassazione, e che si rende quindi esigibile la sola imposta fissa, per il caso in cui la condanna inerisca a corrispettivo soggetto all'imposta sul valore aggiunto ai sensi dell'art. 40 di detto testo unico. Il fatto influente ai fini impositivi, per le riportate norme, il conseguimento da parte del creditore di titolo esecutivo per il soddisfacimento del proprio diritto, a prescindere dalla fonte del diritto stesso nel rapporto con l'intimato (separatamente tassabile, ove integri atto da registrare). La delineata natura del fatto tassabile comporta, come logico corollario, l'unicit del prelievo fiscale, anche quando la condanna sia impartita contro due o pi condebitori in solido, indipendentemente dalla circostanza che l'obbligazione di uno di essi discenda da contratto fideiussorio ed abbia connotazioni di sussidiariet. Nella solidariet passiva, infatti, senza eccezione per la predetta ipotesi, i coobbligati devono eseguire la medesima prestazione (art. 1292 codice civile); ne deriva che l'ordine di adempimento, a loro carico impartito con provvedimento giudiziale, configura condanna ad un solo pagamento. Tali osservazioni generali, con le quali si aderisce a quanto gi affermato da questa Corte con la sentenza n. 9007 del 27 luglio 1992, portano alla soluzione del problema dell'individuazione dell'unica imposta applicabile, quando astrattamente concorrano l'I.V.A. ed il tributo proporzionale di registro, e trovi cos ingresso il criterio di alternativit fissato dal citato art. 40 (e dalla nota che lo richiama). Decisiva in proposito la posizione del creditore, dato che, come si visto, la tassazione investe il titolo esecutivo dallo stesso ottenuto. Se il creditore abbia la qualit di soggetto-I.V.A., e se l'adempimento reclamato sia riconducibile nell'ambito di una fattispecie che potenzialmente implichi l'insorgenza del suo obbligo di pagare l'I.V.A. con rivalsa nei confronti del solvens, come appunto si verifica, per chi conceda un prestito, quando consegua la controprestazione dovutagli (ai sensi degli artt. 3 e 6 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633), il provvedimento giudiziale in discorso assume la consistenza di condanna ad un pagamento sottoposto all'I.V.A. medesima. Tanto basta per l'operativit del canone della prevalenza dell 'I. V.A. sull'imposta proporzionale di registro, atteso che la relativa regola, come esattamente considerato dalla Commissione regionale, si ricollega al mero assoggettamento di quel pagamento all'I.V.A., mentre non risente dell'eventualit che il prestito goda dell'esenzione dell'art. 1 O n. 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, non essendo questa compresa fra le specifiche e tassative ipotesi di esenzione per le quali il menzionato art. 40 deroga a detta I prevalenza. r: i Il principio poi dell'unicit della tassazione esige, a fronte del rientrare f. dell'ingiunzione di pagamento nella disciplina dell'I.V.A., di ritenere non conferente ! il rivolgersi dell'ordine giudiziale nei soli confronti, ovvero anche nei confronti di l un obbligato in solido con il beneficiario del prestito, pure se la sua esposizione alla pretesa creditoria nasca da un rapporto distinto (quale il negozio costitutivo della fideiussione), perch la condanna ha sempre ad oggetto un versamento sottoposto ad I ! 'i f. i f PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 493 I.V.A., in ragione della sua natura di controprestazione del prestito accordato dalla banca, quale che sia il soggetto tenuto al pagamento (il beneficiario del prestito, od il terzo che abbia offerto garanzia). In conclusione, il decreto ingiuntivo esecutivo, che un istituto di credito ottenga per il recupero delle somme dovutegli sulla scorta di finanziamento, configura condanna ad un pagamento soggetto all'I.V.A., ai sensi ed agli effetti dell'art. 40 del decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986 e della nota II dell'art. 8 della relativa tariffa, di modo che va registrato a tassa fissa, non con aliquota proporzionale, senza che rilevi l'indirizzarsi dell'ingiunzione contro il solo debitore principale od il solo fideiussore, ovvero contro entrambi. Il ricorso, pertanto, deve essere respinto (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 8 aprile 1998, n. 3661 -Pres. Reale -Est. Sotgiu -P.M. Lo Cascio (conf.) -Foci c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Criscuoli). Tributi erariali diretti -Accertamento -Prova -Presunzioni -Indicazione dei fatti - sufficiente -Dimostrazione dei fatti -Pu essere data in giudizio. (Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600, art. 42). Tributi erariali diretti -Imposta sul reddito delle persone .fisiche -Redditi di capitale -Capitali dati a mutuo -Presunzione di fruttuosit - assoluta. (Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597, art. 43). Requisito per la validit dell'avviso di accertamento e, tra gli altri, quando sia utilizzato il metodo induttivo o sintetico, la enumerazione degli elementi di fatto che suffragano la valutazione ma non la dimostrazione della sussistenza di tali fatti che potr essere data nel successivo giudizio (1 ). La presunzione di fruttuosit dei capitali dati a mutuo, tranne che per i versament{ dei soci alla societ in conto capitale, assoluta e non richiede la prova della percezione; questa prova invece richiesta per affermare l'obbligo della ritenuta da parte del sostituto di imposta (2). (1-2) La prima massima chiarisce un punto importante: l'accertamento deve fondarsi su fatti allegati; la prova ha la sua sede nel processo perch, come ovvio, le prove si producono, non si descrivono a parole. Anche nell'I.V.A. vale la stessa regola bench l'art. 56 secondo comma del decreto del Presidente della Repubblica 633/1972 richieda che nella motivazione dell'accertamento siano indicati gli elementi probatori; anche in questo c:aso si tratta di fatti allegati la cui veridicit sar dimostrata ( cfr. Cass. 18 aprile 1998 n. 3953, in questo fascicolo pag. 504). La seconda massima riconferma che per l'imponibilit dei redditi di capitale vale la presunzione assoluta di fruttuosit dei capitali dati a mutuo; tuttavia per affermare l'obbligo del sostituto di eseguire la ritenuta non basta la presunzione di fruttuosit ed richiesta la prova della percezione effettiva (Cass. 29 dicembre 1995 n. 13151 in questa Rassegna, 1996, I, 357). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 494 (omissis). Il primo motivo del ricorso principale infondato. L'art. 42 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600 prescrive infatti, in tema di imposte dirette, che l'avviso di accertamento debba contenere, a pena di nullit, l'indicazione dell'imponibile, dell'aliquota applicata e dell'imposta liquidata, nonch delle norme giustificative dell'operato dell'Ufficio e, qualora sia utilizzato il metodo induttivo o sintetico, esige anche la specifica enumerazione degli elementi di fatto che suffragano la valutazione; l'avviso non deve dunque contenere notizie delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, n riportare sinteticamente il contenuto di tali fatti. Soltanto dopo l'impugnazione del contribuente J'Amministrazione sar tenuta, se richiesta, a dare dimostrazione degli elementi costitutivi del proprio diritto (Cass. 8685/1993; 6726/1995; 5506/1996; 10812/1996), non essendo la prova dei fatti dedotti a sostegno della pretesa tributaria richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento, dovendo essere fornita in un momento successivo, in sede processuale. Ci che rileva, in sostanza, ai fini della validit dell'avviso di accertamento che il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali (come indicati nel citato art. 42 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973) e quindi di contestarne l'an e il quantum. Ci posto, non pu il ricorrente riproporre all'esame di questa Corte circostanze contestate e vagliate in sede di merito, sulla scorta di un preteso vizio di motivazione della sentenza impugnata, che non pu comunque riflettersi sulla motivazione dell'avviso di accertamento nei confronti del ricorrente; il quale null'altro addebita ai giudici d'appello se non la pretesa rinuncia a verificare la legittimit dell'accertamento nei confronti del ricorrente stesso in raffronto ad avviso notificato ad altro soggetto, di cui la Corte d'Appello ha affermato di sconoscere l'esito, pur escludendo la legittimit di una medesima contestazione rivolta a soggetti diversi. L'assunto, che, come si detto, non intacca la legittimit dell'avviso di accertamento notificato al Foci, mira a reintrodurre in sede di legittimit la tesi del contribuente circa la invalidit delle presunzioni poste a fondamento dell'avviso stesso, mediante diniego della titolarit dei redditi imputati al contribuente, rispetto ad altro soggetto, senza tuttavia deduzioni di specifiche circostanze, valutabili in questa sede sotto il profilo del vizio di motivazione, in ordine alla comparazione dei due atti impositivi, che restano dunque distinti e autonomi l'uno dall'altro. Le argomentazioni della Corte d'Appello in ordine alla verifica dei redditi di partecipazione attribuiti al ricorrente appaiono pertanto suffragate da congrua motivazione, a fronte delle generiche contestazioni contenute nel primo motivo di ricorso, il quale va pertanto disatteso. infondato altres il secondo motivo del ricorso principale. Infatti, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, la presunzione di percezione degli interessi per i capitali dati a mutuo, di cui all'art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 597 del 1973 assoluta, salvo che per gli interessi ricollegabili ai versamenti dei soci in conto capitale (Cass. 8587/1995; 2947/1996; 1412/1997), riguardando il problema della effettiva percezione degli interessi soltanto la diversa ipotesi della ritenuta d'acconto sugli interessi stessi da parte dei sostituti d'imposta (Cass. 13153/1995; 3155/1996), non potendo detta ritenuta essere operata su un capitale presunto ma non corrisposto (omissis). PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 495 CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 18 aprile 1998 n. 3937 -Pres. Sensale -Est. Ferro -P.M. Giacalone (diff.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia) -c. Benincasa. Tributi erariali indiretti -Riscossione -Ingiunzione -Giudizio di opposizione Onere della prova - sempre a carico dell'Amministrazione -Opponente attore -Irrilevanza. Tributi in genere -Accertamento -Prova -Fatti accertati nel giudizio penale Sentenza di proscioglimento o di assoluzione -Dichiarazione d'estinzione del reato per prescrizione a seguito del riconoscimento di attenuanti Enunciazione di fatti rilevanti sulla decisione -Efficacia nel giudizio civile o amministrativo fra le parti presenti. (Codice procedura penale artt. 529, 530, 531 e 654). Nel giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale, non diversamente dal giudizio innanzi alle commissioni tributarie, l'onere della prova a carico dell'Amministrazione che vanta la pretesa fiscale, mentre a carico del contribuente opponente l'onere della dimostrazione dei fatti impeditivi modificativi ed estintivi. Non contraddice a tale principio generale la posizione processuale del contribuente e la presunzione di legittimit dell'atto amministrativo di accertamento (1 ). La sentenza penale che, a seguito della concessione di attenuanti, dichiara la estinzione del reato per prescrizione pu fare stato nel giudizio civile o amministrativo fra le stesse parti relativamente a fatti enunciati, anche solo in motivazione, come rilevanti ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualificazione della sentenza come di proscioglimento (art. 529 codice procedura penale) o di assoluzione (art. 530 codice procedurra penale) (2). (omissis). Col ptjmo motivo del ricorso principale, avente ad oggetto violazione e falsa applicazione art. 2697 codice civile, 112 e 115 codice procedura civile, regio decreto 639/1910 (art. 31 in particolare) e del loro combinato disposto; motivazione omessa, insufficiente, contraddittoria su punto decisivo della controversia, (1-2) Il principio della presunzione di legittimit dell'accertamento e conseguentemente dell'onere della prova a carico del contribuente, un tempo affermato in termini generali, caduto da gran tempo ( cfr. BAFILE, Presunzione di legittimit del!' accertamento tributario e onere della prova, in questa Rassegna 1980, I, 377 a commento di Cass. 23 maggio 1979 n. 2990 e 15 novembre 1979 n. 5951); tuttavia rimasta sul campo la regola che nel giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale grava sul contribuente, quale attore, l'onere della dimostrazione della mancanza dei presupposti della pretesa della Amministrazione (Cass. 30 agosto 1995 n. 9161, ivi, 1995, I, 495) mentre si ribadisce che nel giudizio innanzi alle commissioni la prova deve essere fornita dall'Amministrazione. In verit questa diversificazione non era molto corretta sia perch l'onere delle prove, che indubbiamente ha natura sostanziale, non dovrebbe dipendere dallastruttura del processo e dalle relative variazioni (a seconda della giurisdizione ordinaria o speciale ovvero del RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 496 l'Amministrazione delle Finanze censura la ratio decidendi della impugnata sentenza nella parte in cui la Corte di merito ha disatteso l'assunto, di rilevanza pregiudiziale, dall'Amministrazione stessa sostenuto in sede di appello, secondo cui l'opponente era tenuto a fornire la prova dell'infondatezza della pretesa tributaria, in assolvimento dell'onere a lui incombente, che non era venuto meno per l'intervenuta cessazione del procedimento penale. La Corte di Brescia ha negato -col conforto dei rilievi formulati dalla Corte di Cassazione nelle richiamate sentenze 23 maggio 1979 n. 2990 e 16 novembre 1979 n. 5951 -la sussistenza di una connessione necessaria tra il principio della presunzione di legittimit dell'atto amministrativo di accertamento nelle sue varie forme e l'onere della prova nel processo di contestazione del debito, ed ha affermato che in tale processo il regime della prova non diverso da quello delineato in via generale per i giudizi contenziosi e non pu porsi in conflitto col detto principio, perch l'accertamento si pone al di fuori del processo che ha ad oggetto l'obbligazione tributaria indipendentemente dall'atto che la accerta, pur riconoscendo che di fatto l'accertamento della pretesa, non per la presunzione di legittimit che lo assiste, ma per il valore sostanziale delle fonti di prova su cui si basa, pu porre il contribuente nella necessit di prendere posizione contro una prova precostituita. La ricorrente sostiene -richiamando e invocando al riguardo Cass. 29 giugno 1986n. 4335-che, invece, l'opposizione ad ingiunzione fiscale rappresenta l'atto introduttivo di un'azione di accertamento negativo della pretesa tributaria, nel quale l'attore in opposizione assume non solo formalmente ma anche sostanzialmente la veste di attore, con la conseguenza che nessun onere di prova sarebbe configurabile a carico dell'Amministrazione in ordine ai fatti costitutivi della sua pretesa creditoria, e che quindi, nella vicenda processuale in esame, la Corte di appello non avrebbe dovuto far dipendere la decisione dalla soluzione del quesito (a cui ha dato in c.;oncreto risposta negativa) se l'Ufficio avesse dato la prova dei fatti costitutivi del proprio diritto, ma verificare piuttosto se l'opponente avesse fornito la prova della infondatezza della pretesa fiscale, e, in esito alla constatazione della mancanza di tale prova contraria, rigettare l'opposizione. La critica per tal modo formulata si palesa priva di fondamento. Pur dovendosi dare atto dell'esistenza nell'mbito della giurisprudenza di legittimit di una opinione secondo cui nel giudizio ad opposizione fiscale attore, anche in senso sostanziale deve ritenersi l'opponente, giacch, stante la presunta legittimit dell'atto amministrativo, su di lui che incombe l'onere di provare la mancanza dei presupposti della pretesa impositiva avanzata dall'Amministrazione (cos, da ultimo, Cass. 30 agosto 1995 n. 9161; v., in conformit, oltre al precedente citato dall'Amministrazione: Cass. 16 marzo 1981 n. 1473, Cass. 30 maggio 1978 n. 2372, Cass. 13 giugno 1975 n. 2362, Cass. 10 gennaio 1975), appare coerente con i principi generali e meritevole di conferma il diverso orientamento recentemente ribadito da questa stessa Sezione con provvedimento che da occasione al processo: ingiunzione accertamento, ruolo), sia perch anche nel giudizio innanzi alla commissione ricorrente -opponente (se non attore) ugualmente il contribuente. Non poi il caso di parlare ancora di presunzione di legittimit dell'atto amministrativo incidente su diritti soggettivi. Va pertanto giudicata corretta la presa di posizione della sentenza PARTE I, SEZ. V, GWRISPRUDENZA TRIBUTARIA 497 la sentenza 22 giugno 1995 n. 7048 (in sostanziale adesione alle precedenti sentenze 30 luglio 1984 n. 4536, 2 maggio 1983 n. 3023, 6 aprile 1981 n.1937, 16 novembre 1979 n. 5951, 23 maggio 1979 n. 2990) nel senso che il thema probandum del quale deve ritenersi onerato il contribuente circoscritto ai fatti impeditivi, modificativi o estintivi ai quali debba riconoscersi rilevanza a fronte dell'assolvimento da parte dell'amministrazione della prova dei fatti costitutivi dell'obbligazione tributaria. Infatti, ben vero che, costituendo l'ingiunzione disciplinata dal regio decreto 14 aprile 1910 n. 639 un atto amministrativo suscettibile di autotutela, la stessa non potrebbe essere considerata alla stregua di domanda introduttiva di un processo giurisdizionale, a differenza di quanto avviene nel procedimento monitorio regolato dagli artt. 633 e segg. codice procedura civile, dal quale perci non potrebbe essere mutuata la consueta affermazione che nella fase di piena cognizione conseguente alla proposta opposizione la posizione di attore compete al creditore istante pur assumendo egli la qualit formale di convenuto in opposizione. Peraltro, la qualificazione del giudizio di opposizione quale accertamento negativo promosso dal contribuente in veste di attore, troppo spesso affermata in termini del tutto generici ed ambigui, va precisata -come viene precisata dalla citata sentenza 7048 del 1995 -nel senso che l'oggetto e la dimensione dell'onere probatorio dell'opponente si atteggiano concretamente in funzione della misura in cui sono certi e noti i presupposti costitutivi dell'obbligazione tributaria, dei quali spetta all'opponente elidere la rilevanza dimostrando eventuali fatti impeditivi, modificativi o estintivi. N pu valere in contrario il richiamo alla presunzione di legittimit dell'atto amministrativo, della quale non pu essere invocata l'operativit all'interno del processo al fine di invertire la distribuzione dell'onere probatorio accollando al contribuente la prova negativa in ordine agli elementi generatori della fattispecie tributaria (cos Cass. 2990/1979 cit.; Cass. 7048/1995 cit.). L'affermazione che qui si ribadisce dei suddetti criteri generali appare, tra l'altro, coerente con i concetti costantemente accolti dalla giurisprudenza in materia di ripartizione dell'onere della prova in sede di contenzioso tributario davanti alle competenti Commissioni, con l'affermazione che l'Amministrazione non pu limitarsi ad allegare ma deve, in presenza di contestazione, dimostrare i fatti posti a fondamento della sua pretesa (v. Cass. 25 agosto 1995 in tema di accertamento di maggior valore ai fini dell'imposta di registro, e Cass. 3 aprile 1995 n. 3904 in tema di accertamento di maggior reddito soggetto a I.R.P.E.F., I.R.P.E.G., I.L.O.R.): senza che possa risultare in alcun modo giustificabile una discriminazione sul piano probatorio correlata alla pura e semplice peculiarit degli strumenti processuali esperibili. Possono quindi essere recepite nella presente sede le parole conclusive della citata sentenza 7048 del 1995 secondo cui nei giudizi di opposizione a ingiunzione fiscale la cognizione del giudice ordinario non limitata alla verifica della legittimit dell'atto impositivo impugnato, ma si in esame che, secondo le regole generali, assegna all'ufficio l'onere di dimostrare il fatto presupposto dell'obbligazione e al contribuente il fatto impeditivo, modificativo o estintivo, e segnatamente, il presupposto delle agevolazioni invocate. La seconda nomina, molto persuasiva, propone una trattazione esaustiva del problema. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . ' 498 estende, nell'ambito delle deduzioni delle parti, alla cognizione del merito completo della pretesa fiscale al fine di riconoscerla fondata o non fondata ... e ci comporta che, sempre nell'ambito delle deduzioni delle parti, si debba procedere all'analisi di tutti gli elementi dell'obbligazione tributaria, compresa la riferibilit della medesima al presunto contribuente, elementi che vanno allegati e dimostrati secondo i principi generali che governano l'onere della prova (art. 2697 codice civile): non senza ricordare, a definitivo complemento della disamina, che l'onere della prova dell'obbligazione sostanziale non si identifica e non si esaurisce nell'obbligo della motivazione del provvedimento impositivo, in quanto motivazione dell'accertamento e onere della prova stanno su piani diversi, in quanto la prima attiene alla (mera) enunciazione degli elementi utilizzati dall'Amministrazione nelle sue determinazioni, il secondo alla dimostrazione di tali elementi (fattuali) in giudizio: l'onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa in via di principio incombe sempre all'Amministrazione anche quando l'atto sia compiutamente motivato, e il carattere sommario della motivazione pu solo comportare -tenuto conto in ogni caso dei limiti della contestazione -un maggior impegno probatorio e richiedere una ulteriore allegazione con le modalit e nei termini stabiliti dalle norme sul processo (cos ex pluribus Cass. S.U. 3 giugno 1987 n. 4853). La problematica inerente al secondo motivo di cui al ricorso principale attiene alla rilevanza attribuibile all'esito decisionale del procedimento penale svoltosi a carico di Boccia Luigi agli effetti della prova degli elementi costitutivi della controversa responsabilit del medesimo in ordine all'obbligazione tributaria di cui trattasi. La questione trova la sua ragione di essere nel principio secondo cui, in tema di imposta di fabbricazione sugli oli minerali e loro derivati, mentre nel caso di evoluzione normale del rapporto il solo produttore pu considerarsi soggetto passivo del debito tributario, per contro nell'ipotesi di sviluppo anomalo correlato a fattispecie di fraudolenta evasione dell'imposta, non solo il fabbricante o produttore ma anche tutti i soggetti coinvolti nell'illecito per avere sottratto o essere concorsi a sottrarre i prodotti petroliferi all'accertamento e all'assolvimento del tributo devono ritenersi compartecipi di tale qualificazione soggettiva e come tali tenuti all'adempimento dell'obbligazione tributaria, con la conseguenza che nei confronti di qualunque autore o coautore della frode l'amministrazione pu agire per il recupero dell'imposta evasa (v. in tal senso, da ultimo: Cass. 28 maggio 1997 n. 4728; Cass. 2 maggio 1997 n. 3793). La sentenza qui impugnata non contiene alcuna enunciazione in se stessa confliggente con il principio ora ricordato; ma la Corte di appello ha escluso che argomenti a sostegno della prova degli atti di evasione fiscale possano essere desunti, in relazione alla posizione del Boccia, dalle statuizioni emesse in sede penale richiamate dall'Amministrazione, essendo stata la sentenza di primo grado riformata fil in appello, ed essendo stato in secondo grado dichiarato non doversi procedere per I estirizione del reato conseguente a prescrizione previo giudizio di equivalenza tra !i! circostanze aggravanti e attenuanti; ed ha affermato, a ~ tal fine, che il costante ,,_::!: riferimento legislativo alle sentenze dibattimentali di condanna o di assoluzione e la : logica interna di quel richiamo rendono impossibile equiparare ad esse, sotto il profilo 1 dell'efficacia vincolante, ogni differente decisione, dal decreto di condanna alle 'I:: sentenze di non doversi procedere. L'Amministrazione finanziaria deduce, al :'. riguardo: violazione e falsa applicazione dell'art. 28 del codice di procedura penale J PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA 'TRIBUTARIA precedentemente vigente (o comunque dell'art. 654 del codice attuale) e dell'art. 23 del regio decreto-legge n. 334 del 1939 convertito nella legge n. 739 del 1939; violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 codice civile e del citato art. 23; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sul punto. L'Amministrazione ricorrente assume che, essendo stata la prescrizione dichiarata in seguito a una comparazione delle circostanze favorevole all'imputato, il giudice di appello ha dunque ritenuto sussistente il fatto, la qualit di reato da questo rivestita e di poi, solo in virt della prevalenza delle circostanze attenuanti, dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, e che conseguentemente la Corte di appello civile avrebbe dovuto, assegnato alla sentenza della Corte penale di appello il valore che le competeva giusta il riferito art. 28 (o 654 codice procedura penale, vigente), concludere che il Boccia aveva commesso il delitto di cui all'art. 23 regio decreto-legge n. 334/1939 relativamente a kg 1.237.130 di gasolio nazionale, eppertanto era tenuto a pagare il relativo tributo. La censura come sopra formulata risulta, nel senso e nei limiti di cui in appresso, fondata e meritevole di accoglimento. Occorre premettere che il problema, che permane irrisolto sia nella ratio decidendi della Corte territoriale sia nella prospettazione di parte, dell'alternativa tra l'applicazione dell'art. 28 del codice di procedura penale precedentemente vigente e l'applicazione dell'art. 654 dell'attuale codice, trova soluzione nel disposto dell'art. 260 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271 (norme di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), in virt del quale nelle materie regolate dal libro decimo del codice si osservano le disposizioni ivi previste anche per i provvedimenti emessi anteriormente alla data di entrata in vigore del codice e per i procedimenti gi iniziati a tale data. E nel libro decimo del codice dedicato alla materia della esecuzione, sono ricompresi, nel titolo primo relativo al giudicato, l'art. 651 e l'art. 652 concernenti rispettivamente l'efficacia della sentenza penale di condanna e l'efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, e, per quanto specificamente qui interessa, l'art. 654 il quale disciplina l'efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi, disponendo che nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel procedimento penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purch i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purch la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. Il citato art. 654 riproduce, nell'impostazione sistematica, il disegno normativo che trovava precedentemente espressione nell'art. 28, con alcune innovazioni tra le quali importa segnalare, in quanto rilevanti ai fini della presente decisione: la limitazione dell'efficacia della sentenza penale ai soli soggetti che nel procedimento penale abbiano rivestito la qualit di imputato, di parte civile o di responsabile civile (e ci in armonia con i principi di cui alla sentenza 22 marzo 1971 n. 55 della Corte Costituzionale con cui era stata dichiarata la illegittimit costituzionale dell'art. 28 nella parte in cui consentiva che l'accertamento dei fatti materiali oggetto di un giudizio penale fosse vincolante anche nei confronti di coloro RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO'' 500 che a tale giudizio fossero rimasti estranei perch non posti in condizione di intervenire); l'espressa previsione che possono fare stato, oltre ai fatti accertati con sentenza di condanna dibattimentale, solo quelli accertati con sentenza, sempre pronunciata in dibattimento (il che esclude la rilevanza della sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato) di assoluzione, in difformit dalla previsione dell'art. 28 dove era menzionata pi genericamente la sentenza di proscioglimento; l'ulteriore previsione (in adesione a quello che gi costituiva un indirizzo giurisprudenziale affermatosi con riguardo all'art. 28) che l'efficacia vincolante pu essere attribuita solo a quei fatti materiali che siano stati dal giudice penale ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale. Orbene, sotto il profilo della riconducibilit della fattispecie in esame nell'ambito della dimensione soggettiva come sopra delimitata dell'efficacia dell'accertamento penale, sufficiente dare atto che l'Amministrazione finanziaria si era costituita parte civile nel processo penale a carico del Boccia nei cui confronti aveva ottenuto in primo grado condanna generica al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede con statuizione poi venuta meno col proscioglimento dell'imputato in grado di appello. Per quanto riguarda poi la natura del provvedimento decisorio in cui ha avuto sbocco il giudizio penale, occorre ricordare che la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del Boccia per essere il reato a lui ascritto estinto per prescrizione della quale sono stati ritenuti sussistenti gli estremi a seguito dell'applicazione in favore dell'imputato di circostanze attenuanti generiche giudicate equivalenti all'aggravante contestata. Di tale peculiarit della decisione sull'azione penale non pu non tenersi conto ai fini della corretta individuazione del significato e della rilevanza ermeneutica che assume il raffronto testuale tra il riferimento contenuto nell'art. 654 codice procedura penale alla sentenza di assoluzione e la classificazione tipologica delle sentenze di proscioglimento contenuta nella sezione prima del capo secondo del titolo terzo del libro settimo dello stesso codice, dove sono definite sentenze di non doversi procedere quelle che vengono pronunciate quando l'azione penale non doveva essere iniziata o non doveva essere proseguita o quando insufficiente o contraddittoria la prova dell'esistenza di una condizione di procedibilit (art. 529), ed inoltre (art. 531) quelle con cui viene dichiarata l'estinzione del reato anche per il ritenuto dubbio sull'esistenza di una causa di estinzione del reato, all'infuori dell'ipotesi in cui risulti evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato (art. 129 comma 2), e vengono invece qualificate come sentenze di assoluzione (art. 530) quelle che vengono emesse perch il fatto non sussiste, o perch l'imputato non lo ha commesso o perch il fatto non costituisce reato o non previsto dalla legge come reato, ovvero perch stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione, o quando manca o insufficiente o contraddittoria la prova della sussistenza del fatto, della sua commissione da parte dell'imputato, della sussistenza degli estremi di reato, della imputabilit dell'autore, o in caso di prova dell'esistenza (o di dubbio sull'esistenza) di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilit. Al riguardo, non pare giustificata una interpretazione strettamente letterale del dato normativo, quale quella accolta dalla Corte di merito, secondo la quale, intendendosi per sentenza di assoluzione ai sensi e per gli effetti dell'art. 654 del codice di procedura penale solo quella come tale qualificabile in base all'art. 530, debbasi ritenere carente di efficacia PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA vincolante in ordine all'accertamento dei fatti qualsiasi sentenza con la quale sia stata pronunciata declaratoria di non doversi procedere non solo per le ragioni di cui all'art. 529 ma anche nei casi di cui all'art. 531 dello stesso codice. Non si ignora che l'opinione che qui viene criticata e disattesa trova riscontro nella recente sentenza 20 febbraio 1996 n. 1319 della III sezione civile di questa Corte, secondo cui l'attuale codice di procedura penale in conformit dei criteri mirati a ridurre l'efficacia extrapenale del giudicato contenuti nella legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 ... e anche in conseguenza dei reiterati interventi della Corte Costituzionale . . . ha delineato agli artt. 651-654 una drastica revisione degli effetti extrapenali della decisione marcata dal reiterato riferimento alle sole sentenze dibattimentali irrevocabili di condanna o di assoluzione, onde non sembra pi possibile l'equiparazione a queste di ogni differente decisione, come la sentenza di non doversi procedere de qua (nella specie, appunto, per prescrizione conseguente all'applicazione di attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti). In meditato dissenso da tale precedente, ritiene questo Collegio, ispirandosi ad esigenze di interpretazione logica e sistematica prevalenti sulla suggestione creata dalla coincidenza dei termini tecnici usati dal legislatore, che la categoria delle decisioni alle quali viene nel senso di cui sopra affidata l'efficacia del giudicato penale nel giudizio civile non possa essere delineata mediante la pura e semplice meccanica trasposizione della letterale enunciazione delle nozioni normative che nello stesso codice di rito penale qualificano formalmente i provvedimenti conclusivi del giudizio, ma debba essere modellata, in sostanziale e quindi pi appagante considerazione della sua ragione di essere, in funzione di una duplice coincidente rilevanza, penale e civile, di un nucleo di fatti materiali la cui verifica -con esito positivo o negativo -siasi inserita con carattere di essenzialit nell'iter logico-giuridico della formazione di una decisione penale la quale abbia acquisito il valore del giudicato formale correlato al crisma della irrevocabilit che l'art. 648 codice procedura penale conferisce alle sentenze pronunciate in dibattimento contro le quali non possa pi essere proposta alcuna impugnazione ordinaria quale che ne sia la formulazione decisoria, e risulti altres idonea ad inserirsi con lo stesso carattere di decisivit nella formazione del convincimento del giudice civile in quanto avente ad oggetto i fatti che si configurano come costitutivi, impeditivi o estintivi rispetto alla situazione giuridica dedotta nel giudizio civile (ovvero in quegli altri che nel processo civile siano rilevanti sul piano probatorio quali premesse per l'affermazione o la negazione dei primi): col risultato del venire in essere di un rapporto di dipendenza giuridica tra l'uno e l'altro accertamento, che non nasce dalla sentenza (e quindi dal proscioglimento o dalla condanna in se stesse considerate) ma da un giudizio categorico, ad essa funzionale, di affermazione della sussistenza o della insussistenza di determinati fatti storici da considerarsi, per quanto qui interessa, nella loro oggettivit, indipendentemente dalla qualificazione giuridica ad essi attribuita nel campo penale. Sul modo d.i operare del fenomeno come sopra descritto non influisce la soluzione del quesito di natura teorica se esso vada inquadrato dogmaticamente, in coerenza con la sedes materiae in cui collocato dal legislatore, nell'ambito dell'istituto del giudicato, o debba essere invece ricondotto alla nozione di prova legale, come e stato ritenuto in dottrina sulla base del rilievo che il giudicato consiste per definizione nell'accertamento di una situazibne giuridica. Importa piuttosto rilevare che, tale essendo la chiave di lettura della RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ' 502 previsione di cui all'art. 654 codice procedura penale attualmente vigente, ne consegue che, a questi fini, la categoria ivi menzionata delle sentenze di assoluzione, costituente species (accanto alla contigua species delle sentenze di non doversi procedere) del pi ampio genus delle sentenze di proscioglimento (contrapposto, quest'ultimo, al finitimo genus delle sentenze di condanna), non pu ritenersi esattamente sovrapponibile a quella che risulta configurabile sulla scorta del solo art. 530 codice procedura penale in contrapposizione al coordinato disposto degli art. 529 e 531, ma -ferma restando l'esclusione delle sentenze nelle quali l'adozione della formula dell'improcedibilit sia correlata all'accertamento e alla valutazione di elementi meramente processuali -viene a risultare caratterizzata da una maggiore estensione, ricomprendente anche eventuali sentenze di non doversi procedere relativamente e limitatamente alla parte in cui queste contengano enunciazione (conseguente a specifico accertamento) di elementi di fatto che nel contesto motivazionale risultino dotati di apprezzabile rilevanza nel duplice senso di costituire ostacolo alla pronuncia di proscioglimento con formula di merito prevista dall'art. 129 codice procedura penale e di aprire l'adito allo sviluppo della qualificazione della fattispecie concreta mediante l'integrazione apportata dalla considerazione di ulteriori elementi subordinatamente influenti sulla decisione, ivi compresi i cosiddetti accidntalia delicti. Ed invero, la classificazione definitoria del codice, la quale recepisce (con un maggior rigore formale rispetto al codice precedente) la distinzione l tra le sentenze dotate di contenuto sostanziale suscettibili di esplicare valore di cosa giudicata per effetto della conseguita irrevocabilit, e sentenze aventi contenuto meramente processuale come tali carenti di tale efficacia quand'anche divenute I irrevocabili, ignora evidentemente la possibilit della coesistenza, in determinate I fattispecie la cui configurabilit espressamente prevista dal legislatore, di una formula terminativa specifica espressa in termini di improcedibilit, e di un accertamento -conoscibile attraverso la motivazione -di elementi di fatto i quali, I in quanto essenziali per la configurazione in concreto del reato ritenuto in sentenza, nella struttura logica della ratio decidendi del giudice penale si pongono quale I indefettibile premessa dell'ulteriore affermazione della sussistenza (e della valutazione dell'incidenza) degli elementi accidentali rappresentati dalle circostanze I applrcabili -e, per quanto occorra, della comparazione di circostanze di segno opposto -che pu condurre alla modificazione dell'imputazione originariamente contestata mediante la cosiddetta derubricaziqne o alla determinazione della pena I irrogabile in misura tale da far risultare perfezionata una fattispecie estintiva del reato alla quale risulta formalmente congruente la declaratoria di non doversi procedere. Tale ipotesi pu verificarsi in tema di prescrizione, in base al coordinato disposto degli I artt. 157 e 69 codice penale, e in virt del principio secondo cui al fine di stabilire il termine di prescrizionale operante in concreto occorre aver riguardo non alla pena I comminata dalla norma incriminatrice per la fattispecie criminosa astratta bens al ~ ! reato nella sua specifica configurazione ritenuta dal giudice del merito, anche a seguito ' ' dell'applicazione di circostanze aggravanti e attenuanti (non escluse, fra queste, le ~ attenuanti generiche) e al correlativo giudizio di comparazione. In tali casi, infatti, la ~ I ~ sentenza esprime in tali parti un vero e proprio giudizio di merito sui fatti (che non ricorre, invece, qualora l'estinzione del reato sia dichiarata in considerazione della sola assenza della prova evidente dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129); n I f. ' ~ ! ~ - PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA rileva in contrario il fatto che tale giudizio trovi estrinsecazione e fonte di conoscibilit, anzich nel dispositivo, nella motivazione che del dispositivo costituisce presupposto integrante. Le considerazioni fin qui svolte non risultano incompatibili con la configurazione che l'istituto della pregiudizialit penale viene ad assumere nel disegno generale, delineato nel nuovo codice, dei rapporti tra il giudicato penale e l'azione civile, del quale vengono soltanto a precisare una particolare fattispecie; n ricevono smentita da alcuna contraria indicazione da parte del legislatore delegante, il quale si limitato a prevedere, nella legge 16 febbraio 1987 n. 81, il vincolo per il giudice civile, adito per le restituzioni o per il risarcimento del danno, alla sentenza penale irrevocabile, limitatamente all'accertamento della sussistenza del fatto, all'affermazione o alla esclusione che l'imputato lo abbia commesso e alla illiceit penale del fatto (n. 22), la statuizione che la sentenza di assoluzione non pregiudica l'azione civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno sotto le condizioni indicate nel n. 23, la disciplina degli effetti del giudicato penale in altri giudizi civili o amministrativi senza ulteriori specificazioni limitative (se non relativamente al giudizio disciplinare) nel n. 24, e la statuizione che le sentenze di proscioglimento pronunciate nell'udienza preliminare non fanno stato nel giudizio civile (n. 25). E non chi non veda, del resto, la assoluta irrazionalit -suscettibile di attingere gli estremi del sospetto di illegittimit costituzionale -di una discriminazione tra le fattispecie processuali in cui l'accertamento di determinati fatti si tradurrebbe in una sentenza formalmente di merito vincolante agli effetti civili e quelle in cui lo stesso accertamento sarebbe destinato a restare confinato all'interno della dinamica del giudizio penale, non giustificata da alcuna apprezzabile differenza inerente al valore e al significato attribuibili all'accertamento stesso in ragione dell'organo da cui promana e della sede processuale in cui viene effettuato. In questo senso, l'interpretazione a cui si affida la presente decisione viene a coincidere con quella accolta da Cass. 22 giugno 1993, n. 6906 dove gi si affermava che la sentenza dibattimentale di proscioglimento per amnistia o per prescrizione in conseguenza della concessione di attenuanti dichiarate prevalenti sulle aggravanti pu, ai sensi dell'art. 654 ... spiegare effetti nel giudizio civile in ordine alla sussistenza di fatti materiali in concreto accertati dal giudice penale quando da questi fatti dipende il riconoscimento del diritto fatto valere in sede civile. Si rende quindi palese, alla luce delle considerazioni esposte, la sussistenza nella impugnata sentenza della violazione delle norme di diritto precedentemente esaminate e come sopra interpretate, insita nella perentoria affermazione della irrilevanza della sentenza penale di non doversi procedere pronunciata in grado di appello nei confronti di Boccia Luigi. Ci non consente, tuttavia, di pervenire sic et simpliciter -come vorrebbe l'Amministrazione ricorrente -alla conclusione che debba aversi, hic et nunc, per irrefragabilmente accertato nei rapporti tra le parti dell'attuale giudizio civile, che il Boccia abbia commesso il fatto-reato a lui addebitato, e che, conseguentemente, sussista, originariamente a carico dello stesso e ora a carico dei suoi aventi causa, l'obbligo del pagamento del tributo evaso. Infatti, l'esigenza, gi segnalata, della ritenuta rilevanza dei fatti ai fini della decisione sull'azione penale, conduce a precisare che al riconoscimento dell'efficacia vincolante dell'accertamento nel procedimento civile non si pu pervenire se non previa verifica che la dichiarazione di estinzione del reato non sia stata emessa sulla base di un giudizio di comparazione formulato in via RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 504 astratta con esclusivo riferimento al capo di imputazione in se stesso considerato e senza valutazione concreta della fondatezza o meno dell'incolpazione (v. in proposito Cass. 28 marzo 1994 n. 3002): si rende necessaria, quindi, in ogni caso, una interpretazione del giudicato penale da compiersi -come in ogni ipotesi in cui si faccia questione della rilevanza di un giudicato esterno -dal giudice civile nell'esercizio del potere, a lui istituzionalmente riservato, di valutazione del merito, destinata a sfociare in un apprezzamento non soggetto a sindacato di legittimit se ed in quanto esente da errori di diritto e sorretto da adeguata motivazione. Devesi, inoltre, tener presente che l'accertamento, nel senso di cui sopra vincolante, ha ad oggetto i fatti nella loro oggettiva realt fenomenica e non anche nella loro specifica rilevanza civilistica, la quale, in ossequio al principio dell'autonomia della cognizione civile, resta a sua volta affidata alla ulteriore imprescindibile valutazione del giudice civile e soggetta alle regole della materia civile, come risulta sottolineato dalla menzione, contenuta nell'art. 654, dei limiti probatori posti dalla legge civile. Nel contesto di tale ulteriore indagine di merito -la cui mancanza rende palese, nella sentenza impugnata, accanto alla violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 360 n. 3, anche il difetto di motivazione concorrentemente denunciato ai sensi dell'art. 360 I n. 5 codice procedura civile -potr e dovr essere individuata, in particolare, la & ragione per la quale al Boccia, imputato del reato di cui agli artt. 11 O, 81 cpv. codice penale e 23 regio decreto-legge 28 febbraio 1938 n. 334 modificato con l'art. 9 della legge 2 luglio 1957 n. 474 per avere concorso con Angelo Merati, Michele Graziani I e altri con pi azioni esecutive del medesimo disegno criminoso a sottrarre I.' all'imposta di fabbricazione quantitativi di prodotti petroliferi per kg 1.237.130 di i" gasolio nazionale per autotrazione, non risulti contestato il reato-mezzo (previsto I .dagli artt. 110, 81 cpv., 483 in relazione al 479 e 61 n. 2 codice penale) integrato dal . comportamento del Boccia consistente, nella tesi dell'accusa penale, nell'avere apposto sui documenti emessi dai coimputati la mendace attestazione di aver effettuato il trasporto: e ci al fine di una necessaria opzione interpretativa tra l'opinione della Corte territoriale, che attribuisce rilevanza alla caducazione di tale incolpazione relativa al reato-mezzo nel senso della esclusione della prova della i:~ commissione del reato-fine, e la spiegazione che ne offre l'Amministrazione ii1 < ricorrente con riferimento alla pregressa estinzione del solo reato-mezzo per amnistia (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 18 aprile 1998, n. 3953 -Pres. Cantillo -Est. Criscuolo -P.M. Cafiero (conf.) -Nasi c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Di Carlo). 1ibuti in genere -Accertamento -Metodo induttivo -Accertamento dell'imponibile I.V.A. mediante utilizzazione di elementi acquisiti per la determinazione del reddito -Impiego degli studi di settore -Legittimit -Limiti. (Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, art. 54; decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600, art. 39). Tributi in genere -Accertamento -Motivazione -Prova dei fatti -Non attiene alla motivazione. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 505 Legittimamente l'ufficio pu rettificare l'imponibile ai fini I.V.A., anche utilizzando elementi raccolti ai fini delle imposte sul reddito, sulla base di dati attinenti ali' attivit del/ 'impresa (nella specie per la determinazione del volume di affari di un ristorante si tenuto conto del numero dei titolari, dei collaboratori familiari e dei dipendenti, del numero dei giorni di apertura, dei quantitativi di cibi e bevande acquistati, del prezzo medio di un pasto, del numero di tavoli, dei tovaglioli e dei copriinacchia) anche avvalendosi degli studi di settore in concorso con altri dati istruttori (1 ). La prova dei fatti addotta a sostegno della pretesa tributaria non richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento e pu essere fornita nel corso del successivo giudizio; la motivazione sufficiente quando indica fatti ipotizzati (2). (omissis). Con il primo mezzo di cassazione (articolato in pi profili) la ricorrente denunzia l'illegittimit del ricorso al metodo analitico -induttivo di accertamento, con violazione dell'art. 54 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, in relazione all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. Premesso che l'ufficio I.V.A. si sarebbe avvalso del metodo di rettifica analitica previsto dal citato art. 54, afferma che esso avrebbe motivato l'impugnato accertamento con rinvio all'accertamento analitico-induttivo spiccato contro essa ricorrente dal 1 ufficio distrettuale delle imposte sui redditi di Genova e tale motivazione sarebbe stata considerata sufficiente e legittima dalla Corte territoriale. Invece nella specie non sarebbe riscontrabile alcuna delle tassative ipotesi in relazione alle quali gli artt. 54 decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e 39 comma 1 decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 consentirebbero l'adozione di quel metodo di rettifica. In particolare: a) l'accertamento in questione non sarebbe ricollegato ad alcuno specifico accesso, ispezione o verifica effettuata presso l'impresa ricorrente; b) nessuno specifico rilievo sarebbe stato elevato con riguardo alle scritture contabili, la cui irregolarit mai sarebbe stata contestata; c) la societ contribuente avrebbe regolarmente risposto al questionario, esibendo tutta la documentazione richiesta e nessuna contestazione in proposito sarebbe stata elevata nei suoi confronti; d) nella specie non si contesterebbe l'applicazione di alcuna specifica disposizione in materia di I.V.A., bens si provvederebbe alla ricostruzione dell'intero ammontare dei ricavi della ricorrente; e) comunque lo studio di settore utilizzato dall'ufficio non rientrerebbe nell'ambito dei dati e notizie in possesso dell'ufficio, trattandosi di elaborato predisposto dalla stessa amministrazione procedente, cio di uno studio di (1-2) La prima massima segna una svolta decisiva per il recepimento in giurisprudenza delle nuove vie dell'accertamento. Superando le numerose e tenaci eccezioni, riassunte nella prima parte della motivazione, la sentenza da rilevanza palpabile dei metodi di accertamento basati su dati sintomatici e studi di settore. La seconda massima segue, ma ne fa una applicazione incisiva, una regola ormai consolidata (Cass. 8 aprile 1998 n. 3661, in questo fascicolo pag. 493 con richiami). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 506 parte, mancante del requisito della terziet cos come richiesto dall'art. 54 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. Sotto altro profilo si deduce l'illegittimit dell'accertamento fondato sullo studio di settore, con violazione dell'art. 54, comma terzo, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, in relazione all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. L'ufficio, rettificando i ricavi, avrebbe disatteso i risultati emergenti dalle scritture contabili regolarmente tenute dalla ricorrente, perch in contrasto con verifiche effettuate presso altri contribuenti, con dati in possesso dell'ufficio, con lo studio di settore curato dal medesimo. Ma i primi due elementi mai sarebbero stati portati a conoscenza della contribuente o dei giudici per cui l'inattendibilit dei ricavi dichiarati dall'impresa ricorrente sarebbe stata desunta induttivamente dalle valutazioni effettuate dall'ufficio, sulla scorta dello studio di settore. Poich il detto ufficio avrebbe operato nel campo delle presunzioni semplici, alla base del ragionamento dovrebbe esserci un fatto certo e noto dal quale risalire al fatto ignoto. Nel caso in esame il fatto ignoto sarebbe costituito dai ricavi dell'impresa F.lli Nasi, i quali sarebbero il risultato della moltiplicazione del numero dei pasti erogati nell'anno per il prez~o di ciascun pasto. Sarebbe quindi necessario che il moltiplicando e il moltiplicatore fossero il risultato di un procedimento presuntivo corretto che, per esser tale, dovrebbe essere fondato su fatti conferenti. Cos nella specie non sarebbe. La ricorrente quindi censura il ragionamento seguito dall'ufficio per determinare i prodotti alimentari acquistati, le porzioni medie, il numero delle portate e dei pasti serviti, desunti dall'impiego dello studio di settore, da cui emergerebbero dati non comprensibili e quindi non impiegabili in ragionamenti presuntivi, al fine di ricostruire i ricavi della ricorrente (pag. 5, 6, 7 del ricorso). In effetti la determinazione degli elementi utilizzati dall'ufficio per la rettifica dei ricavi non avrebbe fondamento nella realt dell'impresa, sicch i dati tratti dallo studio di settore per la determinazione delle porzioni medie di carni e pesce e per l'equivalenza tra dette porzioni non sarebbero fondati su alcun dato certo e quindi I non consentirebbero di trarre alcuna inferenza presuntiva. Inoltre la sentenza impugnata sarebbe erronea perch muoverebbe dalla premessa che i risultati dello studio di settore legittimerebbero l'accertamento ex art. I 54 decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, quando vengano utilizzati come metodo di ricerca e di individuazione dei dati valutabili al fine di determinare il reddito delle imprese facenti parte di quella categoria e come strumento per dimostrare, sulla base di concreti elementi di fatto riferibili a quel determinato contribuente, l'inattendibilit della dichiarazione, per giungere poi alla conclusione che, nella specie, l'ufficio avrebbe fondato l'accertamento su elementi di fatto riferibili all'impresa accertata. L'errore si concretizzerebbe nella mancata rilevazione, da parte dei giudici di appello, sia della inconferenza dei fatti propri dell'impresa accertati dall'ufficio sia della carenza nell'accertamento di altri fatti che sarebbero stati rilevanti e tuttavia non avrebbero formato oggetto di rilevazione. La sentenza impugnata valorizzerebbe: a) il numero dei titolari dell'impresa, dei familiari collaboratori e dei dipendenti, ma l'ufficio non avrebbe provato perch da tal numero di dipendenti si dovrebbe inferire che fossero stati forniti pi pasti di PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA quelli dichiarati in base a scritture regolarmente tenute, onde il dato sarebbe irrilevante; b) il numero dei giorni di apertura del ristorante, ma anche tale dato sarebbe privo di rilievo essendo notorio che i ristoranti, fino alla chiusura per fallimento, sono sempre aperti; e) i quantitativi di cibo e bevande acquistati e il prezzo medio di un pasto, unici dati reali ma non sufficienti da soli per determinare maggiori ricavi; d) il numero dei tavoli presenti nel ristorante, ma anche questo elemento non avrebbe rilievo ai fini della determinazione di maggiori ricavi, non essendo provato che i posti erano occupati in misura maggiore rispetto alle risultanze delle scritture contabili; e) l'unico dato certo rilevante per individuare la concreta potenzialit produttiva dell'impresa, ovvero il numero dei tovaglioli e dei coprimacchia risultanti dalle scritture passive rilasciate dalle lavanderie (cui fa rinvio la sentenza di appello a pag. 10), sarebbe un dato inesistente, perch l'atto di accertamento non conterrebbe alcun riferimento a qualsivoglia (inesistente) controllo incrociato circa il numero delle tovaglie, dei tovaglioli e dei coprimacchia utilizzati nel locale. Sarebbe anzi significativo che l'ufficio si sia discostato dallo studio di settore proprio con riferimento al numero dei tovaglioli e dei coprimacchia, non considerando tali elementi specifici dell'azienda ricorre.nte. Piuttosto i giudici di appello avrebbero dovuto tenere conto di dati concreti fomiti dalla ricorrente, di cui invece non si farebbe cenno. Si tratterebbe delle dichiarazioni rese da un ente di pubblica assistenza e dal rettore del convento dei Padri Cappuccini di Genova, attestanti le erogazioni liberali in natura effettuate dalla F.lli Nasi, nonch dei danni subiti dall'impresa a seguito della rottura di una condotta fognaria. I medesimi giudici, inoltre, avrebbero dovuto valutare il fatto che l'amministrazione non avrebbe posto in essere l'opportuna attivit investigativa, idonea a fotografare la realt economica dell'impresa. Con il secondo mezzo, poi, la ricorrente denunzia ancora l'illegittimit dell'impiego dello studio di settore sotto altro profilo, in violazione dell'art. 54 cit., con riferimento all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. Lo studio di settore invocato sarebbe inidoneo a fondare un accertamento induttivo anche in relazione al suo specifico contenuto, per assoluta incertezza circa la seriet, fop.datezza, comparabilit ed utilizzabilit dei dati da esso emergenti. Non sarebbero indicati i ristoranti specializzati della citt di Genova, nei quali sarebbero stati effettuati i riscontri, n sarebbero noti i criteri per determinare lo sconto di ciascun prodotto alimentare e, quindi, il peso di ciascuna porzione. Pertanto, in assenza di valori di riferimento aventi seria rilevanza statistica, sarebbe lecito concludere nel senso della velleitariet del metodo utilizzato dall'ufficio per la realizzazione dello studio di settore e della mera ipotesi quantitativa da esso discendente, tenuto conto anche delle prescrizioni normative in materia (art. 62 bis legge 29 ottobre 1993 n. 427). I due motivi, essendo tra loro connessi, possono formare oggetto di esame congiunto. Le complesse censure con essi articolate, peraltro, si rivelano prive di fondamento. Si deve premettere che l'art. 54 comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633 (e successive modificazioni) attribuisce all'ufficio dell'imposta sul valore aggiunto il potere di procedere alla rettifica della dichiarazione annuale presentata da contribuente, quando ritiene che ne risulti RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 508 un'imposta inferiore a quella dovuta ovvero una eccedenza detraibile o rimborsabile superiore a quella spettante. Il secondo comma di detta norma stabilisce poi (nell'ultima parte) che le omissioni e le false o inesatte indicazioni (che rendono la dichiarazione infedele) possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purch queste siano gravi, precise e concordanti. Il terzo comma aggiunge che l'ufficio pu procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilit del contribuente qualora l'esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l'inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto (e non in via presuntiva) dagli atti e documenti nella norma medesima espressamente menzionati, nonch pi generalmente da altri atti e documenti in possesso dell'amministrazione. Nel caso in esame, come risulta dalla sentenza impugnata (pag. 4), la rettifica stata operata sulla base delle risultanze dell'ispezione documentale eseguita nei confronti della parte da funzionari del 1 ufficio distrettuale imposte dirette di Genova, il quale aveva effettuato un accertamento analitico con posta induttiva ai sensi dell'art. 39 decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, utilizzando atti e documenti forniti dalla stessa contribuente. Inoltre, come si evince sempre dalla sentenza impugnata (pag. 7), tali atti sono stati indicati e consistono (tra l'altro) in questionari, dichiarazione dei redditi, fatture. Sono stati altres considerati: il numero dei titolari dell'impresa e dei collaboratori familiari, il numero dei dipendenti, il numero dei giorni di apertura del ristorante, i quantitativi di cibi e bevande acquistati, il prezzo medio di un pasto, ricavato dalle ricevute fiscali e dalle fatture al netto di I.V.A. emesse dalla societ, insieme con gli altri elementi richiamati in narrativa (pag. 9-1 O della sentenza impugnata). Non dunque esatto che l'ufficio abbia operato al di fuori del metodo di rettifica contemplato dal citato art. 54. Esso, invece, ha fatto applicazione dei criteri previsti dalla menzionata norma, ed in particolare dal terzo comma di essa, basandosi su un complesso documentale idoneo a consentire un'adeguata ricosiruiione dell'attivit economica dell'impresa, con analitica indicazione dei dati conoscitivi utilizzati. Non ha dunque pregio il rilievo della ricorrente, secondo cui non sarebbe stata effettuata un'ispezione presso la sua sede, perch i menzionati atti e documenti erano gi in possesso dell'amministrazione, e sulla base di essi si proceduto alla ricostruzione dei ricavi, nel quadro della citata norma. E si trattava di atti, documenti, elementi provenienti dalla stessa contribuente, la quale dunque non pu sostenere di non esserne stata a conoscenza. N sono condivisibili le doglianze della societ relative all'utilizzo dello studio di settore. vero che, come questa Corte ha gi chiarito (Cass., 15 febbraio 1995 n. 1628), l'ufficio -in assenza di verifica contabile -non pu affermare l'infedelt della dichiarazione perch in contrasto con un parametro di riferimento estrapolato dall'ufficio medesimo ed asserito come indicativo dei valori medi percentuali di ricarico riscontrati nelle aziende operanti nel medesimo settore merceologico. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA Ma nel caso in esame non esatto che l'amministrazione finanziaria abbia ritenuto inattendibili i ricavi dichiarati dall'impresa sulla sola scorta dello studio di settore. Come sopra gi stato ricordato, e qui si ribadisce, sono stati utilizzati atti e documenti (questionari, dichiarazione dei redditi, fatture attive e passive, ricevute fiscali) nonch altri dati conoscitivi (personale, numero dei tavoli, dei tovaglioli, delle tovaglie e dei coprimacchia), sicuramente idonei -se considerati unitariamente ed in correlazione tra loro (e non gi isolatamente, come invece vorrebbe la ricorrente allorch svaluta la rilevanza dei dati suddetti) -a consentire una ricostruzione affidabile della realt economica dell'azienda. In questo contesto lo studio di settore; lungi dall'essere l'unico fondamento della rettifica, stato utilizzato come parametro valutativo, espressione di una regola di esperienza (e cos lo definisce la citata sentenza n. 1628 del 1995, in motivazione), sulla cui base sia possibile identificare valori medi che il giudice di merito ben pu condividere in assenza di elementi di contrasto. Quanto alle censure relative alla determinazione del prezzo medio di ciascun pasto, si tratta di valutazioni ed apprezzamenti di fatto che non possono trovare ingresso nella presente sede di legittimit, in quanto si traducono nell'opporre alla ricostruzione operata dall'ufficio (e condivisa dalla sentenza impugnata) una diversa ricostruzione relativa alla quantit dei pasti e delle porzioni. E lo stesso deve dirsi per quanto concerne l'asserita inconferenza dei fatti accertati che la sentenza impugnata ha valorizzato. Anche su questo punto la ricorrente si limita ad opporre all'apprezzamento di fatto del giudice di merito un suo diverso apprezzamento, il che per non deducibile in sede di legittimit neppure sotto il profilo del difetto di motivazione. N pu darsi ingresso all'affermazione della ricorrente, secondo la quale il numero dei tovaglioli e dei coprimacchia risultanti dalle fatture rilasciate dalla lavanderia sarebbe un dato inesistente perch l'atto di accertamento non conterrebbe alcun riferimento ad un controllo incrociato relativo a tale dato. La circostanza specificamente menzionata a pag. 1 O della sentenza impugnata, e questa Corte non pu discostarsi dagli elementi fattuali in essa accertati. Da quai;ito esposto consegue anche la legittimit dell'impiego dello studio di settore (nel quadro sopra indicato e per le finalit menzionate), non potendo trovare ingresso in questa sede le critiche alle modalit di redazione di esso. Tali critiche, infatti, presuppongono non soltanto un esame diretto dello studio ma anche una serie di valutazioni ed apprezzamenti di fatto estranei al giudizio di legittimit. Si deve, comunque, ancora ribadire che, come emerge dalla sentenza impugnata (v., in particolare, pag. 9-10), nel contesto della rettifica eseguita dall'ufficio lo studio di settore non assume quel rilievo probatorio determinante che la ricorrente sembra volergli attribuire. La Corte territoriale, infatti, ha posto in evidenza che i dati probanti sono in realt scaturiti da tutta una serie di dettagliati e meticolosi controlli eseguiti direttamente dall'ufficio sulla base della dichiarazione presentata e della documentazione esibita dal contribuente su richiesta dello stesso ufficio. E richiama, poi, tutti gli elementi considerati i fini della ricostruzione della realt economica dell'azienda. Con il terzo mezzo di cassazione la societ ricorrente deduce l'illegittimit della rettifica operata dall'ufficio per carenza probatoria, nonch erroneit e RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 510 contraddittoriet della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360 comma 1 (n. 3 e 5) codice procedura civile. Sostiene che i maggiori corrispettivi accertati sarebbero totalmente carenti di prova. Invero le percentuali di utilizzazione dei prodotti alimentari applicate dall'ufficio sarebbero inidonee a ricostruire l'ammontare dei ricavi della specifica azienda di essa ricorrente. Gli elementi addotti dall'ufficio costituirebbero elementi estranei a tale realt aziendale, potendo al pi costituire elementi di valutazione reddituale puramente indicativi e meramente indiziari, come tali da supp01tare sulla base di un riscontro specifico con la realt aziendale, riscontro che, nella specie, del tutto carente. La giurisprudenza avrebbe posto in luce che le percentuali di ricarico o redditivit determinate in relazione ad imprese in situazione analoga potrebbero costituire mero indizio per l'accertamento, dovendo quindi l'amministrazione dimostrare che tali percentuali potrebbero concretamente attagliarsi alla specifica azienda considerata. Del pari illegittimo sarebbe il riferimento a percentuali di utilizzazione del prodotto desunte da non identificate imprese operanti sulla medesima piazza, attese la sua estrema genericit ed indeterminatezza. Ancora, la ricost~zione pluripresuntiva dei corrispettivi, operata dall'ufficio, difetterebbe di ogni riscontro con la specifica realt aziendale della ricorrente, avendo la decisione impugnata pienamente errato nell'affermare che l'ipotesi quantitativa formulata dall'atto impugnato sarebbe corroborata da un controllo incrociato con altri elementi, quali il numero dei tovaglioli, delle tovaglie e dei coprimacchia risultante dalle fatture passive rilevate dalla lavanderia e il numero dei tavoli presente nel locale. Invece dalla lettura dell'atto di accertamento emergerebbe che tale controllo mai sarebbe stato effettuato e tali elementi mai sarebbero stati riscontrati. Infine la ricostruzione operata dall'ufficio sarebbe priva di rilevanza probatoria anche perch ci sarebbe stato riconosciuto da una perizia espletata in sede penale, che avrebbe ampiamente criticato la diretta attribuzione di immediata e completa rilevanza probatoria allo studio di settore, ponendosi tra l'altro in evidnza che, senza uno specifico controllo presso lo specifico ristorante, esso non potrebbe essere preso a base di una ricostruzione induttiva delle porzioni e, di conseguenza, dei ricavi. Neppure questo motivo fondato, dovendosi al riguardo in primo luogo richiamare le considerazioni svolte a proposito dei primi due mezzi. Non si comprende come si possa definire carente un riscontro specifico con la realt aziendale della ricorrente quando dagli accertamenti di fatto compiuti dalla sentenza impugnata risulta il contrario (se poi la ricorrente avesse inteso sostenere l'erroneit di quegli accertamenti di fatto avrebbe dovuto spiegare altro mezzo d'impugnazione). La Corte genovese richiama una serie nutrita di elementi specifici, che riguardano non una indeterminata ed astratta impresa di ristorazione bens quella gestita dalla ricorrente. Tra questi elementi sono indicati: i quantitativi di cibo e di bevande acquistati, il prezzo medio di un pasto ricavato dalle ricevute fiscali e dalle fatture al netto di I.V.A. emesse dalla societ (quindi non un dato generico o PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA presuntivo, ma un elemento documentale scaturito dall'esame delle fatture della societ), il numero dei tovaglioli, delle tovaglie e dei coprimacchia (anche questo dato desunto dalle fatture passive rilasciate dalle lavanderie), il numero dei tavoli presenti nel ristorante, il numero degli addetti alle cucine e quello degli addetti ai tavoli. Dal complesso di questi elementi -che non possono essere frammentati ma vanno considerati unitariamente e in correlazione tra loro, appunto perch componenti di un'unica specifica attivit aziendale -la Corte di Genova ha tratto il convincimento che l'ufficio aveva avuto la possibilit di verificare e valutare direttamente elementi e dati concreti, attinenti alla specifica azienda, che, confrontati con quelli presuntivi di carattere generale derivati dallo studio eseguito nel corrispondente settore, avevano prima confermato la inattendibilit della dichiarazione presentata dalla contribuente e poi dimostrato la sua inesattezza per difetto rispetto al reddito reale. Si tratta, come si vede, di un ragionamento coerente ed agganciato a dati concreti, nel cui tessuto argomentativo lo studio di settore non assurge affatto a solo elemento di prova, ma, in quanto riferito ad idonei controlli svolti con riferimento alla specifica impresa di ristorazione, stato utilizzato come parametro orientativo di calcolo applicato ai dati dianzi menzionati. N le suddette conclusioni trovano smentita nei rilievi della consulenza svolta in sede penale. A parte quanto si dir trattando del sesto motivo d'impugnazione, quella consulenza, come si afferma nel ricorso (pag. 17), critica la diretta attribuzione di immediata e completa rilevanza probatoria agli studi di settore. Ma si gi illustrato sopra che ci non avvenuto nel caso in esame. Con il quarto mezzo di cassazione la ricorrente denunzia l'illegittimit della motivazione dell'accertamento per relationem allo studio di settore, nonch violazione dell'art. 56 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 633, in riferimento all'art. 360 n. 3 codice procedura civile, sostenendo che la ricostruzione reddituale operata dall'ufficio si fonderebbe sul rinvio, operato nella parte motiva del provvedimento, ad uno studio sul settore della ristorazione. Poich il dovere di motivazione dell'accertamento sarebbe soddisfatto quando sia indicato il criterio logico-giuridico seguito dall'ufficio nella rideterminazione del reddito, taly obbligo potrebbe dirsi realizzato solo quando tutti i passaggi logici conducenti alla determinazione del maggior reddito fossero manifestati al contribuente nella parte motiva dell'atto accertativo. L'obbligo predetto non sarebbe quindi soddisfatto se il contribuente non sia posto in grado di conoscere le premesse, i passaggi intermedi e le soluzjoni finali relativi a tutti gli elementi che danno luogo alla rideterminazione di una posta reddituale. Nel caso in esame la rideterminazione dei ricavi realizzati dall'impresa sarebbe avvenuta mediante la moltiplicazione dei pasti, che l'ufficiq assume essere stati serviti, per il prezzo medio di ciascun pasto. Ai fini della determinazione del numero dei pasti l'ufficio avrebbe proceduto dividendo i quantitativi di <::arne e pesce acquistati dalla F.lli Nasi per il quantitativo medio che si assume esser proprio di ciascuna porzione. Quest'ultimo dato sarebbe stato determinato mediante la mera indicazione, nell'atto accertativo, del solo risultato finafe dello studio di settore, mentre per le premesse ed i passaggi intermedi che avrebbero condotto a determinare questo decisivo elemento di ricostruzione dei ricavi degli esponenti l'ufficio avrebbe rinviato allo stesso studio di settore. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 512 Di conseguenza, la motivazione degli avvisi di accertamento non avrebbe recato diretta indicazione, nella sua integralit, dell'iter logico giuridico percorso dall'ufficio. Di qui l'illegittimit degli atti impugnati per carenza di motivazione. La sentenza impugnata avrebbe erroneamente disatteso tale censura, assumendo la legittimit della motivazione per relationem ad atti anche non conosciuti dal contribuente al momento della notificazione dell'accertamento, ma ad atti astrattamente conoscibili dal contribuente stesso -come nella specie -in un momento successivo all'instaurazione del contenzioso tributario. Cos decidendo, per, la sentenza sarebbe incorsa in vizio logico, perch -essendo la motivazione parte integrante del procedimento accertativo al fine di garantire il diritto di difesa del contribuente -essa dovrebbe essere costituita -a pena di invalidit -da tutti i fatti e le prove su cui si fonda la pretesa tributaria, per cui in caso di motivazione per relationem tale precetto potrebbe dirsi soddisfatto solo in quanto l'atto cui si fa rinvio venga portato a conoscenza del contribuente per lo meno nello stesso termine in cui notificato l'accertamento. Nel caso in esame lo studio di settore sarebbe stato reso indirettamente conoscibile dal contribuente soltanto durante la fase contenziosa di primo grado, e sarebbe stato reso direttamente conoscibile soltanto nella fase davanti alla Corte di appello, mediante deposito in allegato alla comparsa di costituzione dell'Avvocatura dello Stato. Sotto altro profilo l'accertamento sarebbe illegittimo perch rinvierebbe a verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonch ad altri dati in possesso dell'ufficio, mai resi conoscibili alla societ contribuente neppure in corso di causa. Il motivo non fondato. Questa Corte ha pi volte affermato che la prova dei fatti addotti a sostegno della pretesa tributaria non richiesta come elemento costitutivo dell'avviso di accertamento e la sua mancanza non pu incidere sulla validit dell'avviso stesso, perch deve essere fornita soltanto in un momento successivo, in sede processuale, quando, a seguito dell'opposizione del contribuente, si proceda alla verifica della fon~atezza sostanziale della (maggiore) pretesa tributaria, con la conseguenza, in mancanza, del rigetto della pretesa medesima ma non dell'invalidit dell'accertamento (Cass., 16 agosto 1993 n. 8685; 8 aprile 1992 n. 4307). Ed ha altres chiarito che l'avviso di accertamento ha carattere di provocatio ad opponendum nel senso che soddisfa l'obbligo della motivazione ogni qual volta l'amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'an ed il quantum debeatur (Cass., 16 agosto 1993 n. 8685). Pi in generale si precisato che l'obbligo di motivare gli avvisi di accertamento deve ritenersi soddisfatto, in via di principio, quando la motivazione sia tale da esternare, ancorch in forma contratta e semplificata, le ragioni del provvedimento, evidenziandone i momenti ricognitivi e logico-deduttivi essenziali, in modo da consentire al destinatario di svolgere efficacemente la propria difesa attraverso la motivata e tempestiva impugnazione dell'atto, e al giudice di verificare gli aspetti materiali e giuridici della pretesa fiscale (Cass., sez. un., 3 giugno 1987 n. 4853, in motivazione; sez. un., 3 aprile 1986 n. 2277). PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 513 In sostanza la motivazione degli atti di accertamento serve sia a identificare a quali elementi esso si riferisce, sia a renderne note al contribuente le ragioni, delimitando la materia del contendere dell'eventuale controversia che faccia seguito. Il detto requisito, quindi, come si osservato in dottrina, costituisce un minus rispetto alla prova della pretesa azionata. La motivazione deve dar conto della sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma non ha l'obbligo di dimostrare, anche sul piano probatorio, l'effettiva esistenza di quanto l'ufficio afferma. sufficiente che essa indichi i fatti ipotizzati dall'ufficio, in guisa tale che il contribuente possa comprendere se,. ed in quale misura, rispondono alla realt. Nel caso di specie, come compiutamente posto in luce dalla sentenza impugnata, l'ufficio ha indicato sia gli atti posti a fondamento delle operazioni di rettifica (questionari, dichiarazione dei redditi, fatture), sia i criteri adottati per la verifica delle ritenute inesattezze contabili, sia il metodo di calcolo dei maggiori ricavi accertati, richiamando a tal fine lo studio eseguito nello specifico settore. Pertanto risulta rispettato il disposto dell'art. 56 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972. N rileva che lo studio di settore non sia stato portato a conoscenza del contribuente (nel suo contenuto) contestualmente alla notifica dell'avviso di accertamento, perch comunque esso era stato indicato ed stato poi reso conoscibile alla ricorrente che, del resto, in sede giudiziale proprio su di esso ha sviluppato ampie difese di merito cos palesando di ben conoscerne i contenuti. Quanto, poi, agli altri generici richiami effettuati negli avvisi, come emerge dalla trama argomentativa della sentenza impugnata essi non sono stati considerati ai fini della decisione, onde devono essere ritenuti irrilevanti (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 23 aprile 1998 n. 4202 -Pres. Sensale -Est. Pignataro -P.M Giacalone (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Sclafani) c. Franceschelli. Tributi en\riali diretti -Rimborsi -Ritenute -Dichiarazione del reddito relativo - necessaria. (Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, art. 39). A norma dell'art. 39, 4 comma del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, non ammesso il rimborso delle ritenute di acconto di redditi non dichiarati; questa una regola assoluta che non soffre eccezioni (1 ). (omissis). Con l'unico articolato motivo il ministero ricorrente censura la decisione impugnata: a) per avere omesso di pronunciare sullo specifico motivo di doglianza relativo all'applicabilit nella specie dell'art. 39, 4 comma del decreto del (1) Giurisprudenza costante: v. Cass. 9 aprile 1998 n. 3502 e 3670 di cui si omette la pubblicazione. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 514 Presidente della Repubblica n. 602/1973, cos violando l'art. 112 codice procedura civile e gli artt. da 25 a 29 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972; b) per avere violato l'art. 132 codice procedura civile e 37 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 omettendo di indicare le ragioni della reiezione di tale motivo; e) per avere violato il citato art. 39, 4 comma del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1972 nel ritenere irrilevante, ai fini del rimborso delle ritenute IRPEF sul trattamento di fine rapporto, l'omessa specificazione del reddito relativo nella dichiarazione annuale. Il motivo merita accoglimento limitatamente alla censura sub e). La censura sub a) infondata non sussistendo il denunciato vizio di omessa pronuncia poich la decisione impugnata -come si esposto nella parte narrativa -ha respinto, ritenendola infondata, la tesi relativa all'applicabilit nella specie dell'art. 39, 4 comma del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973. La censura sub b) inammissibile. Infatti, relativamente alle questioni di puro diritto non ammissibile il ricorso a questa corte di cassazione per vizio di omessa motivazione, concretandosi il sindacato di legittimit, in tal caso, nel controllo dell'esattezza giuridica della statuizione impugnata. La censura sub e), come si anticipato, fondata. L'istanza di riliquidazione dell'imposta dovuta sull'indennit di fine rapporto concreta un'istanza di rimborso delle ritenute d'acconto operate all'atto della corresponsione della stessa indennit, tendendo ad ottenere, mediante appunto la riliquidazione, la restituzione di somme che in base alla stessa risultino pagate in pi. Da ci consegue, come ha gi affermato questa corte ( v. sentenza 19 dicembre 1996 n. 11352), che alla relativa istanza si applicano le disposizioni generali previste dalle disposizioni tributarie in tema di rimborso e quindi, in particolare, l'art. 39, 4 comma del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 secondo il quale non ammesso il rimborso delle ritenute d'acconto di redditi non dichiarati.... Tale norma tende ad evitare che il contribuente possa realizzare il doppio beneficio della sottrazione del reddito all'imposizione e del rimborso delle ritenute operate sullo stesso. Essa (come si osservato nella sentenza sopra citata) pone una regola assoluta poich non prevede eccezioni specifiche n consente, neppure in via implicita, la individuazione di ipotesi o di criteri che possano legittimarne la non applicazione. D'altronde, che la precisa indicazione nella dichiarazione dei redditi delle somme percepite a titolo di indennit di fine rapporto costituisca il presupposto /;:j I necessario per la riliquidazione ed il rimborso dell'IRPEF corrisposta dal m ~:: contribuente in base al sistema previgente (basato sull'applicazione di un'aliquota ~; media) trova conferma nella disposizione dell'art. 4, 5 comma della legge n. 482/1985, con la quale, mediante il richiamo all'art. 42-bis del decreto del Il Presidente della Repubblica n. 602/1973, si inteso subordinare la procedura di ~~] riliquidazione della imposta all'esame della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente anche con riferimento alla percezione dell'indennit di fine rapporto (o di buonuscita). I .. I J ,,.~llllMJlllJ.Jf...IJllaf..,4'11 PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 515 La decisione impugnata non si attenuta agli indicati principi nell'affermare l'irrilevanza, ai fini del rimborso delle ritenute operate su tale indennit, della mancata precisa indicazione nella dichiarazione del contribuente delle somme ricevute a tale titolo. Il ricorso va, pertanto, accolto per quanto di ragione. Conseguono la cassazione della decisione impugnata e, ai sensi dell'art. 384 codice procedura civile (nel testo novellato dalla legge n. 353/1990), la decisione della causa nel merito nel senso del rigetto della domanda di rimborso del contribuente di cui al ricorso alla commissione tributaria di primo grado di Roma (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, Sez. Un., 8 luglio 1998 n. 6625 -Pres. Sgroi -Est. Finocchiaro -P.M. Morozzo della Rofca (conf.) -Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia) c. Soc. I.P. Tributi in genere -Contenzioso tributario -Tributi soppressi con la riforma del 1973 -Imposta di ricchezza mobile -Rimborsi -Giurisdizione delle commissioni. (Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, art. 1, 16 e 43). Tributi in genere -Contenzioso tributario -Rimborsi -Diritto al rimborso gi accertato con sentenza -Giurisdizione delle commissioni per la condanna. (Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636 art. 16 e 20). I tributi soppressi con la riforma del 19 73 che erano soggetti alla giurisdizione delle abolite commissioni distrettuali e provinciali (nella specie imposta di ricchezza mobile) appartengono alla giurisdizione delle commissioni istituite con il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636 (1). Anche in presenza di una decisione definitiva del giudice tributario che abbia dichiarato l'illegittimit della liquidazione operata dall'ufficio annullando il ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso deve rivolgersi prima all'ufficio e successivamente, in caso di rifiuto, alla commissione tributaria, senza che ci costituisca violazione del principio ne bis in idem. In nessun caso proponibile l'azione di indebito innanzi all 'A. G. O. (2). (1-2) La sentenza, con ampia riconsiderazione di esatti principi del processo tributario, fissa due importanti corollari. Il primo, ormai di rara attualit, riguarda la giurisdizione per i tributi soppressi gi di competenza delle soppresse commissioni; il secondo, di viva attualit, chiude la strada ad un ennesimo tentativo di considerare il rimborso dell'imposta come un'azione di indebito ordinario da proporre innanzi all' A. G.O. senza l'osservanza dei modi e dei termini del processo tributario; ma sul punto la giurisprudenza fermissima. La sentenza, pur senza dirlo, esclude che il giudicato che accerta l'illegittimit della pretesa alla imposta possa consentire un giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo. 516 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . (omissis). Il ricorso, nella parte in cui contesta la giurisdizione dell 'A.G. O., per sussistere la giurisdizione delle commissioni tributarie, fondato sulla base delle considerazioni che seguono. Nel vigore del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, che ha regolato compiutamente il sistema del contenzioso tributario, la tutela giurisdizionale dei diritti del contribuente si esplica esclusivamente davanti alle commissioni tributarie, mediante la proposizione di ricorsi contro specifici atti (di accertamento o d'imposizione) dell'amministrazione finanziaria ovvero di ricorsi contro il rigetto di istanze tendenti ad ottenere la ripetizione di somme indebitamente pagate. Detta tutela giurisdizionale (davanti alle commissioni) vale pure per l'imposta di ricchezza mobile, ancorch questa -in quanto abolita, a decorrere dall' 1 gennaio 1974, dall'art. 82, lett. a), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597 (istitutivo dell'imposta sul reddito delle persone fisiche) -non sia compresa nell'elencazione (contenuta nell'art. 1 del citato decreto del Presidente della Repubblica del 1972 n. 636) delle imposte le cui controversie sono devolute alle commissioni tributarie, giacch la configurazione di una diversa giurisdizione per le controversie concernenti le imposte soppresse sarebbe in contrasto con l'intento del legislatore di razionalizzare e rendere pi efficiente il contenzioso tributario, sia perch l'art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 si riferisce a tutte le controversie concernenti tributi soppressi quale appunto l'imposta di ricchezza mobile (Cass. 11 febbraio 1987 n. 1465 e 1466; Cass. 19 febbraio 1983 n. 1295, 1296 e 1297; Cass. 11aprile1981 n. 2118), con esclusione di ogni azione o accertamento (negativo o positivo) del debito d'imposta, sia innanzi alle commissioni tributarie che innanzi al giudice ordinario (nello stesso senso, fra le tante, Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 25 maggio 1993 n. 5841, in tema di IRPEF). Tale principio comporta che in presenza di una decisione definitiva del giudice tributario che abbia dichiarato -come nella specie -l'illegittimit della liquidazione operata dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e la relativa iscrizione a ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme pagate sulla base della illegittima iscrizione deve rivolgersi prima all'Ufficio e, successivamente, in caso di rifiuto dello stesso, deve adire la commissione tributaria ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, senza che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non doverosit della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981, poich occorre avere riguardo al momento in cui stato attivato il procedimento di rimborso, pacificamente successivo alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica da ultimo citato (Cass. 17 dicembre 1996 n. 11277, in motivazione). N le precedenti conclusioni comportano una violazione del principio del ne bis in idem, dal momento che la cognizione della commissione tributaria limitata alle ragioni addotte a sostegno del rifiuto del rimborso, mentre un eventuale riesame della vicenda conclusasi con il precedente giudicato costituirebbe un vizio di merito della nuova pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice tributario. f: I ili @ IIIi' 516 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO . (omissis). Il ricorso, nella parte in cui contesta la giurisdizione dell 'A.G. O., per sussistere la giurisdizione delle commissioni tributarie, fondato sulla base delle considerazioni che seguono. Nel vigore del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, che ha regolato compiutamente il sistema del contenzioso tributario, la tutela giurisdizionale dei diritti del contribuente si esplica esclusivamente davanti alle commissioni tributarie, mediante la proposizione di ricorsi contro specifici atti (di accertamento o d'imposizione) dell'amministrazione finanziaria ovvero di ricorsi contro il rigetto di istanze tendenti ad ottenere la ripetizione di somme indebitamente pagate. Detta tutela giurisdizionale (davanti alle commissioni) vale pure per l'imposta di ricchezza mobile, ancorch questa -in quanto abolita, a decorrere dall' 1 gennaio 1974, dall'art. 82, lett. a), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597 (istitutivo dell'imposta sul reddito delle persone fisiche) -non sia compresa nell'elencazione (contenuta nell'art. 1 del citato decreto del Presidente della Repubblica del 1972 n. 636) delle imposte le cui controversie sono devolute alle commissioni tributarie, giacch la configurazione di una diversa giurisdizione per le controversie concernenti le imposte soppresse sarebbe in contrasto con l'intento del legislatore di razionalizzare e rendere pi efficiente il contenzioso tributario, sia perch l'art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 si riferisce a tutte le controversie concernenti tributi soppressi quale appunto l'imposta di ricchezza mobile (Cass. 11 febbraio 1987 n. 1465 e 1466; Cass. 19 febbraio 1983 n. 1295, 1296 e 1297; Cass. 11aprile1981 n. 2118), con esclusione di ogni azione o accertamento (negativo o positivo) del debito d'imposta, sia innanzi alle commissioni tributarie che innanzi al giudice ordinario (nello stesso senso, fra le tante, Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 25 maggio 1993 n. 5841, in tema di IRPEF). Tale principio comporta che in presenza di una decisione definitiva del giudice tributario che abbia dichiarato -come nella specie -l'illegittimit della liquidazione operata dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e la relativa iscrizione a ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme pagate sulla base della illegittima iscrizione deve rivolgersi prima all'Ufficio e, successivamente, in caso di rifiuto dello stesso, deve adire la commissione tributaria ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, senza che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non doverosit della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981, poich occorre avere riguardo al momento in cui stato attivato il procedimento di rimborso, pacificamente successivo alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica da ultimo citato (Cass. 17 dicembre 1996 n. 11277, in motivazione). N le precedenti conclusioni comportano una violazione del principio del ne bis in idem, dal momento che la cognizione della commissione tributaria limitata alle ragioni addotte a sostegno del rifiuto del rimborso, mentre un eventuale riesame della vicenda conclusasi con il precedente giudicato costituirebbe un vizio di merito della nuova pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice tributario. f: I ili @ IIIi' f: PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA A ci bisogna poi aggiungere che la giurisdizione delle commissioni tributarie sulla domanda di rimborso di imposte pagate in funzione dell'oggetto della domanda e prescinde dalle ragioni per il quale lo stesso richiesto, con la conseguenza che anche nell'ipotesi in cui il rimborso trovi la sua giustificazione in una pronuncia definitiva del giudice tributario che abbia accertato l'illegittimit dell'atto di accertamento e, quindi, implicitamente, la non doverosit delle somme versate a titolo d'imposta, la domanda di rimborso -a seguito di rifiuto dell'amministrazione -investe pur sempre un credito tributario ed devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972. In altre parole, cio, in presenza di una pronuncia con la quale stata accertata l'illegittimit della pretesa dell'Ufficio, la domanda con la quale il contribuente richiede il rimborso delle somme pagate sulla base di un titolo annullato non vale a trasformare il contribuente stesso in creditore di una prestazione pecuniaria, dal momento che la pretesa di rimborso avanzata da quest'ultimo investe un credito tributario. La tutela giurisdizionale del contribuente, relativamente ai tributi di cui all'art. 1 decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 636, affidata in via esclusiva alla giurisdizione delle commissioni tributarie, sia con riferimento all'esistenza ed all'entit dell'obbligazione tributaria, sia con riguardo alle ipotesi di rifiuto, da parte dell'amministrazione finanziaria, di rimborsare le somme riscosse anche in totale carenza di potere impositivo. Tale giurisdizione, che riguarda non solo le cause di accertamento, ma anche quelle di condanna, rimane ferma anche nel caso in cui il rapporto sia gi stato sottoposto all'esame delle commissioni tributarie, qualora e nei limiti in cui un nuovo processo sia ancora possibile in quanto abbia ad oggetto una domanda in precedenza non proposta (Cass. 23 novembre 1995 n. 12108) e senza comunque che l'impossibilit del nuovo processo incida sulla giurisdizione delle commissioni, alle quali sole devoluto il potere di compiere il relativo accertamento. N le precedenti conclusioni sono superate dagli argomenti e dai rilievi contenuti nella memoria ex art. 378 codice procedura civile e nelle note di udienza della societ contribuente, la quale, in contrasto con le tesi dell'amministrazione finanziaria e con le conclusioni del Procuratore Generale, ha invocato: a) il giudicato di annullamento della cartella esattoriale, che aveva generato l'obbligo dell'integrale rimborso delle imposte portate dalla cartella; b) il contenuto delle sentenze Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 e Cass. 30 luglio 1996 n. 6902, per le quali la giurisdizione delle commissioni tributarie riguarda tutte le questioni attinenti alla esistenza ed all'entit delle obbligazioni tributarie, con la conseguenza che, a seguito dell'integrale annullamento della iscrizione a ruolo e di radicale accertamento dell'insussistenza della pretesa impositiva, non vi spazio per la valutazione di alcuna questione di carattere tributario; e) le sentenze Cass. 10 febbraio 1977 nn. 605, 606, 607 e 608, che individuano nel giudice ordinario l'unico competente a provvedere sulla restituzione di somme corrisposte sulla base di atti annullati dalle commissioni tributarie; RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 518 d) la sentenza Cass. 4 luglio 1991 n. 731 (rectius: 7331 ), che fa rientrare nella giurisdizione dell 'A. G. O la controversia inerente alla vicenda estintiva del credito, per il quale sia stato disposto dall'amministrazione finanziaria il rimborso; e) Cass. 8 febbraio 1995, n. 1443, per la quale, quando la legge determina in modo tassativo i presupposti e le modalit del debito d'imposta, la posizione del contribuente di diritto soggettivo e perci la cognizione delle controversie appartiene al giudice ordinario; f) la giurisprudenza che fa salva la giurisdizione dell' A.G.O., anche in materia di pubblico impiego, quando il debito retributivo del dipendente sia incontestato nell'an, nel quantum e nella sua esigibilit (Cass. 3797/1987; Cass. 4311/1987; Cass. 5774/1989). , infatti, sufficiente osservare in proposito: ad a) che dal giudicato sull'annullamento dell'iscrizione a ruolo e sul conseguente obbligo di restituzione non in alcun modo deducibile la giurisdizione dell'A.G.O.; a b) che Cass. 9 marzo 1993 n. 2802 afferma chiaramente la competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie in tema di rifiuto di rimborso di somme riscosse, mentre Cass. 30 luglio 1996 n. 6902 dichiara la competenza del tribunale, ai sensi dell'art. 9 codice procedura civile, in relazione a tributo non devoluto alle commissioni tributarie; a e) che le sentenze Cass. 10 febbraio 1977 nn. 605, 606, 607 e 608, sono state emesse in un momento in cui, sulla base del testo originario dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica del 1972, non era espressamente enunciata la regola -introdotta poi con la sostituzione operata dall'art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981 -circa la giurisdizione delle commissioni tributarie sul provvedimento che respinge l'istanza di rimborso, con la conseguenza che le suddette decisioni non possono essere invocate in una situazione normativa radicalmente mutata ed applicabile alla fattispecie in esame; a d) che Cass. 4 luglio 1991 n. 7331 riguarda una fattispecie completamente diversa da quella in esame dal momento che -a tacere d'altro -la pronuncia stata emessa in prese~adi una situazione in cui l'amministrazione finanziaria aveva disposto il rimborso di' una imposta pagata e la controversia, devoluta all' A.G.O., riguardava l'illegittima riscossione di vaglia cambiari della Banca d'Italia, emessi per adempiere obbligazioni pecuniarie dello Stato e inviati, tramite il servizio postale, al contribuente, in relazione alla quale queste S.U. hanno escluso l'esistenza di un momento essenziale di collegamento con la giurisdizione delle commissioni tributarie; momento di collegamento che invece ravvisabile quando, come nella specie, il rimborso viene ad essere negato; ad e) che Cass. 8 febbraio 1995 n. 1443 -la quale, peraltro, non ha fatto diretta applicazione del principio richiamato dalla ricorrente in relazione alla controversia sottopostale, limitandosi a richiamare quanto affermato da Cass. 18 dicembre 1990 n. 12001 -non applicabile alla controversia in esame, in quanto tale principio stato enunciato in tema di riparto di giurisdizione fra giudice PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA ordinario e giudice amministrativo in una fattispecie concernente controversia in materia doganale non devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie ( cfr. Cons. St., ad. gen. 6 febbraio 1992 n. 21 ); per tacere poi del rilievo che la giurisdizione di queste ultime -in relazione ai tributi per i quali riconosciuta giurisdizione esclusiva e, quindi, su diritti soggettivi; ad./) che la giurisprudenza ivi richiamata -a prescindere dalla sua dubbia applicabilit alla fattispecie - stata superata dal pi recente, ma ormai costante, indirizzo di queste S.U. per il quale in tema di pubblico impiego, in nessun modo il riconoscimento, da parte della P.A., del debito, per quanto efficace e concernente l'intero importo della somma richiesta, incide sulla giurisdizione spettante al giudice amministrativo, dal momento che tale riconoscimento non comporta la novazione del rapporto, ma la mera inversione dell'onere della prova (Cass. 21 febbraio 1997 n. 1616; Cass. 11 luglio 1997 n. 6324). Concludendo, si deve quindi ritenere che in presenza di una decisione definitiva del giudice tributario che abbia dichiarato l'illegittimit della liquidazione operata dall'Ufficio, annullando integralmente la cartella esattoriale e la relativa iscrizione a ruolo, la parte che voglia ottenere il rimborso delle somme pagate sulla base della illegittima iscrizione -e relative a tributi rientranti nella giurisdizione delle commissioni tributarie -deve rivolgersi prima all'Ufficio e, successivamente, in caso di rifiuto o di silenzio dello stesso sull'istanza, deve adire la commissione tributaria ai sensi dell'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972, senza che rilevi la circostanza che la lite tributaria tendente ad accertare la non doverosit della somma pretesa sia iniziata prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 739 del 1981, poich occorre avere riguardo al momento in cui stato attivato il procedimento di rimborso, mentre un eventuale riesame della vicenda conclusasi con il precedente giudicato costituisce un vizio di merito della nuova pronuncia e non ragione incidente sulla giurisdizione del giudice tributario (omissis). CORTE DlCASSAZIONE, sez. I, 18 agosto 1998 n. 8128 -Pres. Senofonte -Est. Papa -P.M Carnevali (conf.) -Polito c. Ministero delle Finanze (avv. Stato Lancia). Tributi erariali diretti -Imposta sul reddito delle persone fisiche -Redditi di lavoro dipendente -Trattamento di fine rapporto -Polizza I.N.A. Pagamento del capitale da parte dell'istituto assicuratore - soggetto alla ritenuta di acconto -Parte eccedente la misura legale del trattamento Quota corrispondente ai premi a carico del dipendente. (Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 597, art. 12 lett. e), 13, 14, 46 e 48; decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 601, art. 34;.legge 26 settembre 1985 n. 482, art. 6). I contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro allo scopo di provvedere alla erogazione di un capitale al lavoratore dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro costituiscono attuazione del!' obbligo di RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 520 assicurare ai dipendenti il trattamento di fine rapporto; conseguentemente il capitale erogato, nei limiti dell'obbligo di legge, costituisce reddito soggetto a tassazione separata sul quale va eseguita la ritenuta di acconto. La parte del capitale eccedente sui limiti legali del trattamento di fine rapporto ha funzione di risparmio e pertanto esente dalla imposta a norma dell'art. 34 del decreto del Presidente della Repubblica n. 60111973 fino all'entrata in vigore della l~l ' , . -: legge 26 settembre 1985 n. 482 ed soggetto alla ritenuta dello 0,50% sotto il vigore di quest'ultima legge a norma dell'art. 6. In ogni caso dal capitale erogato va scomputata la quota corrispondente ai premi rimasti a carico del dipendente (1). (omissis). Col primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 12 lett. e) e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973 in relazione all'art. 360 n. 3 codice procedura civile. Sostiene, con riguardo alla polizza collettiva in esame, non essersi in presenza di un contratto di assicurazione volto a garantire il pagamento dell'indennit di fine rapporto -come risulta da una circolare esplicativa del 1946 della Banca ai dipendenti-, ma di una vera e propria Polizza vita, in cui la B.N.A. comunicava l'avvenuta stipula della convenzione con l'I.N.A. e ne illustrava i vantaggi rispetto all'iscrizione dei dipendenti al fondo istituito con il regio decreto-legge 8 gennaio 1942 n. 5. Di qui la natura privatistica della polizza, da qualificarsi come contratto a favore di terzo ex artt. 1411 segg. codice civile (Cons. Stato 80411987; Cass. 2570 e 3127/1983, e Cass., Sez. Un. 8182/1993), con la conseguenza che la causa del negozio va individuata in quella tipica del contratto di assicurazione sulla vita e cio nell'obbligo dell'assicuratore di pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana dietro pagamento di un premio, laddove alla stregua di un motivo (irrilevante) deve essere considerata l'opzione esercitata dalla B.N.A., sulla base dell'alternativa fornita dal legislatore del 1942, di stipulare un contratto di assicurazione anzich eseguire i versamenti al Fondo per l'indennit agli impiegati. Da tale impostazione fa derivare la non imponibilit delle somme provenienti dalla liquidazione della polizza, le quali non costituiscono trattamento di fine rapporto, ma rappresentano il risultato economico di una polizza di assicurazione sulla vita venuta a scadenza (come tale comprendente una serie di prestazioni tipicamente assicurative, di cui quella del pagamento di un capitale e di un rendimento soltanto una delle prestazioni possibili). Richiama, infatti, l'allegato Calla legge 121611961, non abrogata n dall'art. 82 decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973 n dall'art. 42 decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973, che aveva dichiarato esenti da ogni imposta proprio i contratti di assicurazione delle indennit dovute agli impiegati privati di cui agli artt. 4 e 5 regio decreto-legge 511942 cit. (1) La maggior parte dei dubbi erano gi stati chiariti con la sent. 17 gennaio 1998 n. 365, in questa Rassegna 1998, I, 169; la sentenza ora intervenuta precisa il regime a cui soggetta nei vari periodi la parte del capitale che supera la misura del trattamento legale. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA Denunzia poi, col secondo motivo, insufficiente e contraddittoria motivazione ai sensi dell'art. 360 codice procedura civile. Con riferimento alla premessa, secondo cui, essendo la cessazione dal servizio intervenuta il 31 dicembre 1984, tutte le somme erogate per effetto della liquidazione della polizza l.N.A. erano esenti da imposta ai sensi dell'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973, si duole che la Commissione Tributaria Centrale abbia invece limitato l'esenzione a quella relativa al rendimento di polizza, ribadendo l'unicit del rapporto assicurativo e rilevando che, di tale operazione (soltanto parzialmente esatta), nessuna ragione sia stata fornita nella decisione impugnata. La controricorrente Amministrazione finanziaria contesta tali deduzioni, contrapponendovi la prospettazione su cui fonda il proprio ricorso incidentale. Con quest'ultimo, attraverso unico complesso motivo, denunzia infatti, a sua volta, violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973, 1-6 legge 482/1985, 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 60111973 e del loro combinato disposto, nonch collegata motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia. Osserva che, secondo la costante giurisprudenza di legittimit (al qual proposito richiama Cass. 492/1966, 2570 e 3127/1983, 8182/1993), l'accensione di polizza ex art. 4 regio decreto-legge 4/1942 costituisce un sistema per assicurare al lavoratore un'indennit di buonuscita, un trattamento di fine rapporto almeno pari al minimo legale, talch le somme che il lavoratore percepisce per effetto della polizza stessa hanno carattere retributivo, di trattamento di fine rapporto. Da ci deriva che ogni somma che il lavoratore percepisce per effetto della polizza ha carattere retributivo, di trattamento di fine rapporto. Anche il cd. rendimento di polizza. Con riferimento a quest'ultimo (richiamando Cass. 11718/1991 ), sottolinea infatti che, in linea di principio, il rendimento di polizza non spetterebbe al lavoratore, e, se gli viene attribuito, perch il datore vi rinunzia per assicurare al dipendente un pi consistente trattamento di fine rapporto. Ne trae la conclusione che anche il rendimento di polizza dev'essere assoggettato ad imposizione come TFR, alla stregua degli artt. 12 e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973, nella lezione orginaria ovvero in quella vigente dopo la legge 482/1985, onde l'erroneit non soltanto dell'impostazione avversaria, ma, soprattutto dell'affermazione contenuta nella decisione impugnata, secondo cui il rendimento di polizza medesimo andrebbe disciplinato secondo l'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973 -con conseguente esenzione -ed, in ordine successivo, alla stregua dell'art. 6 legge 482 cit. -con sottoposizione a ritenuta pari al 12,50% -. Nel replicare con controricorso, il Polito ripropone la propria impostazione, e, traendo spunto anche dalle precedenti fasi processuali, conclude per l'infondatezza, comunque, della posizione avversaria, con riguardo alla disciplina del rendimento di polizza. I ricorsi, previa riunione ai sensi dell'art. 335 codice procedura civile, vanno rigettati. La questione da esaminare riguarda il regime tributario del trattamento spettante ai dipendenti della Banca Nazionale dell'Agricoltura, a favore dei quali, in sostituzione del versamento al Fondo per l'indennit agli impiegati (costituito con RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 522 regio decreto-legge 8 gennaio 1942 n. 5, convertito con modifiche nella legge 2 ottobre 1942, n. 1251) degli accantonamenti necessari per la corresponsione -agli impiegati stessi e, in caso di morte, agli aventi diritto -dell'indennit prevista per la risoluzione del rapporto d'impiego (di cui al regio decreto-legge 13 novembre 1924 n. 1825), l'Istituto datore di lavoro stipul con l'I.N.A., il 31 marzo 1942, una polizza collettiva di assicurazione, con la previsione di polizze supplementari in corrispondenza di eventuali futuri aumenti di stipendio, nonch, il 18 marzo 1946, una convenzione aggiuntiva, con la quale rinunzi al computo degli interessi -o rendimenti -dovuti a suo favore sui premi versati, stabilendo che gli stessi venissero aggiunti al capitale assicurato, a favore dei dipendenti medesimi. Il trattamento, sostitutivo del versamento al Fondo ai sensi dell'art. 4 regio decreto-legge 5/1942 cit., dur fin quando la legge 29 maggio 1982 n. 297 introdusse, per l'indennit di fine rapporto, un diverso ed unificato sistema di accantonamenti presso il datore di lavoro. quindi accaduto che, all'atto della cessazione del rapporto, avendo la B.N.A. corrisposto, previo computo delle poste dovute dall'I.N.A. in corrispondenza delle singole polizze, le somme ulteriormente spettanti ai dipendenti per TFR, si posto il problema del regime tributario delle somme da ciascuno riscosse dall'I.N.A. e delle connesse ripercussioni sulle imposte complessivamente dovute. Le tesi contrapposte, nelle formulazioni pi radicali, sono: a) quella dell'Amministrazione finanziaria, secondo la quale tali somme, essendo tutte ricollegabili ad una forma sostitutiva di trattamento di fine rapporto, vanno assoggettate alla tassazione separata, espressamente stabilita dagli artt. 12 lett. e) e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597/1973, con le modifiche, ratione temporis, di cui alla legge 26 settembre 1985 n. 482; b) quella dei contribuenti, della esenzione totale prevista, per i capitali percepiti in dipendenza dei contratti di assicurazione sulla vita, dall'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973, ultimo comma, aggiunto dall'art. 15 della legge 13 aprile 1977 n. 114, ovvero del trattamento fiscale (ritenuta del 12,50%) successivamente introdotto dall'art. 6, legge 482/1985 cit. Il dibattito risulta, poi, complicato dalla considerazione che, nelle somme liquidate dall' I.N .A., possono distinguersi una posta (cd. capitale), rappresentata dai premi versati dal datore di lavoro in corrispondenza dell'ammontare dell'indennit di anzianit via via maturata dal dipendente, ed un ammontare ulteriore (cd. rendimento), costituente il risultato dell'operazione assicurativa propriamente detta, implicante un'eccedenza rispetto ai premi medesimi, ed, in effetti, rispetto a quanto attribuito al dipendente in forza di legge. La problematica ulteriore, risolta dalla giurisprudenza della Commissione Tributaria Centrale nei sensi affermati con la decisione impugnata, ha risentito, nelle prospettazioni delle parti, delle sopra ricordate impostazioni contrapposte. In ordine al complessivo sistema della forma sostitutiva di previdenza della quale si tratta, la giurisprudenza ha posto l'accento sulla duplicit di rapporti -fra impiegato e datore di lavoro, da un lato, e datore di lavoro ed istituto assicuratore, dall'altro -, nell'ambito di un contratto assicurativo a struttura privatistica, ma j inserito nel pi ampio sistema previdenziale pubblico, con caratteristiche di assicurazione sociale e obbligatoria su base mutualistica (Cass. 48/1986), volto a garantire ai terzi beneficiari un diritto proprio a conseguire i risultati dell'assicurazione stipulata in loro favore (Cass. 492/1966). La diversa natura del PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA rischio assicurato non consente tuttavia di ravvisare -al di l della forma rivestita -un tipico contratto di assicurazione sulla vita, cos come, per la diversa natura della causa, non rende possibile l'identificazione con un contratto di capitalizzazione (Cass. 67 /1979), onde si fatto ricorso agli schemi del contratto a favore di terzo (per tutte, Cass. 3127 /1983), strettamente collegato ad un rapporto di lavoro subordinato (Cass. 3986/1989), ovvero del contratto di assicurazione per conto di chi spetta (Cass. 1172611997) sostitutiva d~gli obblighi previdenziali, che comportano tra l'altro l'assoggettamento dei premi all'incremento delle retribuzioni (Cass. 8182/1993), permanendo l'attribuzione del rendimento a favore del datore di lavoro, che poteva rinunciarvi (con riferimento al rapporto riguardante la B.N.A., Cass. 531211988). Vero che, ai fini proposti, non tanto utile riferirsi ai meccanismi peculiari degli strumenti giuridici utilizzati, quanto appare necessario riguardare il risultato delle operazioni giuridiche complessivamente disciplinate, allo specifico fine di stabilire, nei rapporti fra dipendenti ed amministrazione finanziaria, se -ed, in caso affermativo, entro quali eventuali limiti -da quelle operazioni sia derivato un reddito tassabile. In tale prospettiva, deve osservarsi che il sistema introdotto dal regio decreto-legge 5/1942 prevedeva, a carico del datore di lavoro, la sola obbligazione legale, a struttura semplice, di versare gli accantonamenti prescritti al Fondo per l'indennit agli impiegati; la stipulazione dei contratti di assicurazione prevista dall'art. 4 non si presenta quindi come oggetto di obbligazione autonoma, ma, limitandosi ad escludere il datore stesso dall'unica obbligazione a suo carico, induce a qualificare questa stessa come facoltativa o con facolt alternativa; in conseguenza di ci, era appunto consentito al datore di lavoro di liberarsi attraverso la stipulazione dei contratti in questione (Cass. 3349 e 5030/1977, 3781/1985, 3901 e 9121/1987, 3986/1989 cit.). Ci consente di stabilire un preciso collegamento fra trattamento di fine rapporto e contratti di assicurazione in esame, portando ad affermare che il diritto dei lavoratori all'adempimento di quelle obbligazioni altro non che il diritto alla indennit di fine rapporto cos come dalle parti disciplinato (Cass. 6511/1990). In definitiva, sulla causa negoziale (assicurativa), deve prevalere la natura (reddituale) dell'erogazione derivante dai rapporti in questione, onde il capitale corrispondente ai premi versati dal datore in adempimento della gi richiamata obbligazione legale -costituisce reddito derivante dalla cessazione di un rapporto di lavoro dipendente, sussumibile nella formulazione dell'art. 12 lett. e) decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973. Lo stesso non pu esser fatto rientrare invece nella previsione d'esenzione per i contratti di assicurazione sulla vita (art. 15 legge 11411977 cit. in relaz. all'art. 34 decreto del Presidente della Repubblica n. 601/1973 cit.), poich la ragione del beneficio invocato va individuata nella finalit di agevolare il risparmio che si concreti nella libera stipulazione di tale forma di previdenza, e, nel caso in esame, si di fronte all'adempimento di un'obbligazione legale, anche se attuato nella speciale forma assicurativa per la quale stato consentito di optare. Sotto il profilo ermeneutico, la soluzione riceve significativa -anche se non necessaria -conferma dalla tab. all. C alla legge 29 ottobre 1961 n. 1216 (richiamata dall'art. 13, ult. comma) che gli ex-dipendenti della B.N.A. solitamente RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 524 citano come argomento favorevole alla loro tesi. Difatti, ferma restando la limitazione dell'esenzione alle imposte sulle assicurazioni, risulta esplicito e puntuale il riferimento, sotto l'art. 1 Odella tariffa, ai contratti di cui agli artt. 4 e 5 regio decreto-legge 5/1942 conv. in legge 1251/1942, con beneficio per la parte di premio afferente alle prestazioni di legge; mentre l'art. 34 cit. si riferisce, in maniera del tutto generica, alle altre agevolazioni, e l'ultimo comma aggiunto attiene ai capitali percepiti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita, senza specificazioni, che pur sarebbe stato lecito attendersi da un legislatore che avesse voluto mandare esenti da ogni imposta sul reddito le retribuzioni di fine rapporto di un numero certamente rilevante di lavoratori subordinati. Si deve pertanto concludere che le somme liquidate a titolo di capitale sono soggette, per la loro natura di TFR, alle ritenute IRPEF, ai sensi degli artt. 12 e 14 decreto del Presidente della Repubblica n. 597 /1973 cit. e, in ordine successivo, degli artt. 2 e 4 legge 482/1985. A diversa soluzione si perviene per il cd. rendimento di polizza, vale a dire per le somme, eccedenti la misura versata in corrispondenza degli accantonamenti obbligatori, che provengono dalla liquidazione del contratto, e traggono origine dalla forma (contratto di assicurazione sulla vita) prescelta dal datore per attuare gli accantonamenti medesimi. Queste ultime, essendo al di fuori dell'obbligazione legale pi sopra menzionata, adempiono proprio ad una funzione di risparmio, rientrante nella disponibilit I privata (tanto pi in quanto competevano in origine al datore di lavoro, salvo I rinunzia), con la conseguenza che: a) sono esenti da imposizione, rientrando nell'espressa previsione del cit. art. 34 ult. comma decreto del Presidente della < ' I Repubblica 601/1973, se attuate prima dell'entrata in vigore della legge 482/1985; I I ~' b) sotto il vigore di quest'ultima, sono assoggettate a ritenuta del 12,50%, ai sensi dell'art. 6 (cfr. altres Circ. Min. Fin. n. 14/8/128 del 17 giugno 1987) (omissis). CORTE DI CASSAZIONE, sez. I, 27 agosto 1998, n. 8522 -Pres. Senofonte -Est. Marziale -P.M Palmieri (conci. conf.) -Min. Finanze (avv. Stato Braguglia) c. Soc. Agenzia Marittima Italo Scandinava ed altri (avv. Picone, Conte, Giacomini) e Soc. Rovere. Cassa appello Genova 7 dicembre 1995. Concessioni governative (tassa sulle) -Tassa sulle societ -Azione di rimborso -Competenza territoriale. Concessioni governative (tassa sulle) -Tassa sulle societ -Termine triennale di decadenza dell'azione di rimborso -Decorrenza. Nei giudizi diretti al rimborso della tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle societ nel registro delle imprese non si applica l'art. 8 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, a norma del quale la decisione delle controversie giudiziali riguardanti le tasse e sovrattasse spetta in prima istanza, quando sia parte l'amministrazione dello Stato, al tribunale civile del luogo dove risiede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto trovasi l'ufficio che ha liquidato la PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 525 tassa o la sovrattassa controversa; ai sensi dell'art. 25 codice procedura civile, dunque competente il Tribunale del luogo ove hanno sede gli uffici della tesoreria provinciale che deve provvedere al rimborso del! 'imposta, in quanto luogo di adempimento dell'obbligazione dedotta in giudizio. Il termine di decadenza triennale, previsto dal!' art. 13, 2 comma del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 641, della domanda di rimborso della tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle societ nel registro delle imprese decorre dal momento del pagamento, sebbene -a tale data -la direttiva comunitaria 17 luglio 1969, n. 691335 (con cui la tassa in contrasto) non fosse stata ancora correttamente trasposta nell'ordinamento interno (1). (omissis). 1. -Con atto notificato il 26 giugno 1992 l'Agenzia Marittima Italo Scandinava s.p.a. e le altre societ indicate in epigrafe convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Genova, l'Amministrazione finanziaria e ne chiedevano, ciascuna per la sua parte, la condanna al rimborso, con interessi e rivalutazione monetaria, delle somme corrisposte per il pagamento della tassa di concessione governativa relativa all'iscrizione annuale nel registro delle imprese negli anni 1988, 1989 e 1990, 1991 e 1992, deducendo che il tributo si fondava su disposizioni contrastanti con la direttiva CEE 17 luglio 1969, n. 335 e che dovevano quindi essere disapplicate. L'Amministrazione finanziaria si opponeva all'accoglimento della domanda, eccependo, in via preliminare, l'incompetenza territoriale del Tribunale adito e la decadenza delle societ attrici dal diritto di ottenere il rimborso di quanto versato ai sensi dell'art. 13, 2 comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641. Assumeva comunque che il tributo rientrava nei diritti di carattere remunerativo, la cui previsione non incorreva in alcun divieto comunitario. (1) Brevi osservazioni in materia di rimborso della tassa sulle societ: dalla decadenza triennale all'art. 11 della legge n. 448/1998 collegata alla legge finanziaria. 1. Con 'la sentenza che si annota risulta confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di rimborso della tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle societ nel registro delle imprese (nota come tassa sulle societ). ben noto che -sebbene la tassa in questione sia stata soppressa dall'art. 3, comma 138, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, con effetto dal 1 gennaio 1998 -essa ha continuato a dar vita ad una miriade di vertenze, intraprese per la ripetizione dell'indebito a seguito della declaratoria di illegittimit comunitaria della misura fiscale e, oggi, proseguite dall'amministrazione nel tentativo di vedere affermato il pi favorevole ius superveniens, costituito dalla normativa introdotta dalla recente legge collegata alla finanziaria 1999 (art. 11 della legge 28 dicembre 1998, n. 448) 2. Nel caso di specie, l'amministrazione finanziaria aveva impugnato una sentenza della Corte d'Appello di Genova, articolando tre motivi di ricorso. Si era censurata la sentenza della Corte territoriale: a) per aver ritenuto territorialmente competente il Tribunale di Genova, anzich quello di Roma, ignorando che ai sensi dell'art. 8 regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, il luogo in cui si trova l'ufficio che ha liquidato la tassa o sovrattassa controversa, che nel caso di specie ai sensi dell'art. 2 decreto ministeriale 12 dicembre 1972, si identificava nell'ufficio del registro per le tasse sulle concessioni governative di Roma, il criterio di collegamento per determinare il giudice competente per territorio; b) per aver accolto la domanda di rimborso senza tenere conto f f RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO. 526 Il Tribunale, con sentenza del 13 gennaio 1994, accoglieva la domanda limitatamente alle annualit relative a quella di iscrizione annuale, condannando l'Amministrazione finanziaria al pagamento delle somme relative in favore delle ~i societ attrici (L. 35.500.000 in favore della Agenzia Marittima italo scandinava I;:~;.. s.p.a., L. 11.500.000, in favore della University Cars s.r.l., L. 10.000.000 in favore : della Intercom s.r.l., L. 3.000.000 in favore della Airone s.r.l., L. 3.000.000 in favore della I.C.F., L. 10.000.000 in favore della Hotel Astor s.r.l., L. 3.000.000 in favore della Sovere s.r.l., L. 11.000.000 in favore della Ecotrade s.r.l., L. 66.000.000 in favore della Cremonesi s.p.a., L. 35.500.000 in favore della Commerciale Acciai s.p.a., L. 35.500.000 in favore della Sernav s.p.a., L. 10.000.000 in favore della Sea's Chimica s.r.l.), con gli interessi legali dalla notificazione della domanda al saldo. L'appello dell'Amministrazione finanziaria veniva respinto dalla Corte territoriale. 1.1. -L'Amministrazione finanziaria chiede la cassazione di tale decisione con tre motivi, illustrati con memoria. Le societ intimate resistono con controricorso illustrato con memoria, ad eccezione della s.r.l. Sovere in liquidazione. Motivi della decisione 2. -Con i primi due motivi del ricorso principale l'Amministrazione ricorrente censura la sentenza impugnata: a) per aver ritenuto territorialmente competente il Tribunale di Genova, anzich quello di Roma, senza considerare che, ai sensi dell'art. 8 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, la competenza per territorio va individuata in delle indicazioni date dalla Corte di giustizia Cee, con la sentenza 20 aprile 1993, che consentirebbero di inquadrare la tassa annuale nei diritti di carattere remunerativo come tale compatibile con gli artt. 10 e 12 della direttiva comunitaria 69/335; e) per aver escluso l'appHcabilit del termine triennale di decadenza stabilito dal 2 comma dell'art. 13 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 64111972. La Cassazione, allinenandosi ad un consolidato indirizzo ermeneutico ha ritenuto infondate le prime due censure, accogliendo parzialmente il ricorso, in relazione alla doglianza formulata con il terzo motivo. 3. Quanto alla prima questione, la Suprema Corte esprime il principio di diritto per cui in materia di rimborso di tasse per l'iscrizione nel registro delle imprese -la competenza territoriale del giudice si determina applicando il criterio di collegamento previsto dall'art. 25 del codice di ritO, non quello previsto in materia di controversie tributarie dall'art. 8 regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, a tenore del quale occorre aver riguardo all'ufficio che ha liquidato la tassa o sovrattassa controversa. La competenza per territorio spetter quindi alforum solutionis che in base alla giurisprudenza della Corte di cassazione il Tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio della tesoreria provinciale. Su tale soluzione concordano sia la giurisprudenza della Corte di cassazione, che la giurisprudenza di merito (ex plurimis: Cass. 6 agosto 1998, n. 7701, non pubblicata; 10 giugno 1998, n. 5742, in Foro it., Mass., 643; 12 novembre 1997, n. 11181, id., Rep. 1997, voce Concessioni governative, n. 45; 12 novembre 1997, n. 11179, ibid., n. 46; 18 ottobre 1997, n. 10233, ibid., n. 47; Il ottobre 1997, n. 9897, Giur. imp. 1998, 156, con nota di PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 527 collegamento con il distretto in cui trovasi l'ufficio che ha liquidato la tassa o la sovrattassa controversa e che, nel caso di specie, tale ufficio si identificava, a norma dell'art. 2 del decreto ministeriale 12 dicembre 1972, nell'ufficio del registro per le tasse sulle concessioni governative di Roma; b) per aver accolto la domanda di rimborso, senza considerare che la Corte di Giustizia CEE, con la sentenza 20 aprile 1993 (C 71 e 178/1991), avrebbe dato indicazioni che consentirebbero di considerare la c.d. tassa annuale come diritto di carattere remunerativo, come tale compatibile con gli artt. 10 e 12, n. 1, della direttiva CEE n. 69/335. 2.1. -Sia l'una che l'altra censura sono palesemente infondate. Invero, questa Corte ha gi chiarito, in relazione alla doglianza sub a): -che l'art. 8 del citato regio decreto n. 1611/1933, il quale devolve le controversie tributarie al tribunale del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova l'ufficio che ha liquidato il tributo, pone un criterio di competenza eccezionale, rispetto a quello fissato in via generale dall'art. 25 del codice di rito, la cui applicazione presuppone che il tributo, al quale si riferisce la controversia, sia stato liquidato ed accertato da un ufficio finanziario; -che tale situazione non ricorre nel caso di specie, in quanto l'ammontare del tributo dovuto per l'iscrizione nel registro delle imprese era predeterminato dalla legge; -che la portata dell'art. 2 del decreto ministeriale 12 dicembre 1972 (Gazzetta Ufficiale n. 335 del 28 dicembre 1972)-il quale ha individuato nell'Ufficio del registro per le tasse sulle concessioni governative di Roma quello competente a provvedere alla riscossione, per tutto il territorio dello Stato, delle tasse sulle concessioni governative e delle tasse di pubblico insegnamento e di quelle relative all'istruzione superiore da BERLIRI, Brevi note in ordine alla competenza dell'autorit giudiziaria in tema di rimbm:so della tassa sulle societ). Nello stesso senso, si segnala la sentenza di poco successiva a quella che si pubblica: Cass. 4 settembre 1998, n. 8791, non ancora pubblicata. . Con riferimento alla compatibilit del tributo in questione con il diritto comunitario, la Cassazione ritiene che esso rientri tra i tributi vietati dall'art. 1 Odella direttiva 17 luglio 1969, n. 69/335 concernente le imposte indirette sui capitali e non possa essere configurato tra i diritti di carattere remunerativo esentati dall'art. 12 della stessa direttiva, in conformit alle indicazioni date dalla Corte di Giustizia CE con la notissima sentenza 20 aprile 1993 (cause riunite C-71/91 e C-178/1991, Ponente Carni S.p.A., in Foro it., 1993, IV, 169). Sul punto, la giurisprudenza ormai pacifica: sufficiente ricordare qui la notissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 12 aprile 1996, n. 3458 (in Foro it., 1996, I, 1600; Giur. it. 1997, I, 1, 775 con nota di GOTTA; Dir. e prat. trib. 1997, Il, 829 con nota di GHIGLIONE), in cui stato espresso il principio di diritto per cui la tassa di concessione governativa per il rinnovo annuale dell'iscrizione delle societ nel registro delle imprese non rientra tra i diritti carattere remunerativo di cui all'art. 12 della direttiva comunitaria n. 335/1969 per assenza di qualsiasi nesso con il costo del servizio reso e, pertanto, illegittima per contrasto con il diritto comunitario, con conseguente obbligo di restituzione da parte dell'amministrazione finanziaria. A partire da tale sentenza la giurisprudenza pacifica sia sul carattere di diritto non remunerativo, che sull'incompatibilit del tributo con il diritto comunitario (tra le decisioni pi recenti si ricordano: Cass. 10 giugno 1998, n. 5742, in Foro it., Mass., 643; 6 agosto 1998, n. 7701, cit.; 4 settembre 1998, cit.; 12 novembre 1997, n. 11181, id., Rep. 1997, voce RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 528 corrispondersi a mezzo del servizio dei conti correnti postali - stata ridimensionata dall'art. 1 del decreto ministeriale 14 luglio 1988 (il quale, dopo aver precisato che restava fermo quanto disposto dall'art. 2 del citato decreto ministeriale 12 dicembre 1972, ha stabilito che al recupero anche in via supplementare della tassa di concessione governativa per l'iscrizione nel registro delle imprese avrebbe provveduto l'ufficio del registro nella cui circoscrizione territoriale ha sede il domicilio fiscale dell'impresa) e, in modo ancora pi incisivo, dall'art. 1 del decreto ministeriale 20 gennaio 1992 che ha, a sua volta, disposto che il rimborso di somme non dovute ... versate sui conti correnti postali intestati all'ufficio del registro tasse sulle concessioni governative di Roma .... disposto dalle competenti intendenze di finanza ...; -che pertanto, alla stregu di tali disposizioni (le quali, essendo di natura procedimentale, sono di applicazione immediata, anche rispetto ad obbligazioni sorte prima della loro entrata in vigore), appare evidente che il luogo di adempimento della obbligazione dedotta in giudizio (da identificarsi in quelle in cui hanno sede gli uffici di tesoreria: Cass., S.U., 10 maggio 1974, n. 1329; 20 maggio 1978, n. 2522) coincideva con quello in cui ha sede la Tesoreria provinciale di Genova e che, conseguentemente, in applicazione dei principi dettati dall'art. 25 codice procedura civile, la competenza del Tribunale adito non poteva essere posta in discussione (Cass. 18 giugno 1997, n. 5464; 18 ottobre 1997, n. 10233; 12 novembre 1997, n. 11181). E, con riferimento alla doglianza puntualizzata alla lettera b) del precedente paragrafo: -che la somma pretesa per il rinnovo dell'iscrizione annuale nel registro delle imprese priva di qualunque nesso con il costo di tale operazione e non pu essere quindi ricompresa tra i diritti a carattere remunerativo contemplati dall'art. 12 della direttiva CEE n. 335/1969; Concessioni governative, n. 45; 12 novembre 1997, n. 11179, ibid., n. 46; 18 ottobre 1997, n. 10233, ibid., n. 47; 11ottobre1997, n. 9897, Giur. Imp. 1998, 156). Quanto alla terza questione affrontata dalla Corte, relativa all'applicabilit al rimborso delle tasse per le concessioni governative del termine triennale di decadenza decorrente dalla data del pagamento ex art. 13 cpv. del decreto del Presidente della Repubblica n. 641/1972, il discorso al momento in cui la decisione stata resa -si presentava ancora aperto, perch presso la Corte di Giustizia comunitaria risultavano pendenti alcune controversie aventi ad oggetto proprio la compatibilit di tale termine di decadenza con il diritto comunitario. Si pu sin d'ora anticipare che la Corte comunitaria non pervenuta a conclusioni diverse da quelle raggiunte dalla Corte di Cassazione nella sentenza in rassegna, che -in conformit alla soluzione fornita dalla citata decisione delle Sezioni Unite n. 3458/1996 -statuisce che la decadenza stabilita dall'art. 13 del decreto del Presidente della Repubblica n.641/1972 di carattere generale ed quindi applicabile ad ogni ipotesi di pagamento di imposta non dovuto e n il termine triennale pi breve rispetto all'ordinario, n la decorrenza a partire dalla data di pagamento rappresentano disposizioni contrarie al diritto comunitario. Secondo il ragionamento svolto dalla Corte di Cassazione l'applicabilit del termine triennale di decadenza dipende dal fatto che, in materia di rimborso di tasse sulle concessioni governative, le relative domande sono sempre state soggette ad un regime di preclusione, per cui l'art. 13 cpv. del decreto del Presidente della Repubblica cit. pone una decadenza di carattere generale applicabile ad ogni ipotesi di imposta non dovuta. Si chiarito che il contrasto del diritto interno con la normativa comunitaria produce solo la disapplicazione, ma non anche l'abrogazione, del primo, per cui restano pienamente vigenti le disposizioni interne che regolamentano le modalit per la restituzione, che debba avvenire a qualsiasi titolo. PARTE I, SEZ. V, GIURISPRUDENZA TRIBUTARIA 529 -che tale pagamento ricade pertanto sotto il divieto dell'art. 1 O della stessa direttiva il quale, essendo direttamente applicabile nel nostro ordinamento, rende inapplicabili le disposizioni nazionali (nella specie, art. 3, decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 1985, n. 17) con esso confliggenti (Cass., S.U., 12 aprile 1996, n. 3458, oltre alle sentenze nn. 5464, 10233, 11181/1997, citt.). Di ci, del resto, mostra di essere consapevole la stesa difesa dell'Amministrazione finanziaria, che ha dichiarato di non insistere per l'accoglimento delle censure formulate con i primi due motivi di ricorso. 3. -Ad opposte conclusioni deve giungersi, invece, per il terzo motivo, con il quale l'Amministrazione ricorrente -denunziando violazione dell'art. 13, 2 comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641; dell'art. 12, n. 1, lett. e), direttiva CEE 69/335; nonch degli artt. 2033 e 2946 codice civile -censura la sentenza impugnata per aver escluso l'applicabilit del termine triennale di decadenza stabilito dal 2 comma dell'art. 13 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 641/1972. La societ resistente obbietta che la questione, che attiene all'individuazione del termine per la proposizione dell'azione di rimborso, non assumerebbe rilievo poich le richieste sarebbero state presentate tempestivamente, anche a voler tener conto del pi breve termine stabilito dal citato art. 13. evidente peraltro che tale deduzione, la quale implica un accertamento di fatto, non pu trovare ingresso in questa sede. opportuno ricordare che la soluzione della Suprema Corte non stata pacificamente accolta dalla giurisprudenza di merito. In particolare, Corte d'Appello di Firenze ha di solito rigettato l'eccezione di decadenza osservando che il principio riconosciuto dalle Sezioni Unite, secondo cui il contribuente pu chiedere la restituzione di tasse erroneamente pagate nel termine di decadenza triennale decqrrente dal giorno del pagamento, sebbene corretto sul piano del diritto interno, non lo sarebbe sul piano del diritto comunitario, sulla scorta delle precisazioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia, contenute nella nota sentenza che ha deciso il caso EmmotD> (25 luglio 1991, in causa C-208/1990, Racc. 1991, I, 4292), per cui il termine di decadenza non pu iniziare a decorrere finch la direttiva n. 69/335 non sia stata correttamente trasposta nell'ordinamento nazionale, il che avvenuto soltanto nel 1993. A tale impostazione si replicato che, secondo consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze Rewe e Comet del 16 dicembre 1976, in cause 33/1976 e 45/1976, Racc. 1976, rispettivamente pagg. 1989 e 2043; sent. 9 novembre 1983 in causa 199/82, S. Giorgio, ivi, 1983, 3595; sent. 27 ottobre 1993, in causa C-338/1991, SteenhorstNeerings, ivi, 1993, I, 5475; sent. 6 dicembre 1994 in causa C-410/1992, Johnson, ivi, 1994, I, 5483; sent. 8 febbraio 1996 in causa C-212/1994, F.M.C.), in mancanza di norme comunitarie in materia, appartiene agli ordinamenti interni dei singoli Stati membri disciplinare le modalit procedurali delle azioni giudiziarie a tutela dei diritti attribuiti dalla normativa comunitaria: sempre che tali modalit non siano meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni di diritto interno e sempre che esse non finiscano per rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Al principio generale affermato da tale giurisprudenza non apporta alcuna deroga la sentenza Emmott, n in via generale, n con particolare riguardo alla direttiva n. 69/335/CEE. Sotto il primo profilo va rilevato che la soluzione accolta dalla Corte di giustizia nella sentenza RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 530 Il giudice del merito ha respinto l'eccezione di decadenza sul rilievo che il termine decadenziale stabilito dalla norma in esame sarebbe stato travolto dalla sentenza con la quale stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 12 del I decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 643 nella parte in cui non prevede, nelle controversie in tema di tasse di" concessione governativa, che l'azione I giudiziaria possa essere esperita anche senza preventivo ricorso amministrativo. Ma ~ agevole osservare che le due disposizioni sono autonome e che, pertanto, il venir meno dell'una non pu in.alcun modo condizionare l'applicabilit dell'altra. N potrebbe per altro verso sostenersi che, nel caso in specie, il pagamento del tributo stato eseguito in adempimento di un obbligo di legge e che, pertanto, la domanda di ripetizione proposta dal contribuente non pu essere regolata dall'art. 13 del decreto del Presidente della Repubblica n. 64111972, che riguarda la restituzione delle tasse erroneamente pagate. Invero, la disposizione pone una I decadenza di carattere generale, applicabile ad ogni ipotesi di pagamento di imposta non dovuto, in conformit con l'indirizzo normativo secondo cui le tasse sulle concessioni governative sono sempre state soggette ad un regime di preclusione, in relazione alle domande di rimborso (Cass. S.U. 12 aprile 1996, n. 3455; Cass. 12 I novembre 1997, n. 11181). I 4. -Non potrebbe nemmeno ritenersi che detta norma -vuoi per la durata del I ili termine fissato per la proposizione della domanda di rimborso dei tributi indebitamente versati (pi breve di quello stabilito, in via generale, in tema di ripetizione di indebito), vuoi per il fatto che il momento iniziale della sua decorrenza Emmott stata condizionata dalle particolari circostanze della relativa causa, nella quale veniva in giuoco una direttiva per attuare la quale lo Stato membro doveva compiere un