RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO ANNO LIX – N. 1 GENNAIO-MARZO 2007 COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Glauco Nori. Componenti: Franco Coppi – Giuseppe Guarino Natalino Irti – Eugenio Picozza – Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo – Condirettore: Giacomo Arena. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello – Vittorio Cesaroni – Roberto de Felice – Maurizio Fiorilli Massimo Giannuzzi - Maria Vittoria Lumetti – Antonio Palatiello – Carlo Sica – Mario Antonio Scino. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE NUMERO: Maurizio Borgo - VIncenzo Cardellicchio - Filippo D’Angelo - Gianni De Bellis - Michele Dipace - Chiara Di Seri - Oscar Fiumara - Fabrizio Gallo - Andrea Guazzarotti - Valeria Santocchi. SEGRETERIA DI REDAZIONE: Francesca Pioppi Telefono 066829431 – E-mail: rassegna@avvocaturastato.it La Rassegna è consultabile sul sito: www.avvocaturastato.it ABBONAMENTI ANNO 2007 ITALIA ESTERO ABBONAMENTO ANNUO .............................................................................. € 41,00 € 77,00 UN NUMERO SEPARATO .................................................................................€ 12,00 € 21,00 Prezzi doppi, tripli, quadrupli ecc. per tutti quei fascicoli che, stampati in unico volume, sostituiscono altrettanti numeri della prevista periodicità annuale. Per abbonamenti e acquisti rivolgersi a: AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO Segreteria di Redazione Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Via Roberto Malatesta n. 296 - 00176 Roma I destinatari della rivista sono pregati di comunicare alla Segreteria della redazione eventuali variazioni di indirizzo INDICE – SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Discorso dell’avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – Roma, 26 gennaio 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . .pag. 1 Andrea Guazzarotti, Il rigore della Consulta sulla decretazione d’urgenza: una camicia di forza per la politica? (Corte Cost., sent. 9-23 maggio 2007 n. 171) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . » 4 Vincenzo Cardellicchio, Fabrizio Gallo, La Stazione unica appaltante provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive . . . . . . . . . . . . . » 26 Maurizio Borgo, Sulla competenza in materia di ricongiungimento familiare (Trib. Roma, sez. 1° civ., decreto dep. l’8 maggio 2007) . . . . . . . . . . . . . . » 41 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Maurizio Fiorilli, Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee dell’anno 2006 emesse in cause cui ha partecipato l’Italia. . . . . . . . . . . . » 45 1.-Le decisioni Chiara Di Seri, Le misure cautelari nei confronti di atti legislativi in contrasto con il diritto comunitario (Corte di giustizia CE, ordd.19 dicembre 2006 e 27 febbraio 2007, nella causa C-503/06) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 209 Gianni De Bellis, Il meccanismo dell’IVA italiana al vaglio della Corte di Giustizia (Corte di giustizia CE, sent. 15 marzo 2007 nella causa C-35/05) . . . » 221 Giuseppe Fiengo, Un significativo allargamento dell’in house providing (Corte di giustizia CE, sent. 19 aprile 2007 nella causa C- 295/05) . . . . . . . . . » 254 Valeria Santocchi, L’Italia e le sue seimila discariche abusive (Corte di giustizia CE, sent. 26 aprile 2007 nella causa C-135/05) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 267 Glauco Nori, La cosa giudicata nazionale nel diritto comunitario (Corte di giustizia CE, sent. 18 luglio 2007 nella causa C-119/05) . . . . . . . . . . . . . . . » 289 2.- I giudizi in corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 311 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 341 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Dipace, Responsabilità amministrativa,azione di responsabilità sociale e principio di parità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 389 Filippo D’Angelo, La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza: dall’adunanza plenaria n. 4/2003 alla decisione n. 2822/07 della quinta sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo apre alla Cassazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 412 INDICI SISTEMATICI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 437 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Discorso dell’Avvocato Generale dello Stato Oscar Fiumara in occasione della Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario “Rivolgo a Lei, Signor Presidente della Repubblica, a tutte le Autorità e a tutti i presenti, alla Suprema Corte e all’intera Magistratura, il saluto mio personale e dell’intero corpo degli Avvocati e Procuratori dello Stato. La sua particolare posizione e l’entità del contenzioso che essa tratta legittimano l’Avvocatura dello Stato a far sentire la sua voce nel momento in cui si riferisce sullo stato dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Com’è noto, l’Avvocatura dello Stato rappresenta la Presidenza del Consiglio dei Ministri in tutti i numerosissimi giudizi in via principale e in via incidentale dinanzi alla Corte costituzionale; rappresenta lo Stato nei giudizi innanzi alla Corte di giustizia e al Tribunale di primo grado della C.E. a Lussemburgo in un vasto contenzioso spesso di grande rilievo (ricordo solo la nostra vittoria a Lussemburgo sulla vicenda IRAP, che ha evitato rimborsi insostenibili per le casse dello Stato); e rappresenta tutte le amministrazioni dello Stato e alcuni enti pubblici ad esse complementari dinanzi ai giudici ordinari e amministrativi di ogni ordine e grado. In tal modo essa, con l’organicità e l’esclusività del suo patrocinio, assicura l’unitarietà della difesa dello Stato moderno, nelle sue molteplici articolazioni, in una visione globale e non settoriale degli interessi pubblici in gioco. Il numero degli affari trattati è altissimo. Con un organico estremamente ridotto (oggi solo 350 legali in tutta Italia) entrano oltre 200.000 nuovi affari l’anno (215.000 per l’esattezza nel solo 2006) con una progressione costante di anno in anno, che non tanto ci preoccupa invero per la nostra capacità di assorbimento, quanto appare un ulteriore indice generale di un aumento della conflittualità, frutto non ultimo (in un ovvio circolo vizioso) della lentezza dei processi. Per limitare i dati alla sola sede di Roma, possiamo ricordare che sono stati aperti nei nostri uffici nel 2006 oltre 50.000 nuovi affari, che si aggiungono ad una mole enorme di affari anteriori ancora pendenti (attenzione! molti singoli affari hanno uno sviluppo complesso che si articola in più gradi T E M I I S T I T U Z I O N A L I di giudizio). Riguardo in particolare alla giustizia ordinaria sono state aperte nel 2006 circa 1.000 cause dinanzi ai Giudici di pace, circa 9.000 dinanzi ai Tribunali del distretto romano, circa altrettante dinanzi alla Corte d’appello. Ben 15.000 circa sono le nuove cause in cassazione, in cui lo Stato è ricorrente o resistente (cioè all’incirca la metà dell’intero nuovo carico della Corte Suprema). Per materia la parte del leone, dinanzi alla Suprema Corte, è stata assunta dal contenzioso tributario su ricorsi dello Stato o dei contribuenti contro le decisioni delle Commissioni tributarie. In linea più generale parti notevolissime del contenzioso hanno riguardato il pubblico impiego; la ormai ben nota legge Pinto sulla durata irragionevole dei processi; la posizione degli extracomunitari. Ma l’Avvocatura ha curato cause di grande spessore in tutti i campi del diritto: dagli appalti alle concessioni, dall’urbanistica all’ambiente, dai beni culturali alle varie forme di responsabilità civile, ecc.ecc.. L’Avvocatura dello Stato fa fronte a questa mole di lavoro con dignità e buon successo; e non ci fa velo la constatazione che dobbiamo mettere nel conto fisiologicamente alcune disfunzioni e alcune inevitabili pecche. La percentuale di vittoria nelle cause è di gran lunga superiore a quella delle soccombenze. Ma certamente un migliore servizio l’Avvocatura potrebbe rendere allo Stato, e alla Giustizia in particolare, se essa fosse dotata di risorse umane e materiali più idonee, con spese molto modeste in relazione ai risultati che potrebbero essere raggiunti. Si parla oggi insistentemente della necessità di un recupero di effettività ed efficacia (più sinteticamente, di efficienza) del sistema giustizia. Occorre razionalizzare tale sistema, semplificarlo, modernizzarlo, renderlo più agile e fruttuoso. E l’Avvocatura dello Stato cerca di fare la sua parte, in piena e leale collaborazione con tutte le componenti del pianeta giustizia. L’Avvocatura dello Stato fu tra i primi negli anni settanta a dotarsi di un sistema informatico, allora ancora allo stato embrionale; così come la Corte di cassazione fu la prima in Europa a realizzare la massimazione informatica. Ma finora le procedure informatiche hanno avuto sviluppi importanti ma settoriali, che consentono una consultazione dall’interno e solo parzialmente dall’esterno, mentre è necessario promuovere sistemi integrati che dialoghino fra loro. Così l’Avvocatura dello Stato collabora, nell’ambito della giustizia civile, con il Ministero della Giustizia, per la realizzazione del processo civile telematico secondo il progetto detto di “reingegnerizzazione ed evoluzione degli applicativi del settore civile della giustizia” (con promettenti risultati già raggiunti in alcune sedi come Bari e Bologna); è stata chiamata a collaborare con la Corte di cassazione per la sperimentazione di un sistema automatico di iscrizione a ruolo, di assegnazione e di sviluppo procedurale dell’affare di competenza della Corte; collabora con gli organi della giustizia amministrativa nel progetto, finanziato dal CNIPA – Centro nazionale informatica della P.A., detto Ax A, per l’interscambio di dati sul processo amministrativo; ha avviato in alcune sedi un progetto di smaterializzazione dei fascicoli. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Sono iniziative che possono aiutare. Ma altre misure di razionalizzazione potrebbero essere adottate in via legislativa o in via amministrativa: a) mi riferisco ad una riconsiderazione della effettiva utilità di alcune delle sedi giudiziarie esistenti, essendo evidente il vantaggio derivante da una migliore distribuzione delle risorse umane e materiali, perchè difficile appare attualmente il bilanciamento delle risorse stesse in relazione ai variabili carichi di lavoro per ciascuna sede, talvolta di dimensioni modeste (come è noto le sedi dell’Avvocatura devono coincidere con quelle delle sedi delle Corti d’appello: e guardiamo con apprensione al paventato aumento di esse!); b) ricordo l’opportunità di disciplinare lo strumento della “class action” allo scopo di ridurre i costi processuali e favorire soluzioni rapide ed omogenee, in materie nelle quali proprio l’Avvocatura dello Stato potrebbe avere una parte importante; c) parlo della opportunità di dotare sia le sedi giudiziarie (come si appresta a fare il Ministero della Giustizia) ma anche l’Avvocatura di personale amministrativo non togato di profilo medio-alto (i c.d. “assistenti giudiziari”) che possa svolgere un’attività di supporto e di assistenza specifica al personale togato; d) mi riferisco (perché no?) all’opportunità di rimeditare, con un approccio pragmatico, anche a livello costituzionale, il problema (o il mito?) della obbligatorietà della motivazione; e) mi permetto di segnalare l’opportunità di riconsiderare le misure disposte nell’art. 366 bis c.p.c., che, sia pure dettate nel lodevole intento di scoraggiare ricorsi per cassazione scarsamente meditati e proposti con molta leggerezza, hanno però anche l’effetto perverso di rendere ardui altri pur meritevoli ricorsi avverso decisioni che mal si prestano – per la loro ordinaria struttura (parlo essenzialmente di quelle delle Commissioni tributarie) - al rispetto delle scansioni richieste dalla norma suddetta; f) infine, sempre con riferimento al massiccio contenzioso tributario, rilevo come pronunce delle SS.U.U. quali quella che sembra rendere vincolante il giudicato tributario al di là dello specifico anno di imposta e dello specifico tributo oggetto della causa, producano un effetto moltiplicatore del contenzioso, poiché (pur in assenza di vincolanti ragioni di principio che depongano in tal senso) costringono a proporre tutte le impugnazioni onde evitare preclusioni “a cascata”. Concludo dichiarando e confermando il pieno e costante impegno dell’Avvocatura nei confronti della Pubblica Amministrazione, che ci onoriamo di difendere; nei confronti di cittadini, cui assicuriamo il rispetto della legalità pur nello svolgimento del nostro compito istituzionale; nei confronti della Corte Suprema di Cassazione e dell’intera Magistratura, cui garantiamo la più completa e leale collaborazione. Grazie, Signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti coloro che mi hanno ascoltato”. Corte Suprema di Cassazione – Assemblea generale Roma, 26 gennaio 2007 TEMI ISTITUZIONALI 3 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il rigore della Consulta sulla decretazione d’urgenza: una camicia di forza per la politica? (Corte Costituzionale, sentenza 9-23 maggio 2007, n. 171) di Andrea Guazzarotti (*) SOMMARIO: 1.- La sentenza n. 171 del 2007: l’inizio di un nuovo corso? 2.- Abuso della decretazione d’urgenza e tutela dei diritti. 3.- Sindacato della Corte e sua effettività. 4.- La natura atipica della legge di conversione. 5.- L’argomento “procedurale” della specialità della legge di conversione. 1. La sentenza n. 171 del 2007: l’inizio di un nuovo corso? È la prima volta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 171 del 2007, giunge ad annullare una legge di conversione di un decreto-legge per carenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza. Ad avviso della Corte, la carenza di tali presupposti non solo non può essere sanata dalla legge di conversione, ma si risolve senz’altro in un “vizio in procedendo” di quest’ultima (1). È questa una vera e propria “rottura” compiuta dalla Corte, finora assai restia a praticare un sindacato così incisivo sull’attività del potere politico, in generale, delle Camere, in particolare (2). Sono passati più di dodici anni, infatti, da quando la Corte ha affermato, in astratto, la praticabilità di un simile sindacato (sent. n. 29/1995), senza che esso sia mai stato, in concreto, esercitato nelle pur numerose occasioni presentatesi (*) Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara, Facoltà di Economia. (1) C. cost., sent. n. 171/2007, punto 5 del Considerato in diritto. (2) Sulla sent. n. 171/2007, cfr. i primi commenti di A. CELOTTO, C’è sempre una prima volta… (La Corte costituzionale annulla un decreto-legge per mancanza dei presupposti), in www.giustamm.it (secondo il quale la vera ragione per cui la Corte è giunta solo oggi a un simile passo va ricercata non nella motivazione della sentenza, ma «nel contesto istituzionale in cui la decretazione d’urgenza si è sviluppata», ossia quello di un suo «abuso radicato »); R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto-legge per evidente mancanza di presupposti di necessità e urgenza, in www.associazionedeicostituzionalisti. it , e in corso di pubblicazione su Foro it., 2007, n. 7/8 (che sottolinea la chiarezza della motivazione, specie laddove distingue il controllo spettante alla Corte da quello del Parlamento sui requisiti di necessità e urgenza); A. RUGGERI, Ancora una stretta (seppur non decisiva) ai decreti-legge, suscettibile di ulteriori, ad oggi per vero imprevedibili, implicazioni a più largo raggio, in www.forumcostituzionale.it; R. DICKMANN, Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo, in www.federalismi. it; G. DI COSIMO, Tutto ha un limite (la Corte e il Governo legislatore), in corso di pubblicazione. TEMI ISTITUZIONALI 5 alla Corte (3). Non solo, ma in tale lasso di tempo la Corte non è neppure apparsa convinta della sua stessa “dottrina” rigorista, come la sentenza n. 171 osserva nel prendere le distanze da alcuni precedenti (4). Per la sua portata di rottura e per la sua natura non meramente “monitoria”, dunque, la sentenza n. 171/2007 potrebbe fare il paio con l’illustre precedente della sentenza n. 360/1996, che ha dichiarato l’incostituzionalità (“in astratto” e “in concreto”) della reiterazione dei decreti legge. Oggi come allora, l’effetto che si produce nel lettore è quello di uno spiazzamento. Come per la reiterazione, infatti, il fenomeno censurato (la decretazione d’urgenza in assenza dei presupposti ex art. 77 cost., surrettiziamente usata come “disegno di legge rinforzato ad urgenza garantita”(5)) è talmente diffuso e radicato che il suo contrasto per via giurisprudenziale assomiglia molto a una carica contro i mulini a vento. Tuttavia, mentre per la reiterazione dei decreti legge, lo spiazzamento era appunto dovuto esclusivamente all’inanità dello sforzo assunto dalla Corte contro la degenerazione delle prassi politiche, nel nostro caso esso è dovuto anche alla difficoltà di concepire la legge di conversione quale legge a competenza specializzata o atipica. Difficoltà, del resto, sottolineata dalla dottrina, per così dire, “classica” (6). La tesi della Corte, infatti, sebbene non esplicitata fino in fondo nella sentenza n. 171, conduce a ritenere che il Parlamento non possa adottare, con la legge di conversione, quelle norme già adottate dal decreto-legge in assenza di una (originaria) situazione di necessità e urgenza (7). Norme che, inve- (3) Cfr., tra gli altri, A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, Milano 2000, pp. 47 ss.; A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, Milano 2003, pp. 250, 294 ss. (4) La Corte cita, distaccandosene, le sentt. n. 330/1996, n. 419/2000, 29/2002, nonché, «sotto un particolare profilo», la famosa n. 360/1996. Quest’ultima, come noto, dichiarando l’incostituzionalità della reiterazione dei decreti-legge, ha affermato la sanabilità di tale vizio «quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo»: punto 6 del Considerato in diritto. Paradossalmente, nella sent. n. 171/2007, la Corte cita a suo favore, oltre al leading case n. 29/1995, anche la sent. n. 341/2003, che invece opera una “ecumenica”, quanto ambigua armonizzazione tra i due filoni giurisprudenziali (al punto 4 del Considerato in diritto). Sull’andamento ondivago della giurisprudenza costituzionale, cfr., tra gli altri, A. CELOTTO, La “storia infinita”: ondivaghi e contraddittori orientamenti sul controllo dei presupposti del decreto-legge, in Giur. cost. 2002, 133 ss. (5) A. PREDIERI, Il governo colegislatore, in F. CAZZOLA, A. PREDIERI, G. PRIULLA, Il decreto legge fra governo e parlamento, Milano, 1975, XX. (6) L. PALADIN, Articolo 77, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1977, pp. 66, 84; ID., Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, p. 260; A.A. CERVATI, Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, in Giur. cost. 1977, pp. 880 ss.; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, p. 89. (7) «(L)e disposizioni della legge di conversione in quanto tali (…) non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso» (punto 5 del Considerato in diritto). 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ce, sarebbero adottabili da parte di una qualsiasi altra legge delle Camere (nonché da un qualsiasi decreto legislativo a ciò espressamente delegato) (8). Ma sul punto si avrà modo di tornare. 2. Abuso della decretazione d’urgenza e tutela dei diritti Messo da parte, per il momento, lo spiazzamento di cui sopra, proviamo ad analizzare per gradi la decisione della Corte. In essa viene data una peculiare rilevanza al fatto che, oltre all’alterazione delle regole sulla forma di Governo, l’abuso della decretazione d’urgenza determina un’incidenza negativa anche sotto il profilo della tutela di diritti (9). È questo un “punto di forza” della decisione, posto che la tutela dei diritti è ciò che, già in passato, ha permesso alla Corte di “osare” e di intromettersi nei rapporti tra Governo e Parlamento, quanto all’uso della decretazione d’urgenza e alle sue distorsioni (10). Sempre più complicato, invece, è apparso un intervento unicamente ispirato alla mera esigenza di far rispettare una più netta separazione tra potere Esecutivo e Legislativo, quanto ad esercizio dei poteri di norma- (8) Il paradosso è sottolineato da L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 76. Per la contraria tesi della atipicità, cfr., in particolare, V. ANGIOLINI, Attività legislativa del governo e giustizia costituzionale, in Riv. di dir. cost., 1996, 242 s., che sottolinea la peculiarità della legge di conversione «proprio e solamente per il fatto di presupporre un decreto da convertire», posto che, considerando invece tale legge al pari di ogni altra, si giungerebbe ad affermare l’irrilevanza della incostituzionalità o costituzionalità del decreto (affetto dalla carenza dei requisiti costituzionali ex art. 77 cost.). Ulteriormente diversa è la tesi che configura come atipica la legge di conversione, negando però la sindacabilità dei requisiti di necessità e urgenza del decreto-legge, per la natura necessariamente politica della loro valutazione (G. PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, Padova 1989, pp. 70 ss., 185 ss.). (9) Secondo la Corte, risultando in prima battuta l’art. 77 cost. diretto a porre una regola di riparto «tra organi», «potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l’avallo del Parlamento con la conversione del decreto, non restino margini per ulteriori controlli», tuttavia «non si può trascurare di rilevare che la suddetta disciplina è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso » (punto 5). Il passo è sottolineato da A. RUGGERI, Ancora una stretta (seppur non decisiva) ai decreti-legge…, cit., che parla di affiancamento della prospettiva della «forma di Stato» a quella, più tradizionale, della «forma di Governo». (10) Cfr. la stessa sent. n. 360/1996 (che sottolinea la maggiore gravità delle conseguenze «quando il decreto reiterato venga a incidere nella sfera dei diritti fondamentali o – come nella specie – nella materia penale o sia, comunque, tale da produrre effetti non più reversibili nel caso di una mancata conversione finale»: punto 4). Cfr. A. SIMONCINI, Corte e concezione della forma di governo, in Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. TONDI DELLA MURA, M. CARDUCCI, R.G. RODIO, Torino 2005, p. 254; R. ROMBOLI, Decreto-legge e giurisprudenza della Corte costituzionale, in L’emergenza infinita, a cura di A. Simoncini, Macerata 2006, p. 108. Con riguardo all’incisione sui diritti ad opera dei decreti-legge, isolata resta ancora la rigorosa tesi di L. CARLASSARE, Legge (riserva di), in Enc. giur. 1990, § 2.2; ID., La “riserva di legge” come limite alla decretazione d’urgenza, in Scritti in memoria di L. Paladin, II, Napoli 2004, 429 ss., che esclude la decretazione dalle materie coperte da riserva assoluta di legge. TEMI ISTITUZIONALI 7 zione primaria (11). Se questo è vero, non può allora non rilevarsi l’ambiguità dell’atteggiamento della Corte con riguardo alle vicende da cui la questione di costituzionalità è partita. Vicende di cui brevemente si deve dare conto. La prima ordinanza del giudice a quo (la Cassazione civile), con cui è stata originariamente chiamata a decidere la Corte, riguardava un processo, su azione popolare, mirante alla decadenza del neo-eletto sindaco del comune di Messina. Immediatamente dopo la sua elezione, infatti, detto sindaco aveva subìto la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso, costituente causa di decadenza ai sensi del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000). Pendente in Cassazione il processo su tale decadenza, entrava in vigore il decreto-legge n. 80 del 2004, il cui art. 7, co. 1, lett. a), escludeva proprio che la condanna per il peculato d’uso costituisse causa di incandidabilità e di decadenza dalla carica di sindaco. Stante l’evidente eterogeneità di tale norma rispetto al resto del decreto (12), non v’è bisogno di leggere i dibattiti parlamentari o di ripercorrere cronache giornalistiche dell’epoca per intuire come si sia trattato di un intervento legislativo volto ad incidere sull’esito di un processo in corso (da notare che, in secondo grado, la Corte di appello di Messina aveva dichiarato decaduto il sindaco, il quale aveva proposto ricorso per Cassazione, impedendo così il rinnovo delle elezioni e innescando il commissariamento del comune) (13). La Cassazione, consapevole certo della ritrosia con la quale la Corte ammette un sindacato su leggi generali e astratte sospettate di voler influire sull’esito concreto di uno o più processi, ha preferito attaccare il provvedimento sotto il profilo della palese assenza dei requisiti di necessità e urgenza, anziché sotto quello, appunto, dell’incisione delle attribuzioni giurisdizionali ad opera di leggi “ad personam” (14). È a questo (11) Tra i molti, cfr. A. CELOTTO, La “storia infinita”…, cit., 137; G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit. (12) Contenente misure di finanza locale, tanto che il Preambolo recita: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario». (13) Istruttivo il Resoconto stenografico della seduta al Senato n. 596 del 4 maggio 2004. Cfr. G. D’AMICO, Governo legislatore o Governo giudice? Il decreto-legge n. 80 del 2004 al vaglio della Corte costituzionale, ovvero dell’irresistibile tentazione del legislatore a farsi giudice in causa propria, in Dir. pubbl., 2004, p. 1131, nt. 42. (14) Ma il profilo è presente nell’ordinanza: cfr. G. D’AMICO, op. cit., 1119, cui si rinvia per l’approfondita analisi della prima ordinanza di rinvio. Sulla giurisprudenza costituzionale in materia di leggi sospettate di incidere sull’esito di processi, cfr. sent. n. 374/2000 e, di recente, ord. n. 352/2006. Riassuntivamente, in dottrina, N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna 2006, pp. 59 ss. Sulla maggior severità della Corte di Strasburgo nel giudicare le leggi incidenti sull’esito di processi, cfr. M. MASSA, Le leggi retroattive sfavorevoli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in La responsabilità dello Stato, a cura di F. DAL CANTO, Pisa 2006, 143 ss. 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO punto che ci imbattiamo nel primo, emblematico, intervento della Corte costituzionale: posto che, nel frattempo, il decreto-legge impugnato aveva ottenuto la conversione in legge (l. 140/2004), la Corte, con ordinanza n. 2/2005, restituisce gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza, specificando che «con tale legge sono state apportate modificazioni al testo del decreto e sono state altresì enunciate le ragioni della emanazione della norma censurata». L’ordinanza è emblematica se confrontata, appunto, con la sentenza n. 171 in commento e con gli esiti “arditi” cui essa giunge. Avendo, infatti, la Cassazione, giudice a quo, insistito nel riproporre la questione, stavolta trasferendola sulla legge di conversione, la Corte, da un lato afferma che le modifiche apportate in sede di conversione non concernono la disposizione censurata (15); da un altro lato, non prende più in considerazione il fatto che la legge abbia enunciato le ragioni della norma censurata (16). In altre parole, a voler leggere l’ordinanza prescindendo dalla successiva decisione della Corte, la restituzione degli atti si comprende solo collocandola nella prospettiva di un qualche effetto sanante della legge di conversione (17); la stessa ordinanza, al contrario, se riletta alla luce della successiva decisione n. 171, appare come una manovra puramente dilatoria della Corte, posto che il vizio in procedendo della legge di conversione poteva essere rilevato già in prima battuta. Detto ancora più chiaramente: se la Corte avesse voluto efficace- (15) Punto 5 del Considerato in diritto della sent. n. 171/2007. (16) Cfr. il punto 6 del Considerato in diritto, in cui la Corte imposta la questione come se si trattasse solo di confutare la giustificazione dell’Avvocatura dello Stato, circa l’afferenza della disposizione alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza anziché a quella elettorale, omettendo di dar conto che, in realtà, tale giustificazione è stata data dallo stesso legislatore, il quale, all’atto di convertire il d.l. n. 80/2004, ha espressamente indicato che le modificazioni al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali sono apportate «per chiarire e definire i presupposti e le condizioni rilevanti per il mantenimento delle cariche pubbliche ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica» (inciso interamente inserito ex novo dalla legge di conversione all’art. 7, co. 1, del d.l.). Il confronto con l’ordinanza n. 2/2005 avrebbe dovuto, in realtà, imporre un chiarimento circa i poteri del legislatore di motivare “retroattivamente” – in sede di conversione – i requisiti di necessità e urgenza. Un terreno, come si intuisce, assai scivoloso, che la Corte ha preferito per ora evitare. Sulla motivazione dei presupposti di necessità e urgenza, quale onere gravante sul Governo (ed eventualmente sul Parlamento): L. VENTURA, Motivazione (degli atti costituzionali), in Dig. disc. pubbl., X, Torino 1995, p. 43; A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche dei decreti- legge, in Riv. di dir. cost., 1996, p. 289, nt. 47; G. D’AMICO, Governo legislatore o Governo giudice?..., cit., p. 1129 (che richiama anche l’esigenza del vaglio dei dibattiti parlamentari); A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 46 s. (17) Diversamente R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”…, cit., secondo cui l’ordinanza avrebbe implicitamente negato l’effetto sanante della legge di conversione, altrimenti essa «avrebbe dovuto dichiarare la manifesta inammissibilità della eccezione e non la restituzione degli atti». L’ordinanza, in realtà, sembra assai poco ponderata, visto che invita il giudice a quo a rivalutare la rilevanza della questione, nonostante che la norma impugnata fosse rimasta intatta dopo la conversione. TEMI ISTITUZIONALI 9 mente incidere sull’esito del processo a quo (nonché di tutta la vicenda politico- giuridica ad esso sottesa), gli elementi per valutare la convertibilità o meno del decreto-legge erano già tutti presenti al momento in cui la Corte ha pronunciato l’ordinanza n. 2/2005 di restituzione degli atti. 3. Sindacato della Corte e sua effettività Perché tanto insistere sulla contraddizione della Corte? Perché, se il “punto di forza” della sentenza è quello di qualificare la problematica dell’abuso della decretazione ricorrendo alla tematica della tutela dei diritti e la connessa irreversibilità degli effetti dei decreti legge, appare paradossale che la fatidica sentenza sia stata pronunciata quasi attendendo che l’irreversibile “lesione dei diritti” si compisse nei riguardi del “caso a quo”. L’incostituzionalità del decreto convertito, infatti, viene pronunciata quando (e forse proprio perché) la decadenza del sindaco in questione ha ormai perso qualsiasi rilevanza pratica (18), con esito alquanto deludente per gli elettori e la cittadinanza del comune interessato (19). L’atteggiamento della Corte, dunque, è spia della tendenza a formulare, in tema di controllo sull’esercizio dei poteri normativi del Governo, principi rigorosi cui fa seguito un basso rendimento pratico (20). Già in passato, del resto, si è evidenziato come un simile sindacato della Corte sia minato in radice dall’ineffettività proprio riguardo agli esiti irreversibili che i decreti legge sono in grado di produrre, specie laddove siano in ballo diritti costituzionali (e specie in materia elettorale) (21). Lo scagliarsi della Corte sui “vizi in procedendo” della legge di sanatoria, infatti, «chiude le porte della stalla, dopo che i buoi se ne sono già scappati. Lo scandalo della decretazione (18) Essendo stato eletto, nel frattempo, un nuovo sindaco, tanto che quasi certamente il giudizio a quo si concluderà per cessazione della materia del contendere. (19) Ai quali è stato imposto, dopo la dichiarata decadenza del sindaco e nelle more del processo, un commissariamento di anomala lunghezza (due anni e mezzo). (20) A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 250, 294 ss. (21) Cfr. M. AINIS, Le parole e il tempo della legge, Torino 1996, pp. 200, 204 ss.; F. CAPORILLI, Decreti-legge in materia elettorale e tutela della sovranità popolare: analisi di alcune esperienze recenti, in I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto, a cura di V. COCOZZA e S. STAIANO, Torino 2001, pp. 335 ss.; A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 337 ss. Nota è la vicenda che, nell’ambito dei diritti elettorali, sub specie referendum abrogativo, ha condotto la Corte, proprio invocando l’irreversibilità potenziale degli effetti della decretazione, ad ammettere per la prima volta l’impugnabilità di un atto legislativo (un decreto-legge, appunto) mediante lo strumento del conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato (sent. n. 161/1995). Resta il problema della difficile estensibilità di un simile rimedio (certo il più tempestivo) a soggetti non immediatamente inquadrabili nella nozione di “potere dello Stato” (A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche dei decreti-legge, cit., 286, nt. 43; A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 259; A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 179 ss.; A. CELOTTO, L’«abuso» del decreto-legge, Padova, 1997, 529 ss.). 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO riguarda l’uso arbitrario dei decreti-legge, ben più che la rivalutazione e l’appropriazione di tali provvedimenti da parte delle Camere» (22). Se uno strumento davvero effettivo di controllo sulla decretazione d’urgenza esiste, esso è, paradossalmente, quello previsto dalla Costituzione: la possibilità per le Camere (titolari del potere legislativo) di pronunciarsi immediatamente sul decreto, determinandone la sua decadenza ancor prima che quegli effetti abbiano in qualche modo a stabilizzarsi (23). È da dubitare, tuttavia, che il nuovo corso instaurato dalla Corte possa davvero indurre le Camere a un rigoroso controllo sul decreto-legge e, soprattutto, sulle singole disposizioni di questo, stante l’omogeneità tra Governo e maggioranza politica parlamentare, nonché i vantaggi che le stesse componenti della maggioranza parlamentare possono trarre dalla negoziazione che normalmente avviene in sede di conversione (24). Per non restare, nella maggior parte dei casi, lettera morta, la nuova lettura rigorista della Corte dovrà saldarsi, allora, con un suo atteggiamento assai meno cauto nel sindacare tempestivamente disposizioni introdotte con la decretazione d’urgenza, specie con riguardo alla gestione del proprio calendario (25). Con il che, però, la Corte rischia di portarsi dritta nel “calore politico” di molte vicende sottese alla decretazione d’urgenza (26). Senza considerare che, in molti casi, gli effetti di un (22) L. PALADIN, Atti legislativi del Governo e rapporti fra poteri, in Quad. cost. 1996, pp. 24 s., il quale proseguiva notando che, «(r)ispetto a quegli abusi, (…) le leggi di conversione rappresentano un falso bersaglio; mentre i veri rimedi vanno ricercati a monte (…), mediante un sindacato che riesca a colpire i decreti-legge, malgrado la loro provvisoria vigenza». (23) Cfr. ancora M. AINIS, op. ult. cit., 225 ss., che approfondisce il rimedio della negata conversione immediata da parte anche di una sola Camera, il cui effetto caducatorio, anche su una singola disposizione del decreto-legge, può prodursi a partire dal relativo comunicato in Gazzetta Ufficiale. Il rimedio, come noto, è più che raro nella prassi parlamentare: cfr. A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., p. 66, nt. 131. Ma cfr. ancora L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 93, il quale concludeva la sua analisi rilevando come «(t)utto l’essenziale finisce… per essere rimesso alle libere scelte del Parlamento: dall’accertamento dei presupposti giustificativi dei decreti-legge, all’attivazione delle responsabilità governative, fino alla restaurazione dei provvedimenti non convertiti. Ma forse è proprio questo il risultato ultimo che gli stessi costituenti si proponevano di conseguire». (24) Cfr. la Relazione della Commissione di studio sulla fattibilità delle leggi, pres. Basettoni Arleri, in Pol dir. 1981, 608 s., ed evidenziata da A. CELOTTO, L’«abuso» del decreto-legge, cit., p. 449, nt. 317; R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo, interposizione del Parlamento e sindacato della Corte costituzionale, in Giur. cost. 1988, p. 971, nt. 95. Dal Rapporto 2006 sullo stato della legislazione predisposto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati la percentuale di modifiche apportate ai decreti-legge in sede di conversione risulta pari al 90%. Cfr. G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit. (25) Cfr., tra gli altri, R. TARCHI, op. ult. cit., p. 967. (26) Si pensi, del resto, a quali critiche o attacchi si sarebbe esposta la Corte se avesse adottato la decisione in commento… quando andava adottata, ossia durante la legislatura di centro-destra e durante il “braccio di ferro” tra il decaduto sindaco e la giustizia. Il che spiega, ulteriormente, l’ambiguità dell’ord. n. 2/2005 sopra evidenziata. TEMI ISTITUZIONALI 11 annullamento della legge di conversione potrebbero essere assai più dirompenti e “di sistema” di quanto non sia accaduto con la sentenza n. 171/2007 (27). In alternativa, o piuttosto in aggiunta, tale nuova dottrina dovrà saldarsi con un atteggiamento anch’esso più rigoroso del Capo dello Stato (specie in sede di emanazione del decreto-legge, ma, a questo punto, anche in sede di promulgazione della legge di conversione) (28). Ma ciò, altrettanto e forse più che per la Corte, rischia di portare il Capo dello Stato nel pieno della contesa politica (29). 4. La natura atipica della legge di conversione Vale la pena di tornare, a questo punto, al profilo teorico più delicato accennato in incipit: quello dell’atipicità della legge di conversione. A seguire il ragionamento della Corte, non potrebbe infatti tale legge convertire norme di legge prive di necessità e urgenza: dunque una legge depotenziata dal punto di vista della c.d. forza “attiva”. Ma cosa succederebbe se il Parlamento, consapevole dell’assenza di quei requisiti, condivida comunque l’opportunità politica di introdurre quelle norme? Si dirà che, per fare ciò, le Camere dovranno seguire la strada ordinaria e partire con un’iniziativa legislativa diversa e autonoma da quella del d.d.l. governativo di conversione. Ma se poi il Parlamento inserisse, in tale diverso testo, anche una norma di sanatoria degli effetti del decreto-legge non convertito, ex art. 77, co. 3, cost. (30)? Ovvero, più semplicemente, si limitasse ad attribuire effetti parzial- (27) Si pensi a decisioni che annullino, a distanza di anni, normative strutturali di carattere economico-sociale, in materia pensionistica o di pubblico impiego, tanto per fare un esempio. (28) Cfr., tra gli altri, R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 964; G. PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, cit., pp. 232 ss.; A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche dei decreti-legge, cit., p. 282, nt. 41 e dottrina ivi cit. Noto, quanto isolato, il precedente del rinvio presidenziale del d.d.l. di conversione del d.l. n. 4/2002, in cui si critica l’operato delle Camere volto a introdurre emendamenti estranei all’oggetto della decretazione: cfr. G. D’AMICO, Gli argini della Costituzione ed il “vulcano” della politica. Brevi considerazioni a riguardo del rinvio presidenziale della legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 e del suo “seguito” governativo, in www.forumcostituzionale.it/. (29) Vista anche la difficoltà di eleggere un Capo dello Stato estraneo a una qualche appartenenza politica. (30) L. PALADIN, Articolo 77, cit., pp. 84 s.; 92 s. (secondo cui anche il ricorso ad una sanatoria, da parte del Parlamento, con funzioni di “conversione tardiva”, deve ritenersi ammesso dal 3° comma dell’art. 77 cost.). Parzialmente diverso il discorso fatto da M. RAVERAIRA, Il problema del sindacato di costituzionalità sui presupposti della “necessità ed urgenza” dei decreti-legge, in Giur. cost., 1982, I, p. 1442, che sottolinea la differenza tra «la retroattività automatica della legge di conversione», che può aversi solo in presenza dei requisiti di necessità e urgenza del decreto convertito, e legge di regolamentazione degli effetti del decreto decaduto, che incontrerebbe i «normali limiti alla retroattività previsti dall’ordinamento costituzionale», con speciale riguardo all’art. 3, co. 1, e 25, co. 2, cost. Si è 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mente retroattivi a quelle disposizioni di legge (31)? Non possono dirsi certo isolati, infatti, i casi di retroattività delle leggi e nota è la grande “tolleranza” del sindacato della Corte sul punto. Alcune volte, addirittura, potrebbe essere la stessa ragionevolezza o il divieto di discriminazioni a far propendere per la retroattività di una norma, prescindendo da qualsiasi aspetto di “necessità e urgenza”. Potrà, allora, l’arbitrio o l’errore del Governo “bruciare” tale possibilità del Parlamento di introdurre discipline retroattive? Come si vede, per evitare di essere facilmente eluso, il diktat della Corte dovrebbe procedere verso strade ancora più articolate e impervie di quella intrapresa con la sent. n. 171/2007. E, tuttavia, già in essa troviamo un segnale che contraddice simile scenario. Per la Corte, infatti, il discorso sul sindacato della legge di conversione sembra mutare quando il Parlamento, anziché limitarsi a confermare i contenuti del decreto-legge, aggiunga nuove disposizioni: per queste ultime, a quanto pare, non possono darsi gli stessi limiti costituzionali che gravano sulla mera conversione (32). Ma, così facendo, la Corte conferma la tesi della legge di conversione come legge “sostanziale”, priva di atipicità (33). Tanto che, allora, ci si chiede se non sia più corretto scindere in due, come già da tempo prospettato, la disposizione che converte una norma del decreto: una stuatuizione vale, appunto, specificamente a convertire ed è perciò temporalmente limitata al periodo di vigenparlato, a tal proposito, di «effetti non convalidabili retroattivamente»: A.A. CERVATI, Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, cit., 878, richiamato da R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 977. Questa sembra la tesi condivisa anche dalla Corte costituzionale (specie nella sent. n. 244 del 1997, secondo cui, premesso che la legge di sanatoria si differenzia da quella di conversione, si osserva che, se «resta impregiudicato il potere ulteriore del legislatore di regolare autonomamente situazioni pregresse», ciò va però fatto «nei limiti in cui è ammissibile una legge retroattiva»). Sul punto, cfr. A. SIMONCINI, Le funzioni del decreto-legge, cit., 276 ss. (31) Rigorosa la posizione di chi ammette solo una legge retroattiva che ridisciplina, diversamente, gli oggetti del d.l., negando forme di conversione tardiva mascherata: V. ANGIOLINI, Attività legislativa del Governo e giustizia costituzionale, cit., 244; ID., La “reiterazione” dei decreti-legge. La Corte censura i vizi del Governo e difende la presunta virtù del Parlamento?, in Dir. pubbl., 1997, pp. 115 ss.; A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità…, cit., 140 ss. (32) Per la Corte, infatti, le disposizioni della legge di conversione vanno sindacate assieme a quelle del decreto, «nei limiti… in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in esame stesso» (punto 5 del Considerato in diritto). (33) Una simile contraddizione, del resto, era già rinvenibile tra la sent. n. 29/1995 e la successiva sent. n. 391/1995, in cui la Corte ha espressamente escluso l’estensione del sindacato sulla carenza dei presupposti di necessità e urgenza «alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina “aggiunta” a quella dello stesso decreto». Cfr. la posizione critica di A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Torino 2005, 166 ss., ribadita proprio in riferimento alla sent. n. 171/2007 (ID, Ancora una stretta (seppur non decisiva) ai decreti-legge…, cit.); similmente A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., pp. 123 ss. TEMI ISTITUZIONALI 13 za precaria del decreto; l’altra statuizione vale, al pari degli emendamenti aggiuntivi al decreto, a innovare l’ordinamento per il futuro. Solo la prima statuizione (nella scissione ideale così concepita) può subire il sindacato e l’annullamento per carenza (evidente) dei requisiti di necessità e urgenza, mentre la seconda ne dovrà restare esente, al pari dei contenuti “nuovi” della legge di conversione (34). Anche con questa più raffinata ricostruzione, tuttavia, non si esce dal dilemma della libertà di operato del Parlamento: esso potrebbe volere la disciplina retroattiva per motivi di opportunità politica che prescindono del tutto dall’esistenza della necessità e urgenza all’epoca dell’emanazione del decreto. E il dilemma è superabile solo se si accetta che la retroattività della disciplina del Parlamento (quale tecnica adottata per “coprire” un decreto-legge totalmente o parzialmente privo di necessità e urgenza) vada valutata assai più rigorosamente del solito, da parte della Corte. Del resto, nel caso che ha originato la sentenza n. 171/2007, il rigore della Corte lo si spiega forse proprio alla luce del fatto che la norma del decreto-legge colpita si dirigeva fin troppo scopertamente verso di uno specifico processo in corso, per influire sugli effetti di esso in senso conforme agli interessi politici della maggioranza di governo. Più che una indiscriminata caducazione delle conversioni legislative di decreti manifestamente privi dei requisiti di necessità e urgenza, allora, è lecito interpretare questo nuovo corso della Corte nel senso di una maggiore attenzione alle cause che conducono il Governo, prima, e il Parlamento, poi, ad intervenire legislativamente con le modalità dell’art. 77 cost. 5. L’argomento “procedurale” della specialità della legge di conversione L’impostazione muta solo apparentemente, se si segue l’argomentazione “procedurale” della Corte: quella secondo cui l’atipicità della legge di conversione si fonderebbe anche sul peculiare iter legislativo da essa seguito. Una parte di questo discorso è, a mio avviso, fuorviante, laddove la Corte invoca le speciali procedure previste dai regolamenti parlamentari (citando per esteso l’art. 78, co. 4, del Regolamento del Senato, sul controllo preliminare dell’Assemblea sui requisiti di necessità e urgenza, il cui esito negativo comporta l’arresto dell’iter legislativo) (35). Si tratta di procedure che non trovano riscontro nella Costituzione (36) e che dunque potrebbero essere (34) M. RAVERAIRA, Il problema del sindacato di costituzionalità…, cit., pp. 1465 ss., che sottolinea l’indimostrabilità della diversa natura del potere parlamentare di emendamento e di quello di protrazione degli effetti del decreto-legge (criticando la tesi di F. SORRENTINO, La Corte costituzionale tra decreto-legge e legge di conversione: spunti ricostruttivi, in Dir. soc., 1974, 537). La tesi è adesivamente richiamata da ultimo anche da A. CELOTTO, E. DI BENEDETTO, Art. 77, in Commentario alla Costituzione a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino 2006, 1520 s. (35) Punto 5, in fine, del Considerato in diritto. (36) Cfr. R. DICKMANN, Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo, cit., p. 6. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO liberamente modificate dalle Camere, come infatti è avvenuto, proprio nel senso di depotenziare il controllo specifico sulla presenza dei requisiti di necessità e urgenza (37). Dunque, la sola peculiarità rilevante, ai fini della tesi della specializzazione della fonte “legge di conversione”, è quella immediatamente fondata sulla Costituzione. Come evidenziato dalla Corte, tale peculiarità consiste nel fatto che le Camere devono essere subito convocate per la discussione sul decreto-legge, anche se sciolte. Il che, a sua volta, si connette con il fatto che la conversione, a differenza di qualsiasi altro iter legislativo, non è attivabile a discrezione di ciascuna Camera, ma si origina obbligatoriamente proprio a partire dall’adozione del decreto-legge: «l’immediata efficacia di questo… condiziona… l’attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge» (38). Sembra questo, allora, il motivo per cui, nel pensiero della Corte, l’uso della decretazione quale surrettizio modo di introdurre un disegno di legge “garantito” (che non lascia alternative al Parlamento circa la scelta se iniziare o meno la sua discussione, oltre che alla tempistica della sua approvazione) non potrebbe essere sanato dall’acquiescenza delle Camere. Il paradosso è però quello che, rilevata giustamente la logica “del fatto compiuto”, la Corte trascura come tale logica, in assenza di un controllo preventivo o comunque tempestivo sul decreto-legge, rimane intatta anche dopo la minaccia di un rigoroso sindacato costituzionale sulla legge di conversione. Se sarà l’atipicità della legge a far problema, il Parlamento resterà comunque spinto ad adottare, entro breve termine, un disegno o progetto di legge ordinario che svolga l’omologa funzione della legge di conversione: gli effetti “irreversibili” del decreto-legge, infatti, se vi sono, si producono comunque, anche se un bel giorno arriverà il sindacato della Corte costituzionale a caducare retroattivamente le norme originarie pur dopo la conversione. Più a fondo, la Corte, nella cartesiana contrapposizione tra Governo e Parlamento, trascura di considerare l’estrema difficoltà di imporre al Parlamento, dall’esterno, un maggior rigore nei confronti della decretazione (37) Si tratta della nota soppressione, alla Camera, del controllo attribuito alla Commissione affari costituzionali, sostituito dal parere preventivo del Comitato per la legislazione, avente per oggetto non più la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza, bensì quelli di specificità e omogeneità delle disposizioni del decreto, oltre all’osservanza dei limiti di contenuto previsti dalla legislazione vigente (con speciale riguardo a quelli della l. n. 400/1988, che, ad es., esclude la materia elettorale): cfr. C. NASI, L’art. 96-bis del regolamento della Camera ed il procedimento di conversione di decreti legge, in Rass. Parl., 2/2001, pp. 456 ss., che dà atto dello scarsissimo seguito, nei lavori della Camera, dei rilievi mossi dal Comitato (p. 473). (38) Sent. n. 171/2007, punto 5 del Considerato in diritto. TEMI ISTITUZIONALI 15 d’urgenza (39). Non è, infatti, solo il Governo a trarre vantaggio dal c.d. “abuso” della decretazione d’urgenza. Finché converrà anche alle componenti della maggioranza presenti in Parlamento sfruttare le strettoie procedurali imposte dalla decretazione d’urgenza (stante il potere di negoziazione e, quasi, di ricatto che in tal modo acquistano le singole componenti anche ultra-minoritarie della coalizione (40)), non si vede una realistica possibilità di “moralizzare” l’uso politico delle procedure “eccezionali” legate alla decretazione stessa (41). Conclusivamente: non sembra che con questa “camicia di forza” possano risolversi i problemi della nostra forma di governo, tanto da potersi ipotizzare che, se rimane questo sistema partitico e questo sistema elettorale, la decisione della Corte è destinata forse a creare più problemi – specie per la Corte stessa – che a risolverli (42). (39) Con un’efficace trattazione congiunta di decretazione d’urgenza e delegazione legislativa, si è sottolineato che «la Corte incontra maggiori difficoltà nel sanzionare il Parlamento che non difenda le proprie prerogative piuttosto che il Governo che le usurpi»: G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit. (40) Cfr., tra gli altri, C. NASI, L’art. 96-bis del regolamento della Camera…, cit., pp. 483 s.; G. COLAVITTI, Decretazione d’urgenza e forma di governo, in Dir. soc., 1999, pp. 331 ss. Sulla incostituzionalità degli emendamenti completamente eterogenei rispetto al decreto- legge, che riducono questo a mero “pretesto” per l’approvazione rapida e sicura di un certo pacchetto di norme frutto di negoziazione, cfr. A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., pp. 116 ss. e dottrina ivi cit.; più sfumata la posizione di G. PITRUZZELLA, La legge di conversione del decreto-legge, cit., 195. (41) Già in questi termini L. PALADIN, Articolo 77, cit., p. 76 (pur riferito all’improbabilità di una revisione costituzionale che limitasse i poteri di emendamento della legge di conversione). Sulla convenienza anche per il Parlamento della trasformazione del decretolegge in un disegno di legge “a corsia preferenziale” e ai connessi esiti paradossali di una dichiarazione d’incostituzionalità della legge di conversione, cfr. G. PITRUZZELLA, La straordinaria necessità ed urgenza: una “svolta” della giurisprudenza costituzionale o un modo per fronteggiare situazioni di “emergenza” costituzionale?, in Le Regioni, 1995, p. 1106. Cfr. anche A. CONCARO, Il sindacato di costituzionalità sul decreto-legge, cit., 97 s., che riconduce la sent. 29/1995 proprio alla volontà della Corte di spostare la sua “critica” dal Governo al Parlamento. (42) Cfr. G. PITRUZZELLA, La straordinaria necessità ed urgenza…, cit., 1106, scettico sull’orientamento rigorista della Corte, posto che il rimedio all’abuso dell’art. 77 cost. può passare soltanto per una riforma delle istituzioni e della politica. In senso non dissimile, R. TARCHI, Incompetenza legislativa del Governo…, cit., p. 977; A. PIZZORUSSO, Ai margini della questione della reiterazione di decreti-legge: osservazioni su alcuni problemi procedurali, in Giur. cost. 1996, 3201 (che, al di là dei buoni auspici della sent. n. 29/1995 della Corte, evidenzia come l’art. 77 cost. sia una «soluzione… tecnicamente sbagliata», superabile solo con riforme volte sia a introdurre procedure parlamentari in cui sia «garantita… la gestibilità da parte del Governo», sia a limitare la decretazione d’urgenza a «una funzione puramente derogatoria…, anziché una funzione normativa piena»). Sull’insufficienza della decisione della Corte n. 171/2007 a far cessare l’abuso della decretazione d’urgenza e la necessità di riforme costituzionali capaci di incidere sulle cause del fenomeno, cfr. A. CELOTTO, C’è sempre una prima volta…, cit.; incerto sugli esiti “di sistema” della sentenza 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Corte Costituzionale, sentenza 9 – 23 maggio 2007 n. 171, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a) del decreto-legge 29 marzo 2004 n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto da G. B. ed altri contro R. A. P. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2005, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2005 – Pres. F. Bile – Rel. F. Amirante (avvocati G. Colaiacomo per A. B., C. Matafù per A. N. ed altri; avv. dello Stato G. Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri). «Ritenuto in fatto 1.- La Corte di cassazione, prima sezione civile, con ordinanza del 6 aprile 2005, ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140. Premette il giudice a quo che, con sentenza del 13 dicembre 2002, il ricorrente era stato condannato dalla Corte di appello di Messina alla pena di mesi sei di reclusione ed alla temporanea interdizione dai pubblici uffici, con i benefici di legge, per i delitti di cui agli artt. 81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e che la Corte di cassazione, con sentenza del 5 giugno 2003, aveva rigettato il ricorso proposto dall’imputato avverso detta sentenza di condanna. Nel frattempo, il ricorrente si era candidato alle elezioni del 25–26 maggio 2003 ed il 29 maggio era stato proclamato sindaco del Comune di Messina. Erano state, appare anche R. ROMBOLI, Una sentenza “storica”…, cit.; G. DI COSIMO, Tutto ha un limite…, cit., secondo cui, in questo caso, non basterà una sola sentenza a far mutare di rotta il potere politico, a differenza di quanto avvenuto con la sent. n. 360/1996 per la reiterazione dei decreti-legge. L’insufficienza degli strumenti procedurali che permettono al Governo di influire efficacemente sul procedimento legislativo ordinario è una delle cause che viene addotta per spiegare il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza: cfr., da ultimo, M. CARTABIA, Legislazione e funzione di Governo, in Riv. di dir. cost., 2006, pp. 93 s., dove, tuttavia, si nota che il ricorso ad atti governativi di legislazione avviene anche in ordinamenti che offrono al governo strumenti di controllo parlamentare più potenti, rimandando così anche alle dinamiche della frammentazione partitica (di coalizione o infrapartitica): pp. 88 ss. Interessante, a tal proposito, l’analisi comparata di G. COLAVITTI, Decretazione d’urgenza e forma di governo, cit., pp. 354 ss., in cui si sottolinea come la causa della buona resa del Parlamento tedesco, quanto ad esercizio della funzione legislativa, risieda in primis nella coesione tra la maggioranza parlamentare e l’esecutivo (p. 358). È stato presentato, nella legislatura in corso, un progetto di revisione costituzionale (A.C. 533, su cui cfr. N. ZANON, Riforma costituzionale: adelante con judicio (… e ragionevole pessimismo), in www.federalismi.it, p. 6.), il quale, oltre a fare del decreto-legge una fonte a competenza limitata (alle materie di sicurezza nazionale, pubbliche calamità, norme finanziarie, adempimento di obblighi comunitari e internazionali), costituzionalizza i limiti di specificità, omogeneità e immediata applicazione fissati nella l. n. 400/1988, imponendo, infine, alla legge di conversione il rispetto degli stessi limiti posti al decreto, vietando l’introduzione di «materie nuove». quindi, proposte diverse azioni popolari per ottenere la declaratoria di decadenza dell’eletto dalla carica di sindaco, a seguito della sopravvenuta suddetta sentenza penale irrevocabile di condanna. I relativi ricorsi riuniti erano stati respinti dal Tribunale di Messina, con sentenza del 21 luglio 2003, sull’assunto che le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), non consentissero di affermare che la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso – con irrevocabilità acquisita dopo la nomina a sindaco del candidato – costituisse causa di decadenza dell’eletto e che, per converso, detta decadenza non potesse conseguire alla interdizione dai pubblici uffici, con sospensione della pena. Tale decisione era stata, tuttavia, riformata dalla Corte di appello di Messina che aveva dichiarato la decadenza dalla carica di sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003. Avverso detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione ma, prima dell’udienza di discussione, era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n. 80 del 2004, il cui art. 7, comma 1, lettere a) e b), aveva modificato l’art. 58, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo il numero «314» erano inserite le parole «primo comma») e l’art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo (nel senso che dopo le parole «sentenza di condanna» erano inserite le parole «per uno dei reati previsti dal medesimo comma»). Con il decreto-legge era stato, quindi, escluso che la condanna per il peculato d’uso costituisse causa di incandidabilità alla carica di sindaco e, poi, di decadenza dalla stessa. La Corte di cassazione, con ordinanza del 17 aprile 2004, ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del citato art. 7, per palese insussistenza del requisito del «caso straordinario di necessità e urgenza». Questa Corte, con ordinanza n. 2 del 2005, ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, essendo, medio tempore, intervenuta la legge di conversione n. 140 del 2004 che ha apportato modifiche al testo del decreto-legge ed ha enunciato le ragioni dell’emanazione della norma censurata. La Corte di cassazione ritiene di dover nuovamente sollevare la questione – nell’anzidetta formulazione – assumendo che il denunciato vizio si è trasferito sulla legge che, pur nella manifesta carenza dell’anzidetto requisito, ha ugualmente provveduto alla conversione del decreto-legge. In punto di rilevanza, la Corte remittente, richiamando la propria precedente ordinanza, dopo aver affermato l’applicabilità nella Regione siciliana degli artt. 58 e 59 del D.Lgs. n. 267 del 2000, osserva che il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso per cassazione hanno carattere assorbente nella disamina dell’impugnazione principale e che le suddette disposizioni devono essere applicate per la decisione dei motivi stessi. In particolare, con il secondo motivo si fa questione della latitudine della previsione inabilitante dell’art. 314 cod. pen. contenuta nel menzionato art. 58, comma 1, lettera b), sostenendosi, in antitesi con la decisione della Corte territoriale, che il peculato d’uso non sarebbe da comprendere nella previsione inabilitante del peculato. Con il terzo e quarto motivo, dato per ammesso che la previsione inabilitante includa l’ipotesi del peculato d’uso, si censura l’opzione interpretativa adottata dalla Corte d’appello di Messina, per la quale vi sarebbe perfetta corrispondenza tra previsioni inabilitanti (in termini di ostatività alla carica e di nullità della elezione avvenuta) e previsioni disabilitanti (in termini di decadenza dell’eletto per la sopravvenienza del giudicato ostativo). Da quanto si è detto deriva, ad avviso della Corte remittente, la necessaria e ineludibile applicazione delle norme sopravvenute nel giudizio di cui si tratta, in quanto l’art. 7 del TEMI ISTITUZIONALI 17 d.l. n. 80 del 2004, alla lettera a), modificando l’art. 58, comma 1, lettera b), ha escluso dal novero delle cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso (salva l’ipotesi contemplata dall’art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui la pena irrogata superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla lettera b) – modificando l’art. 59, comma 6, del testo unico nel senso di prevedere esplicitamente che la decadenza dalle cariche elencate al comma 1 dell’art. 58, per effetto di sentenza di condanna definitiva, operi soltanto ove la condanna sia intervenuta «per uno dei reati previsti dal medesimo comma» – ha escluso che la sopravvenuta condanna definitiva a pena non superiore a sei mesi di reclusione per il delitto di peculato d’uso possa valere come causa di decadenza dalla carica. Conseguentemente, per effetto del censurato art. 7 si è escluso che l’indicato tipo di condanna definitiva – corrispondente a quella irrogata nel caso di specie – possa operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come causa di decadenza dalla stessa. Dopo aver negato il carattere di interpretazione autentica delle norme in argomento – posto che in esse non è dato rinvenire né riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche, né la imperativa opzione per una di esse, ma soltanto la volontà (esplicitata in rubrica e nel testo) di modificare le norme previgenti – la Corte remittente osserva che l’applicabilità della censurata normativa al caso di specie come ius superveniens deriva dal fatto che essa incide sul regime dei requisiti legali di mantenimento della carica pubblica elettiva «e quindi sulla sua idoneità a mutarlo con immediata efficacia tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem». A sostegno di tale argomento, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di legittimità circa la sopravvenienza di condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna) all’elezione o nomina alla carica elettiva, secondo cui le nuove disposizioni debbono essere applicate anche ove le situazioni sanzionate si siano verificate prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta. Il principio formulato in tale giurisprudenza appare al remittente del tutto condivisibile ove evidenzia la ragionevolezza dell’immediata applicazione della nuova disciplina, perché riguardante le condizioni di mantenimento della carica: ne consegue che di detto principio deve farsi applicazione anche in riferimento a norme sopravvenute che – al pari di quella di cui si tratta – rimuovono un pregresso giudizio di indegnità, confinando nell’ambito della «irrilevanza giuridica» una condanna penale che, in base alle norme preesistenti, aveva valore di condizione inabilitante. Quanto osservato con riguardo alla disciplina introdotta dal decreto-legge vale, secondo il giudice a quo, anche per il testo risultante dalla legge di conversione, visto che la modifica che ne risulta all’art. 58, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 267 del 2000 è stata riprodotta, mentre la soppressione della modifica dell’art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo è del tutto indifferente rispetto alla fattispecie sub iudice. Ciò posto, al giudice remittente sembra che la norma denunciata difetti in modo evidente del necessario requisito per la sua adozione con decreto-legge – la sussistenza del «caso straordinario di necessità ed urgenza» – e che il vizio di violazione del disposto dell’art. 77, secondo comma, Cost., attinente al decreto n. 80 del 2004, «dovrà coinvolgere – come vizio in procedendo – la stessa legge di conversione che abbia provveduto in difetto del […] requisito » stesso (secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 29 del 1995). Come evidenziato in occasione del precedente incidente di costituzionalità, la carenza del detto requisito risulterebbe, anzitutto, dal fatto che il decreto è stato adottato non per regolare – con lo strumento imposto dall’approssimarsi delle consultazioni elettorali – la materia delle condizioni ostative alle candidature, in un’ottica (insindacabile) di adeguamento delle previsioni normative al mutamento delle condizioni politiche, ma soltanto per 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO escludere dal novero delle cause ostative di cui all’art. 58, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 267 del 2000 l’ipotesi di condanna per peculato d’uso, senza che dal testo del provvedimento sia desumibile la ragione per la quale l’urgenza del provvedere abbia riguardato solo la prescelta ipotesi. Sarebbe, inoltre, indicativo anche il preambolo del decreto, ove si collega esplicitamente l’adozione delle disposizioni urgenti in materia di enti locali «al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario», senza dichiarare nulla con riguardo alla straordinaria necessità ed urgenza di modificare i soli artt. 58, comma 1, lettera b), e 59, comma 6, nel senso di escludere l’ipotesi di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen. dal novero dei delitti di per sé ostativi alla candidatura. Infine, sarebbe altrettanto sintomatico il silenzio del provvedimento con riguardo alla deroga che l’art. 7 del d.l. in esame ha apportato all’art. 15, comma 2, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400, là dove fa divieto al Governo di adottare lo strumento del decretolegge per provvedere nelle materie indicate nell’art. 72, quarto comma, Cost. (tra le quali è compresa la materia elettorale e nelle quali la citata norma costituzionale prescrive la riserva di delibera assembleare). D’altra parte, se il Governo ha, nella specie, ritenuto di far doveroso omaggio all’obbligo di indicare nel preambolo del decreto le circostanze straordinarie di necessità ed urgenza che ne giustificavano l’adozione (art. 15, comma 1, cit.), tacendo poi del tutto sulle circostanze che tale adozione imponevano in una materia nella quale quella stessa legge fa divieto di adottarlo, sarebbe avvalorato in modo evidente «il dubbio che dette circostanze non potevano essere portate ad emersione essendo esse del tutto estranee dall’ambito di legittimo esercizio della potestà normativa del Governo». Il sommario esame del testo e dei lavori preparatori della legge di conversione renderebbero, poi, palese la consapevolezza, da parte del Parlamento, dell’originaria assenza del requisito costituzionale per la decretazione di urgenza, riguardo alla disposizione censurata. Infatti, in primo luogo, non vi sarebbe alcuna coerenza tra la disciplina definitiva adottata in merito alle modifiche apportate agli artt. 59, comma 3, 61, 64, 254, 256 del D.Lgs. n. 267 del 2000 e quella di cui si discute. Inoltre, l’inserimento delle ragioni giustificatrici dell’intervento con l’esplicito riferimento all’ordine e alla sicurezza pubblica attesterebbe non già la consapevolezza dell’esistenza di gravi e indifferibili ragioni di urgenza, quanto piuttosto la scelta di sottrarre il provvedimento al divieto di cui agli artt. 15, comma 2, lettera b), della legge n. 400 del 1988 e 72, quarto comma, Cost. Del resto, nel corso dei lavori preparatori, in diversi interventi è stata denunciata l’assenza del requisito di cui si tratta, sicché è da escludere che la legge di conversione abbia sanato il vizio originario, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 341 del 2003. 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità, ovvero per l’infondatezza della questione. L’Avvocatura sostiene che la disposizione censurata sarebbe volta a superare alcune difficoltà interpretative ed applicative relative all’art. 58 del D.Lgs. n. 267 del 2000, derivanti dalla non perfetta corrispondenza esistente tra le ipotesi delittuose ostative alla candidatura (art. 58) e quelle ostative alla permanenza in carica presso gli organi degli enti locali (art. 59). Tale corrispondenza sussisteva, invece, prima della modifica normativa apportata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi trasfuso negli artt. 58 e 59 del testo unico del 2000. La modifica, pertanto, avrebbe soddisfat- TEMI ISTITUZIONALI 19 to l’esigenza di allineare la previsione sulla ineleggibilità a quella già stabilita, per l’identica fattispecie penale del peculato, dalla norma sulla decadenza dalla carica (art. 59 t.u.), la quale limita la sanzione della decadenza dell’eletto alla sola ipotesi di condanna per il delitto di peculato proprio, previsto nel primo comma dell’art. 314 cod. pen. Così, anche la causa di ineleggibilità collegata alla condanna definitiva per il reato di peculato è stata limitata alla sola ipotesi di peculato proprio, con esclusione, quindi, della condanna per peculato d’uso, di cui all’art. 314, secondo comma, del codice penale. Parimenti la seconda modifica – ora soppressa dalla legge di conversione – si era proposta di eliminare alcune “discrasie” e di rimuovere i dubbi interpretativi suscitati, in materia di decadenza, dalla constatazione che la norma di cui al primo comma dell’art. 59 del testo unico non prevede la sospensione dell’amministratore in caso di condanna non definitiva per uno dei reati previsti dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 58 (quindi anche per il peculato d’uso, in caso di condanna superiore ai sei mesi di reclusione). Dopo avere escluso, anche alla stregua della giurisprudenza costituzionale sul punto, che nel caso di specie possa parlarsi di «evidente mancanza» dei presupposti di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., l’Avvocatura afferma che la motivazione che sorregge il decreto- legge, resa esplicita nella relazione governativa di accompagnamento al disegno di legge di conversione, rende plausibile (o meglio «non manifestamente implausibile») la valutazione governativa posta a base del ricorso alla decretazione d’urgenza. Essa si sarebbe resa necessaria per l’esigenza di approntare un organico intervento normativo volto ad assicurare le indispensabili condizioni di funzionalità a tutti gli enti locali «attraverso la soluzione di alcune significative problematiche emerse ad inizio dell’anno 2004, in parte riconducibili alla ancora non compiuta attuazione della riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione». In tale contesto, sebbene la mancata approvazione del bilancio di previsione costituisse la più evidente manifestazione dei gravi problemi di funzionalità degli enti locali, nondimeno la decretazione d’urgenza in materia tendeva anche a rendere coerenti le norme sulle cause ostative all’assunzione delle cariche elettive presso gli enti stessi con quelle sulla decadenza dalle cariche medesime. Né in senso contrario depongono le aggiunte apportate in sede di conversione al comma 1 dell’art. 7 in oggetto. Con esse, infatti, il legislatore ha solo esplicitato le finalità perseguite dalle disposizioni (escludendone l’attinenza alla materia elettorale e, quindi, all’ambito di applicabilità dell’art. 15, comma 2, lettera b, della legge n. 400 del 1988) e le ragioni di necessità e urgenza che ne hanno imposto l’adozione con decreto-legge. Del resto, gli istituti delle cause ostative alla candidatura e delle cause di decadenza dalle cariche presso gli enti locali, pur essendo connessi alla materia elettorale, in quanto ad essa funzionalmente collegati, restano, nei loro contenuti, distinti da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario. Dagli stessi estratti dei lavori preparatori citati nell’ordinanza di rimessione emerge come già nella sede referente sia stato posto l’accento sull’attinenza delle disposizioni all’ordine e alla sicurezza pubblica e le diverse opinioni manifestate al riguardo dimostrano solo che la questione ha formato oggetto di ampio dibattito, ma non incidono sulla costituzionalità della scelta della decretazione d’urgenza, per la cui adozione non occorre un consenso unanime. 3.- Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite, con diversi atti, alcune delle parti del giudizio principale, formulando richieste analoghe. In particolare, alcuni ricorrenti hanno concluso per l’inammissibilità della questione per irrilevanza o, in subordine, per la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO TEMI ISTITUZIONALI 21 censurata per violazione degli artt. 77, secondo comma, e 72, quarto comma, della Costituzione. L’irrilevanza sarebbe desumibile dalle seguenti considerazioni: a) inapplicabilità della norma impugnata nella Regione siciliana; b) inqualificabilità della stessa come ius superveniens applicabile, in quanto tale, nel caso di specie. Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private aderiscono, nella sostanza, alla prospettazione della Corte remittente, ponendo l’accento sul fatto che la norma in contestazione, oltre ad essere palesemente priva dei requisiti di straordinarietà ed urgenza, incidendo sul diritto di elettorato passivo, è univocamente riconducibile alla materia elettorale, nella quale è da escludere l’utilizzazione di strumenti normativi diversi dalla legge formale e, in particolare, il ricorso al decreto-legge (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 161 del 1995), ai sensi dell’art. 72, quarto comma, della Costituzione. 4.- Alle medesime conclusioni pervengono altri ricorrenti del giudizio principale. Nel relativo atto di costituzione si pone, in particolare, l’accento, quanto all’inammissibilità della questione per irrilevanza, sulla contrarietà della tesi della Corte remittente – favorevole alla applicabilità della disposizione denunciata al caso di specie, quale ius superveniens – rispetto alla teoria del fatto compiuto, la quale, secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, deve governare la verifica dell’applicabilità ai giudizi in corso delle sopravvenute modifiche legislative non aventi efficacia retroattiva. Nella specie, infatti, al momento dell’entrata in vigore del d.l. n. 80 del 2004 la decadenza dalla carica si era già verificata con il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna avvenuto nel giugno 2003, sicché la disposizione impugnata non è sicuramente applicabile, non potendo essa influire su un fatto interamente consumatosi, insieme con i suoi effetti, sotto il vigore della precedente disciplina. Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private considerano esaustive le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e sottolineano che nella disposizione censurata si ravvisa una mancanza dei presupposti dell’urgenza di evidenza tale da refluire sulla intervenuta legge di conversione sotto forma di vizio in procedendo. 5.- Con analoghe motivazioni pervengono alle stesse conclusioni, nei rispettivi atti di costituzione in giudizio, anche altre parti ricorrenti. Considerato in diritto 1.- La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale, dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, recante modifiche all’art. 58, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), per «evidente carenza del caso straordinario di necessità ed urgenza». La disposizione censurata è così formulata: «Al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per chiarire e definire i presupposti e le condizioni rilevanti per il mantenimento delle cariche pubbliche ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 58, comma 1, lettera b), dopo il numero “314” sono inserite le seguenti parole: “primo comma”». La questione viene proposta nel corso di un giudizio di impugnazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di Messina, pronunciando su ricorsi proposti da alcuni cittadini, aveva dichiarato decaduto dalla carica il sindaco di quella città dopo che era divenuta definitiva la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti per il reato previsto dall’art. 314, secondo comma, del codice penale (peculato d’uso). In punto di rilevanza, la Corte di cassazione osserva, anzitutto, che il rinvio alla legge statale operato in materia elettorale dall’art. 36 della legge della Regione siciliana 1° settembre 1993, n. 26 (recte: dall’art. 6 della legge della Regione siciliana 26 agosto 1992, n. 7, come sostituito dal citato art. 36), ha carattere aperto, rendendo quindi applicabile anche a elezione avvenuta, nella suddetta Regione, la disposizione del testo unico il quale, comunque, ha carattere meramente ricognitivo e compilativo. In secondo luogo, la remittente osserva che il principio dell’immediata applicabilità di una nuova disciplina in materia di cause di incandidabilità e di incompatibilità, affermato costantemente dalla giurisprudenza in malam partem, cioè nella ipotesi dell’introduzione di nuove cause determinanti le suindicate conseguenze, deve essere applicato anche in bonam partem, qualora, come nel caso in oggetto, venga soppressa una causa di incandidabilità. Nel merito, la Corte remittente rileva che la disposizione censurata è stata inserita in un decreto che ha ad oggetto materia diversa e, in particolare, aspetti della disciplina di finanza locale e che la valutazione sulla necessità e urgenza di provvedere contenuta nel preambolo del decreto si riferisce a tale disciplina e non anche al comma e all’alinea dell’art. 7 impugnato. La questione era stata già sollevata con riguardo alla disposizione del decreto prima della sua conversione, ma questa Corte, essendo intervenuta in pendenza del giudizio di costituzionalità la legge n. 140 del 2004, con la quale sarebbero state anche esplicitate le ragioni delle modifiche apportate all’art. 58, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 267 del 2000, aveva restituito gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della disposizione e quindi della permanenza degli eventuali profili di illegittimità in precedenza denunciati (ordinanza n. 2 del 2005). Secondo la Corte remittente, tali profili sussistono perché né la modifica introdotta in sede di conversione alla disposizione censurata, né la relazione che accompagna il disegno di legge di conversione danno adeguato conto della ricorrenza della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza. 2.- La questione è ammissibile, essendo non implausibile la motivazione che sorregge in punto di rilevanza il giudizio della remittente. 3.- Nel merito, la questione è fondata. È opinione largamente condivisa che l’assetto delle fonti normative sia uno dei principali elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato alla tutela dei valori e diritti fondamentali. Negli Stati che s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo. A questi principi si conforma la nostra Costituzione laddove stabilisce che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70). In determinate situazioni o per particolari materie, attesi i tempi tecnici che il normale svolgimento della funzione legislativa comporta, o in considerazione della complessità della disciplina di alcuni settori, l’intervento del legislatore può essere, rispettivamente, posticipato oppure attuato attraverso l’istituto della delega al Governo, caratterizzata da limiti oggettivi e temporali e dalla prescrizione di conformità a principi e criteri direttivi indicati nella legge di delegazione. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Lasciando da parte tale ultima ipotesi, che qui non interessa, è significativo che l’art. 77 Cost., al primo comma, stabilisca che «il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria». Tenuto conto del tenore dell’art. 70 Cost., la norma suddetta potrebbe apparire superflua se non le si attribuisse il fine di sottolineare che le disposizioni dei commi successivi – nel prevedere e regolare l’ipotesi che il Governo, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, sotto la sua responsabilità, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono efficacia se non convertiti in legge entro sessanta giorni – hanno carattere derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato centrale. 4.- È sulla base di siffatti presupposti che questa Corte, con giurisprudenza costante dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità. La Corte tuttavia, nell’affermare l’esistenza del suindicato proprio compito, è stata ed è consapevole che il suo esercizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto. L’espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall’altro, però, comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi. Ciò spiega perché questa Corte abbia ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente e perchè sia intervenuta positivamente soltanto una volta in presenza dello specifico fenomeno, divenuto cronico, della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996). 5.- Prima di procedere allo scrutinio in concreto occorre risolvere la questione, logicamente prioritaria, dell’eventuale efficacia sanante della legge di conversione, dal momento che, come si è detto, dopo che era stata rimessa a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del d.l. n. 80 del 2004, il medesimo è stato convertito, con modifiche – non concernenti, però, la disposizione censurata – dalla legge n. 140 del 2004. Sul punto la Corte ha affermato, nella sentenza n. 29 del 1995, il principio secondo cui il difetto dei requisiti del «caso straordinario di necessità e d’urgenza», una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge. Il suddetto principio è stato ribadito con la sentenza n. 341 del 2003, mentre con altre la Corte ha ritenuto di prescindere da tale questione perché era da escludere l’evidente carenza dei suindicati presupposti (sentenze n. 196 del 2004 e n. 178 del 2004). Diverso orientamento è stato invece adottato, senza specifica motivazione sul punto, con le sentenze n. 330 del 1996, n. 419 del 2000 e n. 29 del 2002 e, sotto un particolare profilo, con la sentenza n. 360 del 1996. TEMI ISTITUZIONALI 23 La Corte ritiene di dover ribadire il principio per primo ricordato. Le ragioni che sorreggono siffatto indirizzo sono molteplici. Se, anzitutto, nella disciplina costituzionale che regola l’emanazione di norme primarie (leggi e atti aventi efficacia di legge) viene in primo piano il rapporto tra gli organi – sicché potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l’avallo del Parlamento con la conversione del decreto, non restino margini per ulteriori controlli – non si può trascurare di rilevare che la suddetta disciplina è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso. Affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie. Inoltre, se si ha riguardo al fatto che in una Repubblica parlamentare, quale quella italiana, il Governo deve godere della fiducia delle Camere e si considera che il decreto-legge comporta una sua particolare assunzione di responsabilità, si deve concludere che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali – nei limiti, cioè, in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in esame – non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso. Infatti, l’immediata efficacia di questo, che lo rende idoneo a produrre modificazioni anche irreversibili sia della realtà materiale, sia dell’ordinamento, mentre rende evidente la ragione dell’inciso della norma costituzionale che attribuisce al Governo la responsabilità dell’emanazione del decreto, condiziona nel contempo l’attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge. Del resto, a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l’iter dei disegni di legge proposti dal Governo (art. 96-bis del regolamento della Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato). Il testo di quest’ultimo è così formulato: « Se l’Assemblea si pronunzia per la non sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto. Qualora tale deliberazione riguardi parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono soppresse». 6.- Tutto ciò premesso, occorre verificare, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata, se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere. Sul punto, è opportuno anzitutto rilevare che la determinazione delle cause di incandidabilità e di incompatibilità attiene alla materia elettorale e non alla materia della disciplina degli enti locali (v. sentenze n. 104 del 1973, n. 118 e n. 295 del 1994, n. 161 del 1995, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002). Ora, mentre l’epigrafe del decreto reca l’intestazione «Disposizioni urgenti in materia di enti locali», il preambolo è così testualmente formulato: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la fun- 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario». E, infatti, gli artt. 1, 4, 5 e 6 attengono ai bilanci e in genere alla finanza comunale, l’art. 2 concerne le conseguenze della mancata redazione degli strumenti urbanistici generali e l’art. 3 disciplina le modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali e provinciali. Nulla quindi risulta, né dal preambolo né dal contenuto degli articoli, che abbia attinenza con i requisiti per concorrere alla carica di sindaco. La norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita. A sua volta, la relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 80 del 2004, nella parte relativa all’art. 7, enuncia come ragione della modifica apportata agli artt. 58 e 59 del D.Lgs. n. 267 del 2000 l’eliminazione della discrasia che esisteva tra le cause di sospensione previste dall’art. 58 e quelle di decadenza dalla carica previste dall’art. 59, discrasia che, peraltro, si era verificata fin dal 1999. Questa affermazione giustifica la modifica, ma non rende ragione dell’esistenza della necessità ed urgenza di intervenire sulla norma. L’utilizzazione del decreto-legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per il Governo secondo l’art. 77 Cost. – non può essere sostenuta dall’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta. Oltre alla non riferibilità al contesto normativo dell’eliminazione di una causa di incandidabilità alla carica di sindaco, non si comprende come la medesima attenga all’ordine pubblico e alla sicurezza. Non è, quindi, pertinente, al riguardo, il richiamo – fatto dall’Avvocatura dello Stato con riferimento ai lavori parlamentari – alle sentenze di questa Corte con le quali si affermava l’inerenza all’ordine pubblico e alla sicurezza di una normativa prevedente nuove cause di incandidabilità o di incompatibilità nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata (sentenze n. 118 e n. 295 del 1994, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002, già citate). Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 80 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 2004. Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2007». TEMI ISTITUZIONALI 25 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La Stazione unica appaltante provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive di Vincenzo Cardellicchio(*) e Fabrizio Gallo (**) SOMMARIO:1.- Premessa. 2.- Esperienze pregresse. 3.- Programma Calabria e percorsi attuativi in provincia di Crotone. 4.- Le basi normative. 5.- Gli obiettivi. 6.- La struttura organizzativa. 7.- I risultati del primo semestre di attività. 8.- Prospettive evolutive. 1. Premessa Il 16 luglio scorso, il Presidente dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha presentato al Senato della Repubblica la relazione annuale 2006 sull’attività dell’Istituzione (1). Nell’analizzare l’andamento della domanda e dell’offerta nel mercato dei lavori pubblici, in quella sede, è stata rilevata la tendenza delle Amministrazioni a bandire gare di piccoli importi e quella delle imprese a richiedere, per l’esecuzione dei lavori, classifiche di iscrizione basse. In generale ne emerge un mercato molto frammentato sia sul versante dell’offerta sia su quello della domanda, tale da indurre a considerare che il settore dei lavori pubblici non sia stato sfiorato da quella tendenza all’“aggregazione” che invece ha investito altri importanti settori dell’economia nazionale. A commento dell’analisi effettuata, è stato sottolineato che, se tutte le Amministrazioni pagassero lo stesso prezzo, sarebbe possibile ottenere risparmi nella spesa pubblica per 20 miliardi di euro (2). Proprio partendo dall’esigenza di aggregazione, è stato dato avvio, a gennaio 2007, alla Stazione unica appaltante provinciale di Crotone, al termine di un complesso iter istruttorio. A distanza di sei mesi dall’attivazione, l’esperienza in questione, pur se costantemente monitorata con la diretta vigilanza del Prefetto, ha meritato una doverosa verifica di progetto, per comprenderne pienamente i risultati, le modalità operative e le prospettive evolutive e, soprattutto, ha necessitato (*)Già Prefetto di Crotone, attualmente Direttore centrale delle Risorse Umane del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. (**)Vice Prefetto Aggiunto – Dirigente del Progetto . (1) V. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Relazione annuale 2006, in www.autoritalavoripubblici.it (2) V. Lavori pubblici: con gare corrette 20 miliardi di risparmio, in Guida agli enti locali, p. 9, 28 luglio 2007. TEMI ISTITUZIONALI 27 di una riflessione di carattere giuridico – amministrativo per acquisire piena consapevolezza della collocazione dell’istituto nel complesso panorama sulla razionalizzazione delle stazioni appaltanti. L’Ufficio della Stazione Unica, ideato dalla Prefettura di Crotone nell’ambito del “Programma – Calabria”, ha, fin dalla sua costituzione, attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, rinfocolando un costruttivo dibattito sulle forme organizzative più appropriate per la gestione degli appalti pubblici, più efficiente, sotto il profilo della funzionalità dell’azione amministrativa e più efficace, sotto l’aspetto della prevenzione delle infiltrazioni criminali. L’aperto confronto sull’argomento, nell’ambito del quale sono intervenuti autorevolmente rappresentanti di enti pubblici (3) e di organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori, ha stimolato l’attivazione di esperienze similari nelle altre province calabresi e la stessa Regione Calabria, con la L.R. n. 9/2007, all’art. 2, ha previsto la realizzazione di una Stazione unica appaltante per i contratti pubblici di competenza di quell’Ente (4). L’esperienza crotonese, come tutte le sperimentazioni, avrebbe potuto correre il rischio di non riuscire ad ottenere i risultati sperati. Nel caso di attività innovative, infatti, che tendono a creare nuovi metodi lavorativi, per ciò stesso più impegnativi, anche temporanee cadute di tensione possono dare spazio al manifestarsi di vischiosità che, per moto inerziale, tenderebbero a ricondurre allo status quo ante. L’analisi dei dati fin qui registrati, dettagliatamente di seguito illustrati, consente di esprimere un giudizio positivo sui risultati. Ma vi è di più, la stagione innovativa della Stazione unica appaltante sta generando ulteriori segnali di accelerazione nella direzione della semplificazione, dell’efficienza e della trasparenza. Nella disamina che segue, si partirà dall’analisi delle esperienze pregresse con i relativi approfondimenti de iure condendo in sede di Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, si darà conto del quadro storico – amministrativo in cui l’iniziativa è sorta, si procederà ad un esame delle basi normative per poi giungere all’individuazione degli obiettivi e della struttura organizzativa costituita. Da ultimo, si analizzeranno i risultati del primo semestre di attività e le prospettive evolutive. (3) V. Appalti: direttiva Ministro dell’Interno contro infiltrazioni, in www.anci.it. Il Presidente dell’ANCI, in una nota indirizzata ai sindaci dei Comuni capoluogo del Centro sud ed ai presidenti delle ANCI regionali ha preannunziato la predisposizione di un modello di deliberazione consiliare di approvazione di una convenzione per aderire alla Stazione unica appaltante che i comuni potranno utilizzare qualora ritengano di usufruire dell’iniziativa prospettata dal Ministero dell’Interno. (4) V. VINCENZO FOTI, Appalti: stazione unica anche in Calabria, in Edilizia e territorio, p. 13, 23 giugno 2007. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2. Esperienze pregresse Il dibattito attorno all’opportunità di riorganizzare la struttura delle stazioni appaltanti trae origine, alla metà degli anni ’90, da esperienze legislative della Regione siciliana e trova il suo ambito di maggiore approfondimento nei lavori e nelle relazioni conclusive delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul fenomeno della mafia. La previsione di una stazione unica appaltante appare, per la prima volta, nella legge regionale siciliana n. 10 del 12 gennaio 1993 nella quale si palesava un sistema organizzativo imperniato su strutture decentrate con un organismo di raccordo centrale (5). La normativa in questione, la cui portata, in quegli anni, appariva notevolmente innovativa, non ebbe nessun riscontro attuativo. Fu necessario arrivare ad una nuova legge regionale, la n. 7 del 20 agosto 2002, di recepimento della Legge 109/94 (c.d. Legge Merloni) per giungere ad un’effettiva costituzione del nuovo organismo (6). In quella Legge, si prevede l’istituzione di un Ufficio regionale per l’espletamento di gare per l’appalto dei lavori pubblici (UREGA), che si articola in una sezione centrale e nove sezioni provinciali. La sezione centrale, composta dai presidenti delle sezioni provinciali, svolge l’attività di espletamento delle gare di appalto per le opere di interesse intraprovinciale. Le sezioni provinciali svolgono l’attività per le gare di interesse provinciale. La normativa di attuazione è recata dal Decreto del Presidente della Regione n. 1 del 14 gennaio 2005. Il valore a base d’asta, a partire dal quale si attiva il sistema accentrato, è di € 1.250.000,00; l’Amministrazione appaltante può, comunque, richiedere l’attivazione dell’UREGA anche per importi inferiori alla quota limite. Con legge 29 novembre 2005 n. 16, le competenze dell’Ufficio regionale sono state ampliate con l’affidamento delle procedure in materia di finanza di progetto. Nel complesso normativo regionale, l’Ufficio unico attiva la propria competenza a partire dalla ricezione del bando di gara che, dunque, è interamente predisposto dall’amministrazione appaltante. L’Ufficio, nel caso di riscontrate irregolarità o illegittimità, può rimandare il bando all’amministrazione proponente la quale, può però confermare l’atto impugnato, imponendo all’UREGA di proseguire nelle sue attività. L’UREGA termina la propria azione con la proposta di aggiudicazione che deve essere approvata dall’Amministrazione appaltante. (5) V. Intervista con Giancarlo Ingrao, Presidente UREGA Sezione Messina, in www.ads.it). (6) La Legge regionale in questione fu segnalata quale conseguimento di uno dei principali obiettivi della Giunta regionale pro-tempore (v. comunicato stampa, l’ARS approva il testo della nuova disciplina sui lavori pubblici, del 19 luglio 2002, in www.diritto.it). TEMI ISTITUZIONALI 29 I principi ispiratori dell’istituto si rinvengono nell’esigenza di adottare procedure uniformi e di consentire più efficaci controlli di legalità ma anche di consentire un’accelerazione della spesa (7). Le prime considerazioni sull’esperienza della stazione unica appaltante siciliana, non sembrano, tuttavia favorevoli (8). Dai dati del settembre 2006, risultavano espletate nei primi otto mesi dell’anno, solo 37 gare, a fronte di un numero complessivo di 213 nel 2005. Si è rinvenuta la causa di ciò nella diffidenza degli enti locali verso il nuovo meccanismo (9). Le amministrazioni locali, infatti, cercherebbero di sottrarsi alla gestione regionale riducendo l’importo dei lavori sotto la soglia di € 1.250.000,00, oppure continuando ad appaltare progetti validati prima dell’entrata in vigore delle nuove norme legislative (10). Malgrado ciò, l’esperimento della stazione unica appaltante ha ricevuto l’attenzione teorica costante soprattutto negli ambienti in cui si ragionava dei meccanismi diretti a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici. Tutte le commissioni parlamentari d’inchiesta succedutesi tra la fine del secolo scorso e gli anni recenti si sono occupate della stazione unica appaltante, rilevandone il carattere di efficace strumento di prevenzione. Già nel 1999 (11), in quella sede si sottolineava che l’eliminazione di una miriade di stazioni appaltanti significherebbe cancellare migliaia di contatti che la mafia può detenere. Nel 2000 (12), nel valutare l’impatto della Legge della Regione siciliana n. 10/1993, se ne sottolineava il carattere dirompente che aveva suscitato meccanismi di rigetto. Si rimarcava, in quel contesto, il carattere tecnicamente strategico dell’uso di una sola stazione appaltante per promuovere un’efficace strategia di prevenzione rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa. Il ragionamento sul tema trovò una sua adeguata sistemazione nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare più volte menzionata, presieduta dall’On. Lumia (13), presentata alle Camere il 7 marzo 2000. (7) Ibidem. (8) V. In Sicilia il flop della stazione unica, www.Edilio.it . (9) Ibidem. (10) Una forma diffusa di esperimenti di realizzazione di stazioni appaltanti accentrate di lavori si è realizzata nell’ambito dei progetti integrati territoriali (P.I.T.), finanziati con i Fondi Strutturali Europei. In quei contesti, attraverso lo strumento convenzionale, sono stati costituiti uffici unici di gestione dei progetti cui è stata spesso demandata la funzione di stazione appaltante. (11) Cfr. Resoconto stenografico della 52^ seduta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, martedì 6 luglio 1999, p. 35, in www.parlamento.it . (12) Cfr. Resoconto stenografico della seduta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia del 29 novembre 2000, p. 6 in www.camera.it. 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Nel documento, si richiamava la necessità che nei territori a rischio si sviluppasse una sistematica azione di monitoraggio sugli appalti che, in quel momento, appariva carente. Si delineò, pertanto, l’esigenza, di razionalizzare il sistema delle stazioni appaltanti evitandone la frammentazione e si riteneva che, in questo modo, in primo luogo, si sarebbe potuto eliminare l’inconveniente di affidare un gravoso incombente di carattere amministrativo ad enti locali spesso privi di reali ed efficaci strutture tecniche e burocratiche. Per altro verso, si rimarcava la possibilità di generare opportune sinergie tra tecnici ed investigatori per rafforzare l’azione di prevenzione contro i pericoli di infiltrazioni mafiose. Conclusivamente, si palesava l’esigenza di realizzare, quanto meno a livello provinciale, una stazione unica appaltante articolata in struttura amministrativa ed investigativa. Ancora nel 2002 (14), il Procuratore Distrettuale Antimafia di Palermo illustrava alcuni meccanismi elusivi messi in atto in Sicilia per fruire di procedure di gara con criteri di aggiudicazione diversi dal massimo ribasso ed evidenziava la positività di un’eventuale concentrazione delle procedure di aggiudicazione in un unico centro di appalto. L’argomento è quindi giunto anche all’attenzione delle aule parlamentari (15) attraverso un complesso atto di mozione nel quale si sottolineava la pericolosità della criminalità mafiosa e, nell’indicare un articolato insieme di misure atte a perseguire un quadro di maggiore sicurezza, si chiedeva di promuovere una rivisitazione del sistema degli appalti presenti sul territorio per arrivare alla drastica diminuzione del numero delle stazioni appaltanti fino ad arrivare ad un’unica stazione appaltante per ogni provincia. 3. Programma Calabria e percorsi attuativi in provincia di Crotone La stazione unica appaltante provinciale di Crotone è sorta nell’ambito delle azioni attuative del Programma Calabria. Nell’autunno del 2005, dopo l’omicidio del Vice Presidente del Consiglio regionale della Calabria, On. Fortugno, il Ministro dell’Interno promosse un’ampia ricognizione della situazione della sicurezza pubblica nella regione affidandola all’allora Vice Capo della Polizia e Direttore Centrale della Polizia criminale, Prefetto De Sena. Tale lavoro ha consentito di compiere un’approfondita analisi sullo stato della minaccia criminale e di mettere a punto un complesso piano di inter- (13) V. Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta del fenomeno della mafia, in www.libreriaeditriceurso.com/relazioneantimafia.html. (14) Cfr. Resoconto stenografico della 16^ seduta della Commissione Parlamentare sul fenomeno della mafia del 14 maggio 2002, p. 16 e 17, in www.parlamento.it. (15) V. Mozione n. 000074 presentata dall’On. Lucidi ed altri, in www.legislazione. camera.it. TEMI ISTITUZIONALI 31 venti per potenziare il sistema di sicurezza in Calabria, denominato “Programma Calabria”. L’attuazione del “Programma” è stata successivamente affidata alla stesso Prefetto De Sena, nominato Prefetto di Reggio Calabria e delegato al coordinamento della Conferenza regionale delle Autorità provinciali di Pubblica Sicurezza della Regione Calabria. Il piano attuativo si articola secondo tre linee direttrici. La prima consiste in una serie di misure urgenti per rafforzare il controllo del territorio, mediante l’impiego dei reparti prevenzione crimine della Polizia di Stato e dei reparti operativi dell’Arma dei Carabinieri ed attraverso la ridefinizione della presenza di alcuni presidi di polizia sul territorio. Inoltre, le Prefetture hanno accentuato il loro impegno su due temi cruciali: il monitoraggio e il controllo delle grandi opere pubbliche ed il contrasto alle estorsioni e alle intimidazioni specialmente nei confronti dei pubblici amministratori e degli imprenditori. La seconda linea direttrice del piano è incentrata sulle attività info-investigative, affidate in buona misura anche a strutture interforze. Proprio grazie all’alto grado di collaborazione tra le Forze dell’ordine, e tra queste e i servizi di sicurezza, sono stati colti risultati importanti con la conclusione di numerose operazioni di polizia giudiziaria contro diversi sodalizi della regione. Il terzo ambito riguarda interventi a più lungo termine, basati sul coinvolgimento delle istituzioni locali nei Progetti Integrati Territoriali, ai quali sono destinate risorse finanziarie aggiuntive. In sintesi, le tre linee di azione del piano convergono verso un solo obiettivo di fondo: l’affrancamento delle comunità locali e dei singoli cittadini dalla pressione criminale, attraverso la sottolineatura della continuità dell’azione tesa a rendere efficiente e trasparente il sistema pubblico, in modo da assicurare la “prossimità istituzionale” in un contesto sociale caratterizzato da inerzie e deficienze burocratiche. Nell’ambito del “Programma Calabria”, in provincia di Crotone sono stati definiti dei percorsi attuativi, nati dall’intenzione di combinare le linee guida fondamentali del “Programma Calabria” con le esigenze del territorio. Secondo tale intento, i percorsi attuativi ipotizzati muovevano dalla considerazione, centrale nell’impianto del “Programma”, che l’attività di contrasto alla criminalità dovesse consistere non solo nella repressione ma anche in uno sforzo per adeguare l’efficienza della Pubblica Amministrazione alle esigenze di una realtà complessa. In questa direzione, è stata progettata l’attivazione di tre nuclei operativi in tre settori ritenuti cruciali, i contratti pubblici, l’ambiente e la fruizione di finanziamenti europei, nazionali e regionali. Agli organismi in questione è attribuita la funzione comune di sostenere, sotto il profilo informativo e documentale, gli enti locali della provincia, in particolare quelli di dimensioni più ridotte. Fra i compiti più rilevanti attribuiti al nucleo operativo in materia di contratti pubblici vi era la costituzione di una stazione d’appalto unica. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 4. Le basi normative La Stazione Unica Appaltante Provinciale di Crotone è stata costituita attraverso la stipula di una convenzione, definita ai sensi dell’art. 30 del D.L.vo 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali), tra l’Amministrazione provinciale, tutti i Comuni della provincia, le due Comunità Montane nonché da ulteriori enti strumentali e da società pubbliche. Le basi normative per la realizzazione della struttura sono state rinvenute anzitutto nell’art. 19 della Legge 109/1994 (legge quadro su lavori pubblici), oggi trasfuso nell’art. 33 del D.Lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici), ai sensi del quale le amministrazioni aggiudicatici, sulla base di apposito disciplinare, possono affidare le funzioni di stazione appaltante ai Servizi integrati infrastrutture e trasporti (16) ed alle Amministrazioni provinciali. Prima dell’entrata in vigore della c.d. Legge Merloni, nel nostro ordinamento era prevista la forma della concessione di committenza attraverso la quale il concessionario assumeva tutti gli obblighi e le funzioni dell’Amministrazione, dalla progettazione all’effettuazione delle espropriazioni fino all’espletamento della gara, fruendo di un compenso pari ad una percentuale sull’importo dei lavori (17). La norma della Legge 109/1994 ha successivamente eliminato, per incompatibilità, l’istituto della concessione di committenza prevedendo una limitata possibilità di affidamento delle funzioni di stazione appaltante ai due soli soggetti pubblici prima indicati (18). Più in generale, in materia di acquisizione di forniture e servizi, il sistema delineato dalle leggi finanziarie degli ultimi anni ha prefigurato la costituzione di aggregazioni di enti allo scopo di uniformare e rendere più celeri gli appalti e, da ultimo, il menzionato art. 33 del D.Lgs. 163/2006 ha tipizzato al riguardo, la figura della centrale di committenza. Tale ulteriore istituto è di provenienza schiettamente comunitaria e deriva dall’esperienza compiuta da numerosi paesi europei negli anni novanta, relativa alla creazione di strutture centralizzate volte ad ottimizzare la spesa pubblica in un contesto diffuso di difficoltà di finanza pubblica (19). All’esito di un’ampia indagine su tali esperienze nazionali, il concetto di centrale di committenza ha quindi assunto dignità nel diritto europeo con la direttiva 18/2004/CE del 30 aprile 2004. (16) Oggi provveditorati interregionali alle opere pubbliche. (17) V. DANIELA PETTINATO, Affidamento alle centrali di committenza: appalto o concessione? in www.filodiretto.com. (18) Ibidem. (19) V. ENRICO DI IENNO, La “Centrale di Committenza” nella Direttiva Europea 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio: L’esperienza italiana della CONSIP, in www.ieopa.it : si evidenzia l’esempio similare della centrale di committenza danese (SKI) ma soprattutto l’organizzazione degli acquisti francese (UGAP) che opera fin dal 1968 nel settore di forniture e servizi e l’OGC, struttura inglese attiva nella razionalizzazione delle attività di procurement pubblico. TEMI ISTITUZIONALI 33 I connotati normativi della centrale, ai sensi della direttiva in questione, escludevano qualsiasi possibilità di ingerenza privatistica, qualificando l’istituzione, invece, come amministrazione aggiudicataria. Secondo la raffigurazione normativa, la centrale di committenza può direttamente acquistare forniture e servizi per amministrazioni aggiudicatici oppure aggiudicare appalti pubblici di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatarie. Le ragioni di fondo poste a base della previsione normativa attengono alla razionalizzazione ed al contenimento della spesa, derivanti dalla possibilità di maggiormente coordinare e controllare le dinamiche d’acquisto. Proprio le ragioni sopramenzionate, unitamente a quelle già illustrate nella disamina del dibattito istruttorio in seno alla Commissione parlamentare antimafia, hanno dato luogo all’esperienza, per alcuni versi pionieristica, della Stazione unica appaltante provinciale di Crotone. 5. Gli obiettivi La stazione unica appaltante provinciale è stata promossa, come detto, dalla Prefettura di Crotone, nell’ambito delle linee guida per il miglioramento dell’azione della Pubblica Amministrazione e nasce dalla volontà consensuale degli enti aderenti, non forzati da alcuna norma coattiva. Essa si prefigge due obiettivi principali: 1. la spersonalizzazione dell’attività amministrativa nel settore degli appalti pubblici, in modo da fornire un valido strumento di tutela agli Enti locali contro pressioni e condizionamenti e da ottimizzare, per tale via, l’attività di prevenzione e contrasto di infiltrazioni criminose; 2. il sostegno amministrativo ai piccoli comuni ed all’intero sistema delle autonomie locali, attraverso una strutturata azione di partenariato istituzionale, secondo il principio costituzionale di leale collaborazione. Il perseguimento effettivo dell’obiettivo ha richiesto il compimento di quattro azioni: I – la verifica normativa degli strumenti adottati; II – la semplificazione; III – l’allineamento delle procedure; IV – l’ottimizzazione delle risorse. In fase di prima applicazione, dal 10 gennaio al 31 dicembre 2007, l’Ufficio tratta appalti di lavori con importo a base d’asta superiore ad € 100.00,00. La S.U.A.P. si fonda sul principio dell’autofinanziamento ed infatti le risorse umane sono messe a disposizione dalla Provincia e dal Comune capoluogo, mentre gli enti associati contribuiscono attraverso una percentuale dell’importo del quadro economico dei lavori affidati. Lo strumento convenzionale mira al massimo coinvolgimento possibile di enti pubblici di diversa natura e, a tale fine, è ammessa l’adesione successiva alla sottoscrizione dell’atto. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 6. La struttura organizzativa (20) Il Nucleo operativo per gli appalti, già istituito presso la Prefettura e composto da un dirigente prefettizio, dal Capo Dipartimento Lavori Pubblici della Provincia di Crotone, dal dirigente del Settore Lavori Pubblici del Comune di Crotone e da un funzionario del Provveditorato alle OO.PP, espleta funzioni di raccordo ed effettua un monitoraggio sistematico sui procedimenti del S.U.A.P., fondato su elaborazioni informatiche dei dati e teso ad individuare le prospettive dinamiche della struttura. Alle riunioni, in relazione agli argomenti trattati, partecipa l’ANCE, allo scopo di consentire un proficuo confronto tra Amministrazioni aggiudicatrici e settore delle imprese interessate. La Stazione unica appaltante provinciale è collocata nell’ambito della Direzione Generale della Provincia ed è diretta dal Capo Dipartimento Lavori Pubblici. L’organigramma è composto da sette unità, di cui quattro provenienti dalla Provincia e tre dal Comune di Crotone, con competenze prevalenti di carattere giuridico-amministrativo specialistico. Con un protocollo d’intesa stipulato tra Prefettura e Provincia, il 15 marzo 2007, è stato inoltre, perfezionato il quadro pattizio di operatività della Stazione Unica Appaltante, anche sotto il profilo della vigilanza. A seguito della conclusione dell’intesa, il Dirigente della S.U.A.P. trasmette alla Prefettura regolarmente, sia su supporto cartaceo sia in formato digitale, un’agile e completa sintesi delle attività effettuate, sempre aggiornata. Il Gruppo interforze per il monitoraggio delle Grandi Opere, istituito presso la Prefettura, è destinatario ultimo della trasmissione dei dati in questione che vengono analizzati per eventuali richieste ulteriori di documentazione e di chiarimenti che vengono forniti, anche verbalmente, dal Dirigente della S.U.A.P. in audizione presso il menzionato Gruppo. 7. I risultati del primo semestre di attività La Stazione unica appaltante ha ricevuto richieste di attivazione fin dalla sua costituzione. Il 23 gennaio i procedimenti avviati erano quattro, divenuti, via via, nove il 13 febbraio, ventidue il 26 febbraio, trentanove il 27 aprile, per arrivare a cinquantaquattro il 6 giugno scorso. All’ultima rilevazione, gli enti richiedenti erano tredici. (20) La Stazione Unica Appaltante è un modello organizzativo di gestione della contrattualistica della pubblica Amministrazione e non incide sui profili sostanziali di disciplina (cfr. ALESSANDRO TOMASETTI, Accordo quadro e centrale di committenza, in www.lerivisteipertestuali. it ). TEMI ISTITUZIONALI 35 L’importo complessivo dei progetti posti a base di gara è passato da € 1.135.828,24 del 23 gennaio, ad € 2.254.280,60 del 13 febbraio, per giungere alla somma di € 22.690.979,90 all’ultima rilevazione. Fig. 1 Fig. 2 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Un dato utile per verificare la reattività dell’Ufficio alla mole delle attivazioni, appare, inoltre, quello concernente la comparazione tra le gare in trattazione ed i bandi pubblicati. Alla rilevazione del 23 gennaio scorso, a fronte di quattro gare in trattazione, non era stato pubblicato alcun bando. Il 13 febbraio, invece, su nove richieste di attivazione, si era provveduto alla pubblicazione di un bando, con una percentuale di reattività pari all’11%. Tale indice si è incrementato, con il susseguirsi delle rilevazioni, fino ad arrivare ad una percentuale del 68,5%, registrata il 6 giugno scorso. Altrettanto significativa è, infine, la comparazione tra gare in trattazione e gare aggiudicate che consente di rilevare la conclusione di 26 esperimenti di gara, con una percentuale pari al 48% dei procedimenti attivati. Gli obiettivi prefissati con la progettazione e costituzione della Stazione unica appaltante, si possono dire, al momento, conseguiti (21). Fig. 3 (21) V. Stazione unica appaltante modello per il Paese, in www.strill.it. A seguito della riunione di verifica tenutasi il 18 luglio 2007, il Prefetto De Sena ha evidenziato la validità della realizzazione grazie alla quale è stato messo in moto il meccanismo della “democrazia partecipata”. TEMI ISTITUZIONALI 37 Il totale, continuo, ricorso al nuovo Ufficio ha davvero allontanato il luogo di svolgimento delle gare dai soggetti che deliberano la realizzazione dell’opera. Gli analisti del settore, incaricati di vigilarne l’andamento ai fini preventivi, hanno a disposizione un quadro chiaro, completo e, soprattutto, esaustivo e semplice dei procedimenti di gara per lavori pubblici in provincia. Inoltre, i piccoli comuni avvertono il sollievo derivante dalla circostanza di non doversi più occupare degli aspetti tecnico-giuridici ed organizzativi delle gare affidati, peraltro, ad un gruppo di persone dedicate solo a tale attività e che possono aggiornarsi costantemente. Gli effetti positivi dell’attività della S.U.A.P. sono tuttavia, ulteriori e, in qualche caso, imprevisti. Il timore, espresso da alcuni enti, in fase di negoziazione per la stipula della convenzione, che i tempi dei procedimenti potessero dilatarsi a causa della notevole mole di lavoro, non solo non si è avverato ma addirittura si assiste ad una contrazione temporale, evidenziata dai dati rilevati e percepita dagli stessi rappresentanti dei Comuni. L’intero procedimento, dalla progettazione, alla determinazione di indizione di gara, fino all’aggiudicazione definitiva, va incontro ad un naturale allineamento, che comporta la diffusione delle buone prassi presso tutti gli enti aderenti. Si è pervenuti, inoltre, alla realizzazione di un solo schema tipo di bando di gara, in relazione al tipo di procedura prescelto, in luogo dei trenta, o più, in vigore antecedentemente. Fig. 4 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 8. Prospettive evolutive Nel percorso originario del progetto di costituzione della Stazione unica appaltante era prevista la graduale attivazione delle competenze anche a forniture e servizi. Nel primo anno di attività, la S.U.A.P. si occupa, secondo le previsioni della convenzione istitutiva, di lavori di importo superiore ad € 100.000,00 e tuttavia, già nei primi mesi di operatività, vi sono stati casi di richieste, soddisfatte, di attivazione per lavori di importo inferiore ed anche per bandi per servizi e forniture. La piena, completa ed obbligatoria azione nel campo di servizi e forniture sarà però implementata a partire dal 1° gennaio 2008, a seguito della stipula di una nuova convenzione, in cui tali previsioni sono incluse. Il testo innovativo della convenzione prevede, in primo luogo, l’implementazione dell’attività della S.U.A.P. a forniture e servizi di importo pari o superiore a € 100.000,00. Si tratta di una previsione cautelativa, improntata ad un principio prudenziale, che fissa una soglia di una certa rilevanza economica, tale da rendere più agevole il primo impatto delle nuove tipologie di gare da gestire. Si prevede, poi, l’estensione dei compiti della Stazione Unica Appaltante anche dal punto di vista qualitativo. All’art. 3, 1° comma, lett. d) della nuova convenzione, si individua, quale ulteriore funzione dell’Ufficio unico, quella del monitoraggio dell’esecuzione del contratto, con particolare riferimento a casi di dilazione e ritardo, alla richiesta di varianti in corso d’opera, alla formulazione di riserve nonché ad altre circostanze che possano essere indizi di anomalie. In effetti, la funzione primaria, riconnessa alla competenza della Stazione unica appaltante è quella della gestione delle procedure di gara, dalla predisposizione del bando al completamento della documentazione per l’aggiudicazione definitiva. Gli approfondimenti condotti con il Gruppo interforze per il monitoraggio delle Grandi Opere ha peraltro indotto a ritenere necessario un collettore di informazioni anche nella fase esecutiva. Tale funzione, può essere naturalmente disimpegnata proprio dalla Stazione unica appaltante, divenuta ormai familiare punto di riferimento per i responsabili unici del procedimento di tutti gli Enti associati. 8.1. Protocollo d’intesa per l’istituzione di un centro elaborazione bandi per l’aggiudicazione dei servizi di progettazione Tra le tematiche di cui la Stazione unica appaltante sarà chiamata ad occuparsi nel nuovo regime, trova un posto di assoluto rilievo la questione dell’aggiudicazione dei servizi di progettazione. È ben noto, infatti, che spesso uno dei punti critici nodali in ordine all’efficacia degli interventi di realizzazione di opere è proprio costituito da una non adeguata progettazione, dovuta ad incongrua selezione che può anche nascondere intenti non del tutto trasparenti. TEMI ISTITUZIONALI 39 La centralizzazione dell’attività di scelta nella Stazione unica appaltante dovrebbe, per ciò solo, ingenerare positivi riflessi sulla gestione. Ma a tale atteso risultato, concorrerà fortemente uno strumento d’intesa, che è stato stipulato tra la Provincia di Crotone e gli ordini professionali di Architetti, Geometri ed Ingegneri il 18 luglio scorso, nel quale si prevede la costituzione di un Centro di elaborazione bandi per i servizi di progettazione, con l’intento espresso di unificare i relativi atti di gara, espungendo da essi ogni clausola che possa ingenerare discriminazione o sospetti di scarsa trasparenza. Il protocollo d’intesa, opportunamente condiviso con gli enti associati alla S.U.A.P., costituirà ulteriore, rilevante, strumento di semplificazione del sistema, potenziandone la trasparenza. 8.2 Misure di prevenzione delle infiltrazioni criminose Nell’ambito del Nucleo operativo appalti è stata definita una serie di clausole di prevenzione di infiltrazioni criminali che, già dal corrente secondo semestre dell’anno, saranno inserite in tutti i bandi di gara gestiti dalla Stazione Unica Appaltante. Le clausole in questione riportano il contenuto di linee guida recentemente diramate in materia dal Ministro dell’Interno, opportunamente adeguate alla realtà territoriale, attraverso il qualificato apporto del Gruppo interforze di monitoraggio delle Grandi Opere. Si è previsto di applicare il meccanismo di estensione delle informazioni antimafia ex art. 10, d.P.R. 252/1998, agli appalti di importo superiore ad € 250.0000,00, individuando un settore di opere pubbliche, da modificare periodicamente, in relazione alle indicazioni pervenute dagli approfondimenti del più volte menzionato Gruppo interforze. Il Gruppo di monitoraggio sulle Grandi opere ha anche approntato, sulla base delle prime analisi sui dati forniti dalla Stazione unica appaltante, una serie di indicatori di anomalie delle procedure di gara. Gli indicatori in questione sono: – ribassi eccessivi; – ribassi con minima dispersione rispetto alla media dei ribassi; – provenienza delle imprese partecipanti agli esperimenti di gara; – ricorrenza ipotesi di anomalia ex art. 38, D. Lgs. 163/2006; – numero partecipanti; – richieste di avvalimento. Il meccanismo operativo così strutturato sarà implementato organicamente nelle funzionalità della Stazione unica appaltante attraverso un’apposita pattuizione nella nuova convenzione ove si prevede, altresì, che gli enti associati applicheranno le regole in questione anche agli appalti residuali direttamente gestiti. 8.3. Innovazioni tecnologiche L’esperienza della Stazione unica appaltante, si è avviata con una forte propensione all’utilizzo delle tecnologie telematiche ed informatiche. 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In atto, è in fase di sperimentazione un sistema di compilazione dei bandi on-line, messo a disposizione e continuamente aggiornato dalla Stazione unica appaltante. Lo strumento, che presenta un’interfaccia utilizzabile contemporaneamente dalle amministrazioni munite di credenziali, consente al responsabile unico del procedimento di definire il proprio bando, sulla base degli schemi elaborati dalla Stazione unica, di approvarlo e di inviarlo all’Ufficio unico per i conseguenti passaggi. L’ampliamento dell’oggetto della convenzione a forniture e servizi ha avviato, inoltre, un’approfondita disamina della questione dell’e-commerce, con particolare riferimento all’utilizzo del market-place e delle aste on-line, tale che si può realisticamente prevedere che la nuova branca di attività nascerà con una connotazione essenzialmente telematica. 8.4. Conclusioni La Stazione Unica Appaltante, da poco costituita, si avvia a raggiungere la maturità a tappe forzate. Il suo necessario irrobustimento, conseguente anche all’ampliamento delle attività, dovrà essere tale da gestire un flusso di spesa pubblica che si prevede ingente, in relazione ai fondi che si prevede di poter impegnare con i Programmi operativi regionali 2007-2013. Attraverso questo cruciale strumento, si può perseguire l’obiettivo di un’Amministrazione effettivamente funzionale alle finalità di sviluppo economico e di efficienza cogliendo, nel contempo, l’auspicato risultato di una più concreta azione di prevenzione delle infiltrazioni criminali nell’importante settore dei contratti pubblici. TEMI ISTITUZIONALI 41 Sulla competenza in materia di ricongiungimento familiare (Tribunale di Roma, sezione prima civile, decreto 7-8 maggio 2007) Il Tribunale di Roma, con riferimento ad un ricorso proposto avverso un provvedimento di espulsione di una cittadina straniera, madre di figli minorenni (autorizzata dal Tribunale dei Minorenni ad intraprendere un progetto di ricongiungimento familiare) ha affermato, disattendendo l’eccezione di incompetenza, formulata in modo “perplesso” dall’Avvocatura dello Stato, che “la competenza del Tribunale in composizione monocratica è attribuita dall’art. 30, comma 6, del D.Lgs. n. 286/98 in ragione della riferibilità della controversia al “diritto all’unità familiare”, sicché trattandosi di giurisdizione sui diritti, l’enunciazione degli atti amministrativi oggetto del ricorso è necessariamente aperta, prevedendo accanto agli atti tipici di questa materia (diniego del nulla osta al ricongiungimento o del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare), ogni altro provvedimento dell’autorità amministrativa che produca i propri effetti sul diritto del singolo a vivere accanto ai propri familiari”. Avv. Maurizio Borgo (·) Tribunale di Roma, sezione prima civile, decreto depositato in data 8 maggio 2007 – Giudice F. Mangano – O.S. (Avv. A. Balduccelli) c/ Ministero degli Interni, Questura di Roma (ct. 48578/06, Avv. dello Stato M. Borgo). «Visto il ricorso depositato il 4 ottobre 2006 e notificato il 31 ottobre 2006 proposto da S.O., cittadina nigeriana, avverso il decreto di espulsione del Prefetto di Roma emesso in data 8 agosto 2006 e il conseguente ordine di lasciare il territorio dello Stato emesso dalla Questura di Roma in pari data e notificato l’8 agosto 2006; Rilevato che a fondamento della sua richiesta la ricorrente ha dedotto di aver fatto ingresso in Italia clandestinamente nel 1999; di aver dato alla luce il 20 maggio 2000 una bambina, riconosciuta anche dal padre; di essere stata condannata con sentenza n. 8681/2005 del Tribunale di Roma alla pena di anni quattro di reclusione per reati attinenti agli stupefacenti; di aver messo al mondo un altro figlio, nato il 3 settembre 2005, il cui padre non è noto; di essere stata posta agli arresti domiciliari presso la casa di accoglienza (…), in ragione della sua seconda maternità; di aver ottenuto in data 15 dicembre 2006, dal Tribunale di Sorveglianza di Roma (ord. n. 9999/2005) la sospensione dell’esecuzione della pena sino al 3 settembre 2006, in considerazione della positiva valutazione del suo inserimento nella casa dì accoglienza ed in vista del ricongiungimento alla prima figlia, allo stato ospitata presso una casa famiglia e affidata ai Servizi sociali del Comune di Roma con (·) Avvocato dello Stato in Roma. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO decreto del Tribunale per i Minorenni di Roma del 14 aprile 2006, con l’incarico di attuare con gradualità il ricongiungimento al fratellino; di aver beneficiato dell’indulto a seguito del d.P.R. n. 241 del 31 luglio 2006, con conseguente estinzione della pena residua ed emissione dell’ordine di scarcerazione della Procura della Repubblica di Roma in data 8 agosto 2006, cui avevano fatto seguito in pari data i provvedimenti di espulsione già indicati; Vista la comparsa di costituzione del Ministero degli Interni, Prefettura di Roma e Questura di Roma, con la quale è stato chiesto che la domanda sia respinta o dichiarata inammissibile, preliminarmente per l’incompetenza del Tribunale essendo materia attribuita al Giudice di Pace, e nel merito, in considerazione dell’ingresso illegale della ricorrente nel territorio italiano, della mancanza di un valido titolo di soggiorno e della accertata responsabilità per un reato di spaccio di sostanze stupefacenti, con conseguente insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, con particolare riferimento all’art. 28, comma I, del D.Lgs. n. 286/98 ai fini della concessione di un permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare; Sentito il difensore della S.O. all’udienza del 31 gennaio 2007, la causa veniva trattenuta in decisione, con la concessione di un termine per il deposito di note che la parte ricorrente depositava con allegata documentazione, in data 2 aprile 2007; osserva Preliminarmente deve essere affermata la competenza del Tribunale, con conseguente rigetto dell’eccezione di incompetenza, peraltro formulata in termini di “perplessità” da parte dell’amministrazione convenuta, che ha fatto richiamo alla competenza del giudice di pace introdotta dalla legge n. 155 del 31 luglio 2005. La competenza del Tribunale in composizione monocratica è attribuita dall’art. 30, comma 6 della legge n. 286/1998 in ragione della riferibilità della controversia al ‘diritto all’unità familiare’, sicché trattandosi di giurisdizione su diritti, l’enunciazione degli atti amministrativi oggetto del ricorso è necessariamente aperta, prevedendo accanto agli atti tipici di questa materia (diniego del nulla osta al ricongiungimento o del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare), ogni altro provvedimento dell’autorità amministrativa che produca i propri effetti sul diritto del singolo a vivere accanto ai propri familiari. Pertanto, poiché la ricorrente si duole del provvedimento di espulsione emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Roma, in quanto precluderebbe il completamento del progetto di ricongiungimento ai due figli minori, intrapreso con l’autorizzazione del Tribunale per i Minorenni, deve affermarsi la competenza di questo Tribunale a valutare la compatibilità della sua pretesa con la legislazione in materia di ingresso degli stranieri e con le esigenze di sicurezza che il provvedimento di espulsione intende perseguire. Passando a considerare il merito, va premesso che l’oggetto del giudizio si risolve nella considerazione della efficacia preclusiva che assume per la richiesta di permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare avanzata dalla S.O. con la presente azione, la sua precedente condanna per il delitto di spaccio di sostanze stupefacenti. Infatti, ai sensi dell’art. 30, comma I, lett. d), del D.Lgs. n. 286/l998, norma applicabile alla fattispecie in esame, né l’ingresso clandestino nel territorio dello Stato né la permanenza in assenza di alcun valido titolo di soggiorno, impedisce il ricongiungimento del genitore al figlio naturale, nei confronti del quale egli conservi la potestà genitoriale ai sensi della legge italiana. Questa norma costituisce una applicazione del principio della priorità dell’interesse del minore, affermato nello stesso D.Lgs. n. 286/98, laddove nell’art. 28, comma 3 fa espresso richiamo a tal fine della Convenzione dei diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 ratificata con legge 27 marzo 1991 n. 176, riconoscendone la prevalenza nel TEMI ISTITUZIONALI 43 bilanciamento degli interessi considerati ‘in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori’. Tanto premesso, nel valutare la rilevanza dei precedenti penali della ricorrente, ai fini dell’applicazione della fattispecie normativa astrattamente riferibile al caso in esame, va considerato il D.Lgs. 8 gennaio 2007 n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare), entrato in vigore il 15 febbraio 2007 e applicabile anche alla fattispecie in oggetto, in ragione della natura sostanziale delle norme introdotte. In particolare, l’art. 2 del D.Lgs. n. 5/2007 ha aggiunto all’art. 4 comma 3 del D.Lgs. n. 286/1998 un ulteriore periodo, in virtù del quale lo straniero che chieda il ricongiungimento familiare non è ammesso in Italia (e quindi non ne è consentito il soggiorno) soltanto quando “rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei paesi con il quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la libera circolazione’, senza tipizzare tale ostativa valutazione di pericolosità con la indicazione di alcuni titoli di reato, ritenuti dal legislatore un indice di particolare propensione criminale nella disciplina generale dell’ingresso dello straniero nel territorio dello stato contenuta nel medesimo art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 286/98. Il valore di questa modifica legislativa è quello di differenziare ai fini dell’ingresso e del soggiorno dello straniero in Italia la posizione del richiedente per motivi di coesione familiare, rimettendo in questo caso all’interprete il delicato bilanciamento con i valori di sicurezza nazionale e transnazionale, allo scopo di valorizzare in misura adeguata al dettato costituzionale e alle Convenzioni internazionali, la tutela del diritto del singolo alla salvaguardia delle relazioni familiari. Sulla base di tali parametri normativi, costituiti, da un lato, nell’ ‘arretramento della condizione preclusiva al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare sino al più grave limite rappresentato dall’esistenza di una minaccia concreta e attuale alla sicurezza dello Stato’ e, dall’altro, nella priorità dell’interesse del minore, la pretesa della ricorrente a permanere legittimamente nel territorio dello Stato risulta meritevole di accoglimento. La condotta testimoniata dalla relazione della associazione (…) che gestisce la casa famiglia ove è stata inserita la ricorrente con i suoi figli, prossimi a compiere 7 e 2 anni (all. 7 al ricorso) esprime una salda disponibilità verso la responsabilità genitoriale e adeguate capacità a soddisfare le esigenze dei figli minori, anche con riferimento alla particolare patologia da cui è affetto il figlio più piccolo (referti allegati nn. 2 e 3 delle note autorizzate). Inoltre, i minori sono inseriti in un progetto educativo articolato che comprende la frequenza di istituti scolastici italiani (docc. nn. 11 e 12 allegati al ricorso) e il rafforzamento del nucleo familiare (madre e due figli) costituitosi da poco meno di un anno con il ritorno della primogenita, prima allontanata dalla madre e collocata in una diversa casa famiglia. Un progetto al quale S.O. è in grado di fornire un apporto personale, grazie all’attività lavorativa intrapresa con l’ausilio dell’associazione (…), che ha anche messo a disposizione della famiglia O. un appartamento esterno (docc. 9 e 10 allegati al ricorso). Pertanto, sulla base di tali premesse è possibile escludere che S.O. costituisca una minaccia concreta e attuale alla sicurezza del paese, formulandosi una prognosi favorevole al suo inserimento sociale ed al conseguente abbandono di comportamenti criminosi, sicché, poiché risultano sussistenti i requisiti prescritti dall’art. 30 , comma I lett. d), la domanda deve essere accolta; Considerato che, in ragione della natura della causa e della specificità del caso trattato, deve essere disposta la compensazione delle spese processuali; P.Q.M. a) accoglie la domanda proposta da S.O. nei confronti del Ministero dell’Interno e della Questura di Roma e, per l’effetto, riconosce il diritto della ricorrente ad ottenere il permesso di soggiorno per ragioni di coesione familiare ai figli minori (…); b) dispone che la Questura di Roma provveda in conformità; c) compensa le spese processuali. Roma, 7 maggio 2007». 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee dell’anno 2006 emesse in cause cui ha partecipato l’Italia AMBIENTE – Conservazione degli uccelli selvatici Sentenza della Corte, sezione seconda, sentenza 9 giugno 2006, nella causa C-60/05 – WWF Italia c. Regione Lombardia . Con il loro ricorso dinanzi al giudice del rinvio le parti ricorrenti nella causa principale mirano ad ottenere l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della deliberazione n. 14250 della Giunta regionale della Lombardia, del 15 settembre 2003, riguardante il prelievo venatorio in deroga di talune quantità di uccelli selvatici appartenenti alle specie fringuello e peppola per la stagione venatoria 2003/2004. Tale deliberazione è stata adottata in base all’art. 2, n. 2, della predetta legge regionale n. 18/02. 1. L’art. 9, n. 1, lett. c), della direttiva 79/409, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, impone agli Stati membri, indipendentemente dalla ripartizione interna delle competenze determinata dall’ordinamento giuridico nazionale, di garantire, nell’adottare le misure di trasposizione di tale disposizione, che, in tutti i casi di applicazione della deroga ivi prevista e per tutte le specie protette, i prelievi venatori autorizzati non superino un tetto – da determinarsi in base a dati scientifici rigorosi – conforme alla limitazione, imposta da tale disposizione, dei detti prelievi a piccole quantità. Infatti, indipendentemente dalla ripartizione interna delle competenze determinata dall’ordinamento giuridico nazionale, gli Stati membri sono tenuti a prevedere un quadro legislativo e regolamentare atto a garantire che i prelievi di uccelli siano effettuati unicamente nel rispetto della condizione relativa alle «piccole quantità», di cui all’art. 9, n. 1, lett. c), della direttiva, e ciò in base ad informazioni scientifiche rigorose, qualunque sia la specie interessata. I L C O N T E N Z I O S O C O M U N I TA R I O E D I N T E R N A Z I O N A L E 2. Al fine di consentire alle autorità competenti di ricorrere alle deroghe previste all’art. 9 della direttiva 79/409, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, solo in modo conforme al diritto comunitario, il quadro legislativo e regolamentare nazionale deve essere concepito in modo tale che l’attuazione delle disposizioni in deroga ivi enunciate risponda al principio di certezza del diritto. In particolare, queste disposizioni nazionali di recepimento relative alla nozione di «piccole quantità» enunciata all’art. 9, n. 1, lett. c), della detta direttiva devono consentire alle autorità incaricate di autorizzare prelievi in deroga di uccelli di una determinata specie di fondarsi su indici sufficientemente precisi quanto ai quantitativi massimi da rispettare. Inoltre, mediante le norme di trasposizione del detto art. 9, n. 1, lett. c), gli Stati membri sono tenuti a garantire che, indipendentemente dal numero e dall’identità delle autorità incaricate, nel loro ambito, di dare attuazione a tale disposizione, il totale dei prelievi venatori autorizzati, per ciascuna specie protetta, da ciascuna delle dette autorità non superi il tetto di «piccole quantità» fissato per la detta specie per tutto il territorio nazionale. Così, qualora l’attuazione di tale disposizione della direttiva sia delegata ad enti infrastatali, il quadro legislativo e regolamentare applicabile deve garantire che il totale dei prelievi di uccelli che possono essere autorizzati dalle dette autorità resti, per tutto il territorio nazionale, entro il limite delle «piccole quantità » imposto da tale disposizione. Infine, il detto obbligo incombente agli Stati membri di garantire che i prelievi di uccelli siano effettuati solo in «piccole quantità», a norma del citato art. 9, n. 1, lett. c), esige che i procedimenti amministrativi previsti siano organizzati in modo tale che tanto le decisioni delle autorità competenti di autorizzazione dei prelievi in deroga, quanto le modalità di applicazione di tali decisioni siano assoggettate ad un controllo efficace effettuato tempestivamente. Il quadro procedurale nazionale deve garantire anche che siano rispettate le condizioni che accompagnano tali decisioni. Un meccanismo di controllo nell’ambito del quale l’annullamento di una decisione di autorizzazione di un prelievo in deroga, adottata in violazione dell’art. 9 della direttiva, o la constatazione di una violazione delle condizioni che accompagnano una decisione di autorizzazione del detto prelievo si abbiano solo alla scadenza del periodo previsto per l’effettuazione di tale prelievo priverebbe d’effetto utile il sistema di protezione istituito dalla direttiva. – Impatto ambientale Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 novembre 2006, nella causa C- 486/04. Commissione delle Comunità europee contro Italia. . Con lettere in date 22 agosto e 12 novembre 2001, la Commissione chiedeva alle autorità italiane informazioni in merito all’applicazione delle procedure previste dalla direttiva 85/337 a due progetti di impianti industriali 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO nel territorio del comune di Massafra, ossia un impianto di produzione di energia elettrica mediante incenerimento di CDR e di biomasse ed un impianto per la preselezione dei rifiuti solidi urbani e la produzione di CDR. Le autorità italiane comunicavano di aver escluso i progetti in questione dalla procedura di valutazione di impatto ambientale in quanto essi rientravano nella deroga prevista dall’allegato A, lett. l), del DPR del 1996, come modificato dall’art. 3, primo comma, del DPCM del 1999. La Commissione, alla luce delle risposte così fornite dal governo italiano, da essa reputate insoddisfacenti, avviava il procedimento precontenzioso con una lettera di messa in mora iniziale in data 18 ottobre 2002, integrata da una lettera dell’11 luglio 2003, con le quali veniva sollevata la questione degli inadempimenti risultanti dal trattamento riservato all’impianto industriale di Massafra e dalla normativa italiana stessa. In seguito, mediante parere motivato in data 16 dicembre 2003, la Commissione invitava la Repubblica italiana ad adottare le misure necessarie per conformarsi agli obblighi derivanti dalla direttiva 85/337 entro un termine di due mesi dalla data di ricevimento del detto parere. La Commissione, avendo ritenuto insoddisfacente la posizione adottata dal governo italiano in una lettera del 22 aprile 2004, ha proposto, a norma dell’art. 226, secondo comma, CE, il presente ricorso. 1. La nozione di smaltimento dei rifiuti ai sensi della direttiva 85/337, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, è una nozione autonoma che deve ricevere un significato idoneo a rispondere pienamente all’obiettivo perseguito da tale atto normativo, il quale – come si evince dall’art. 2, n. 1, della direttiva medesima – consiste nel garantire che, prima della concessione di un’autorizzazione, i progetti idonei ad avere un impatto ambientale rilevante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, formino oggetto di una valutazione del loro impatto. Di conseguenza, tale nozione – che non è equivalente a quella di smaltimento dei rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350 – deve essere intesa in senso lato come comprensiva dell’insieme delle operazioni che portano o allo smaltimento dei rifiuti, nel senso stretto del termine, o al loro recupero. Pertanto, un impianto per la produzione di energia elettrica mediante incenerimento di combustibili derivanti da rifiuti e di biomasse che dispone di una capacità superiore a 100 tonnellate al giorno, rientra nella categoria degli impianti che effettuano lo smaltimento dei rifiuti non pericolosi mediante incenerimento o trattamento chimico prevista dall’allegato I, punto 10, della direttiva 85/337. In quanto tale, esso deve essere sottoposto, prima di essere autorizzato, alla procedura di valutazione del suo impatto ambientale, posto che i progetti rientranti nel detto allegato I devono essere sottoposti ad una valutazione sistematica a norma degli artt. 2, n. 1, e 4, n. 1, della detta direttiva. 2. Viene meno agli obblighi che gli incombono in forza della direttiva 85/337, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, uno Stato membro che adotti una normativa nazionale che consenta che i progetti di impianti di recupero di rifiuti pericolosi e i progetti di impianti di recupero di rifiuti non pericolosi con capacità superiore a 100 tonnellate al giorno, rientranti nell’allegato I della detta direttiva, siano sottratti alla procedura di valutazione di impatto ambientale prevista dagli artt. 2, n. 1, e 4, n. 1, della medesima direttiva, se sottoposti a procedura semplificata ai sensi dell’art. 11 della direttiva 75/442, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350. 3. Gli Stati membri hanno la possibilità di fissare i criteri e/o le soglie che consentono di stabilire quali progetti rientranti nell’allegato II della direttiva 85/337, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 97/11, debbano costituire l’oggetto di una valutazione. Tuttavia, il margine discrezionale così conferito agli Stati membri trova il proprio limite nell’obbligo, enunciato all’art. 2, n. 1, della detta direttiva, di sottoporre ad una valutazione d’impatto i progetti idonei ad avere rilevanti ripercussioni sull’ambiente, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione. Pertanto, nel fissare tali soglie e/o criteri, gli Stati membri devono tener conto non soltanto delle dimensioni dei progetti, ma anche della loro natura e della loro ubicazione. Inoltre, a norma dell’art. 4, n. 3, della direttiva 85/337, gli Stati membri hanno l’obbligo, in sede di fissazione delle soglie o dei criteri, di tener conto dei criteri di selezione pertinenti definiti nell’allegato III della direttiva stessa. Pertanto, escludendo dalla valutazione di impatto ambientale – che deve intervenire prima del rilascio del provvedimento dell’autorità o delle autorità competenti che conferisce al committente il diritto di realizzare il progetto – i progetti di impianti che effettuano operazioni di recupero dei rifiuti in base alla procedura semplificata, una normativa nazionale non tiene conto di tutti i criteri di selezione precisati nell’allegato III della direttiva 85/337. Di conseguenza, il criterio adottato da tale normativa nazionale, attinente esclusivamente all’attuazione delle procedure semplificate, inteso a dispensare gli impianti di recupero dei rifiuti rientranti nell’allegato II, punto 11, lett. b), della direttiva 85/337 dalla valutazione di impatto ambientale, non soddisfa le ricordate condizioni della detta direttiva in quanto esso può far sì che determinati progetti idonei ad avere rilevanti ripercussioni sull’ambiente a motivo delle loro dimensioni o della loro ubicazione siano sottratti alla verifica del loro impatto ambientale. – Scarichi di acque Sentenza della Corte, 30 novembre 2006, nella causa C-293/05. Commissione delle Comunità europee contro Italia. In seguito a una denuncia che le era stata presentata, la Commissione, con lettera 22 agosto 2001, ha chiesto alla Repubblica italiana di fornirle 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO informazioni relativamente allo scarico di acque reflue da parte dell’agglomerato interessato il cui numero di AE è superiore a 15000. Le autorità italiane hanno informato la Commissione del fatto che un progetto per la realizzazione di un impianto di depurazione delle acque reflue, da situarsi in località Torba, presso il comune di Gornate Olona, era in corso di elaborazione. Esse hanno menzionato gli sforzi effettuati al fine del completamento del detto progetto e hanno indicato che gli impianti sarebbero stati operativi nel 2003. Ritenendo che, ai sensi dell’art. 5, n. 5, della direttiva, le acque reflue urbane derivanti dall’agglomerato interessato avrebbero dovuto essere assoggettate, entro il 31 dicembre 1998, ad un trattamento più spinto di quello secondario o equivalente previsto dall’art. 4 di tale direttiva, la Commissione, in data 17 ottobre 2003 e conformemente al procedimento previsto dall’art. 226 CE, ha inviato alla Repubblica italiana una lettera di diffida invitandola a presentare le sue osservazioni. In risposta a tale richiesta, le autorità italiane, con nota 11 febbraio 2004, hanno inviato alla Commissione una lettera del Dipartimento per le risorse idriche – Direzione per la tutela delle acque interne del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio, datata 31 dicembre 2003, nonché una relazione del Consorzio volontario per la tutela, il risanamento e la salvaguardia delle acque del fiume Olona, datata 19 dicembre 2003. Ritenendo che questa risposta non fosse soddisfacente, la Commissione, in data 9 luglio 2004, ha emesso un parere motivato invitando la Repubblica italiana a prendere tutte le misure per conformarsi agli obblighi derivanti dall’art. 5, nn. 2 e 5, della direttiva per quanto riguarda l’agglomerato interessato, entro due mesi dalla notifica di tale parere. Le autorità italiane hanno risposto al detto parere con lettera 19 ottobre 2004. Non essendo soddisfatta delle informazioni fornite dalla Repubblica italiana, la Commissione ha introdotto il presente ricorso. 29. Occorre innanzi tutto ricordare che l’insieme delle acque reflue urbane che provengono da agglomerati aventi, come l’agglomerato interessato, oltre 10000 AE, e che si riversano in un’area sensibile doveva, ai sensi dell’art. 5, n. 2, della direttiva, essere sottoposto, a decorrere al più tardi dal 31 dicembre 1998, ad un trattamento più spinto di quello previsto dall’art. 4 n. 1, della direttiva. 30. Occorre ricordare anche che la Corte ha già dichiarato che è indifferente, in relazione all’art. 5, n. 2, della direttiva, che le acque reflue urbane si riversino direttamente o indirettamente in un’area sensibile (v., in particolare, sentenza 25 aprile 2002, causa C-396/00, Commissione/Italia, Racc. pag. I-3949, punto 29). 31. Infatti, l’art. 3, n. 1, secondo comma, della direttiva, che riguarda gli scambi di acque reflue urbane che si immettono in acque recipienti considerate aree sensibili, e l’art. 5, n. 2, della direttiva, che prescrive che le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte ad un trattamento più spinto prima dello scarico in aree sensibili, non fanno alcuna distinzione a seconda che gli scarichi in un’area sensibile siano diretti o indiretti (sentenza Commissione/Italia, sopraccitata, punto 30). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 32. L’obbiettivo della direttiva, ossia proteggere l’ambiente, così come quello dell’art. 174, n. 2, CE, disposizione che mira ad assicurare un elevato livello di tutela in materia ambientale, sarebbero compromessi se unicamente le acque reflue che si riversano direttamente in un’area sensibile fossero sottoposte ad un trattamento più spinto di quello previsto all’art. 4 n. 1, della direttiva. 35. Per quanto riguarda l’argomento del governo italiano relativo alle ingenti risorse finanziarie necessarie per costruire l’impianto di depurazione richiesto per conformarsi ai requisiti della direttiva, occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, uno Stato membro non può eccepire difficoltà pratiche o amministrative per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini stabiliti da una direttiva. Lo stesso dicasi per le difficoltà finanziarie che spetta agli Stati membri superare adottando le misure adeguate (v. sentenze 5 luglio 1990, causa C-42/89, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-2821, punto 24; 15 maggio 2003, causa C-419/01, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-4947, punto 22, e 16 ottobre 2003, causa C-433/02, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-12191, punto 22). APPALTI – Appalti di forniture Sentenza della Corte, sezione prima, 11 maggio 2006, nella causa C- 340/04. Carbotermo SpA,Consorzio Alisei e Comune di Busto Arsizio, AGESP SpA, in presenza di: Associazione Nazionale Imprese Gestione servizi tecnici integrati (AGESI). La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (G.U. L 199, pag. 1). Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di una controversia che vede contrapporsi l’impresa Carbotermo S.p.A. (in prosieguo: la «Carbotermo») e il consorzio Alisei al comune di Busto Arsizio e all’impresa AGESP S.p.A. (in prosieguo: la «AGESP») in merito all’affidamento a quest’ultima di un appalto relativo alla fornitura di combustibili, alla manutenzione, all’adeguamento normativo e alla riqualificazione tecnologica degli impianti termici degli edifici del suddetto comune. La Carbotermo è un’impresa specializzata negli appalti di fornitura di energia e di gestione di impianti termici, a favore di clienti pubblici e privati. Il consorzio Alisei è un’impresa che fornisce prodotti energetici e servizi attinenti alla climatizzazione e al riscaldamento degli edifici. La AGESP Holding S.p.A. è una società per azioni nata dalla trasformazione, decretata il 24 settembre 1997, dell’Azienda per la Gestione dei Servizi Pubblici, impresa speciale del comune di Busto Arsizio. Il capitale sociale della 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO AGESP Holding appartiene attualmente per il 99,98% al comune di Busto Arsizio. Gli altri azionisti sono i comuni di Castellanza, Dairago, Fagnano Olona, Gorla Minore, Marnate e Olgiate Olona, ciascuno dei quali detiene un’azione. Ai sensi dell’art. 2 del suo statuto, nell’oggetto della AGESP Holding rientra la gestione di servizi di pubblica utilità nei settori del gas, dell’acqua, dell’igiene ambientale, dei trasporti, dei parcheggi, dei bagni pubblici, delle farmacie, dell’energia elettrica e del calore, dei servizi cimiteriali e della segnaletica stradale. Il Comune di Busto Arsizio ha indetto una gara per la fornitura di combustibili, nonché per la manutenzione, l’adeguamento normativo e la riqualificazione tecnologica degli impianti termici degli edifici comunali. L’importo dell’appalto, stimato nella misura di EUR 8 450 000 oltre all’imposta sul valore aggiunto (IVA), era ripartito in EUR 5 700 000 per la fornitura di combustibili (di cui gasolio per 4/5 e metano per 1/5), EUR 1 000 000 per la manutenzione degli impianti termici ed EUR 1 750 000 per la riqualificazione e la messa a norma dei suddetti impianti. La Carbotermo ha presentato un’offerta . Il consorzio Alisei ha predisposto un’offerta senza tuttavia presentarla entro il termine previsto. Con sentenza 18 settembre 2003, n. 5316, il Consiglio di Stato ha stabilito che un ente locale è legittimato ad affidare un appalto a un fornitore senza ricorrere a una gara d’appalto nell’ipotesi in cui l’ente locale eserciti sul fornitore un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, e il fornitore realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente che lo controlla. Il 21 novembre 2003 il comune di Busto Arsizio ha deciso, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato di sospendere la procedura di gara fino al 10 dicembre 2003. Con deliberazione 10 dicembre 2003, il comune di Busto Arsizio ha revocato la gara, riservandosi di affidare in seguito l’appalto direttamente alla AGESP Con deliberazione 18 dicembre 2003, il comune di Busto Arsizio ha affidato l’appalto in questione direttamente alla AGESP. Esso ha motivato tale decisione adducendo che la AGESP soddisfaceva i due requisiti stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale per concludere appalti pubblici senza gara, vale a dire che l’ente locale eserciti sull’ente aggiudicatario un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e che il suddetto ente aggiudicatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente locale che lo controlla. Nel preambolo di tale decisione si afferma, da un lato, che il fatto che il comune di Busto Arsizio detenga il 99,98% del capitale della AGESP Holding, alla quale appartiene per il 100% il capitale della AGESP, attesta un rapporto di subordinazione tra quest’ultima e il comune in questione. D’altro lato, in detto preambolo si afferma che la parte largamente maggioritaria del fatturato della AGESP consegue dall’esercizio di attività per le quali la stessa è titolata in forza di affidamenti ottenuti direttamente dal comune di Busto Arsizio. La Carbotermo e il consorzio Alisei hanno impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia le deliberazioni che avevano sospeso la gara e affidato l’appalto in questione alla AGESP. Dinanzi al summenzionato tribunale le due imprese in questione hanno rile- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 vato che, nel caso di specie, non ricorrevano le condizioni che rendono inapplicabile la direttiva 93/36. Da un lato, la AGESP non sarebbe controllata dal comune di Busto Arsizio in quanto quest’ultimo detiene la sua partecipazione nella AGESP solo mediante una holding di cui è azionista per il 99,98% e la AGESP conserva l’autonomia di una società per azioni di diritto privato. Dall’altro lato, la AGESP non svolgerebbe la parte più importante della sua attività a favore del comune di Busto Arsizio, poiché realizzerebbe con il comune in questione una quota nettamente inferiore all’80% del suo fatturato, criterio che si sarebbe dovuto accogliere per analogia con l’art. 13 della direttiva 93/38. 1. La direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, osta all’affidamento diretto di un appalto di forniture e di servizi, con prevalenza del valore della fornitura, a una società per azioni il cui consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione esercitabili in maniera autonoma e il cui capitale è, allo stato attuale, interamente detenuto da un’altra società per azioni, della quale è a sua volta socio di maggioranza l’amministrazione aggiudicatrice. Non è infatti soddisfatta, in tali circostanze, la condizione relativa all’inapplicabilità della direttiva 93/36, secondo la quale l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla società aggiudicataria dell’appalto pubblico in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Per valutare tale condizione, è necessario tener conto di tutte le disposizioni normative e delle circostanze pertinenti. Da quest’esame deve risultare che la società aggiudicataria è soggetta a un controllo che consente all’amministrazione aggiudicatrice di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni. Così non è nel caso in cui il controllo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice si risolva sostanzialmente nei poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci, la qual cosa limita considerevolmente il suo potere di influire sulle decisioni delle società di cui trattasi. Inoltre, qualora l’eventuale influenza dell’amministrazione aggiudicatrice venga esercitata mediante una società holding, l’intervento di un siffatto tramite può indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale. 2. Per valutare la condizione relativa all’inapplicabilità della direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, secondo la quale l’impresa cui è stato direttamente affidato un appalto di fornitura deve svolgere la parte più importante dell’attività con l’ente pubblico che la detiene, non si deve applicare l’art. 13 della direttiva 93/38, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, ai sensi del quale la detta direttiva non si applica agli appalti di servizi affidati a un’impresa collegata 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO qualora almeno l’80% della cifra d’affari media realizzata nella Comunità dall’impresa in questione negli ultimi tre anni in materia di servizi derivi dalla fornitura di detti servizi alle imprese alle quali è collegata. Questa condizione è soddisfatta solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente che la detiene o agli enti che la detengono, e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale. 3. Nel valutare se un’impresa svolga la parte più importante della sua attività con l’ente pubblico che la detiene, al fine di decidere in merito all’applicabilità della direttiva 93/36, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, si deve tener conto di tutte le attività realizzate da tale impresa sulla base di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente da chi remunera tale attività, potendo trattarsi della stessa amministrazione aggiudicatrice o dell’utente delle prestazioni erogate, mentre non rileva il territorio in cui è svolta l’attività. – Appalto di servizi Sentenza della Corte, sezione prima, 6 aprile 2006, nella causa C-410-04 – Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (ANAV) contro Comune di Bari, AMTAB Servizio SpA. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE. La questione è sorta nell’ambito di una controversia tra l’Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (in prosieguo: l’«ANAV»), da un lato, e il Comune di Bari e l’AMTAB Servizio S.p.A. (in prosieguo: l’«AMTAB Servizio»), dall’altro, concernente l’affidamento a quest’ultima del servizio di trasporto pubblico sul territorio del detto comune. L’AMTAB Servizio è una società per azioni il cui capitale sociale è interamente detenuto dal Comune di Bari, e la cui sola attività consiste nel fornire un servizio di trasporto pubblico sul territorio di tale comune. Tale società sarebbe totalmente controllata dal Comune di Bari. L ‘AV rappresenta, per statuto, le imprese esercenti servizi nazionali e internazionali di trasporto di passeggeri, nonché attività assimilabili al trasporto, e, in tale veste, vigila in particolare sul buon andamento del servizio pubblico di trasporto urbano ed extraurbano, nell’interesse delle società che forniscono tale servizio. Il Comune di Bari ha avviato una procedura di gara ad evidenza pubblica al fine di affidare il servizio di trasporto pubblico sul territorio di tale comune. In seguito alla modifica dell’art. 113, quinto comma, del D.Lgs. n. 267/2000 da parte dell’art. 14 del D.L. n. 269/2003, il Comune di Bari ha, con provvedimento 9 ottobre 2003, abbandonato tale procedura di gara ad evidenza pubblica. Con provvedimento 18 dicembre 2003, il citato Comune ha affidato direttamente il servizio in questione all’AMTAB Servizio, per il periodo 1° gennaio 2004-31 dicembre 2012. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, l’ANAV ha chiesto a quest’ultimo di annullare il citato provvedimento, oltre che tutti gli atti connes- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 si e consequenziali, lamentando violazione del diritto comunitario, e in particolare degli artt. 3 CE, 16 CE, 43 CE, 49 CE, 50 CE, 51 CE, 70 CE - 72 CE, 81 CE, 82 CE, 86 CE e 87 CE. 17. È pacifico che le concessioni di servizi pubblici sono escluse dall’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1) (sentenza Parking Brixen, cit., punto 42). Essa è stata sostituita dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (G.U. L 134, pag. 114), il cui art. 17 prevede esplicitamente l’inapplicabilità alle concessioni di servizi. 18. Anche se i contratti di concessione di servizi pubblici sono esclusi dall’ambito applicativo della direttiva 92/50, sostituita dalla direttiva 2004/18, le pubbliche autorità che li concludono sono tuttavia tenute a rispettare le regole fondamentali del Trattato CE in generale, e il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità in particolare (v., in tal senso, sentenze 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress, Racc. pag. I-10745, punto 60; 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 16; e Parking Brixen, cit., punto 46). 19. Le disposizioni del Trattato specificamente applicabili alle concessioni di servizi pubblici comprendono in particolare gli artt. 43 CE e 49 CE (sentenza Parking Brixen, cit., punto 47). 20. Oltre al principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, si applica alle concessioni di servizi pubblici anche il principio della parità di trattamento tra offerenti, e ciò anche in assenza di discriminazione sulla base della nazionalità (sentenza Parking Brixen, cit., punto 48). 21. I principi di parità di trattamento e di non discriminazione sulla base della nazionalità comportano, in particolare, un obbligo di trasparenza che permette all’autorità pubblica concedente di assicurarsi che tali principi siano rispettati. L’obbligo di trasparenza posto a carico di detta autorità consiste nel dovere di garantire, ad ogni potenziale offerente, un adeguato livello di pubblicità, che consenta l’apertura della concessione di servizi alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione (v., in tal senso, citate sentenze Telaustria e Telefonadress, punti 61 e 62, e Parking Brixen, punto 49). 22. In linea di principio, l’assenza totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di servizi pubblici, come quella di cui alla causa principale, non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (sentenza Parking Brixen, cit., punto 50). 23. Risulta inoltre dall’art. 86, n. 1, CE che gli Stati membri non possono mantenere in vigore una normativa nazionale che consenta l’affidamento di concessioni di servizi pubblici senza procedura concorrenziale, poiché un simile affidamento viola gli artt. 43 CE o 49 CE o ancora i principi di parità 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (sentenza Parking Brixen, cit., punto 52). 24. Tuttavia, nel settore delle concessioni di servizi pubblici, l’applicazione delle regole enunciate agli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE, nonché dei principi generali di cui esse costituiscono la specifica espressione, è esclusa se, allo stesso tempo, il controllo esercitato sul concessionario dall’autorità pubblica concedente è analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e se il detto concessionario realizza la parte più importante della propria attività con l’autorità che lo detiene (sentenza Parking Brixen, cit., punto 62). 25. Una normativa nazionale che riprenda testualmente il contenuto delle condizioni indicate al punto precedente, come fa l’art. 113, quinto comma, del D.Lgs. n. 267/2000, come modificato dall’art. 14 del D.L. n. 269/2003, è in linea di principio conforme al diritto comunitario, fermo restando che l’interpretazione di tale disciplina deve a sua volta essere conforme alle esigenze del diritto comunitario. 26. Va precisato che, trattandosi di un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le due condizioni enunciate al punto 24 della presente sentenza devono essere interpretate restrittivamente, e l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su colui che intenda avvalersene (v. sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, Racc. pag. I-1, punto 46, e Parking Brixen, cit., punto 63). 31. Infatti, la partecipazione, ancorché minoritaria, di un’impresa privata nel capitale di una società alla quale partecipa pure l’autorità pubblica concedente esclude in ogni caso che la detta autorità pubblica possa esercitare su una tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (v., in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punto 49). 32. Quindi, se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v., in tal senso, sentenza Coname, cit., punto 26). 33. Alla luce delle considerazioni svolte, la questione pregiudiziale va risolta dichiarando che gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE, nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione sulla base della nazionalità e di trasparenza non ostano ad una disciplina nazionale che consente ad un ente pubblico di affidare un servizio pubblico direttamente ad una società della quale esso detiene l’intero capitale, a condizione che l’ente pubblico eserciti su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente che la detiene. Sentenza della Corte, sezione prima, 9 febbraio 2006, nelle cause riunite C-226/04 e C-228/04 – La Cascina Soc. coop. a r.l., Zilch Srl (C-226/04) contro Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Pedus Service, Cooperativa Italiana di Ristorazione Soc. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 coop. a r.l. (CIR), Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e Consorzio G. f. M. (C-228/04) contro Ministero della Difesa, La Cascina Soc. coop. a r.l. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva»). Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che oppongono le società La Cascina Soc. coop. a r.l (in prosieguo: La «Cascina») e Zilch Srl (in prosieguo: la «Zilch») nonché il consorzio G. f. M. (in prosieguo: il «G. f. M.»), al Ministero della Difesa e al Ministero dell’Economia e delle Finanze italiani, nella loro qualità di amministrazione aggiudicatrice, relativamente, da un lato, all’esclusione di queste imprese dalla partecipazione ad una procedura di appalto pubblico di servizi e, dall’altro, alla conformità con l’art. 29 della direttiva della disposizione corrispondente della normativa italiana che assicura il recepimento di questa direttiva nel diritto nazionale. L’amministrazione aggiudicatrice ha deciso di escludere dalla procedura La Cascina e il G. f. M., per il fatto che essi non erano in regola con gli obblighi riguardanti il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali a favore dei lavoratori, nonché la Zilch, per il fatto che essa non era in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte. I tre enti in questione hanno chiesto l’annullamento di questa decisione dinanzi al giudice del rinvio. In particolare, La Cascina e il G. f. M. hanno fatto valere che il mancato pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali era stato regolarizzato ex post. Da parte sua, la Zilch ha affermato che una parte dell’imposta reclamata aveva formato oggetto di sgravio e che, per quanto riguarda l’altra parte dell’imposta dovuta, essa aveva beneficiato di un «condono fiscale», in forza di una misura di regolarizzazione adottata dal legislatore nazionale nel 2002, in base alla quale essa era stata ammessa al pagamento rateale. L’amministrazione aggiudicatrice, per contro, ha sostenuto che la regolarizzazione ex post non significava che le imprese ricorrenti, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione alla gara d’appalto, ossia il 15 gennaio 2003, fossero in regola con i loro obblighi. Il giudice del rinvio constata una differenza di formulazione tra l’art. 29 della direttiva e l’art. 12 del decreto n. 157/1995. In effetti, mentre la disposizione comunitaria prevede la facoltà di escludere dalla partecipazione ad un appalto un prestatore di servizi «il quale non abbia adempiuto» i suoi obblighi, la disposizione nazionale esclude colui «che [non è] in regola» con i suoi obblighi. 19. Con le sue questioni, il giudice del rinvio intende accertare in sostanza, innanzi tutto, se l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva debba 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO essere interpretato nel senso che si oppone ad una disposizione nazionale la quale fa riferimento alla situazione del prestatore di servizi che «non è in regola » con i suoi obblighi previdenziali o tributari. In secondo luogo, esso si chiede in quale momento il prestatore di servizi debba fornire la prova del rispetto dei detti obblighi. In terzo luogo, esso si chiede se un prestatore di servizi, il quale sia in ritardo nel pagamento dei suoi contributi previdenziali o delle sue imposte o abbia ottenuto dalle autorità competenti una rateizzazione del pagamento di questi contributi o imposte o abbia presentato un ricorso amministrativo o giurisdizionale inteso a contestare l’esistenza o l’importo dei suoi obblighi previdenziali o dei suoi obblighi tributari, debba o meno essere considerato nel senso che non ha adempiuto i suoi obblighi previdenziali o tributari ai sensi dell’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva. 21. L’art. 29 della direttiva prevede sette cause di esclusione dei candidati dalla partecipazione ad un appalto, che si riferiscono all’onestà professionale, alla solvibilità o all’affidabilità di questi ultimi. Questa disposizione lascia l’applicazione di tutti questi casi di esclusione alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione «può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto (…)», che figura all’inizio della detta disposizione, e rinvia, sub e) e f), esplicitamente alle disposizioni legislative nazionali. 22. Pertanto, come fa giustamente osservare la Commissione delle Comunità europee, la disposizione considerata fissa essa stessa i soli limiti della facoltà degli Stati membri, nel senso che questi non possono prevedere cause di esclusione diverse da quelle ivi indicate. Tale facoltà degli Stati membri è limitata anche dai principi generali di trasparenza e di parità di trattamento (v., in particolare, sentenze 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punti 91 e 92, nonché 16 ottobre 2003, causa C-421/01, Traunfellner, Racc. pag. I-11941, punto 29). 24. Per quanto riguarda, innanzi tutto, la questione se l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva, debba essere interpretato nel senso che si oppone ad una disposizione nazionale che fa riferimento alla situazione del prestatore di servizi che «non è in regola» con i suoi obblighi previdenziali o tributari, questa disposizione offre la facoltà agli Stati membri di escludere qualunque candidato «il quale non abbia adempiuto i suoi obblighi» relativi al pagamento dei contributi previdenziali e delle imposte e tasse, «conformemente alle disposizioni legislative» nazionali. 30. Al fine di determinare il momento in cui occorre collocarsi per valutare se il candidato abbia adempiuto i suoi obblighi, occorre constatare che, dato che l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva rinvia alle disposizioni legislative degli Stati membri al fine di stabilire il contenuto della nozione «aver adempiuto i suoi obblighi» e il legislatore comunitario non ha voluto procedere ad un’uniformazione dell’applicazione di tale articolo a livello comunitario, è coerente ritenere che lo stesso rinvio alle disposizioni nazionali venga operato per quanto riguarda la determinazione del momento di cui trattasi. 32. Occorre precisare, tuttavia, che i principi di trasparenza e di parità di trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, in base ai quali le condizioni sostanziali e procedurali relative alla par- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 tecipazione ad un appalto devono essere chiaramente definite in anticipo, richiedono che questo termine sia determinato con una certezza assoluta e reso pubblico, affinché gli interessati possano conoscere esattamente gli obblighi procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi obblighi valgano per tutti i concorrenti. Tale termine può essere fissato dalla normativa nazionale, oppure questa può affidare tale compito alle amministrazioni aggiudicatrici. 33. Pertanto, si ritiene abbia adempiuto i suoi obblighi il candidato che, entro il termine di cui sopra al punto 31, abbia effettuato integralmente i pagamenti relativi ai suoi debiti in materia di previdenza sociale e di imposte o tasse, con riserva dei casi di regolarizzazione successiva e di presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale che sono trattati ai punti 34-39 della presente sentenza. Un semplice inizio di pagamento al momento considerato, o la prova dell’intenzione di pagamento, o ancora la prova della capacità finanziaria di regolarizzazione al di là di questo momento non possono essere sufficienti, poiché diversamente verrebbe violato il principio di parità di trattamento dei candidati. 37. La domanda del giudice del rinvio riguarda, in ultimo luogo, gli effetti che occorre collegare alla presentazione, da parte di un candidato, di un ricorso amministrativo o giurisdizionale contro le constatazioni delle autorità competenti in materia tributaria o previdenziale, al fine di considerare se tale candidato sia in regola con i suoi obblighi in vista della sua ammissione a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico. 38. Occorre considerare che il rinvio al diritto nazionale effettuato dall’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva è valido anche per quanto riguarda tale questione. Tuttavia, gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sono strettamente collegati all’esercizio e alla salvaguardia dei diritti fondamentali relativi alla tutela giurisdizionale, il cui rispetto è anch’esso assicurato dall’ordinamento giuridico comunitario. Una normativa nazionale che ignorasse totalmente gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sulla possibilità di partecipare ad una procedura di aggiudicazione di appalto rischierebbe di violare i diritti fondamentali degli interessati. 40. Occorre quindi risolvere le questioni poste nel senso che l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva non si oppone ad una normativa o ad una prassi amministrativa nazionali in base alle quali un prestatore di servizi che, alla data di scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, non ha adempiuto, effettuando integralmente il pagamento corrispondente, i suoi obblighi in materia di contributi previdenziali e di imposte e tasse, può regolarizzare la sua situazione successivamente – in forza di misure di condono fiscale o di sanatoria adottate dallo Stato, o – in forza di un concordato al fine di una rateizzazione o di una riduzione dei debiti, o – mediante la presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale, a condizione che provi, entro il termine stabilito dalla normativa o dalla prassi amministrativa nazionali, di aver beneficiato di tali misure o di un tale concordato, o che abbia presentato un tale ricorso entro questo termine. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO CONCORRENZA – Aiuti di Stato Sentenza della Corte, sezione seconda, 10 gennaio 2006, nella causa C- 222/04. Ministero dell’Economia e della Finanza contro Cassa di Risparmio di Firenze ed altre. La Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato ha chiesto all’amministrazione fiscale italiana, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 1745/62, l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi ad essa spettanti per l’esercizio 1998 relativamente alla sua partecipazione nella Cassa di Risparmio di San Miniato e nella società Casse Toscane S.p.A., alla quale è subentrata la Cassa di Risparmio di Firenze. La domanda è stata respinta con la motivazione che la gestione, da parte di una fondazione bancaria, delle proprie partecipazioni in società bancarie deve essere considerata un’attività commerciale incompatibile con l’art. 10 bis della legge n. 1745/62. Secondo il giudice della causa principale, la Commissione tributaria regionale di Firenze ha ritenuto che la Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato, a causa dei suoi scopi di interesse pubblico e utilità sociale in determinati settori, avesse diritto alla riduzione del 50% dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 601/73, e che tale riduzione si accompagnasse all’esenzione dalla ritenuta ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 1745/62, indipendentemente dal fatto che una fondazione bancaria possa esercitare, non a titolo principale, attività economica d’impresa. Sempre secondo il giudice della causa principale, la Commissione tributaria regionale di Firenze ha richiamato, sul punto, la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 461/98 e dal decreto legislativo n. 153/99, che esplicitamente prevedrebbe l’applicabilità alle fondazioni bancarie dell’agevolazione fiscale in questione. Essa ha ritenuto che, nella vicenda posta alla sua attenzione, non fosse stata dimostrata la prevalenza di un’attività economica d’impresa sugli scopi di utilità sociale. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha proposto ricorso in cassazione contro tale decisione decudendo, in particolare , la violazione dell’art. 10 bis della legge n. 1745/62, dell’art. 6 del DPR n. 601/73 e dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile italiano, ai sensi del quale le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati. Nell’ordinanza di rinvio, la Corte suprema di cassazione rileva che la decisione della causa principale sulla base del diritto nazionale deve tenere conto del problema della compatibilità del regime fiscale delle fondazioni bancarie con il diritto comunitario, in particolare con gli artt. 12 CE, 43 CE e segg., 56 CE e segg., nonché 87 CE e 88 CE. Essa sottolinea che, secondo IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 la costante giurisprudenza della Corte, le autorità nazionali devono applicare, anche d’ufficio, le norme del diritto comunitario, eventualmente disapplicando le disposizioni nazionali con esse in contrasto. 1. Una volta che una questione pregiudiziale, avente ad oggetto la validità di una decisione della Commissione, è stata posta d’ufficio dal giudice del rinvio e non su richiesta di un soggetto che, pur potendo proporre un ricorso di annullamento avverso la medesima, non lo abbia fatto nei termini previsti dall’art. 230 CE, la detta questione pregiudiziale non può essere dichiarata irricevibile a causa di quest’ultima circostanza. 2. La Corte può decidere di non pronunciarsi su una questione pregiudiziale relativa alla validità di un atto comunitario quando appare manifestamente evidente che tale valutazione, chiesta dal giudice nazionale, non ha alcuna relazione con le circostanze concrete o con l’oggetto della causa principale. 3. Nell’ambito del diritto della concorrenza il concetto di «impresa» comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento. Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato. Benché, nella maggior parte dei casi, l’attività economica sia svolta direttamente sul mercato, non è tuttavia escluso che essa sia il prodotto nel contempo di un operatore in contatto diretto con il mercato e, indirettamente, di un altro soggetto controllante tale operatore nell’ambito di un’unità economica che essi formano insieme. Atale proposito, il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o di socio nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un bene. Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, dev’essere considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata e, dunque, anche questo soggetto dev’essere considerato, a tale titolo, un’impresa ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Diversamente, la semplice suddivisione di un’impresa in due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l’attività economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo, intervenendo nella sua gestione, sarebbe sufficiente a privare della loro efficacia pratica le norme comunitarie relative agli aiuti di Stato. Ciò consentirebbe al secondo ente di beneficiare di sovvenzioni o di altri vantaggi concessi dallo Stato o grazie a risorse statali e di utilizzarle in tutto o in parte a beneficio del primo, sempre nell’interesse dell’unità economica costituita dai due enti. Di conseguenza, può essere qualificata come «impresa» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE e, pertanto, essere sottoposta alle norme comunitarie in materia di aiuti di Stato una persona giuridica configurata come una fonda- 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione bancaria che controlla il capitale di una società bancaria, il cui regime contiene norme le quali configurano un ruolo che va al di là della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore, rendono possibile lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario, e dimostrano pertanto l’esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie. 4. Una persona giuridica configurata come una fondazione bancaria, la cui attività si limita al versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro, non può essere qualificata come «impresa» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Infatti, una tale attività ha natura esclusivamente sociale, e non è svolta su un mercato in concorrenza con altri operatori. Nello svolgere tale attività una fondazione bancaria agisce come un ente di beneficenza o un’organizzazione caritativa, e non come un’impresa. Viceversa, quando una fondazione bancaria, agendo direttamente negli ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, fa uso dell’autorizzazione conferitale dal legislatore nazionale ad effettuare operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari necessarie e opportune per realizzare gli scopi che le sono prefissi, essa può offrire beni o servizi sul mercato in concorrenza con altri operatori, ad esempio in settori come la ricerca scientifica, l’educazione, l’arte o la sanità. In tale ipotesi, una siffatta fondazione bancaria dev’essere considerata come un’impresa, in quanto svolge un’attività economica, nonostante il fatto che l’offerta di beni o servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiché tale offerta si pone in concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono, e devono pertanto applicarsi ad essa le norme comunitarie sugli aiuti di Stato. 5. Il concetto di aiuto è più ampio di quello di sovvenzione, poiché esso vale a designare non soltanto prestazioni positive, come le sovvenzioni stesse, ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che, di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici effetti. Ne deriva che una misura con la quale le autorità pubbliche accordano a talune imprese un’esenzione fiscale che, pur non comportando un trasferimento di risorse statali, pone i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Allo stesso modo, può costituire un aiuto di Stato una misura che conceda a talune imprese una riduzione di imposta o un rinvio del pagamento del tributo normalmente dovuto. 6. Un’agevolazione fiscale concessa a determinate imprese in considerazione della loro natura giuridica, persona giuridica di diritto pubblico o fondazione, e dei settori in cui esse svolgono la propria attività, non si applica a tutti gli operatori economici e non può quindi essere considerata una misura generale di politica fiscale o economica, per cui essa è selettiva. 7. L’art. 87, n. 1, CE vieta gli aiuti che incidono sugli scambi tra Stati membri e falsano o minacciano di falsare la concorrenza. Per qualificare una IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 misura nazionale come aiuto di Stato vietato non è necessario dimostrare un’incidenza effettiva di tale aiuto sugli scambi tra gli Stati membri e un’effettiva distorsione della concorrenza, ma basta esaminare se l’aiuto sia idoneo a incidere su tali scambi e a falsare la concorrenza. In particolare, quando l’aiuto concesso da uno Stato membro rafforza la posizione di un’impresa rispetto ad altre imprese concorrenti nell’ambito degli scambi intracomunitari, questi ultimi devono ritenersi influenzati dall’aiuto. A tale proposito, il fatto che un settore economico sia stato oggetto di liberalizzazione a livello comunitario evidenzia un’incidenza reale o potenziale degli aiuti sulla concorrenza, nonché gli effetti di tali aiuti sugli scambi tra Stati membri. Non è peraltro necessario che l’impresa beneficiaria partecipi essa stessa agli scambi intracomunitari. Infatti, quando uno Stato membro concede un aiuto ad un’impresa, l’attività sul mercato nazionale può essere mantenuta o incrementata, con la conseguente diminuzione delle possibilità per le imprese con sede in altri Stati membri di penetrare nel mercato di tale Stato membro. Inoltre, il rafforzamento di un’impresa che fino a quel momento non partecipava a scambi intracomunitari può metterla nella condizione di penetrare nel mercato di un altro Stato membro. 8. Un’esenzione dalla ritenuta sui dividendi spettanti a fondazioni bancarie, titolari di partecipazioni in società bancarie, le quali perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica, può essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Infatti, una siffatta misura nazionale comporta un finanziamento statale. Per di più, essa è selettiva. Infine, una siffatta agevolazione si applica nel settore dei servizi finanziari che è stato oggetto di un rilevante processo di liberalizzazione a livello comunitario, che ha accentuato la concorrenza che già poteva derivare dalla libera circolazione dei capitali prevista dal Trattato, e può rafforzare, da un lato, in termini di finanziamento e/o di liquidità, la posizione dell’unità economica, attiva nel settore bancario, costituita dalla fondazione bancaria e dalla società bancaria, e, dall’altro, la posizione della fondazione bancaria in un’attività svolta, in particolare, in un settore sociale, scientifico o culturale. – Libertà di stabilimento Sentenza della Corte, sezione terza, 30 marzo 2006, nella causa C-451/03 – Servizi ausiliari dottori commercialisti s.r. contro G.C. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 4 CE, 10 CE, 82 CE, 86 CE e 98 CE in materia di concorrenza, degli artt. 43 CE, 48 CE e 49 CE in materia di diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, e dell’art. 87 CE in materia di aiuti di Stato. La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la società Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti Srl (in prosieguo: l’«ADC Servizi») e il sig. G.C., notaio, relativamente al rifiuto di quest’ultimo di pro- 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cedere all’iscrizione nel registro delle imprese di Milano della decisione adottata dall’assemblea generale di tale società di modificare lo statuto di quest’ultima. Il notaio verbalizzante, ha rifiutato di procedere all’iscrizione di questa decisione nel registro delle imprese di Milano, ritenendo che la modifica dello statuto, con la quale si autorizzava la società ad esercitare le dette attività di assistenza fiscale, fosse incompatibile con l’art. 34 del decreto legislativo n. 241/97. 1. Il semplice fatto di creare una posizione dominante mediante la concessione di diritti speciali o esclusivi ai sensi dell’art. 86, n. 1, CE non è, in sé e per sé, incompatibile con l’art. 82 CE. Uno Stato membro viola i divieti sanciti da queste due disposizioni solo quando l’impresa di cui trattasi è indotta, con il mero esercizio di diritti speciali o esclusivi che le sono attribuiti, a sfruttare abusivamente la sua posizione dominante, o quando questi diritti sono idonei a creare una situazione in cui l’impresa è indotta a commettere tali abusi. 2. Allorché, nell’ambito di una questione pregiudiziale, l’insieme degli elementi dell’attività di cui trattasi nella causa principale si colloca all’interno di un solo Stato membro, una soluzione può tuttavia risultare utile al giudice del rinvio, in particolare nell’ipotesi in cui il suo diritto nazionale imponga di far beneficiare un cittadino del detto Stato membro degli stessi diritti di cui godrebbe, in base al diritto comunitario, un cittadino di un altro Stato membro nella medesima situazione. Una tale questione deve quindi essere dichiarata ricevibile poiché occorre così esaminare se le disposizioni del Trattato, di cui è chiesta l’interpretazione, si oppongano all’applicazione di una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nella causa principale, laddove essa verrebbe applicata a soggetti che risiedono in altri Stati membri. 3. Gli artt. 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che si oppongono ad una normativa nazionale che riserva il diritto di esercitare talune attività di consulenza e di assistenza in materia fiscale esclusivamente a centri di assistenza fiscale che devono essere costituiti sotto forma di società di capitali, esercitare la loro attività previa autorizzazione del Ministero delle Finanze e possono essere costituiti solo dai soggetti indicati dal decreto legislativo. Infatti, una tale normativa, da un lato, impedisce totalmente l’accesso al mercato dei servizi di cui trattasi agli operatori economici stabiliti in altri Stati membri e, dall’altro, limitando la possibilità di costituire CAF a taluni soggetti che soddisfano condizioni tassative e a taluni di questi soggetti aventi la loro sede nello Stato membro interessato, è, infatti, idonea a rendere più difficile, se non ad impedire totalmente, l’esercizio da parte degli operatori economici provenienti da altri Stati membri del loro diritto di stabilirsi nello Stato membro di cui trattasi al fine di fornire i servizi in questione. 4. Una misura con cui uno Stato membro prevede il versamento di compensi a carico del bilancio dello Stato a favore di talune imprese incaricate IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 di assistere i contribuenti, per quanto riguarda l’elaborazione e l’invio delle dichiarazioni tributarie all’amministrazione finanziaria, dev’essere qualificata come aiuto di Stato a sensi dell’art. 87, n. 1, CE allorché, da un lato, il livello del compenso eccede quanto necessario per coprire interamente o in parte i costi originati dall’adempimento, degli obblighi di servizio pubblico, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento e, dall’altro, il compenso non è determinato sulla base di un’analisi dei costi che un’impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata di mezzi necessari al fine di poter soddisfare le esigenze di servizio pubblico richieste, avrebbe dovuto sopportare per adempiere tali obblighi, tenendo conto dei relativi introiti nonché di un margine di utile ragionevole per l’adempimento di tali obblighi. Sentenza della Corte, sezione terza, 13 luglio 2006, – V.M. (causa C- 295/04) Contro Lloyd Adriatico Assicurazioni SpA, A.C. (causa C- 296/04) contro Fondiaria Sai SpA, e N. T. (causa C-297/04), P. M. (causa C-298/04) contro Assitalia SpA. Le questioni sono state sollevate nell’ambito di azioni di risarcimento danni proposte dal sig. V.M. contro la Lloyd Adriatico Assicurazioni S.p.A., dal sig. Cannito contro la Fondiaria Sai S.p.A. e, rispettivamente, dal sig. Tricarico e dalla sig.ra P.M. contro l’Assitalia S.p.A. per far condannare le dette compagnie di assicurazioni alla restituzione delle maggiorazioni dei premi dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile relativa ai sinistri causati da autoveicoli, natanti e ciclomotori , maggiorazioni versate a seguito degli aumenti applicati dalle dette società in forza di un’intesa dichiarata illecita dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato Le domande di pronuncia pregiudiziale riguardano l’interpretazione dell’art. 81 CE. 1. Gli artt. 81 CE e 82 CE costituiscono disposizioni di ordine pubblico che devono essere applicate d’ufficio dai giudici nazionali. 2. Un’intesa o una pratica concordata tra compagnie di assicurazioni, consistente in uno scambio reciproco di informazioni tale da permettere un aumento dei premi dell’assicurazione responsabilità civile obbligatoria relativa ai sinistri causati da autoveicoli, natanti e ciclomotori, non giustificato dalle condizioni di mercato, che costituisce una violazione delle norme nazionali sulla tutela della concorrenza, può altresì costituire una violazione dell’art. 81 CE se, in considerazione delle caratteristiche del mercato nazionale di cui trattasi, appaia sufficientemente probabile che l’intesa o la pratica concordata in esame possa avere un’influenza diretta o indiretta, attuale o potenziale, sulla vendita delle polizze della detta assicurazione nello Stato membro interessato da parte di operatori stabiliti in altri Stati membri e che tale influenza non sia insignificante. 3. L’art. 81, n. 1, CE produce effetti diretti nei rapporti tra i singoli e attribuisce direttamente a questi diritti che i giudici nazionali devono tutela- 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO re. Ne consegue che qualsiasi singolo è legittimato a far valere la nullità di un’intesa o di una pratica vietata dall’art. 81 CE e, ove sussista un nesso di causalità tra quest’ultima e il danno subito, a chiedere il risarcimento del detto danno. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità di esercizio di tale diritto, comprese quelle relative all’applicazione della nozione di «nesso di causalità», purché tali modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività). 4. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti a conoscere dei ricorsi per risarcimento danni fondati su una violazione delle regole di concorrenza comunitarie e stabilire le modalità procedurali di tali ricorsi, purché le disposizioni di cui trattasi non siano meno favorevoli di quelle relative ai ricorsi per risarcimento danni fondati su una violazione delle norme nazionali in materia di concorrenza (principio di equivalenza) e le dette disposizioni nazionali non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art. 81 CE (principio di effettività). 5. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire il termine di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art. 81 CE, purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività. A tale riguardo, è compito del giudice nazionale verificare se una norma nazionale in virtù della quale il termine di prescrizione per chiedere il risarcimento del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art. 81 CE decorre a partire dal giorno in cui tale intesa o tale pratica vietata è stata posta in essere – in particolare qualora tale norma nazionale preveda anche un termine di prescrizione breve e tale termine non possa essere sospeso – renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno subìto. 6. In mancanza di disposizioni di diritto comunitario in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i criteri che consentono la determinazione dell’entità del risarcimento del danno causato da un’intesa o da una pratica vietata dall’art. 81 CE, purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività. Pertanto, da un lato, in conformità del principio di equivalenza, se un risarcimento danni particolare, come il risarcimento esemplare o punitivo, può essere riconosciuto nell’ambito di azioni nazionali analoghe alle azioni fondate sulle regole comunitarie di concorrenza, esso deve poterlo essere anche nell’ambito di queste ultime azioni. Tuttavia, il diritto comunitario non osta a che i giudici nazionali vigilino affinché la tutela dei diritti garantiti IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 dall’ordinamento giuridico comunitario non comporti un arricchimento senza causa degli aventi diritto. D’altro lato, dal principio di effettività e dal diritto del singolo di chiedere il risarcimento del danno causato da un contratto o da un comportamento idoneo a restringere o a falsare il gioco della concorrenza discende che le persone che hanno subìto un danno devono poter chiedere il risarcimento non solo del danno reale (damnum emergens), ma anche del mancato guadagno (lucrum cessans), nonché il pagamento di interessi. Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 marzo 2006, nella causa C- 237/04 – Enirisorse SpA contro Sotacarbo S.p.A. La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’Enirisorse S.p.A. e la Sotacarbo S.p.A. in merito al diniego di quest’ultima di rimborsare all’Enirisorse il controvalore delle azioni che essa deteneva nella Sotacarbo al momento del suo recesso dal capitale della Sotacarbo stessa. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 43 CE, 44 CE, 48 CE, 49 CE e segg. in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nonché dell’art. 87 CE. Ai sensi dell’art. 5 della legge 27 giugno 1985, n. 351 (GURI n. 166 del 16 luglio 1985, pag. 5019; in prosieguo: la «legge n. 351/1985»): L’ENI, l’ENEL e l’ENEA sono autorizzati a costituire una società per azioni avente la finalità di sviluppare tecnologie innovative e avanzate nell’utilizzazione del carbone (arricchimento, tecniche di combustione, liquefazione, gasificazione, carbochimica ecc.) , che ha assunto la denominazione Sotocarbo Nel 1992, l’ENI e l’ENEL venivano privatizzate e trasformate in società per azioni. L’ENI, non più interessata a mantenere la propria partecipazione nella Sotacarbo, trasferiva tale partecipazione alla propria consociata Enirisorse. Quest’ultima, in applicazione dell’art. 7, n. 4, della legge n. 140/1999, esercitava la sua facoltà di recesso dalla Sotacarbo ed effettuava il versamento di un importo equivalente alle quote non ancora conferite della sua partecipazione. Contemporaneamente, chiedeva alla Sotacarbo il rimborso delle sue azioni in proporzione al capitale sociale di quest’ultima. La Sotacarbo non accoglieva tale richiesta e, il 12 marzo 2001, comunicava all’Enirisorse che, in occasione dell’assemblea straordinaria del 12 febbraio dello stesso anno, era stato deciso di annullare le azioni dell’Enirisorse senza procedere al rimborso del loro controvalore. L’Enirisorse proponeva ricorso dinanzi al Tribunale di Cagliari per ottenere il rimborso del valore delle azioni controverse. A sostegno del ricorso essa affermava che l’art. 7, comma 4, della legge n. 140/1999 le riconosceva il diritto di recedere dalla Sotacarbo e che, conformemente all’art. 2437 del Codice civile, quest’ultima era tenuta a rimborsarle il valore delle azioni in questione. L’art. 33 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Supplemento ordinario alla GURI n. 293 del 14 dicembre 2002; in prosieguo: la «legge n. 273/2002»), così dispone: 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO «Al fine di garantire le disponibilità finanziarie necessarie all’attuazione da parte della Sotacarbo Spa del piano di attività di cui all’articolo 7, comma 5, della legge 11 maggio 1999, n. 140, i soci della medesima società sono tenuti al versamento delle quote di capitale non ancora conferite entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e hanno facoltà di recesso previa rinuncia ad ogni diritto sul patrimonio della società e previo conferimento delle quote ancora dovute. Le dichiarazioni di recesso già comunicate alla Sotacarbo Spa ai sensi dell’articolo 7, comma 4, della citata legge n. 140 del 1999, possono essere revocate entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Decorso tale termine, il recesso si intende perfezionato con piena accettazione da parte del socio recedente delle condizioni sopra precisate». In considerazione dell’’entrata in vigore della legge n. 273/2002, adottata successivamente alla proposizione del ricorso da parte dell’Enirisorse e, in particolare, dell’art. 33 della medesima legge, l’Enirisorse chiedeva al detto giudice di sottoporre alla Corte la questione se, in particolare, un provvedimento come quello previsto dall’art. 33 della menzionata legge costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87 CE. 23. (…) la valutazione della compatibilità con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva della Commissione, che opera sotto il controllo del giudice comunitario (sentenze 21 novembre 1991, causa C-354/90, Fédération nationale du commerce extérieur des produits alimentaires et Syndicat national des négociants et transformateurs de saumon, Racc. pag. I-5505, punto 14; 11 luglio 1996, causa C-39/94, SFEI e a., Racc. pag. I-3547, punto 42, e Piaggio, cit., punto 31). Di conseguenza, un giudice nazionale non può, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE, interrogare la Corte sulla compatibilità con il mercato comune di un aiuto di Stato o di un regime di aiuti (ordinanza 24 luglio 2003, causa C-297/01, Sicilcassa e a., Racc. pag. I-7849, punto 47). 24. Tuttavia, la Corte ha altresì reiteratamente affermato che, per quanto non le spetti di pronunciarsi, nell’ambito di un procedimento promosso ai sensi dell’art. 234 CE, sulla compatibilità di norme di diritto interno con il diritto comunitario, né interpretare disposizioni legislative o regolamentari nazionali, essa è tuttavia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione attinenti al diritto comunitario che gli consentano di pronunciarsi su tale compatibilità per la definizione della causa per la quale è adito (v., in particolare, sentenze 15 dicembre 1993, causa C-292/92, Hünermund e a., Racc. pag. I-6787, punto 8; 3 maggio 2001, causa C-28/99, Verdonck e a., Racc. pag. I-3399, punto 28; 12 luglio 2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti e a., Racc. pag. I-5409, punto 48, e 27 novembre 2001, cause riunite C-285/99 e C-286/99, Lombardini e Mantovani, Racc. pag. I-9233, punto 27). 28. (...) nell’ambito del diritto della concorrenza la nozione di impresa abbraccia qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica, a prescinde- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 re dallo status giuridico di tale soggetto e dalle sue modalità di finanziamento (v., in particolare, sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner e Elser, Racc. pag. I-1979, punto 21; 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany, Racc. pag. I-5751, punto 77; 12 settembre 2000, cause riunite da C-180/98 a C-184/98, Pavlov e a., Racc. pag. I-6451, punto 74, e 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I-289, punto 107). 29. Costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato (sentenze 16 giugno 1987, causa 118/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 2599, punto 7; 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione /Italia, Racc. pag. I-3851, punto 36; Pavlov e a., cit., punto 75, e Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 108). 31. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 25 delle sue conclusioni, alla Sotacarbo è affidato, in particolare, il compito di sviluppare nuove tecnologie di impiego del carbone e di prestare servizi di sostegno specializzato alle amministrazioni, agli enti pubblici e alle società interessate allo sviluppo di tali tecnologie. Orbene, l’attività economica di un’impresa generalmente consiste proprio in questo tipo di attività. D’altronde, la circostanza che la Sotacarbo persegua un fine di lucro non è contestata. 32. Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, tale valutazione non è rimessa in discussione dalla circostanza che la Sotacarbo sia stata costituita da imprese pubbliche e finanziata con risorse provenienti dallo Stato italiano per esercitare talune attività di ricerca. 33. Infatti, da un lato, risulta da costante giurisprudenza che le modalità di finanziamento non sono rilevanti per stabilire se un soggetto eserciti un’attività economica (v. punto 28 della presente sentenza). 34 Dall’altro, la Corte ha già avuto modo di affermare che la circostanza che ad un soggetto siano attribuiti taluni compiti di interesse generale non può impedire che le attività di cui trattasi siano considerate attività economiche (v., in tal senso, sentenza 25 ottobre 2001, causa C-475/99, Ambulanz Glöckner, Racc. pag. I-8089, punto 21). 38. (…) affinché una misura possa essere qualificata come aiuto di Stato, devono ricorrere tutte le condizioni di cui all’art. 87, n. 1, CE (v. sentenze 21 marzo 1990, causa C-142/87, Belgio/Commissione, detta «Tubemeuse», Racc. pag. I-959, punto 25; 14 settembre 1994, cause riunite da C-278/92 a C-280/92, Spagna/Commissione, Racc. pag. I-4103, punto 20; 16 maggio 2002, causa C-482/99, Francia/Commissione, Racc. pag. I-4397, punto 68, e 24 luglio 2003, causa C-280/00, Altmark Trans e Regierungspräsidium Magdeburg, Racc. pag. I-7747, punto 74). 39. Così, in primo luogo, deve trattarsi di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali. In secondo luogo, tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra Stati membri. In terzo luogo, deve concedere un vantaggio al suo beneficiario. In quarto luogo, deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza (v. sentenze Altmark Trans e Regierungspräsidium Magdeburg, cit., punto 75, e 3 marzo 2005, causa C-172/03, Heiser, Racc. pag. I-1627, punto 27). 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 42. A tale riguardo occorre ricordare che da costante giurisprudenza risulta che la nozione di aiuto vale a designare non soltanto prestazioni positive, ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono identici effetti (v., segnatamente, sentenze 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke, Racc. pag. I-8365, punto 38, e Heiser, cit., punto 36). 43. Nella specie, si deve rilevare che le leggi nn. 140/1999 e 273/2002 – che, come ricordato dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, non possono essere considerate isolatamente – istituiscono un regime derogatorio alle disposizioni di diritto comune che disciplinano il diritto di recesso degli azionisti di società per azioni, regime derivante, in particolare, dall’art. 2437 del Codice civile. Infatti, tale disposizione attribuisce il diritto di recesso esclusivamente agli azionisti contrari alle decisioni riguardanti il cambiamento di oggetto o di tipo di società, ovvero il trasferimento della sede sociale all’estero. 46. Orbene, tale diritto non può essere considerato quale aiuto a favore della Sotacarbo, ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. 47. Infatti, come giustamente rileva la Commissione, la normativa nazionale in discussione nella causa principale non attribuisce alcun aiuto né agli azionisti, che possono recedere eccezionalmente dalla Sotacarbo senza ottenere il rimborso delle loro azioni, né alla detta società, in quanto gli azionisti sono autorizzati ma non obbligati a recedere dalla società anche quando i requisiti previsti al riguardo dal diritto comune non siano soddisfatti. 48. Ne consegue che la legge n. 273/2002 si limita ad evitare che sul bilancio della Sotacarbo gravi un onere che, in circostanze normali, non sarebbe esistito. Pertanto, tale legge disciplina esclusivamente il diritto di recesso eccezionale concesso agli azionisti di tale società dalla legge n. 140/1999 senza essere diretta ad alleviare un onere che tale società avrebbe dovuto normalmente sopportare. 49. A tale proposito occorre aggiungere che, se l’art. 33 della legge n. 273/2002 avesse escluso il diritto al rimborso anche nel caso di un recesso esercitato in presenza dei requisiti previsti dall’art. 2437 del Codice civile, la detta disposizione avrebbe potuto costituire un vantaggio ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Orbene, dagli atti sottoposti alla Corte non risulta che questo avvenga. 50. Dal momento che le condizioni previste all’art. 87, n. 1, CE sono cumulative (v. punto 38 della presente sentenza), non occorre esaminare se gli altri elementi della nozione di aiuto di Stato ricorrano nella specie. 51. (…) una normativa nazionale come quella oggetto della causa principale, che accordi ai soci di una società controllata dallo Stato una facoltà, derogatoria rispetto al diritto comune, di recesso da tale società a condizione di rinunciare a qualsiasi diritto sul patrimonio della società stessa, non può essere qualificata come aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87 CE. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 COOPERAZIONE GIUDIZIARIA Sentenza della Corte, Grande Sezione, 2 maggio 2006 , nel procedimento C-341/04 - Eurofood IFSC Ltd. L’Eurofood è stata registrata in Irlanda nel 1997 come «company limited by shares» (società in accomandita per azioni), avente la propria sede statutaria nell’International Financial Services Center a Dublino. Si tratta di una società controllata detenuta al 100 % dalla Parmalat SpA, società di diritto italiano. Il suo scopo principale consisteva nel fornire agevolazioni di finanziamento alle società del gruppo Parmalat. In data 24 dicembre 2003, ai sensi del decreto legge 23 dicembre 2003, n. 347, recante misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza (GURI n. 298 del 24 dicembre 2003, pag. 4), il Ministro delle Attività produttive ha ammesso la Parmalat SpA alla procedura di amministrazione straordinaria, nominando il sig. B. amministratore straordinario di tale società. In data 27 gennaio 2004, la Bank of America NA ha chiesto alla High Court (Irlanda) l’apertura di una procedura di liquidazione coatta («compulsory winding up by the Court») nei confronti della Eurofood, oltre che la nomina di un curatore provvisorio. Tale domanda era basata sull’affermazione dell’insolvenza di tale società. Il giorno stesso la High Court, sulla base di tale domanda, ha nominato il sig. F. curatore provvisorio («provisional liquidator»), conferendogli il potere di prendere possesso di tutti i beni di tale società, di gestirne gli affari, di aprire un conto bancario a nome della stessa e di ricorrere alle prestazioni di un consulente. In data 9 febbraio 2004, il Ministro italiano delle Attività produttive ha ammesso l’Eurofood alla procedura di amministrazione straordinaria, nominando il sig. B. amministratore straordinario. In data 10 febbraio 2004, è stata depositata presso il Tribunale civile e penale di Parma una domanda tendente a far dichiarare l’insolvenza della Eurofood. L’udienza è stata fissata per il 17 febbraio 2004, data della quale il sig. F. è stato informato il 13 febbraio. In data 20 febbraio 2004 tale giudice, ritenendo che il centro degli interessi principali della Eurofood fosse in Italia, ha dichiarato la propria competenza internazionale per dichiarare lo stato di insolvenza di tale società. Con sentenza 23 marzo 2004, la High Court ha ritenuto che, secondo la legge irlandese, la procedura di insolvenza nei confronti della Eurofood fosse stata aperta in Irlanda alla data della domanda presentata a tal fine dalla Bank of America NA, cioè il 27 gennaio 2004. Ritenendo che il centro degli interessi principali della Eurofood si trovasse in Irlanda, la High Court ha ritenuto che la procedura aperta in tale Stato membro fosse quella principale. Essa ha altresì considerato che le condizioni dello svolgimento della procedura dinanzi al Tribunale civile e penale di Parma fossero tali da giustificare, ai sensi dell’art. 26 del regolamento, il rifiuto, da parte dei giudici irlan- 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO desi, di riconoscere la decisione di tale Tribunale. Constatata l’insolvenza della Eurofood, la High Court ha ordinato la liquidazione di tale società, nominando liquidatore il sig. F. Poiché il sig. B. ha proposto appello contro tale decisione, la Supreme Court ha ritenuto necessario, prima di pronunciarsi sulla controversia sottopostale, proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: La Supreme Court ha ritenuto necessario, prima di pronunciarsi sulla controversia sottopostale, sospendere il giudizio e proporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, allorché ad un giudice competente viene presentata in Irlanda una domanda di liquidazione (“winding up”) di una società insolvente e tale giudice emette, in pendenza dell’emissione di un’ordinanza di liquidazione, un’ordinanza di nomina di un curatore provvisorio (“provisional liquidator”) munito del potere di prendere possesso degli attivi della società, amministrare i suoi affari, aprire un conto corrente bancario e nominare un consulente, tutto ciò con la conseguenza sul piano giuridico di privare del potere di agire gli amministratori della società, codesta ordinanza combinata con la presentazione della domanda costituisca una decisione di apertura della procedura di insolvenza (“insolvency proceedings”) ai fini dell’art. 16 del regolamento (…), interpretato alla luce degli artt. 1 e 2 dello stesso. 2) In caso di soluzione negativa della prima questione, se la presentazione, in Irlanda, dinanzi alla High Court di una domanda di liquidazione coatta (“compulsory winding up”) di una società ad opera del giudice costituisca l’apertura della procedura di insolvenza (“insolvency proceedings”) ai fini di tale regolamento in forza della disposizione legislativa irlandese [art. 220, n. 2, del Companies Act], ai sensi della quale la liquidazione di una società inizia alla data di presentazione della domanda. 3) Se l’art. 3 del suddetto regolamento, in combinato disposto con l’art. 16 dello stesso, abbia per effetto che un giudice di uno Stato membro diverso da quello ove è situata la sede statutaria della società e diverso da quello ove la società esercita in modo abituale la gestione dei suoi affari secondo modalità riconoscibili da terzi, ma ove è stata inizialmente aperta la procedura di insolvenza, sia competente ad aprire la procedura di insolvenza principale. 4) Se, laddove: a) la sede statutaria di una società madre e della sua controllata sono in due diversi Stati membri, b) la controllata esercita in modo abituale la gestione dei suoi interessi secondo modalità riconoscibili da terzi ed in osservanza completa e regolare della sua stessa identità societaria nello Stato membro dove è situata la sua sede statutaria, e c) la società madre, grazie al suo azionariato ed al potere di nominare gli amministratori, è in grado di controllare e di fatto controlla la gestione della controllata, per determinare il “centro degli interessi principali”, i fattori rilevanti siano quelli menzionati alla lett. b) supra o, invece, quelli menzionati alla lett. c) supra. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 5) Se, quando il fatto di consentire che una decisione giudiziaria o amministrativa produca effetti giuridici con riguardo a persone o enti i cui diritti ad un procedimento corretto e ad un dibattimento equo non siano stati osservati nel prendere una decisione siffatta sia manifestamente contrario all’ordine pubblico di uno Stato membro, tale Stato membro sia obbligato, a norma dell’art. 17 del suddetto regolamento, a riconoscere una decisione dei giudici di un altro Stato membro intesa ad aprire la procedura di insolvenza nei confronti di una società, in una situazione in cui il giudice del primo Stato membro è convinto che la decisione in questione sia stata emessa nell’inosservanza di tali principi e, in particolare, laddove il ricorrente nel secondo Stato membro abbia rifiutato, nonostante sollecitazioni e contrariamente all’ordinanza del giudice del secondo Stato membro, di fornire al “provisional liquidator” della società, debitamente nominato conformemente al diritto del primo Stato membro, copia dei documenti essenziali che sono alla base della domanda». 1. Quando un debitore è una società controllata la cui sede statutaria è situata in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede la sua società madre, la presunzione contenuta nell’art. 3, n. 1, seconda frase, del regolamento n. 1346/2000, secondo la quale il centro degli interessi principali di tale controllata è collocato nello Stato membro in cui si trova la sua sede statutaria, può essere superata soltanto se elementi obiettivi e verificabili da parte dei terzi consentono di determinare l’esistenza di una situazione reale diversa da quella che si ritiene corrispondere alla collocazione nella detta sede statutaria. Ciò potrebbe, in particolare, valere per una società che non svolgesse alcuna attività sul territorio dello Stato membro in cui è collocata la sua sede sociale. Per contro, quando una società svolge la propria attività sul territorio dello Stato membro in cui ha sede, il fatto che le sue scelte gestionali siano o possano essere controllate da una società madre stabilita in un altro Stato membro non è sufficiente per superare la presunzione stabilita dal regolamento. 2. L’art. 16, n. 1, primo comma, del regolamento n. 1346/2000 dev’essere interpretato nel senso che la procedura di insolvenza principale aperta da un giudice di uno Stato membro dev’essere riconosciuta dai giudici degli altri Stati membri, senza che questi possano controllare la competenza del giudice dello Stato di apertura. Infatti, la norma sulla priorità contenuta in tale disposizione, la quale prevede che la procedura di insolvenza aperta in uno Stato membro sia riconosciuta in tutti gli Stati membri dal momento in cui essa produce i propri effetti nello Stato di apertura, poggia sul principio della fiducia reciproca, che ha consentito la creazione di un sistema obbligatorio di competenze e la correlativa rinuncia da parte degli Stati membri alle loro norme interne di riconoscimento e di delibazione a favore di un meccanismo semplificato di riconoscimento e di esecuzione delle decisioni pronunciate nell’ambito di procedure di insolvenza. Se una parte interessata, ritenendo che il centro degli interessi principali del debitore sia situato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata aperta la procedura di insolvenza principale, intende contestare la competenza ritenuta dal giudice che ha aperto tale procedura, può utilizzare, davanti ai giudici dello Stato mem- 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO bro in cui questa è stata aperta, i mezzi di ricorso previsti dal diritto nazionale di tale Stato membro nei confronti della decisione di apertura. 3. L’art. 16, n. 1, primo comma, del regolamento n. 1346/2000 dev’essere interpretato nel senso che costituisce una decisione di apertura della procedura di insolvenza la decisione pronunciata da un giudice di uno Stato membro investito di una domanda in tal senso, basata sull’insolvenza del debitore e finalizzata all’apertura di una procedura di cui all’allegato A del medesimo regolamento, allorché tale decisione comporta lo spossessamento del debitore e comprende la nomina di un curatore previsto dall’allegato C al citato regolamento. Tale spossessamento comporta che il debitore perda i poteri di gestione da lui posseduti sul proprio patrimonio. Infatti, il sistema che prevede che possa essere aperta una sola procedura principale, la quale produce i suoi effetti in tutti gli Stati membri nei quali il regolamento è applicabile, potrebbe essere gravemente perturbato se i giudici dei detti Stati, investiti contemporaneamente di domande basate sull’insolvenza di un debitore, potessero rivendicare una competenza concorrente per un periodo prolungato. Occorre quindi, al fine di assicurare l’efficacia del sistema istituito dal regolamento, che il principio di riconoscimento previsto da tale disposizione possa applicarsi appena possibile nel corso della procedura. 4. L’art. 26 del regolamento n. 1346/2000 dev’essere interpretato nel senso che uno Stato membro può rifiutarsi di riconoscere una procedura di insolvenza aperta in un altro Stato membro qualora la decisione di apertura sia stata assunta in manifesta violazione del diritto fondamentale di essere sentito di cui gode un soggetto interessato da una tale procedura. Anche se le concrete modalità del diritto di essere sentiti possono variare in funzione della possibile urgenza della decisione, ogni restrizione all’esercizio di tale diritto dev’essere adeguatamente giustificata e corredata di garanzie procedurali che assicurino ai soggetti interessati da una tale procedura l’effettiva possibilità di contestare i provvedimenti adottati in via di urgenza. Se è vero che spetta al giudice dello Stato richiesto accertare se, nel corso del procedimento dinanzi al giudice dell’altro Stato membro, abbia avuto luogo una manifesta violazione del diritto di essere sentiti, tale giudice non può limitarsi ad utilizzare la propria concezione dell’oralità della trattazione e del carattere fondamentale che essa riveste nel suo ordinamento giuridico, ma deve valutare, sulla base dell’insieme delle circostanze, se i soggetti coinvolti nel procedimento abbiano goduto o meno di una sufficiente possibilità di essere sentiti. Sentenza della Corte, Seconda Sezione, 16 febbraio 2006, nel procedimento C-3/05 - G. V. contro J.M. V.d.H. BV, Banco di Sardegna, San Paolo IMI SpA. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 36 della Convenzione 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32), come modificata dalla convenzione 9 otto- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 bre 1978, relativa all’adesione del Regno di Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU L 304, pag. 1 e – testo modificato – pag. 77), dalla convenzione 25 ottobre 1982, relativa all’adesione della Repubblica ellenica (GU L 388, pag. 1), nonché dalla convenzione 26 maggio 1989, relativa all’adesione del Regno di Spagna e della Repubblica portoghese (GU L 285, pag. 1; in prosieguo: la «Convenzione di Bruxelles»). La domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra il sig. V., da una parte, e, dall’altra, la J.M. Van der Hoeven BV , il Banco di Sardegna e la San Paolo IMI SpA, già Istituto San Paolo di Torino, a proposito dell’esecuzione, in Italia, di una sentenza pronunciata dall’Arrondissementsrechtbank ’s-Gravenhage (Paesi Bassi), con cui il sig. V. era stato condannato a versare alla Van der Hoeven la somma di NLG 365 000. L’art. 36 della Convenzione 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle convenzioni di adesione del 1978, del 1982 e del 1989, deve essere interpretato nel senso che esige una notificazione regolare della decisione che accorda l’esecuzione, alla luce delle norme procedurali dello Stato contraente nel quale l’esecuzione è stata chiesta e quindi che, in caso di notificazione inesistente o irregolare della decisione che accorda l’esecuzione, la semplice acquisita conoscenza di tale decisione da parte della persona contro cui l’esecuzione è stata chiesta non basta per far decorrere il termine fissato al detto articolo. Infatti, in primo luogo, l’obbligo di notificazione della decisione che accorda l’esecuzione ha la funzione, da una parte, di tutelare i diritti della parte contro cui l’esecuzione è stata chiesta e, dall’altra, di permettere, sul piano probatorio, un computo esatto del termine di opposizione rigoroso e perentorio previsto da tale disposizione. Questa duplice funzione, unita all’obiettivo di semplificazione delle formalità alle quali è subordinata l’esecuzione delle decisioni giurisdizionali rese in altri Stati contraenti, spiega il motivo per cui la Convenzione sottopone la trasmissione alla parte contro la quale l’esecuzione è stata chiesta della decisione che accorda l’esecuzione a condizioni di forma più rigide di quelle applicabili alla trasmissione della stessa decisione al richiedente. In secondo luogo, se fosse rilevante soltanto la conoscenza, ad opera della parte contro cui l’esecuzione è stata chiesta, della decisione che accorda l’esecuzione, ciò rischierebbe di vanificare l’obbligo di notificazione e renderebbe inoltre più difficile il computo esatto del termine previsto da tale disposizione, rendendo così impossibile l’applicazione uniforme delle disposizioni della Convenzione. DIRITTO D’AUTORE Sentenza della Corte, sezione terza, 1° giugno 2006, nella causa C-169/05 – Uradex SCRL Union Professionnelle de la Radio et de la Télédistri- 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO bution (RTD), Société Intercommunale pour la Diffusion de la Télévision (BRUTELE). La presente domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione dell’art. 9, n. 2, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1993, 93/83/CEE, per il coordinamento di alcune norme in materia di diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo (GU L 248, pag. 15; in prosieguo: la «direttiva»). La detta domanda è stata presentata nel contesto di un procedimento tra la Uradex SCRL (in prosieguo: la «Uradex»), da una parte, e, dall’altra, l’Union Professionnelle de la Radio et de la Télédistribution (in prosieguo: la «RTD») e la Société Intercommunale pour la Diffusion de la Télévision (in prosieguo: la «BRUTELE»), in cui la Uradex ha chiesto di ingiungere ai membri della RTD, e in particolare alla BRUTELE, di cessare la ritrasmissione via cavo di opere appartenenti al suo repertorio. La Uradex, società di gestione collettiva dei diritti connessi degli artisti interpreti ed esecutori, ha chiesto al Tribunal de première instance de Bruxelles di dichiarare che, ritrasmettendo via cavo, senza licenza da parte sua e, pertanto, in violazione degli artt. 51 e 53 della legge, le prestazioni degli artisti interpreti ed esecutori appartenenti al suo repertorio, le società di diffusione via cavo membri della RTD, e in particolare la Brutele, violano i diritti connessi gestiti dalla Uradex. Del pari, ha chiesto di intimare a ciascuna delle società in oggetto la cessazione della ritrasmissione via cavo delle dette prestazioni. A seguito del rigetto della sua domanda, la Uradex ha interposto appello dinanzi alla Cour d’appel de Bruxelles. Con riguardo a prestazioni sia audiovisive sia non audiovisive, il detto giudice affermava, anzitutto, che, se è pur vero che le società di gestione collettiva di diritti connessi dispongono del diritto esclusivo di autorizzare o di vietare la loro riproduzione via cavo (in prosieguo: il «diritto di ritrasmissione »), tale diritto, tuttavia, è limitato ai diritti la cui gestione sia stata attribuita alle dette società. Inoltre, la Cour d’appel ha affermato che, in materia di prestazioni audiovisive, la Uradex non può, ai sensi dell’art. 36 della legge, esercitare il diritto di ritrasmissione via cavo, anche con riguardo ad artisti che abbiano incaricato la detta società della gestione dei loro diritti. Tale disposizione, infatti, fisserebbe la presunzione legale che l’artista abbia ceduto il proprio diritto di ritrasmissione al produttore. Orbene, una società di gestione collettiva agisce per conto degli artisti interpreti o esecutori che rappresenta e non può gestire diritti ulteriori rispetto a quelli detenuti da questi ultimi. Un’autorizzazione della Uradex sarebbe necessaria solo se, conformemente all’art. 36 della legge, essa confutasse tale presunzione dimostrando l’esistenza di accordi tra gli artisti interessati ed i produttori che escludano la cessione del diritto di ritrasmissione o, in difetto, se rappresentasse produttori di opere audiovisive. Ciò non si verifica nella specie. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 L’art. 9, n. 2, della direttiva 93/83, per il coordinamento di alcune norme in materia di diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo, deve essere interpretato nel senso che una società di gestione collettiva, qualora sia ritenuta incaricata di amministrare i diritti di un titolare di diritti d’autore o di diritti connessi che non abbia affidato la gestione dei propri diritti a una specifica società di gestione collettiva, può esercitare il diritto del detto titolare di accordare o negare l’autorizzazione a un cablodistributore di ritrasmettere via cavo una trasmissione, e, di conseguenza, la gestione da parte della detta società dei diritti del suddetto titolare non si limita ai loro aspetti pecuniari. Tuttavia, tale direttiva non osta alla cessione del diritto di ritrasmissione, che può operarsi sia sulla base di un contratto, sia in virtù di una presunzione legale, e non osta quindi a che un autore, artista interprete, esecutore o produttore, perda, in forza di una disposizione nazionale, la propria qualità di «titolare» di tale diritto ai sensi dell’art. 9, n. 2, della direttiva, con la conseguenza della dissoluzione di ogni nesso giuridico sussistente in forza della detta disposizione tra il medesimo e la società di gestione collettiva. DOGANE – Accise Sentenza della Corte, sezione seconda, 5 ottobre 2006, nella causa C- 140/05 – A.V. e Zollamt Klagenfurt. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione del punto 6, n. 2, dell’allegato XIII all’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei Trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GU 2003, L 236, pag. 33; in prosieguo: l’«Atto di adesione»), nonché degli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra la sig.ra A.V. e lo Zollamt di Klagenfurt (Ufficio doganale di Klagenfurt; in prosieguo: lo «Zollamt») riguardante la franchigia dalle accise applicabili relativamente all’introduzione in territorio austriaco di 200 sigarette provenienti dalla Slovenia. 35. In via preliminare, occorre rilevare che la materia delle franchigie delle accise per l’importazione di merci contenute nel bagaglio personale dei viaggiatori provenienti da paesi terzi, con particolare riguardo alle sigarette, è disciplinata dalla direttiva 69/169. 36. Tale direttiva, come indica il suo titolo, persegue l’obiettivo di armonizzare le franchigie delle imposte sulla cifra d’affari e delle altre imposizio- 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ni indirette interne riscosse all’importazione nel traffico internazionale di viaggiatori. Si tratta, come risulta dai suoi ‘considerando’ e da quelli delle direttive che l’hanno successivamente modificata, di liberalizzare maggiormente il regime di tassazione delle importazioni nel traffico di viaggiatori allo scopo di agevolare il detto traffico (sentenza 15 giugno 1999, causa C- 394/97, Heinonen, Racc. pag. I-3599, punto 25). 37. Peraltro, gli Stati membri, nella materia coperta dalla direttiva 69/169, conservano la sola competenza limitata che è loro riconosciuta dalle stesse disposizioni della direttiva e da quelle che l’hanno modificata (sentenza 9 giugno 1992, causa C-96/91, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-3789, punto 10 e giurisprudenza ivi citata). 38. Con particolare riguardo alle sigarette, l’art. 4, n. 1, lett. a), della direttiva 69/169 dispone che la franchigia dalle accise è limitata a 200 sigarette per il traffico tra paesi terzi e la Comunità. Tuttavia, ai sensi dell’art. 5, nn. 2 e 8, della direttiva in questione, gli Stati membri restano competenti per abbassare tale limite secondo le condizioni previste da tali disposizioni. 42. Si pone pertanto la questione di accertare se, prima dell’adesione della Repubblica di Slovenia all’Unione, la normativa nazionale di cui alla causa principale, che istituiva la franchigia ridotta a 25 sigarette, potesse basarsi sulla competenza limitata a disposizione della Repubblica d’Austria ai sensi dell’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169 e se, in seguito alla citata adesione, tale regolamentazione possa ancora fondarsi su tale competenza, tenuto conto dell’intervento dell’art. 24 dell’Atto di adesione. 49. In merito all’argomento riferito all’enumerazione di cui all’art. 5, nn. 1-3, della direttiva 69/169, ove si citano le eccezioni specifiche applicabili a talune categorie di viaggiatori, occorre notare che, fra tali disposizioni, unicamente il n. 2 risulta pertinente al caso di specie, poiché concerne importazioni provenienti da paesi terzi, mentre i nn. 1 e 3 dell’articolo in questione si riferiscono a merci provenienti da un altro Stato membro. 50. Se è vero che la categoria di viaggiatori, considerata dalla norma nazionale nella causa principale, costituita dai soggetti che hanno la loro residenza in Austria, è definita in maniera più ampia rispetto a quelle costituite dalle persone residenti nelle zone di frontiera, dai lavoratori frontalieri o dal personale dei mezzi di trasporto utilizzati nel traffico fra i paesi terzi e la Comunità ai sensi dell’art. 5, n. 2, della direttiva 69/169, la natura specifica delle categorie considerate da quest’ultima eccezione non osta all’applicazione dell’eccezione prevista al n. 8 del medesimo articolo ad un’altra categoria di viaggiatori, definita in maniera più ampia. 51. Tale ultima eccezione, infatti, riveste anche un carattere specifico dal momento che si applica solo a talune merci elencate tassativamente, in particolare alle sigarette. 52. Secondo il tenore letterale dell’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169, gli Stati membri hanno la facoltà di ridurre i quantitativi di merci di cui all’art. 4, n. 1, lett. a) e d), della direttiva in questione, segnatamente di sigarette, per i viaggiatori che, provenienti da un paese terzo, entrano in uno Stato membro. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 53. Occorre constatare che, tenuto conto del carattere generale dei termini utilizzati, non è possibile basare sul tenore letterale di tale disposizione un’interpretazione restrittiva, quale quella proposta dalla Commissione, secondo cui franchigie ridotte, adottate in forza della disposizione in questione, sarebbero autorizzate unicamente qualora si applicassero a tutti i paesi terzi, senza distinzione, ed a tutte le categorie di viaggiatori. 54. Il carattere generale del tenore letterale implica al contrario che, nel caso dei prodotti specifici di cui all’art. 4, n. 1, lett. a) e d), della direttiva 69/169, segnatamente nel caso delle sigarette, agli Stati membri è riservata un’ampia facoltà di ridurre i quantitativi delle merci considerate in tale articolo. 56. Quando utilizzano tale facoltà, gli Stati membri sono quindi tenuti a limitare il più possibile gli effetti negativi che le misure adottate potrebbero avere sulla realizzazione dello scopo generale della direttiva 69/169 e, pertanto, a rispettare un ragionevole equilibrio fra tale scopo e l’obiettivo specifico di cui all’art. 5, n. 8, di questa stessa direttiva. 57. Tale obiettivo specifico deve tener conto della natura particolare dei prodotti in questione, vale a dire tabacchi lavorati come le sigarette, e del bene giuridico che la disposizione controversa nella causa principale consente di tutelare. 65. Risulta quindi che, tenuto conto della limitazione del campo d’applicazione in funzione delle specificità connesse al rischio di compromettere la politica fiscale e l’obiettivo di tutela della salute derivante dalla prossimità dei paesi in questione e dal livello d’imposizione fiscale applicato ai tabacchi lavorati in questi ultimi, la misura nazionale in oggetto realizza un equilibrio ragionevole fra lo scopo generale della direttiva 69/169 e lo scopo specifico di cui all’art. 5, n. 8, di tale direttiva. 66. Riguardo alla situazione della Repubblica di Slovenia dopo l’adesione all’Unione europea, è pacifico che il livello d’imposizione applicabile in tale Stato membro ai tabacchi lavorati, sebbene innalzato dopo l’adesione, resta inferiore a quanto previsto dalla normativa comunitaria in vigore. 67. Pertanto, il rischio specifico che la franchigia limitata a 25 sigarette si propone di contrastare continua a sussistere, cosicché tale misura può ancora fondarsi sull’art. 5, n. 8, della direttiva 69/169, letto in combinato disposto con l’art. 24 dell’Atto di adesione. 68. Ciò posto, nemmeno l’argomento della Commissione secondo il quale la normativa nazionale di cui alla causa principale sarebbe discriminatoria può essere accolto. 69. Da quanto precede risulta infatti che, in funzione dei fini perseguiti, l’ambito di applicazione della normativa nazionale in questione è limitato alle importazioni provenienti da paesi terzi e dai nuovi Stati membri limitrofi alla Repubblica d’Austria che, per i tabacchi lavorati, praticano un livello d’imposizione fiscale inferiore a quello imposto dalla normativa comunitaria. 70. Pertanto, dato che la situazione di tali paesi terzi e dei nuovi Stati membri limitrofi alla Repubblica d’Austria non è paragonabile a quella di altri paesi terzi, il trattamento differenziato che discende dalla detta norma- 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tiva non può venire considerato discriminatorio relativamente alle importazioni provenienti da tali paesi terzi e nuovi Stati membri. 72. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale, quale quella in questione nella causa principale, secondo cui la franchigia dalle accise per le sigarette importate nel bagaglio personale dei viaggiatori è limitata a 25 unità all’ingresso nel territorio della Repubblica d’Austria in provenienza da taluni altri Stati membri, in particolare dalla Repubblica di Slovenia, poiché, in seguito all’ultimo allargamento dell’Unione europea, tale franchigia non si applica più ad alcuno Stato terzo, con la sola eccezione della zona franca svizzera del Samnauntal, mentre generalmente le importazioni di sigarette provenienti da paesi terzi beneficiano di una franchigia di 200 unità. 74. Dal momento che tale normativa nazionale è giustificata alla luce di uno degli atti di cui all’art. 24 dell’Atto di adesione, nel caso di specie la misura transitoria prevista al punto 6, n. 2, dell’allegato XIII a tale Atto, non può più porsi la questione della compatibilità della normativa in questione con altre disposizioni di diritto primario, quali gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE. 75. Occorre, pertanto, rispondere alla seconda questione dichiarando che gli artt. 23 CE, 25 CE e 26 CE devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, quale quella in questione nella causa principale, secondo cui la franchigia dalle accise per le sigarette importate nel bagaglio personale dei viaggiatori è limitata a 25 unità all’ingresso nel territorio della Repubblica d’Austria in provenienza da taluni altri Stati membri, in particolare dalla Repubblica di Slovenia, nonostante il fatto che, in seguito all’ultimo ampliamento dell’Unione europea, tale franchigia ridotta non si applichi più ad alcuno Stato terzo, con la sola eccezione della zona franca svizzera del Samnauntal, mentre generalmente le importazioni di sigarette provenienti dai paesi terzi beneficiano di una franchigia di 200 unità. Sentenza della Corte, sezione terza, 11 maggio 2006, nel procedimento C-11/05 – Friesland Coberco Dairy Foods BV, che agisce sotto la denominazione di «Friesland and Supply Point Ede», contro Inspecteur van de Belastingdienst/Douane Noord/kantoor Groningen. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 133, lett. e), del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario (G.U. L. 302, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 16 novembre 2000, n. 2700 (G.U. L. 311, pag. 17; in prosieguo: il «codice doganale»), nonché degli artt. 502, n. 3, e 504, n. 4, del regolamento (CEE) della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento (CEE) del Consiglio n. 2913/92 che istituisce il codice doganale comunitario (G.U. L. 253, pag. 1), come modi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 ficato dal regolamento (CE) della Commissione 4 maggio 2001, n. 993 (G.U. L. 141, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento di applicazione»). Per conseguire gli obiettivi della politica agricola comune, in particolare per garantire ai produttori di barbabietole e canne da zucchero della Comunità il mantenimento del posto di lavoro e del tenore di vita, sono state previste misure atte a stabilizzare il mercato dello zucchero mediante regolamento (CE) del Consiglio 19 giugno 2001, n. 1260, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero (G.U. L. 178, pag. 1). La Coberco Dairy Foods produce bevande a base di succo di frutta utilizzando come materie prime concentrati di succhi di frutta, zuccheri, profumi, minerali e vitamine acquistate presso società stabilite, per talune di esse, in Stati membri e, per altre, in Stati terzi. La fabbricazione consiste soprattutto nel mescolare succhi di frutta con acqua e zucchero, nel pastorizzare il prodotto e successivamente nel condizionarlo. Detta società presentava, in applicazione dell’art. 132 del codice doganale, una domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale alle autorità doganali olandesi in relazione a tre prodotti: succo di mela con zuccheri addizionati, succo d’arancia con zuccheri addizionati, zucchero bianco diverso dallo zucchero di canna. Quanto alle condizioni economiche, nella detta domanda veniva precisato che con l’utilizzo di materie di paesi terzi era possibile conservare nella Comunità alcune attività di trasformazione. Poiché le merci e la trasformazione prevista figurano sotto l’allegato 76, parte B, del regolamento di applicazione, la pratica veniva trasmessa al comitato per esaminare se ricorressero le condizioni economiche. La Commissione depositava dinanzi al comitato un documento di lavoro dal quale risulta che la Coberco Dairy Foods aveva presentato la domanda di autorizzazione in ragione della forte concorrenza dei produttori dell’Europa centrale e orientale. Senza l’applicazione del regime di trasformazione sotto controllo doganale, la Coberco Dairy Foods avrebbe probabilmente deciso di trasformare i prodotti in Europa centrale o orientale piuttosto che nei Paesi Bassi. Il rappresentante della sezione generale dell’agricoltura della Commissione ha informato il comitato, da un lato, delle riduzioni delle garanzie di smaltimento dello zucchero in vista del rispetto degli impegni internazionali della Comunità e, dall’altro, del fatto che i produttori comunitari di zucchero erano «sotto pressione» e che importazioni «in franchigia doganale» nell’ambito del regime di trasformazione sotto controllo doganale avrebbero aumentato tale pressione. Di conseguenza, la detta direzione generale non appoggiava tale domanda. Il comitato di conseguenza decideva che le condizioni economiche non erano nella specie rispettate. Le autorità doganali dei Paesi Bassi, basandosi su tali conclusioni del comitato, respingevano la domanda della Coberco Dairy Foods. Il reclamo proposto da quest’ultima veniva respinto dall’ispettore in data 2 aprile 2004. La Coberco Dairy Foods adiva quindi il Gerechtshof te Amsterdam con un ricorso. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Alla luce di quanto sopra, il Gerechtshof te Amsterdam, con ordinanza 28 dicembre 2004, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Come si debba interpretare l’espressione “senza che vengano pregiudicati gli interessi essenziali dei produttori comunitari di merci affini” di cui all’art. 133, lett. e), del codice doganale. Se al riguardo si debba esaminare soltanto il mercato del prodotto finito, o se si debba esaminare anche la situazione economica delle materie prime nell’ambito di una trasformazione sotto il regime doganale; 2) se nella valutazione della locuzione “creazione o mantenimento di attività di trasformazione”, di cui all’art. 502, n. 3, del regolamento di applicazione rilevi un determinato numero minimo di posti di lavoro, che deve essere reso possibile mediante le attività in questione. Quali altri criteri valgano inoltre per l’interpretazione del citato testo del regolamento; 3) alla luce delle soluzioni alla prima e alla seconda questione, se la Corte di giustizia possa esaminare nell’ambito di un procedimento pregiudiziale la validità delle conclusioni del comitato; 4) in caso affermativo, se le conclusioni adottate nella specie siano valide, riguardo sia alla motivazione, sia agli argomenti economici utilizzati; 5) nell’ipotesi in cui la Corte di giustizia non potesse esaminare la validità delle conclusioni, quale interpretazione debba essere data quindi alla locuzione “le conclusioni del comitato vengono prese in considerazione dalle autorità doganali” di cui all’art. 504, n. 4, del regolamento di applicazione, qualora le autorità doganali in primo grado e/o il giudice nazionale, in appello, ritengano che le conclusioni del comitato non consentono di giustificare il rigetto di una domanda di autorizzazione di trasformazione sotto il regime doganale». 1. Le conclusioni del comitato del codice doganale nell’ambito di una domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale in applicazione dell’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, non hanno carattere vincolante per le autorità doganali nazionali che statuiscono su tale domanda. 2. Le conclusioni del comitato del codice doganale nell’ambito di una domanda di autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale in applicazione dell’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, non possono costituire oggetto di un esame di validità nell’ambito dell’art. 234 CE. 3. L’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, il quale detta le condizioni economiche che devono essere soddisfatte affinché sia concessa un’autorizzazione di trasformazione sotto controllo doganale, fa riferimento agli «interessi essenziali dei produttori comunitari di merci affini ». A tal proposito, in sede di valutazione di una domanda di autorizzazio- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 ne di trasformazione sotto controllo doganale in applicazione della detta norma, deve tenersi conto non soltanto del mercato dei prodotti finiti, ma anche della situazione economica del mercato delle materie prime utilizzate per fabbricare i detti prodotti. 4. I criteri da prendere in considerazione per valutare «la creazione o il mantenimento di attività di trasformazione» ai sensi dell’art. 133, lett. e), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, e dell’art. 502, n. 3, del regolamento n. 2454/93, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento 2913/92, possono includere il criterio relativo alla creazione, in ragione delle attività di trasformazione previste, di un numero minimo di posti di lavoro, ma non si limitano a questo. I detti criteri dipendono, infatti, dalla natura dell’attività di trasformazione considerata e l’autorità doganale nazionale incaricata dell’esame delle condizioni economiche ai sensi di queste due disposizioni deve valutare globalmente ogni elemento pertinente, compreso quello relativo al numero dei posti di lavoro creati, al valore dell’investimento realizzato o alla perennità dell’attività prevista. Sentenza della Corte, sezione seconda, 9 marzo 2006, nel procedimento C-293/04 – Beemsterboer Coldstore Services BV contro Inspecteur der Belastingdienst – Douanedistrict Arnhem. Nel 1997 la Hoogwegt International ha acquistato alcuni quantitativi di burro dall’impresa estone AS Lacto Ltd .Tali quantitativi sono stati dichiarati all’ingresso nei Paesi Bassi dalla Beemsterboer, spedizioniere doganale, operante per conto della Hoogwegt. L’Estonia è stata indicata come paese d’origine delle merci, le quali sono state dunque immesse in libera pratica con applicazione della tariffa preferenziale sulla base del suddetto Accordo di libero scambio. Per provare l’origine del burro, ciascuna dichiarazione doganale era accompagnata da un certificato EUR. 1, rilasciato dalle autorità doganali estoni su richiesta della Lacto. Nel marzo 2000, in seguito ad indicazioni relative ad una frode riguardante quantitativi di burro commercializzato tra l’Unione europea e l’Estonia, una delegazione istituita dalla Commissione delle Comunità europee, in collaborazione con le autorità doganali nazionali, ha effettuato un controllo a questo proposito. Nell’ambito dell’indagine, è emerso che la Lacto non aveva conservato i documenti originari comprovanti l’origine del burro esportato. Con decisione in data 14 luglio 2000, l’ispettorato delle dogane di Tallin (Estonia) ha dichiarato nulli i certificati EUR. 1 e li ha revocati. A seguito di un reclamo della Lacto presso il servizio delle dogane estoni, la decisione di revoca dei detti certificati è stata giudicata illegittima per ragioni formali. Non essendo stato possibile stabilire l’origine del burro, le autorità doganali olandesi hanno proceduto al recupero a posteriori nei confronti della Beemsterboer. Vistosi respinto il reclamo da essa proposto contro gli 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO avvisi di riscossione, la Beemsterboer ha presentato un ricorso dinanzi al giudice del rinvio. È in tale contesto che il Gerechtshof te Amsterdam ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali. «1) Se il nuovo testo dell’art. 220, n. 2, initio e lett. b), del (…) [codice doganale] possa trovare applicazione in un caso in cui la nascita dell’obbligazione doganale ed il recupero a posteriori abbiano avuto luogo prima dell’entrata in vigore della detta disposizione. 2) In caso di soluzione affermativa della prima questione: se un certificato EUR. 1 del quale sia impossibile accertare l’effettiva inesattezza, in quanto ad un controllo a posteriori l’origine delle merci per le quali il certificato è stato rilasciato non ha potuto esser confermata, mentre tali merci per questo solo motivo vengono private del trattamento preferenziale, sia un “certificato inesatto” ai sensi del nuovo testo dell’art. 220, n. 2, initio e lett. b), del (…) [codice doganale] e, ove così non fosse, se un interessato possa invocare vittoriosamente tale disposizione. 3) In caso di soluzione affermativa della seconda questione: su chi gravi l’onere di provare che il certificato è basato su un’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore, e/o chi debba provare che le autorità che hanno rilasciato il certificato [EUR. 1] manifestamente sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci non potevano beneficiare di un trattamento preferenziale. 4) In caso di soluzione negativa della prima questione: se un interessato possa vittoriosamente invocare l’art. 220, n. 2, initio e lett. b), del (…) [codice doganale] nel testo vigente sino al 19 dicembre 2000, in una fattispecie in cui non sia possibile stabilire a posteriori che le autorità doganali hanno rilasciato un certificato EUR. 1 in base a motivi fondati e corretti al momento del rilascio stesso». 1. L’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario, nella versione introdotta dal regolamento n. 2700/2000, si applica ad un’obbligazione doganale che sia sorta e della quale sia stato avviato il recupero a posteriori prima dell’entrata in vigore del regolamento n. 2700/2000. La disposizione di cui trattasi, che disciplina le condizioni alle quali un debitore viene esonerato dalla riscossione a posteriori dei dazi all’importazione a seguito di un errore delle autorità doganali, detta una norma sostanziale e non dovrebbe applicarsi, in linea di principio, a situazioni maturate anteriormente alla sua entrata in vigore. Tuttavia, le norme comunitarie di diritto sostanziale possono eccezionalmente essere interpretate come applicabili a situazioni maturate anteriormente alla loro entrata in vigore qualora dalla loro formulazione, dalla loro finalità o dalla loro economia complessiva risulti chiaramente che dev’essere loro attribuita tale efficacia. A tal riguardo, dall’undicesimo ‘considerando’ del regolamento n. 2700/2000 risulta che la modifica dell’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doga- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 nale mirava a esplicitare le nozioni di errore delle autorità doganale e di buona fede del debitore, nozioni già contenute nella versione originaria del detto articolo. Pertanto, il nuovo testo dell’art. 200, n. 2, lett. b), del codice doganale presenta carattere essenzialmente interpretativo. Inoltre, né il principio della certezza del diritto né il principio del legittimo affidamento ostano all’applicazione della disposizione in questione a situazioni maturate anteriormente alla sua entrata in vigore. 2. Qualora, a seguito di un controllo a posteriori, l’origine delle merci risultante da un certificato di circolazione delle merci EUR. 1 non possa più essere confermata, tale certificato dev’essere considerato come un «certificato inesatto» ai sensi dell’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92, che istituisce il codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000. Infatti, qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine della merce indicata nel certificato EUR. 1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, di conseguenza, il certificato EUR. 1 e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente. 3. L’art. 220, n. 2, lett. b), del regolamento n. 2913/92, che istituisce il codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento n. 2700/2000, dev’essere interpretato nel senso che incombe a colui che invoca il terzo comma del detto articolo fornire le prove necessarie al successo della sua pretesa. Pertanto, in linea di principio, spetta alle autorità doganali che tendono ad avvalersi del detto art. 220, n. 2, lett. b), terzo comma, initio, per procedere al recupero a posteriori, fornire la prova che il rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta interpretazione dei fatti da parte dell’esportatore. Tuttavia, qualora, a seguito di una negligenza imputabile soltanto all’esportatore, le autorità doganali si trovino nell’impossibilità di fornire la prova necessaria del fatto che il certificato di circolazione delle merci EUR. 1 è stato rilasciato sulla base della presentazione esatta o inesatta dei fatti da parte dell’esportatore stesso, incombe al debitore dei dazi dimostrare che tale certificato rilasciato dalle autorità del paese terzo si basava su un’esatta presentazione dei fatti. IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO Sentenza della Corte (Grande Sezione), 3 ottobre 2006, nel procedimento C-475/03 – Banca popolare di Cremona Soc. coop. a r.l. contro Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona. La domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la Banca popolare di Cremona Soc. coop. a r.l. (in prosieguo: la «Banca popolare ») e l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona, relativamente alla riscossione di un’imposta regionale sulle attività produttive. La Banca popolare ha impugnato dinanzi al giudice del rinvio il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Cremona, con il quale que- 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO st’ultima le ha rifiutato il rimborso dell’IRAP versata negli anni 1998 e 1999. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione dell’art. 33 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 16 dicembre 1991, 91/680/CEE (G.U. L 376, pag. 1) (in prosieguo: la «sesta direttiva»). 20. L’istituzione di un sistema comune di IVA è stata realizzata con la seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Struttura e modalità d’applicazione del sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (G.U. 1967, n. 71, pag. 1303; in prosieguo: la «seconda direttiva»), e con la sesta direttiva. 21. Il principio del sistema comune dell’IVA consiste, ai sensi dell’art. 2 della prima direttiva, nell’applicare ai beni ed ai servizi, fino allo stadio del commercio al minuto, un’imposta generale sul consumo esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero di transazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase dell’imposizione. 22. Tuttavia, a ciascun passaggio, l’IVA si può esigere solo previa detrazione dell’IVAche ha gravato direttamente sul costo dei vari fattori che compongono il prezzo; il sistema delle detrazioni è disciplinato dall’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, in modo che i soggetti passivi siano autorizzati a detrarre dall’IVA da essi dovuta gli importi di IVA che hanno già gravato sui beni o sui servizi a monte e che l’imposta colpisca ogni volta solo il valore aggiunto e vada, in definitiva, a carico del consumatore finale. 23. Per conseguire lo scopo dell’uguaglianza impositiva della stessa operazione, indipendentemente dallo Stato membro nel quale viene effettuata, il sistema comune dell’IVA doveva sostituire, secondo i ‘considerando’ della seconda direttiva, le imposte sulla cifra d’affari in vigore nei vari Stati membri. 24. In quest’ordine di idee, l’art. 33 della sesta direttiva consente il mantenimento o l’istituzione da parte di uno Stato membro di imposte, diritti e tasse gravanti sulle forniture di beni, sulle prestazioni di servizi o sulle importazioni solo se non hanno natura di imposte sulla cifra d’affari. 25. Per valutare se un’imposta, un diritto o una tassa abbiano la natura di imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art. 33 della sesta direttiva, occorre in particolare verificare se essi abbiano l’effetto di danneggiare il funzionamento del sistema comune dell’IVA, gravando sulla circolazione dei beni e dei servizi e colpendo le transazioni commerciali in modo analogo all’IVA. 26. A tale proposito, la Corte ha precisato che in ogni caso devono essere considerati gravanti sulla circolazione dei beni e dei servizi allo stesso modo dell’IVA le imposte, i diritti e le tasse che presentano le caratteristiche essenziali dell’IVA, anche se non sono in tutto identici ad essa (sentenze 31 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 marzo 1992, causa C-200/90, Dansk Denkavit e Poulsen Trading, Racc. pag. I-2217, punti 11 e 14, nonché 29 aprile 2004, causa C-308/01, GIL Insurance e a., Racc. pag. I-4777, punto 32). 27. Per contro, l’art. 33 della sesta direttiva non osta al mantenimento o all’introduzione di un’imposta che non presenti una delle caratteristiche essenziali dell’IVA (sentenze 17 settembre 1997, causa C-130/96, Solisnor- Estaleiros Navais, Racc. pag. I-5053, punti 19 e 20, nonché GIL Insurance e a., cit., punto 34). 28. La Corte ha precisato quali siano le caratteristiche essenziali dell’IVA. Nonostante alcune differenze redazionali, risulta dalla sua giurisprudenza che tali caratteristiche sono quattro: l’IVA si applica in modo generale alle operazioni aventi ad oggetto beni o servizi; è proporzionale al prezzo percepito dal soggetto passivo quale contropartita dei beni e servizi forniti; viene riscossa in ciascuna fase del procedimento di produzione e di distribuzione, compresa quella della vendita al minuto, a prescindere dal numero di operazioni effettuate in precedenza; gli importi pagati in occasione delle precedenti fasi del processo sono detratti dall’imposta dovuta, cosicché il tributo si applica, in ciascuna fase, solo al valore aggiunto della fase stessa, e in definitiva il peso dell’imposta va a carico del consumatore finale (v., in particolare, sentenza Pelzl e a., cit., punto 21). 29. Al fine di evitare risultati discordanti rispetto all’obiettivo perseguito dal sistema comune dell’IVA, ricordato ai punti 20-26 della presente sentenza, ogni confronto delle caratteristiche di un’imposta come l’IRAP con quelle dell’IVA deve essere compiuto alla luce di tale obiettivo. In questo contesto deve essere riservata un’attenzione particolare alla necessità che sia sempre garantita la neutralità del sistema comune dell’IVA. 30. In questo caso, relativamente alla seconda caratteristica fondamentale dell’IVA, si deve innanzi tutto rilevare che, mentre l’IVA è riscossa in ciascuna fase al momento della commercializzazione e il suo importo è proporzionale al prezzo dei beni o servizi forniti, l’IRAP è invece un’imposta calcolata sul valore netto della produzione dell’impresa nel corso di un certo periodo. La sua base imponibile è infatti uguale alla differenza che risulta, in base al conto economico, tra il «valore della produzione» e i «costi della produzione », come definiti dalla legislazione italiana. Essa comprende elementi come le variazioni delle rimanenze, gli ammortamenti e le svalutazioni, che non hanno un rapporto diretto con le forniture di beni o servizi in quanto tali. L’IRAP non deve pertanto essere considerata proporzionale al prezzo dei beni o dei servizi forniti. 31. Occorre poi osservare, relativamente alla quarta caratteristica fondamentale dell’IVA, che l’esistenza di differenze relativamente al metodo per calcolare la detrazione dell’imposta già pagata non può sottrarre un’imposta al divieto contenuto nell’art. 33 della sesta direttiva qualora tali differenze siano più che altro di natura tecnica, e non impediscano che tale imposta funzioni sostanzialmente nello stesso modo dell’IVA. Per contro, si può collocare all’esterno dell’ambito applicativo dell’art. 33 della sesta direttiva un’imposta la quale colpisca le attività produttive in modo tale che non sia 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO certo che la stessa vada, in definitiva, a carico del consumatore finale, come avviene per un’imposta sul consumo come l’IVA. 32. In questo caso, mentre l’IVA, attraverso il sistema della detrazione dell’imposta previsto dagli artt. 17-20 della sesta direttiva, grava unicamente sul consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione che precede la fase di imposizione finale, indipendentemente dal numero di operazioni avvenute (sentenze 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs, Racc. pag. I-5339, punti 19, 22 e 23, nonché 15 ottobre 2002, causa C-427/98, Commissione/Germania, Racc. pag. I-8315, punto 29), lo stesso non vale per quanto riguarda l’IRAP. 33. Da un lato, infatti, un soggetto passivo non può determinare con precisione l’importo dell’IRAP già compreso nel prezzo di acquisto dei beni e dei servizi. Dall’altro, se un soggetto passivo potesse includere tale costo nel prezzo di vendita, al fine di ripercuotere l’importo dell’imposta dovuta per le sue attività sulla fase successiva del processo di distribuzione o di consumo, la base imponibile dell’IRAP comprenderebbe di conseguenza non solo il valore aggiunto, ma anche l’imposta stessa, cosicché l’IRAP sarebbe calcolata su un importo determinato a partire da un prezzo di vendita comprendente, in anticipo, l’imposta da pagare. 34. In ogni caso, anche se si può supporre che un soggetto passivo IRAP che effettua la vendita al consumatore finale tenga conto, nel determinare il suo prezzo, dell’importo dell’imposta incorporato nelle sue spese generali, non tutti i soggetti passivi si trovano nella condizione di poter così ripercuotere il carico dell’imposta, o di poterlo ripercuotere nella sua interezza (v., in tal senso, sentenza Pelzl e a., cit., punto 24). 35. Risulta da tutte queste considerazioni che, in base alla disciplina dell’IRAP, tale imposta non è stata concepita per ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico dell’IVA. 36. È vero che la Corte ha dichiarato incompatibile con il sistema armonizzato dell’IVA un’imposta che era riscossa come una percentuale dell’importo totale delle vendite realizzate e dei servizi forniti da un’impresa nel corso di un determinato periodo di tempo, detratto l’importo degli acquisti di beni e servizi effettuati nel corso dello stesso periodo dalla medesima impresa. La Corte ha osservato che il tributo in questione era accostabile nei suoi elementi fondamentali all’IVA e che, nonostante le differenze, esso conservava il suo carattere di imposta sulla cifra d’affari (v., in tal senso, sentenza Dansk Denkavit e Poulsen Trading, cit., punto 14). 37. Qui però l’IRAP si distingue dal tributo oggetto di tale sentenza in quanto quest’ultimo era destinato a ripercuotersi sul consumatore finale, come risulta dal punto 3 della detta sentenza. Tale tributo era dunque calcolato a partire da una base imponibile identica a quella utilizzata per l’IVA, ed era riscosso parallelamente all’IVA. 38. Risulta dalle considerazioni svolte che un’imposta con le caratteristiche dell’IRAP si distingue dall’IVA in modo tale da non poter essere considerata un’imposta sulla cifra d’affari, ai sensi dell’art. 33, n. 1, della sesta direttiva. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 Sentenza della Corte, sezione prima, 6 aprile 2006, nel procedimento C- 245/04 – EMAG Handel Eder OHG contro Finanzlandesdirektion für Kärnten. EMAG Handel Eder OHG. La domanda di decisione pregiudiziale riguarda l’interpretazione della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta direttiva»), e in particolare dell’art. 8, n. 1, della stessa, relativo al luogo di cessione dei beni. Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la EMAG Handel Eder OHG (in prosieguo: la «EMAG»), società stabilita in Austria, e la Finanzlandesdirektion für Kärnten (direzione delle finanze del Land Carinzia), concernente la detrazione, da parte della EMAG, dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») versata a monte. Nel 1996 e nel 1997, la EMAG ha acquistato metalli non ferrosi dalla K, anch’essa stabilita in Austria. A sua volta, la K ha acquistato tali merci presso taluni fornitori stabiliti in Italia o nei Paesi Bassi (in prosieguo: i «fornitori»). È pacifico che la EMAG non era a conoscenza dei fornitori della K. Dopo la conclusione di ogni transazione, la K dava indicazione ai propri fornitori di consegnare tali merci ad uno spedizioniere, da essa incaricato di recapitarle direttamente, su camion, presso i locali della EMAG in Austria o presso quelli dei clienti di quest’ultima, sempre in Austria, in base alle indicazioni fornite alla K dalla EMAG. La K ha fatturato alla EMAG il prezzo d’acquisto delle merci tra esse pattuito, maggiorato del 20%, corrispondente all’IVA austriaca. La EMAG ha quindi chiesto di poter detrarre tale imposta quale IVA pagata a monte. Il Finanzamt competente nonché la Finanzlandesdirektion für Kärnten hanno negato tale detrazione, affermando che l’IVA era stata erroneamente fatturata dalla K alla EMAG. Quest’ultima ha quindi proposto un ricorso dinanzi al Verwaltungsgerichtshof. La EMAG sostiene che l’art. 3, n. 8, dell’UStG 1994 non era applicabile alle cessioni effettuate dalla K a suo favore, poiché l’ordine di spedizione delle merci verso l’Austria non era dato da essa, ma dalla K. A tale proposito, essa afferma che non conosceva i fornitori della K, che quest’ultima poteva, fino alla conclusione di ciascuna cessione, modificare il luogo di destinazione o il destinatario, cosa che talvolta ha fatto, e inoltre che ogni rischio di perdita o guasto delle merci era a carico della K fino al loro ricevimento da parte della EMAG o dei clienti di questa. La EMAG ritiene dunque che il luogo delle cessioni effettuate dalla K a suo favore fosse situato in Austria, e di conseguenza che tali cessioni fossero soggette all’IVA austriaca in capo alla K. Pertanto, la K le avrebbe correttamente fatturato tale IVA, e legittimamente essa ne avrebbe chiesto la detrazione quale IVA pagata a monte. 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Secondo la Finanzlandesdirektion, in una prima fase la K pagava le merci ai propri fornitori, i quali le mettevano a sua disposizione nei Paesi Bassi o in Italia. In una seconda fase, la K affidava a taluni spedizionieri il trasporto delle merci dall’Italia o dai Paesi Bassi verso l’Austria, ove le stesse erano consegnate alla EMAG o, su suo ordine, ai suoi clienti. La Finanzlandesdirektion sostiene che il trasporto delle merci era effettuato dalla K al fine di adempiere il proprio obbligo di cessione nei confronti della EMAG, e che questa ne era informata. Considerate tali circostanze, la Finanzlandesdirektion ritiene che l’art. 3, n. 8, dell’UStG 1994 fosse applicabile alle cessioni effettuate dalla K a favore della EMAG. Poiché la consegna delle merci agli spedizionieri incaricati dalla K sarebbe avvenuta in Italia o nei Paesi Bassi, il luogo delle cessioni effettuate dalla K a favore della EMAG sarebbe stato situato nell’uno o nell’altro di tali due Stati membri, conformemente a detta disposizione. In applicazione dell’art. 12, n. 1, punto 1, dell’UStG 1994, la detrazione dell’IVA pagata a monte sarebbe stata possibile soltanto se le operazioni fatturate fossero state compiute in Austria. Essendo state tutte le operazioni eseguite in Italia o nei Paesi Bassi, la EMAG avrebbe erroneamente detratto l’IVApagata a monte. Il giudice del rinvio constata che, nella causa dinanzi ad esso pendente, due distinte cessioni sono state effettuate con un solo spostamento fisico di beni. Detto giudice ritiene che, ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. a), della sesta direttiva, il luogo della prima cessione, effettuata dai fornitori italiani o olandesi a favore della K, si trovi nel luogo di partenza della spedizione o del trasporto dei beni, vale a dire in Italia o nei Paesi Bassi. Esso si pone, viceversa, la questione del luogo della seconda cessione, effettuata dalla K a favore della EMAG. A tale proposito, il giudice del rinvio ritiene che il testo dell’art. 8, n. 1, lett. a), prima frase, della sesta direttiva non risolva la questione se il movimento intracomunitario di beni vada ricollegato soltanto alla prima cessione o, invece, a tutte e due le cessioni insieme. In tale secondo caso, il giudice si chiede se il luogo della seconda cessione, effettuata dalla K a favore della EMAG, sia quello da cui sono effettivamente partiti i beni (nella causa principale, l’Italia o i Paesi Bassi), o quello in cui è terminata la prima cessione (nella causa principale, l’Austria). In tale contesto il Verwaltungsgerichtshof ha sospeso il procedimento, e ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’art. 8, n. 1, lett. a), prima frase, della sesta direttiva (…) vada interpretato nel senso che il luogo in cui ha inizio la spedizione o il trasporto sia rilevante anche nell’ipotesi in cui più imprenditori concludano un contratto di cessione relativo al medesimo bene e i vari contratti in tal modo conclusi vengano adempiuti con un unico spostamento della merce. 2) Se più cessioni di beni possano essere considerate come cessioni esenti intracomunitarie qualora più imprenditori concludano un contratto di cessione relativo al medesimo bene e i vari contratti in tal modo conclusi vengano adempiuti con un unico spostamento della merce. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 3) Se, in caso di soluzione positiva della prima questione, come luogo di inizio della seconda cessione vada considerato il luogo dal quale è effettivamente partito il bene, ovvero il luogo in cui la prima cessione finisce. 4) Se per la soluzione delle prime tre questioni sia rilevante stabilire a chi spetta il potere di disposizione sul bene durante lo spostamento della merce». 1. Quando due cessioni successive relative agli stessi beni, effettuate a titolo oneroso tra soggetti passivi che agiscono in quanto tali, danno luogo ad un’unica spedizione intracomunitaria o ad un unico trasporto intracomunitario di detti beni, tale spedizione o tale trasporto può essere imputato ad una sola delle due cessioni, che sarà l’unica esentata ai sensi dell’art. 28 quater, parte A, lett. a), primo comma, della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, come modificata dalla direttiva del Consiglio 95/7. Tale interpretazione vale indipendentemente da quale dei soggetti passivi – primo venditore, acquirente intermedio o secondo acquirente – possa disporre dei beni durante la detta spedizione o il detto trasporto. In primo luogo, anche qualora due cessioni successive producano un solo movimento di beni, esse devono essere considerate come succedute l’una all’altra nel tempo. Infatti, l’acquirente intermedio può trasferire al secondo acquirente il potere di disporre di un bene come un proprietario solo dopo averlo ricevuto dal primo venditore: dunque, la seconda cessione può avere luogo soltanto dopo che la prima si sia compiuta. Poiché si considera che il luogo di acquisto dei beni da parte dell’acquirente intermedio è situato all’interno dello Stato membro di arrivo della spedizione o del trasporto di tali beni, sarebbe del tutto illogico ritenere che tale soggetto passivo effettui la cessione successiva dei medesimi beni a partire dallo Stato membro di partenza di tale spedizione o di tale trasporto. In secondo luogo, tale interpretazione consente di raggiungere in modo semplice l’obiettivo perseguito dal regime transitorio di cui al titolo XVI bis di tale direttiva, vale a dire il trasferimento del gettito fiscale allo Stato membro in cui avviene il consumo finale dei beni ceduti. 2. Quando due cessioni successive relative agli stessi beni, effettuate a titolo oneroso tra soggetti passivi che agiscono in quanto tali, danno luogo ad un’unica spedizione intracomunitaria o ad un unico trasporto intracomunitario di detti beni, solo il luogo della cessione a cui tale spedizione o tale trasporto è imputato è determinato ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. a), della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari, come modificata dalla direttiva 95/7; esso si considera situato nello Stato membro di partenza di tale spedizione o trasporto. Il luogo dell’altra cessione è determinato ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. b), della stessa direttiva: si considera che esso si trovi nello Stato membro di partenza o in quello di arrivo di detta spedizione o di detto trasporto, a seconda che tale cessione sia la prima o la seconda delle due cessioni successive. 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Sentenza della Corte, sezione prima, 30 marzo 2006, nella causa C- 184/04 – Uudenkaupungin kaupunki. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 13, parte C, secondo comma, e 17, n. 6, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta direttiva»). Essa pone sostanzialmente la questione se, alla luce della sesta direttiva, una rettifica della detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») pagata a monte per i beni d’investimento debba essere accordata nel caso in cui un bene immobile sia stato inizialmente destinato ad un’attività esente, per poi essere destinato ad un’attività imponibile, in seguito all’esercizio del diritto d’opzione ai sensi dell’art. 13, parte C, della sesta direttiva. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un’impugnazione proposta dall’Uudenkaupungin kaupunki (il Comune di Uusikaupunki; in prosieguo: «Uusikaupunki») avverso una decisione dello Helsingin hallinto-oikeus (Tribunale amministrativo di Helsinki), con cui quest’ultimo ha respinto il ricorso proposto da Uusikaupunki contro due decisioni adottate dal Lounais-Suomen verovirasto (Amministrazione tributaria per la Finlandia sudoccidentale) sulle domande di rettifica di detrazioni e di rimborso dell’IVA presentate da Uusikaupunki. 1. L’art. 20 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, dev’essere interpretato nel senso che, fatto salvo il disposto del n. 5 del medesimo articolo, esso impone agli Stati membri di prevedere una rettifica delle detrazioni dell’imposta sul valore aggiunto per quanto riguarda i beni di investimento. 2. L’art. 20 della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari dev’essere interpretato nel senso che la rettifica da esso prevista è applicabile anche ad una situazione in cui un bene di investimento venga destinato in un primo tempo ad un’attività esente da imposta, che non dava diritto a detrazione, e successivamente, nel corso del periodo di rettifica, è stato impiegato nel contesto di un’attività assoggettata all’imposta sul valore aggiunto. Infatti, l’applicazione del meccanismo di rettifica dipende dalla questione se sia sorto un diritto a detrazione basato sull’art. 17 della sesta direttiva. Orbene, l’uso che viene fatto del bene di investimento determina solo la portata della detrazione iniziale e la portata delle eventuali rettifiche durante i periodi successivi, ma non incide sulla nascita del diritto alla detrazione. Di conseguenza, l’uso immediato del bene per operazioni soggette ad imposta IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 non costituisce, di per sé, una condizione di applicazione del sistema di rettifica delle detrazioni. Inoltre, la rettifica della detrazione si applica necessariamente anche quando la modifica del diritto a detrazione dipenda da una scelta volontaria del contribuente, come ad esempio dall’esercizio dell’opzione prevista dall’art. 13, parte C, della sesta direttiva. 3. Gli artt. 13, parte C, secondo comma, e 17, n. 6, della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, devono essere interpretati nel senso che uno Stato membro che accorda ai suoi soggetti passivi il diritto di optare per l’imposizione della locazione di un immobile non è autorizzato, in virtù di tali disposizioni, ad escludere la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto per investimenti immobiliari effettuati prima dell’esercizio di tale diritto di opzione, quando la domanda presentata ai fini di tale opzione non è stata presentata entro sei mesi a partire dalla messa in servizio di tale immobile. Infatti, in quanto i soggetti passivi, in virtù dell’art. 13, parte C, primo comma, della sesta direttiva, hanno la possibilità di optare per l’imposizione della locazione di un immobile, l’esercizio di tale opzione deve comportare non solo l’imposizione della locazione, ma anche la detrazione delle imposte pertinenti che hanno gravato sul detto immobile a monte. Inoltre, una restrizione delle detrazioni legate alle operazioni imponibili successiva all’esercizio del diritto di opzione riguarderebbe non la «portata» del diritto di opzione che gli Stati membri possono limitare in forza del secondo comma dell’art. 13, parte C, della sesta direttiva, ma le conseguenze dell’esercizio di tale diritto. Tale disposizione non autorizza, di conseguenza, gli Stati membri a limitare il diritto di operare detrazioni previsto dall’art. 17 della sesta direttiva, né la necessità di rettificare tali detrazioni in virtù dell’art. 20 della medesima direttiva. Per quanto riguarda la facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 17, n. 6, secondo comma, della sesta direttiva, essa si applica solo al mantenimento delle esclusioni della detrazione per quanto riguarda talune categorie di spese definite con riferimento alla natura del bene o del servizio acquistato e non con riferimento alla destinazione impressagli o alle modalità di tale destinazione. Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 marzo 2006, nel procedimento C-210/04 – Ministero dell’Economia e delle Finanze, Agenzia delle Entrate contro FCE Bank plc. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 2, n. 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1; in prosieguo: la «sesta direttiva»). 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La domanda è sorta nell’ambito di una controversia che vede contrapporsi il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate (Roma) (in prosieguo: l’«agenzia») alla FCE Bank plc, società bancaria stabilita nel Regno Unito (in prosieguo: la «FCE Bank»), in merito al rimborso di somme versate a titolo d’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») dalla sede secondaria di quest’ultima, stabilita in Italia (in prosieguo: la «FCE IT»). La FCE IT è una sede secondaria, situata in Italia, della società FCE Bank, stabilita nel Regno Unito, il cui oggetto sociale è lo svolgimento di attività finanziarie che sono esenti dall’IVA. La FCE IT ha fruito di prestazioni di servizi da parte della FCE Bank in materia di consulenza, gestione, formazione del personale, trattamento di dati, nonché di fornitura e gestione di servizi di software. Essa ha chiesto il rimborso dell’IVA assolta in relazione a tali prestazioni per il quadriennio 1996-1999 sulla base di fatture da essa stessa emesse (operazione cosiddetta di «autofatturazione»). A seguito del silenzio-rifiuto opposto dall’amministrazione a tale domanda, la FCE IT ha adito la Commissione tributaria provinciale di Roma, che l’ha accolta. L’agenzia ha interposto appello avverso tale decisione deducendo, da un lato, la prescrizione della domanda per gli anni 1996 e 1997 e, dall’altro, l’infondatezza della domanda di rimborso per gli anni 1998 e 1999. Con sentenza 29 marzo/25 maggio 2002, la Commissione tributaria regionale del Lazio ha respinto l’appello in quanto, da un lato, la prescrizione non era applicabile, trattandosi di pagamento effettuato in contrasto con il diritto comunitario, e, dall’altro, la qualificazione come «prestazione di servizi» non poteva accogliersi nel caso di operazioni realizzate senza corrispettivo dalla società madre a favore della propria sede secondaria, difettando il presupposto oggettivo dell’IVA. Il riaddebito dei costi dei servizi della FCE Bank alla FCE IT rappresentava un’attribuzione dei costi all’interno di una società. Avverso tale sentenza il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha proposto ricorso dinanzi alla Corte suprema di cassazione. Con il motivo di ricorso si afferma che le prestazioni effettuate dalla FCE Bank sono soggette a IVA in virtù dell’autonomia soggettiva d’imposta della FCE IT. Infatti, i versamenti effettuati a favore della società madre dovrebbero essere considerati un corrispettivo e costituirebbero, per ciò, una base imponibile. Al contrario, secondo la FCE Bank, la FCE IT non ha personalità giuridica; essa costituirebbe quindi un mero punto di collegamento ai fini dell’assoggettamento ad IVA delle attività relative all’oggetto sociale. Inoltre, l’IVA non sarebbe esigibile, trattandosi di prestazioni effettuate tra due enti che costituiscono un solo soggetto passivo. Alla luce di quanto sopra, la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli artt. 2, n. l, e 9, n. 1, della sesta direttiva debbano essere interpretati nel senso che la filiale di una società avente sede in altro Stato IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 (appartenente o non all’Unione europea), avente le caratteristiche di una unità produttiva, possa essere considerata soggetto autonomo, e quindi sia configurabile un rapporto giuridico tra le due entità, con conseguente soggezione ad IVA per le prestazioni di servizi effettuate dalla casa madre; se per la sua definizione possa essere utilizzato il criterio dell’“arm’s length” di cui all’art. 7, secondo e terzo comma, del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e della convenzione 21 ottobre 1988 tra Italia, Regno Unito e Irlanda del Nord; se sia configurabile un rapporto giuridico nell’ipotesi di un “cost-sharing agreement” concernente la prestazione di servizi alla struttura secondaria; nel caso affermativo, quali siano le condizioni per ritenere sussistente tale rapporto giuridico; se la nozione di rapporto giuridico debba trarsi dal diritto nazionale o dal diritto comunitario. 2) Se il riaddebito dei costi di tali servizi alla filiale possa, e in quale misura, considerarsi corrispettivo dei servizi prestati, ai sensi dell’art. 2 della sesta direttiva, indipendentemente dalla misura del riaddebito e dal conseguimento di un utile d’impresa. 3) Se, ove si ritengano le prestazioni di servizi tra casa madre e filiale in principio esenti da IVA per mancanza di autonomia del soggetto destinatario e conseguente non configurabilità di un rapporto giuridico tra le due entità, nel caso in cui la casa madre sia residente in altro Stato membro dell’Unione europea, una prassi amministrativa nazionale che ritenga, in tale ipotesi, 1’imponibilità della prestazione sia contraria al diritto di stabilimento, previsto dall’art. 43 del Trattato CE». 32. Da un lato, si deve ricordare che l’art. 2, n. 1, della sesta direttiva dispone che sono soggette a IVA, in particolare, le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. 33. D’altro lato, l’art. 4 della sesta direttiva definisce i «soggetti passivi ». Sono tali le persone che esercitano un’attività economica «in modo indipendente ». Il n. 4 dello stesso articolo precisa che l’espressione «in modo indipendente» esclude dall’imposizione le persone vincolate al rispettivo datore di lavoro da qualsiasi rapporto giuridico che introduca vincoli di subordinazione per quanto riguarda, in particolare, le condizioni di lavoro e di retribuzione e la responsabilità del datore di lavoro (v. sentenza 6 novembre 2003, cause riunite da C-78/02 a C-80/02, Karageorgou e a., Racc. pag. I-13295, punto 35). 34. Al riguardo, dalla giurisprudenza della Corte risulta che una prestazione è imponibile solo quando esista tra il prestatore e il destinatario un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni (v. sentenze 3 marzo 1994, causa C-16/93, Tolsma, Racc. pag. I-743, punto 14, e 21 marzo 2002, causa C-174/00, Kennemer Golf, Racc. pag. I-3293, punto 39). 35. Per stabilire l’esistenza di un rapporto giuridico del genere tra una società non residente e una delle sue succursali al fine di assoggettare all’IVA le prestazioni fornite, occorre verificare se la FCE IT svolga un’attività econo- 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mica indipendente. In proposito, si deve esaminare se una succursale come la FCE IT possa essere considerata autonoma in quanto banca, segnatamente nel senso che sopporta il rischio economico inerente alla sua attività. 36. Orbene, come l’avvocato generale ha sottolineato al paragrafo 46 delle sue conclusioni, la succursale non sopporta essa stessa i rischi economici connessi all’esercizio dell’attività di istituto di credito, quali, ad esempio, il mancato rimborso di un prestito da parte di un cliente. È la banca, in quanto persona giuridica, a sopportare tale rischio ed è per questo che essa è soggetta, nello Stato membro di origine, ad un controllo di solidità finanziaria e di solvibilità. 37. La FCE IT, infatti, in quanto succursale, non dispone di un fondo di dotazione. Pertanto, il rischio connesso all’attività economica grava integralmente sulla FCE Bank. La FCE IT risulta quindi dipendente da quest’ultima, con la quale costituisce un soggetto passivo unico. 38. Tale considerazione non è rimessa in discussione dall’art. 9, n. 1, della sesta direttiva. Questa norma mira ad individuare il soggetto passivo nel caso di transazioni effettuate tra la succursale ed i terzi. Essa è dunque priva di pertinenza in un caso come quello di specie, vertente su transazioni effettuate tra una società stabilita in uno Stato membro e una delle sue succursali stabilita in un altro Stato membro. 39. Per quanto riguarda la convenzione OCSE, occorre rilevare che essa non è pertinente, in quanto vertente sulla fiscalità diretta, laddove l’IVArientra nelle imposte indirette. 40. Infine, per quanto riguarda l’esistenza di un accordo in merito alla ripartizione dei costi, si tratta ancora una volta di un elemento irrilevante ai fini della presente causa, in quanto un tale accordo non è stato negoziato tra parti indipendenti. 41. (...) gli artt. 2, n. 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva devono essere interpretati nel senso che un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non dev’essere considerato soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali prestazioni. 44. Con la terza questione, il giudice del rinvio domanda se una prassi amministrativa nazionale che assoggetta all’IVA una prestazione di servizi fornita da una società madre a una sede secondaria, stabilita in un altro Stato membro, sia in contrasto con il principio della libertà di stabilimento sancito dall’art. 43 CE. 50. Come l’avvocato generale ha sottolineato al paragrafo 74 delle sue conclusioni, la constatazione dell’incompatibilità di una normativa o di una prassi nazionale con la sesta direttiva dispensa dall’esaminare se siano state violate le libertà fondamentali previste dal Trattato, tra le quali la libertà di stabilimento. 51. Come già dichiarato al punto 37 della presente sentenza, infatti, la succursale di una società non residente è priva di autonomia e non esiste pertanto alcun rapporto giuridico tra loro. Esse devono essere considerate un IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 solo ed unico soggetto passivo ai sensi dell’art. 4, n. 1, della sesta direttiva. La FCE IT non è dunque altro che un elemento della FCE Bank. 52. Risulta da quanto precede che la prassi amministrativa italiana è incompatibile con la sesta direttiva, senza che occorra pronunciarsi sulla violazione dell’art. 43 CE. Sentenza della Corte, Grande Sezione, 21 febbraio 2006, nel procedimento C-223/03 – University of Huddersfield Higher Education orporation contro Commissioners of Customs & Excise. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune d’imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L. 145, pag. 1), come modificata con direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE (G.U. L. 102, pag. 18; in prosieguo: la «sesta direttiva»). Dalla decisione di rinvio risulta che l’Università fornisce essenzialmente prestazioni di insegnamento, che sono prestazioni esenti da IVA. Tuttavia, poiché effettua altresì talune cessioni di beni o prestazioni soggette ad imposta, l’Università può, in forza del diritto nazionale, ricuperare l’IVA assolta a monte secondo l’aliquota del suo assoggettamento parziale, la quale nel 1996 era del 14,56% e che successivamente è scesa al 6,04%. Il giudice a quo rileva che, nel 1995, l’Università decideva di restaurare due mulini in rovina, sui quali aveva acquistato un diritto reale di usufrutto («leasehold»). Tali due mulini sono conosciuti coi nomi di «West Mill» e d’«East Mill» e si trovano a Canalside, Huddersfield. Poiché l’IVA pagata a monte sulle spese di ristrutturazione era in ampia parte irrecuperabile in condizioni normali, l’Università ha cercato un modo di ridurre il suo onere fiscale o di ritardare il momento in cui la tassa avrebbe dovuto essere assolta. In primo luogo ha effettuato e pagato i lavori realizzati sull’West Mill. Con atto 27 novembre 1995 veniva costituito un trust discrezionale (in prosieguo: il «trust»). L’atto autentico conteneva disposizioni che riservavano all’Università il potere di nomina e di revoca dei «trustees». I «trustees» nominati erano tre ex dipendenti dell’Università e i beneficiari erano l’Università, qualsiasi studente iscritto in un determinato momento e qualsiasi associazione di beneficenza. Alla stessa data, l’Università concludeva con i «trustees» un contratto di garanzia («Deed of Indemnity») in forza del quale garantiva questi ultimi da ogni responsabilità presente e futura derivante da varie operazioni. Il giudice a quo rileva che l’unico fine della costituzione del trust era quello di rendere possibile la realizzazione del piano di riduzione dell’onere fiscale proposto per l’East Mill il cui oggetto era il recupero da parte dell’Università dell’IVA sulle spese di ristrutturazione. 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Per quanto riguarda l’East Mill, che è l’edificio direttamente interessato nella causa a qua, dalla decisione di rinvio risulta che, conformemente al piano proposto dai suoi consulenti fiscali, il 21 novembre 1996 l’Università optava per la tassazione dell’affitto dell’East Mill e, il 22 novembre 1996, concedeva tale affitto imponibile al trust per 20 anni. Il contratto di affitto conteneva una clausola che consentiva all’Università di porvi fine al sesto, decimo e quindicesimo anno di affitto. Il canone annuo iniziale veniva fissato nella somma simbolica di GBP 12,50. Alla stessa data, il trust, che aveva anche optato per la cessione con IVA, concedeva a sua volta all’Università una sublocazione imponibile per la durata di venti anni meno tre giorni ad un canone annuo iniziale del simbolico importo di GBP 13 . Dalla decisione del giudice a quo risulta ancora che, il 22 novembre 1996, l’University of Huddersfield Properties Ltd (in prosieguo: «Properties»), una società interamente controllata dall’Università non facente parte dello stesso gruppo IVA ai sensi dell’art. 4, n. 4, secondo comma, della sesta direttiva, fatturava a quest’ultima un importo di GBP 3 500 000 più GBP 612 500 di IVA, per i futuri servizi di costruzione sull’East Mill. Il 25 novembre 1996, la Properties concludeva con l’Università un contratto in vista della ristrutturazione dell’East Mill. L’Università regolava la fattura della Properties a una data indeterminata. Il giudice a quo fa presente che non è stata fornita alcuna prova di una qualsiasi intenzione della Properties di conseguire un profitto fornendo servizi di costruzione all’Università e da ciò conclude che quest’ultima non aveva intenzione che la Properties conseguisse un siffatto profitto. La Properties incaricava imprenditori terzi ai prezzi di mercato per fornire all’Università i servizi di costruzione necessari per la ristrutturazione dell’East Mill. Nella dichiarazione IVA per il periodo di gennaio 1997, l’Università, la quale aveva un debito netto di oltre GBP 90 000, evidenziava un rimborso a suo favore di GBP 515 000, somma che i Commissioners, previa verifica, le avrebbero pagato senza riserve consentendole di recuperare l’IVA fatturata dalla Properties. I lavori sull’East Mill venivano portati a termine da imprenditori terzi il 7 settembre 1998 e in questa stessa data l’Università incominciava ad occupare l’immobile. Successivamente, i canoni dovuti in forza della locazione e della sublocazione venivano aumentati fino a raggiungere GBP 400 000 e, rispettivamente, GBP 415 000 l’anno. Il giudice a quo rileva che l’utilizzo di un trust nel contesto dell’East Mill e l’affitto da parte dell’Università al trust avevano il solo obiettivo di facilitare il piano di riduzione dell’onere fiscale. Rileva inoltre che il solo fine della sublocazione dell’East Mill da parte del trust all’Università era quello di agevolare tale piano. Rileva infine che l’Università aveva l’intenzione di ottenere un risparmio fiscale assoluto ponendo termine alla montatura IVA posta in essere per l’East Mill entro due o tre anni, o al sesto, decimo e quindicesimo anno di locazione (ponendo in tal modo anche termine al pagamento dell’IVA sui canoni di affitto). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 Il giudice a quo rileva ancora che l’insieme di tali operazioni erano operazioni effettive, nel senso che esse hanno dato luogo a cessioni di beni o a prestazioni di servizi realmente effettuati. Non si trattava pertanto di parvenze. Con lettera 26 gennaio 2000, i Commissioners reclamavano dall’Università, per il periodo di gennaio 1997, un importo di GBP 612 500 a titolo di IVA su servizi di costruzione forniti dalla Properties per l’East Mill. La lettera faceva altresì presente che tale imposta era stata attribuita in modo non corretto a cessioni di beni o prestazioni imponibili e che si trattava di una sottovalutazione dell’importo dell’IVA dichiarata. Il giudice a quo precisa che, in questa stessa lettera, i Commissioners qualificavano i contratti di affitto conclusi con il trust come «operazioni inserite» di cui si poteva fare a meno per suffragare la validità delle domande di recupero di IVA pagata a monte presentate dall’Università. Sulla linea di tale ragionamento, i Commissioners sono arrivati alla conclusione che l’IVA pagata a monte e richiesta all’Università dalla Properties era stata trattata in modo non corretto dall’Università in quanto era stata attribuita a cessioni di beni o prestazioni imponibili e interamente recuperata. L’Università presentava ricorso dinanzi al VAT and Duties Tribunal avverso la rettifica IVA notificata dai Commissioners con lettera 26 gennaio 2000. Il VAT and Duties Tribunal, Manchester, ha posto alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se, nel caso in cui: i) un’università rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a un immobile di sua proprietà e dà in locazione l’immobile a un Trust costituito e controllato dall’università; ii) il Trust rinuncia al suo diritto all’esenzione dall’IVA riguardante qualsiasi fornitura a tale immobile e concede all’università la sublocazione dell’immobile; iii) l’università ha concluso e dato esecuzione alla locazione e alla sublocazione al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale, senza intenzione di svolgere un’attività economica indipendente; iv) la locazione e il leaseback [retrolocazione] costituivano, nell’intenzione dell’Università e del Trust, un piano per differire il pagamento dell’IVA con la caratteristica intrinseca di permettere un risparmio fiscale assoluto in un periodo successivo; a) la locazione e la sublocazione costituiscano forniture tassabili ai fini della sesta direttiva; b) esse costituiscano attività economiche nel senso della seconda frase dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva IVA». Costituiscono cessioni di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi dell’art. 2, punto 1, dell’art. 4, nn. 1 e 2, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva 77/388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, come modificata dalla direttiva 95/7, le operazioni che integrino i criteri 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO obiettivi sui quali le dette nozioni sono fondate, anche se sono effettuate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico. Infatti, le nozioni di soggetto passivo e di attività economiche, nonché di cessioni di beni e di prestazioni di servizi, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della sesta direttiva, hanno tutte un carattere obiettivo e si applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi. A tal proposito, un obbligo dell’amministrazione fiscale di procedere a indagine per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del sistema dell’imposta sul valore aggiunto di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto dando rilevanza, salvo casi eccezionali, alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi. Se è certamente vero che i criteri menzionati non sono soddisfatti in caso di frode fiscale, per esempio mediante false dichiarazioni o con l’emissione di fatture irregolari, resta ciò non di meno che la questione se l’operazione di cui trattasi sia effettuata al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale non è pertinente per determinare se siffatta operazione costituisca una cessione di beni o una prestazione di servizi e un’attività economica. Sentenza della Corte, sezione terza, 6 luglio 2006, nei procedimenti riuniti C-439/04 e C-440/04 – A.K. (procedimento C-439/04) contro Stato belga, e Stato belga (procedimento C-440/04) contro Recolta Recycling SPRL. Il giudice del rinvio osserva, anzitutto, che le disposizioni del codice belga sull’IVA oggetto delle cause principali costituiscono la trasposizione nell’ordinamento interno dell’art. 2, dell’art. 4, n. 1, dell’art. 5, n. 1, e dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva. Il detto giudice ricorda quindi che, secondo costante giurisprudenza della Corte, la sesta direttiva si fonda sul principio di neutralità fiscale, che tale principio osta, in materia di riscossione dell’IVA, ad una differenziazione generalizzata tra le transazioni lecite e quelle illecite, ad eccezione dei casi, estranei alla fattispecie in oggetto, nei quali, a causa di caratteristiche particolari di talune merci, sia esclusa qualsivoglia concorrenza tra un settore economico lecito ed uno illecito. Il giudice del rinvio rileva inoltre che, nel diritto interno, un accordo finalizzato all’organizzazione di una frode nei confronti di terzi, nella specie lo Stato belga, i cui diritti sono tutelati da una normativa di ordine pubblico, presenta una causa illecita ed è colpito da nullità assoluta. Riguardo all’interesse generale, è sufficiente che una delle parti abbia contrattato per fini illeciti e non occorre che tali fini siano noti all’altro contraente. Nella causa C-439/04 la Cour de cassation ricorda che la Cour d’appel di Liegi ha dichiarato che da un accordo nullo non possono derivare effetti giuridici, quali la deduzione dell’IVA, quando la causa illecita è la frode all’imposta stessa, e che il sig. A.K. fa valere, a sostegno del suo motivo di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 ricorso per cassazione, che l’IVA fatturata dal soggetto passivo per una cessione di beni può essere portata in deduzione, anche laddove sia operata in occasione di un accordo viziato, secondo l’ordinamento interno, da nullità assoluta, e che il diritto alla deduzione permane, ancorché la causa illecita consista in una frode alla stessa IVA. Nella causa C-440/04, lo Stato belga afferma, a sostegno del proprio motivo di ricorso per cassazione, che l’IVA fatturata da un soggetto passivo per una cessione di beni non può essere portata in detrazione quando la cessione, ancorché materialmente operata, sia stata effettuata in virtù di un accordo viziato, secondo l’ordinamento interno, da nullità assoluta, malgrado la buona fede dell’acquirente. Ciò premesso, la Cour de cassation decideva di sospendere il procedimento e di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: Nella causa C-439/04: «1) Se, quando la cessione di beni sia destinata ad un soggetto passivo che abbia stipulato in buona fede un contratto ignorando la frode commessa dal venditore, il principio di neutralità fiscale dell’[IVA] osti a che la declaratoria di nullità del contratto di compravendita, in virtù di una norma di diritto civile interno che sanziona questo contratto con la nullità assoluta perché contrario all’ordine pubblico per una causa illecita in capo all’alienante, comporti per il detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta. 2) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la nullità assoluta derivi da una frode alla stessa [IVA]. 3) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la causa illecita del contratto di compravendita, che ne comporta la nullità assoluta per il diritto interno, sia una frode all’[IVA] nota ad entrambi i contraenti». Nella causa C-440/04: «1) Se, quando la cessione di beni sia destinata ad un soggetto passivo che abbia stipulato in buona fede un contratto ignorando la frode commessa dal venditore, il principio di neutralità fiscale dell’[IVA] osti a che la declaratoria di nullità del contratto di compravendita, in virtù di una norma di diritto civile interno che sanziona questo contratto con la nullità assoluta perché contrario all’ordine pubblico per una causa illecita in capo all’alienante, comporti per il detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta. 2) Se la soluzione da dare sia diversa qualora la nullità assoluta derivi da una frode alla stessa [IVA]». 39. La sesta direttiva stabilisce un sistema comune dell’IVA basato, in particolare, su una definizione uniforme delle operazioni imponibili (v., in particolare, sentenze 26 giugno 2003, causa C-305/01, MKG-Kraftfahrzeuge- Factoring, Racc. pag. I-6729, punto 38, e 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen e a., Racc. pag. I-483, punto 36). 40. La detta direttiva attribuisce un’amplissima sfera di applicazione all’IVA, ricomprendendo, all’art. 2, relativo alle operazioni imponibili, oltre 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO alle importazioni di beni, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale (sentenza Optigen e a., cit., punto 37). 41. L’analisi delle nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che agisce in quanto tale e di attività economiche dimostra che tali nozioni, che definiscono le operazioni imponibili ai sensi della sesta direttiva, hanno un carattere obiettivo e si applicano indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza Optigen e a., cit., punti 43 e 44). 42. Come rilevato dalla Corte al punto 24 della sentenza 6 aprile 1995, causa C-4/94, BLP Group (Racc. pag. I-983), l’obbligo, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di effettuare indagini per accertare la volontà del soggetto passivo sarebbe contrario agli scopi del sistema comune dell’IVA di garantire la certezza del diritto e di agevolare le operazioni inerenti all’applicazione dell’imposta dando rilevanza, salvo in casi eccezionali, alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi. 43. Sarebbe a maggior ragione in contrasto con i detti obiettivi l’obbligo dell’Amministrazione tributaria – allorché deve accertare se una data operazione costituisca una cessione effettuata da un soggetto passivo, che agisce in quanto tale, e un’attività economica – di tener conto dell’intenzione di un operatore, diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga nella stessa catena di cessioni e/o dell’eventuale natura fraudolenta, della quale il detto soggetto passivo non aveva né poteva avere conoscenza, di un’altra operazione facente parte di tale catena, precedente o successiva all’operazione compiuta dal detto soggetto passivo (sentenza Optigen e a., cit., punto 46). 44. La Corte, al punto 51 della citata sentenza Optigen e a., ne ha tratto la conseguenza che operazioni che non siano di per sé inficiate da frodi all’IVA costituiscono cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che agisce in quanto tale e un’attività economica ai sensi degli artt. 2, punto 1, 4 e 5, n. 1, della sesta direttiva, in quanto soddisfano i criteri oggettivi sui quali sono fondate le dette nozioni, indipendentemente dall’intenzione di un operatore, diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga nella medesima catena di cessioni e/o dall’eventuale natura fraudolenta, della quale il detto soggetto passivo non aveva e non poteva avere conoscenza, di un’altra operazione che faceva parte della detta catena di cessioni, precedente o successiva all’operazione compiuta, dal detto soggetto passivo. 45. La Corte ha precisato che il diritto di dedurre l’IVApagata a monte da parte di un soggetto passivo che effettua simili operazioni non può neanche essere compromesso dalla circostanza che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono le dette operazioni, un’altra operazione, precedente o successiva a quella da esso realizzata, sia inficiata da frode all’IVA senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo (sentenza Optigen e a., cit., punto 52). 46. Tale conclusione non può variare allorché siffatte operazioni, senza che il soggetto passivo lo sappia o possa saperlo, vengono compiute nel contesto di una frode commessa dal venditore. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 47. Infatti, il diritto a deduzione previsto dagli artt. 17 e seguenti della sesta direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. Tale diritto va esercitato immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato le operazioni effettuate a monte (v., in particolare, sentenze 6 luglio 1995, causa C-62/93, BP Soupergaz, Racc. pag. I-1883, punto 18, e 21 marzo 2000, cause riunite da C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa e a., Racc. pag. I-1577, punto 43). 48. Il sistema delle deduzioni è inteso a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, in tal modo, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA (v., in particolare, sentenze 22 febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National, Racc. pag. I-1361, punto 24, e 21 aprile 2005, causa C-25/03, HE, Racc. pag. I-3123, punto 70). 49. È irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte, stabilire se l’IVA dovuta sulle operazioni di vendita precedenti o successive riguardanti i beni interessati sia stata versata o meno all’Erario (v., in questo senso, ordinanza 3 marzo 2004, causa C-395/02, Transport Service, Racc. pag. I-1991, punto 26). In base al principio fondamentale inerente al sistema comune dell’IVAe risultante dagli artt. 2 della prima e sesta direttiva, l’IVA si applica a qualsiasi operazione di produzione o di distribuzione, detratta l’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo (v., in particolare, sentenze 8 giugno 2000, causa C-98/98, Midland Bank, Racc. pag. I-4177, punto 29; 27 novembre 2003, causa C-497/01, Zita Modes, Racc. pag. I-14393, punto 37, e Optigen e a., cit., punto 54). 50. In tale contesto, come rilevato dal giudice del rinvio, risulta dalla costante giurisprudenza che il principio della neutralità fiscale non consente una distinzione generale fra le operazioni lecite e le operazioni illecite. Ne deriva che la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta, di per sé, una deroga all’imposizione, ma di una tale deroga si tiene conto solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito (v., segnatamente, 29 giugno 1999, causa C-158/98, Coffeeshop «Siberië», Racc. pag. I-3971, punti 14 e 21, nonché 29 giugno 2000, causa C-455/98, Salumets e a., Racc. pag. I-4993, punto 19). Orbene, è pacifico che ciò non si verifica né con i componenti informatici né con gli autoveicoli di cui alla causa principale. 51. Alla luce delle suesposte considerazioni, risulta che gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode, che si tratti di frode all’IVA o di altre frodi, devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione dell’IVA pagata a monte (v., in tal senso, sentenza 11 maggio 2006, causa C-384/04, Federation of Technological Industries, Racc. pag. I-0000, punto 33). 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 52. Ne consegue che, qualora una cessione sia operata nei confronti di un soggetto passivo che non sapeva e non poteva sapere che l’operazione interessata si iscriveva in una frode commessa dal venditore, l’art. 17 della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che osta ad una norma di diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di vendita – per effetto di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante – comporta per il detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’IVA. Al riguardo, è irrilevante la questione se detta nullità derivi da una frode all’IVA o da altre frodi. 53. Per contro, i criteri oggettivi su cui si fondano le nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo in quanto tale e di attività economica non sono soddisfatti in caso di frode fiscale perpetrata dallo stesso soggetto passivo (v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., Racc. pag. I-0000, punto 59). 54. Infatti, come la Corte ha già dichiarato, la lotta contro la frode, l’evasione fiscale e gli eventuali abusi è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva (v., sentenza 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C- 7/02, Gemeente Leusden e Holin Groep, Racc. pag. I-5337, punto 76). Gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas e a., Racc. pag. I-2843, punto 20; 23 marzo 2000, causa C-373/97, Diamantis, Racc. pag. I-1705, punto 33, e 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini H, Racc. pag. I-1599, punto 32). 55. Se l’Amministrazione tributaria accerta che il diritto alla detrazione è stato esercitato in modo fraudolento, può chiedere, con effetto retroattivo, il rimborso degli importi detratti (v., segnatamente, sentenze 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, Racc. pag. 655, punto 24; 29 febbraio 1996, causa C-110/94, INZO, Racc. pag. I-857, punto 24, e Gabalfrisa e a., cit., punto 46) e spetta al giudice nazionale negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo (v. sentenza Fini H, cit., punto 34). 56. Del pari, un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, ai fini della sesta direttiva si deve considerarlo partecipante a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla rivendita dei beni. 57. In una situazione del genere, infatti, il soggetto passivo collabora con gli autori della frode e ne diviene complice. 58. Peraltro, rendendone più difficile la realizzazione, un’interpretazione siffatta è tale da ostacolare le operazioni fraudolente. 59. Pertanto, spetta al giudice nazionale negare il beneficio del diritto alla deduzione qualora risulti acclarato, alla luce degli elementi oggettivi, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, anche se l’operazione in oggetto soddisfaceva i criteri oggettivi sui quali si IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103 fondano le nozioni di cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo che agisce in quanto tale e di attività economica. 60. Alla luce delle suesposte considerazioni, le questioni sollevate devono essere risolte nel senso che, qualora una cessione sia operata nei confronti di un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si iscriveva in una frode commessa dal venditore, l’art. 17 della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che osta ad una norma di diritto nazionale secondo cui l’annullamento del contratto di vendita – in virtù di una disposizione di diritto civile che sanziona tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante – comporta per il detto soggetto passivo la perdita del diritto alla deduzione dell’IVA. Al riguardo, è irrilevante la questione se detta nullità derivi da una frode all’IVA o da altre frodi. 61. Per contro, qualora risulti acclarato, alla luce di elementi oggettivi, che la cessione è stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA, spetta al giudice nazionale negare al detto soggetto passivo il beneficio del diritto alla deduzione. Sentenza della Corte, sezione terza, 14 settembre 2006, nel procedimento C-228/05 – Stradasfalti Srl e Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento. La Stradasfalti è una società a responsabilità limitata di diritto italiano, con sede legale in provincia di Trento, che opera nel settore delle costruzioni stradali. Essa dispone di veicoli aziendali che non formano oggetto dell’attività propria dell’impresa, e per il cui acquisto, uso, manutenzione e rifornimento di carburante non ha potuto beneficiare della detraibilità dell’IVA ad essi afferente, secondo quanto previsto dalla normativa italiana. Il 7 luglio 2004 la Stradasfalti, ritenendo tale normativa incompatibile con le disposizioni della sesta direttiva relative alla detraibilità dell’IVA, chiedeva all’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento la restituzione di circa EUR 31 340, a titolo di rimborso dell’IVA indebitamente pagata dal 2000 al 2004 per l’acquisto, l’uso, la manutenzione ed il rifornimento di carburante dei propri veicoli aziendali. Con varie decisioni adottate il 15 luglio 2004, l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Trento respingeva tale istanza. Il 22 novembre 2004, la Stradasfalti proponeva un ricorso alla Commissione tributaria di primo grado di Trento per ottenere l’annullamento di tali decisioni ed il rimborso dell’IVA per i periodi considerati. In tale contesto, la Commissione tributaria di primo grado di Trento ha deciso di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva (…) in relazione al n. 2 dello stesso articolo (…) vada interpretato nel senso che: 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a) il detto articolo si oppone a considerare “consultazione del comitato IVA” di cui all’art. 29 della citata direttiva, la semplice notifica da parte di uno Stato membro dell’adozione di una norma di legge nazionale, come quella di cui all’attuale art. 19 bis 1 D.P.R. n. 633/72, lett. c) e d) e successive proroghe, che limita il diritto di detrazione dall’IVA relativa all’impiego e manutenzione dei beni di cui al paragrafo 2 dell’art. 17, sulla base di una semplice presa d’atto da parte del comitato IVA; b) lo stesso si oppone egualmente a considerare come misura ricadente nel suo campo di applicazione una qualsivoglia limitazione del diritto a fruire della detrazione IVA connessa all’acquisto, impiego e manutenzione dei beni sub a) introdotta prima della consultazione del comitato IVA e mantenuta in vigore attraverso numerose proroghe legislative, ripetutesi a catena e senza soluzione di continuità da oltre venticinque anni; c) in caso di risposta affermativa alla questione sub 1 b) si chiede che la Corte indichi i criteri sulla scorta dei quali si possa determinare l’eventuale durata massima delle proroghe, in relazione ai motivi congiunturali presi in considerazione dall’art. 17, n. 7, della sesta direttiva; ovvero che precisi se l’inosservanza della temporaneità delle deroghe (ripetute nel tempo) attribuisca al contribuente il diritto a fruire della detrazione; 2) qualora i requisiti e le condizioni della procedura di cui all’art. 17, n. 7, sopra richiamato, non risultassero rispettati, dica la Corte se l’art. 17, n. 2, della citata direttiva vada interpretato nel senso che esso si oppone a che una norma di legge nazionale od una prassi amministrativa adottata da uno Stato membro dopo l’entrata in vigore della sesta direttiva (1º gennaio 1979 per l’Italia) possa limitare la detrazione dell’IVA connessa all’acquisto, impiego e manutenzione di determinati autoveicoli, in via oggettiva e senza limitazioni di tempo». 27. L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede una delle procedure di autorizzazione di misure derogatorie contemplate dalla detta direttiva, accordando agli Stati membri la facoltà di escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni «fatta salva la consultazione prevista dall’articolo 29». 28. Tale consultazione permette alla Commissione e agli altri Stati membri di controllare l’uso da parte di uno Stato membro della possibilità di derogare al regime generale delle detrazioni dell’IVA, verificando, in particolare, se la misura nazionale di cui trattasi soddisfi la condizione di essere stata adottata per motivi congiunturali. 29. L’art. 17, n. 7, della sesta direttiva prevede così un obbligo procedurale che gli Stati membri devono rispettare per potersi avvalere della norma derogatoria da esso stabilita. La consultazione del comitato IVA risulta essere un presupposto dell’adozione di qualsiasi misura basata su detta disposizione (v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punti 61-63). 30. L’obbligo di consultare il comitato IVA sarebbe privo di senso qualora gli Stati membri si limitassero a notificare al medesimo la misura nazionale derogatoria che intendono adottare senza corredare tale notifica della minima spiegazione sulla natura e sulla portata della misura. Il comitato IVA IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105 deve essere in grado di deliberare validamente sulla misura ad esso sottoposta. L’obbligo procedurale previsto all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva presuppone quindi che gli Stati membri informino tale comitato del fatto che intendono adottare una misura derogatoria e che gli forniscano informazioni sufficienti per consentirgli di esaminare tale misura con cognizione di causa. 31. Per contro, l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva non prevede alcun obbligo quanto al risultato della consultazione del comitato IVA, e in particolare non impone a tale comitato di pronunciarsi favorevolmente o sfavorevolmente sulla misura nazionale derogatoria. Nulla impedisce quindi al comitato IVA di limitarsi a prendere atto della misura nazionale derogatoria che gli viene comunicata. 32. (...) l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva impone che gli Stati membri, per rispettare l’obbligo procedurale di consultazione di cui all’art. 29 della medesima direttiva, informino il comitato IVA del fatto che intendono adottare una misura nazionale che deroga al regime generale delle detrazioni dell’IVA e che forniscano a tale comitato informazioni sufficienti per consentirgli di esaminare la misura con cognizione di causa. 50. Per quanto riguarda la prima questione, sub b), con cui si chiede se l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva autorizzi uno Stato membro a escludere taluni beni dal regime di detrazione dell’IVA senza previa consultazione del comitato IVA, la Corte ha già dichiarato, come è stato osservato sopra al punto 29, che la consultazione di tale comitato è un presupposto dell’adozione di qualsiasi misura basata su detta disposizione (v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punti 61-63). 51. Contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, la risposta a tale questione non può essere dedotta dalla soluzione elaborata dalla Corte nella citata sentenza Sudholz. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato segnatamente che l’art. 27 della sesta direttiva non imponeva al Consiglio di dare la sua autorizzazione a misure particolari derogatorie prese dagli Stati membri, prima dell’adozione di tali misure. Tuttavia, la procedura di consultazione prevista all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, in questione nella fattispecie, non ha il medesimo oggetto della procedura di autorizzazione prevista all’art. 27 della stessa direttiva. Non è dunque fondata la tesi del governo italiano secondo cui dalla sentenza Sudholz, citata, risulterebbe che la soluzione già fornita dalla Corte nella citata sentenza Metropol e Stadler andrebbe esclusa nella fattispecie. 52. Quanto alla prima questione, sub c), prima parte, con cui si chiede se l’art. 17, n. 7, della sesta direttiva autorizzi uno Stato membro ad escludere taluni beni dal regime di detrazione dell’IVA senza limitazioni temporali, va ricordato che tale articolo autorizza gli Stati membri a escludere taluni beni dal regime delle detrazioni «per motivi congiunturali». 53. Tale disposizione autorizza dunque uno Stato membro ad adottare misure temporanee destinate ad ovviare alle conseguenze di una situazione congiunturale in cui si trova la sua economia in un determinato momento. Pertanto, l’applicazione delle misure a cui si riferisce tale disposizione deve essere limitata nel tempo e, per definizione, le medesime non possono essere di natura strutturale. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 54. Ne consegue che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva non autorizza uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano beni dal regime delle detrazioni dell’IVAove siano privi di indicazioni quanto alla loro limitazione temporale e/o facciano parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a consentire il rimborso del debito pubblico (v. sentenza Metropol e Stadler, cit., punto 68). 55. Pertanto, la prima questione pregiudiziale, sub b) e c), prima parte, va risolta dichiarando che l’art. 17, n. 7, prima frase, della sesta direttiva dev’essere interpretato nel senso che esso non autorizza uno Stato membro ad escludere alcuni beni dal regime delle detrazioni dell’IVA senza previa consultazione del comitato IVA. La detta disposizione non autorizza nemmeno uno Stato membro ad adottare provvedimenti che escludano alcuni beni dal regime delle detrazioni di tale imposta ove siano privi di indicazioni quanto al loro limite temporale e/o facciano parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a consentire il rimborso del debito pubblico. 66. In forza dell’obbligo generale sancito dall’art. 189, terzo comma, del Trattato CE (divenuto art. 249, terzo comma, CE), gli Stati membri sono tenuti a conformarsi a tutte le disposizioni della sesta direttiva (v. sentenza 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz, Racc. pag. I-3795, punto 33). Qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie nazionali non possono opporre ad un soggetto passivo una disposizione che deroga al principio del diritto alla detrazione dell’IVAenunciato dall’art. 17, n. 1, della stessa direttiva (v. sentenza Metropol e Stadler, citata, punto 64). 67. Nella controversia principale, anche se il governo italiano sostiene che le richieste di consultazione del comitato IVA, nel 1999 e nel 2000, hanno preceduto l’adozione della misura nazionale di proroga della disposizione derogatoria al principio del diritto a detrazione dell’IVA, è pacifico che tale disposizione, salvo modifiche di esigua importanza, è stata sistematicamente prorogata dal governo italiano a partire dal 1980. Essa non può presentare quindi un carattere temporaneo e non può nemmeno essere considerata motivata da ragioni congiunturali. Tale misura deve, di conseguenza, essere considerata parte di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale, non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 17, n. 7, della sesta direttiva. Il governo italiano non può dunque invocare tali misure a discapito di un soggetto passivo (v., in tal senso, sentenza Metropol e Stadler, cit., punto 65). 68. Il soggetto passivo cui sia stata applicata tale misura deve poter ricalcolare il suo debito IVA conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, nella misura in cui i beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta. 69. ( ..) qualora un’esclusione dal regime delle detrazioni non sia stata stabilita conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, le autorità tributarie nazionali non possono opporre ad un soggetto passivo una disposi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107 zione che deroga al principio del diritto alla detrazione dell’IVA enunciato dall’art. 17, n. 1, della medesima direttiva. Il soggetto passivo cui sia stata applicata tale misura derogatoria deve poter ricalcolare il suo debito IVA conformemente alle disposizioni dell’art. 17, n. 2, della sesta direttiva, nella misura in cui i beni e i servizi sono stati impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta. Sulla richiesta di limitazione degli effetti nel tempo della sentenza 70. Il governo italiano ha evocato la possibilità che la Corte, nel caso in cui dovesse ritenere che le deroghe al diritto a detrazione per gli anni 2000-2004 non siano state introdotte conformemente all’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, limiti nel tempo gli effetti della presente sentenza. 71. Asostegno di tale domanda, il governo italiano invoca il grave danno per l’erario che può essere causato dalla sentenza della Corte e la tutela del legittimo affidamento che esso poteva nutrire quanto alla conformità al diritto comunitario della misura in questione. Esso osserva, a tale riguardo, che la Commissione, nel 1999 e nel 2000, ha emesso un parere favorevole alle misure da adottare in attesa dell’approvazione della direttiva che doveva disciplinare in via organica la materia e che la Commissione non ha mai formulato alcuna contestazione alla Repubblica italiana circa il mantenimento della deroga. 72. Si deve rilevare che solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Per stabilire se si debba limitare la portata di una sentenza nel tempo, è necessario tener conto del fatto che, benché le conseguenze pratiche di qualsiasi pronuncia del giudice vadano vagliate accuratamente, non ci si può tuttavia spingere fino a sminuire l’obiettività del diritto e compromettere la sua applicazione futura a motivo delle ripercussioni che la pronuncia può avere per il passato (sentenze 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot, Racc. pag. 379, punti 28 e 30, nonché 16 luglio 1992, causa C-163/90, Legros e a., Racc. pag. I-4625, punto 30). 73. Nella fattispecie, se è vero che la Commissione ha avallato la domanda delle autorità italiane per gli anni in questione nella controversia principale, dalle osservazioni presentate alla Corte risulta tuttavia che il comitato IVA, fin dal 1980, ha costantemente segnalato al governo italiano come la deroga in questione non potesse giustificarsi sulla base dell’art. 17, n. 7, della sesta direttiva, e che l’atteggiamento più conciliante adottato dal detto comitato nelle sue riunioni del 1999 e del 2000 si spiega alla luce dell’impegno assunto dalle autorità italiane di riesaminare la misura a partire dal 1º gennaio 2001, nonché sulla base delle prospettive allora aperte dalla proposta della Commissione di modificare la sesta direttiva per quanto concerne il regime del diritto alla detrazione dell’IVA. 74. Ciò premesso, le autorità italiane non potevano ignorare che una proroga sistematica, a partire dal 1979, di una misura derogatoria che doveva essere temporanea e che, in virtù della lettera stessa dell’art. 17, n. 7, della 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sesta direttiva, poteva essere giustificata solo da «motivi congiunturali», non era compatibile con tale articolo. 75. Le autorità italiane non possono, di conseguenza, far valere l’esistenza di rapporti giuridici costituiti in buona fede per chiedere alla Corte di limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza. 76. Inoltre, il governo italiano non è riuscito a dimostrare l’affidabilità del calcolo in base al quale ha sostenuto dinanzi alla Corte che la presente sentenza rischierebbe, qualora i suoi effetti non fossero limitati nel tempo, di comportare conseguenze finanziarie rilevanti. 77. Di conseguenza, non occorre limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza. Sentenza della Corte, sezione terza, 7 settembre 2006, nel procedimento C-166/05 – Heger Rudi GmbH e Finanzamt Graz-Stadt. La Heger è una società con sede in Germania e non dispone di stabilimenti in Austria. Negli anni 1997 e 1998 essa acquistava contingenti di permessi di pesca relativi al Gmundner Traun, fiume che scorre nell’Austria superiore, da una società avente sede in Austria, la Flyfishing Adventure GmbH . Tali permessi legittimavano i detentori a pescare in specifici tratti del fiume in determinati periodi dell’anno. La Heger rivendeva i permessi a numerosi clienti di diversi Stati membri. In aggiunta al prezzo di vendita dei permessi la Flyfishing fatturava alla Heger l’IVA austriaca al tasso del 20%, per un totale di ATS 252.000 (circa EUR 18 300). Nel dicembre 1999, richiamandosi alle disposizioni di attuazione nell’ordinamento austriaco dell’ottava direttiva, la Heger chiedeva all’autorità austriaca competente il rimborso dell’IVA pagata in relazione all’acquisto di permessi di pesca per gli anni 1997 e 1998. La domanda veniva respinta in quanto la rivendita dei permessi di pesca da parte della Heger ai suoi clienti avrebbe costituito una prestazione di servizi relativa a un bene immobile ubicato in Austria, per la qual cosa non sarebbe stato possibile procedere al rimborso dell’IVA pagata a monte. La Heger impugnava la decisione dinanzi al Verwaltungsgerichtshof [Corte suprema di giustizia amministrativa], il quale decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se l’attribuzione della legittimazione all’esercizio della pesca, attuata mediante il trasferimento a titolo oneroso di permessi di pesca, costituisca una “prestazion[e] di servizi relativ[a] a un bene immobile” ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della [sesta direttiva]». 15. (…) l’art. 9, n. 1, della sesta direttiva contiene una regola generale per determinare il luogo di collegamento fiscale, mentre il n. 2 del medesimo articolo indica una serie di collegamenti specifici. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109 16. Con riferimento al rapporto tra i primi due paragrafi dell’art. 9 della sesta direttiva la Corte ha già dichiarato che non esiste alcuna preminenza del n. 1 sul n. 2 di tale norma. La questione che si pone in ciascun caso di specie è se esso rientri in una delle ipotesi menzionate all’art. 9, n. 2, della detta direttiva; altrimenti esso rientra nell’art. 9, n. 1 (v., in tal senso, sentenze 26 settembre 1996, causa C-327/94, Dudda, Racc. pag. I-4595, punto 21, e 27 ottobre 2005, causa C-41/04, Levob Verzekeringen e OV Bank, Racc. pag. I-9433, punto 33). 17. Ne consegue che l’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva non può essere considerato un’eccezione ad una regola generale, da interpretare in senso restrittivo (v., in tal senso, sentenza 15 marzo 2001, causa C-108/00, SPI, Racc. pag. I-2361, punto 17). 18. Si deve dunque verificare se un’operazione come quella oggetto della causa principale può rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 9, n. 2, della sesta direttiva. Perché la rivendita dei permessi di pesca di cui trattasi possa essere considerata una prestazione di servizi relativa a un bene immobile nel senso dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva, occorre per prima cosa che la cessione di tali diritti costituisca una «prestazione di servizi » e che le parti di fiume cui si riferiscono i permessi possano essere qualificate «beni immobili». 19. Come ha osservato l’avvocato generale ai punti 28 e 29 delle conclusioni, siccome la Repubblica d’Austria non sembra essersi avvalsa della facoltà, accordata agli Stati membri dall’art. 5, n. 3, della sesta direttiva, di considerare determinati diritti su beni immobili nonché taluni diritti reali idonei a conferire al loro titolare un potere d’uso su tali beni come «beni materiali», la cessione a titolo oneroso dei permessi di pesca oggetto della causa principale non può essere qualificata cessione di beni ai sensi dell’art. 5, n. 1, della sesta direttiva. Detta cessione costituisce, dunque, una prestazione di servizi ai sensi dell’art. 6, n. 1, di tale direttiva. 20. Quanto alla nozione di «bene immobile», occorre ricordare che una delle caratteristiche fondamentali di un tale bene è di essere collegato a una porzione determinata della superficie terrestre. La Corte ha già affermato in proposito che un terreno delimitato in modo permanente o addirittura sommerso dall’acqua può essere qualificato bene immobile (v., in tal senso, sentenza 3 marzo 2005, causa C-428/02, Fonden Marselisborg Lystbådehavn, Racc. pag. I-1527, punto 34). 21. Diritti di pesca come quelli acquisiti e rivenduti dalla Heger permettono l’esercizio della pesca in tratti ben precisi del corso d’acqua considerato. Tali diritti, che riguardano non l’acqua che scorre nel fiume e si rinnova senza sosta, bensì zone geografiche determinate in cui possono essere esercitati, sono collegati, quindi, ad una superficie ricoperta d’acqua delimitata in modo permanente. 22. Ne consegue che le parti di fiume per cui valgono i permessi di pesca in questione devono essere considerate beni immobili ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva. 23. Ciò detto, resta da verificare se il nesso tra il servizio in questione e i detti beni immobili sia sufficiente. Sarebbe, infatti, contrario all’economia 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva far rientrare nell’ambito di applicazione di tale norma speciale ogni prestazione di servizi che presenti un nesso anche minimo con un bene immobile, visto che i servizi che si riferiscono in una maniera o nell’altra a un bene immobile sono ben numerosi. 24. È per questo che solo le prestazioni di servizi che presentano un nesso sufficientemente diretto con un bene immobile rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva. Un nesso del genere caratterizza, d’altronde, tutte le prestazioni di servizi elencate in tale disposizione. 25. I diritti di pesca oggetto della causa principale possono essere esercitati solo in rapporto al fiume considerato e nei tratti di quest’ultimo menzionati nei permessi. Il corso d’acqua medesimo rappresenta, dunque, un elemento integrante dei permessi di pesca e, pertanto, della cessione dei diritti di pesca. Là dove una prestazione di servizi, come quella oggetto della causa principale, consiste proprio nella cessione di un diritto d’uso del bene, qui il fiume, tale immobile costituisce un elemento centrale ed indispensabile della prestazione. Il luogo di ubicazione dell’immobile corrisponde, inoltre, al luogo di consumo finale del servizio. 26. Da tutti questi elementi emerge un nesso sufficientemente diretto fra la cessione dei diritti di pesca e i tratti del corso d’acqua ai quali questi ultimi si riferiscono. Un servizio come quello fornito dalla Heger è, di conseguenza, relativo a un bene immobile ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva. 27. La questione pregiudiziale dev’essere pertanto risolta nel senso che il fatto di concedere un diritto di pesca mediante il trasferimento a titolo oneroso di permessi di pesca costituisce una prestazione di servizi relativa a un bene immobile ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. a), della sesta direttiva. Sentenza della Corte, sezione seconda, 14 settembre 2006, nei procedimenti riuniti da C-181/04 a C-183/04 – Elmeka NE e Ypourgos Oikonomikon. Le domande sono state poste nell’ambito di una controversia che oppone la società Elmeka NE all’Ypourgos Oikonomikon (Ministro delle Finanze), in merito al rifiuto di quest’ultimo di esentare dal pagamento dell’imposta sul valore aggiunto operazioni che avevano dato luogo a tariffe di nolo per il trasporto di combustibili per l’approvvigionamento delle navi. Il Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato), ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, che presentano un’identica formulazione in ciascuna delle cause da C-181/04 a C-183/04: «1) Se l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva (…) a cui rinvia la disposizione dell’art. 15, n. 5, di tale direttiva, riguardi il noleggio tanto di navi d’alto mare che effettuano il trasporto a pagamento di passeggeri quanto anche di navi usate nell’esercizio di attività commerciali, industriali e della pesca, o riguardi il noleggio di navi d’alto mare e solo esso, quando, in IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111 questo secondo caso, la disciplina ai sensi dell’art. 22, n. 1, lett. d), della legge n. 1642/1986 sia più ampia di quella della direttiva, relativamente alla categoria delle navi che il noleggio riguarda. 2) Se per l’esenzione dall’imposta, ai sensi del disposto dell’art. 15, n. 8, della sesta direttiva di cui sopra, sia necessaria la prestazione di un servizio allo stesso armatore, o se l’esenzione venga accordata anche per un servizio prestato ad un terzo alla sola condizione che venga realizzato per un bisogno diretto delle navi menzionate al n. 5 dell’art. 15, e cioè delle navi di cui alle lettere a) e b) del n. 4 di tale articolo. 3) Se sia consentito o no, e a quali condizioni, secondo le norme e i principi comunitari che disciplinano l’applicazione dell’[IVA], l’addebitamento del tributo per un periodo passato qualora la sua mancata ripercussione, per tale periodo, sulla controparte contrattuale da parte del debitore dell’imposta e, di conseguenza, il suo mancato versamento al fisco, siano dovuti alla convinzione del debitore che l’imposta non dovesse essere ripercossa e tale convinzione sia stata causata da un comportamento dell’amministrazione tributaria». 14. (..) nonostante talune versioni linguistiche dell’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva si prestino ad interpretazioni discordanti, la struttura e lo scopo di tale disposizione suggeriscono che il criterio dell’impiego in alto mare si debba applicare a tutti i tipi di navi menzionati nella detta disposizione. Dall’intitolazione dello stesso articolo, ossia «Esenzione delle operazioni all’esportazione fuori della Comunità, delle operazioni assimilate e dei trasporti internazionali», emerge che le disposizioni di tale articolo mirano ad esentare dall’IVA, a determinate condizioni, le cessioni di beni destinati all’approvvigionamento delle navi. L’applicazione del criterio della navigazione d’alto mare non consente l’esenzione per molte navi adibite alla navigazione in mare che esercitano attività commerciali, industriali o della pesca, se queste attività non sono svolte in alto mare. Se si dovesse intendere che tale disposizione non riguarda soltanto le navi adibite alla navigazione d’alto mare, il n. 4, lett. b), del medesimo articolo, che prevede anch’esso un’esenzione del genere per le navi adibite alla pesca costiera, sarebbe superfluo. 15. Inoltre, l’interpretazione secondo cui l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva si applica alle sole navi adibite alla navigazione d’alto mare, corrisponde alla giurisprudenza costante della Corte, secondo la quale le esenzioni dall’IVAdevono essere interpretate in maniera restrittiva, dato che costituiscono deroghe al principio generale secondo cui l’imposta sulla cifra d’affari è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo (v., in particolare, sentenze 26 giugno 1990, causa C-185/89, Velker International Oil Company, Racc. pag. I-2561, punto 19, e 16 settembre 2004, causa C-382/02, Cimber Air, Racc. pag. I-8379, punto 25). 16. (..) l’art. 15, n. 4, lett. a), della sesta direttiva, al quale rinvia il n. 5 del medesimo articolo, si applica non soltanto alle navi adibite alla navigazione d’alto mare e utilizzate nel trasporto a pagamento di passeggeri, ma anche alle navi adibite alla navigazione d’alto mare che esercitano attività commerciali, industriali o della pesca. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 21. Le operazioni di rifornimento di navi, menzionate all’art. 15, n. 4, della sesta direttiva, sono esentate in quanto sono equiparate ad operazioni all’esportazione (v., in tal senso, sentenza Velker International Oil Company, cit, punto 21). 22. Come, nel caso di operazioni all’esportazione, l’esenzione di diritto di cui all’art. 15, n. 1, della sesta direttiva si applica esclusivamente alle cessioni finali di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto al di fuori della Comunità, così l’esenzione di cui al n. 4 del medesimo articolo si può applicare unicamente alle cessioni di beni all’armatore che utilizzerà tali beni per il rifornimento e non può essere pertanto estesa alle cessioni di beni effettuate in uno stadio commerciale anteriore (v., in tal senso, sentenza Velker International Oil Company, cit, punto 22). 23. Infatti, l’estensione dell’esenzione agli stadi che precedono la cessione finale dei beni all’armatore richiederebbe che gli Stati organizzassero meccanismi di controllo e di sorveglianza per assicurare che i beni ceduti in esenzione fiscale raggiungano la loro ultima destinazione. Questi meccanismi si tradurrebbero, per gli Stati e per gli operatori interessati, in costrizioni inconciliabili con la «corretta e semplice applicazione delle esenzioni» di cui alla prima frase dell’art. 15 della sesta direttiva (v., in tal senso, sentenza Velker International Oil Company, cit, punto 24). 24. Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 28 delle sue conclusioni, le considerazioni che motivano tale sentenza sono applicabili anche all’esenzione delle prestazioni di servizi ai sensi dell’art. 15, n. 8, della sesta direttiva. Di conseguenza, per garantire un’applicazione coerente della sesta direttiva nel suo insieme, l’esenzione prevista da tale disposizione si applica unicamente alle prestazioni di servizi direttamente fornite all’armatore e non può pertanto essere estesa a quelle effettuate in uno stadio commerciale anteriore. 25. (...) l’art. 15, n. 8, della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che l’esenzione da esso prevista riguarda prestazioni di servizi direttamente fornite all’armatore per sopperire ai bisogni immediati delle navi. 26. Con la terza questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, secondo le norme e i principi comunitari che disciplinano l’applicazione dell’IVA, un atto dell’amministrazione tributaria nazionale che autorizza un soggetto passivo a non ripercuotere l’IVA sulla sua controparte contrattuale possa, sebbene tale atto sia illegittimo, far sorgere un legittimo affidamento del soggetto passivo che osta al pagamento a posteriori della detta imposta. 30. Dalle decisioni di rinvio emerge che sono in causa decisioni provvisorie del 5 giugno 1997 dell’amministrazione tributaria competente, riguardanti la riscossione dell’IVA dovuta per gli esercizi 1994 (causa C-183/04), 1995 (causa C-182/04) e 1996 (causa C-181/04), che comportano la revoca di un documento di esenzione dalla detta imposta precedentemente adottato dal servizio delle imposte del Pireo. 31. A tal riguardo, secondo costante giurisprudenza della Corte, i principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario; pertanto devono essere rispettati dalle istituzioni comunitarie ma anche dagli Stati membri nell’esercizio dei IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 113 poteri loro conferiti dalle direttive comunitarie (v., in particolare, sentenze 3 dicembre 1998, causa C-381/97, Belgocodex, Racc. pag. I-8153, punto 26, e 26 aprile 2005, causa C-376/02, «Goed Wonen», Racc. pag. I-3445, punto 32). Le autorità nazionali sono perciò tenute a rispettare il principio della tutela del legittimo affidamento degli operatori economici. 32. Per quanto riguarda il principio della tutela del legittimo affidamento del beneficiario dell’atto favorevole, occorre, in primo luogo, verificare se gli atti dell’autorità amministrativa abbiano ingenerato fondate aspettative in capo ad un operatore economico prudente ed accorto (v., in tal senso, sentenze 10 dicembre 1975, cause riunite da 95/74 a 98/74, 15/75 e 100/75, Union nationale des coopératives agricoles de céréales e a./Commissione e Consiglio, Racc. pag. 1615, punti 43-45, e 1° febbraio 1978, causa 78/77, Lührs, Racc. pag. 169, punto 6). Se la risposta a tale quesito dà esito positivo, occorre, in secondo luogo, accertare la legittimità di tali aspettative. 33. Nel caso di specie, come esposto nelle decisioni di rinvio, l’Elmeka ha inoltrato al servizio delle imposte del Pireo una domanda volta a sapere se, per l’attività di rifornimento delle navi, essa era esentata dal pagamento dell’IVA, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 1642/1986, e, in tal caso, in base a quale procedura. Il detto servizio le ha risposto dichiarando che le polizze di carico erano esenti dall’IVA conformemente al disposto del detto art. 22, lett. c) e d). 34. Si deve inoltre rilevare che il governo ellenico ha fatto presente, sia nelle sue osservazioni scritte sia all’udienza, che esiste un’espressa disposizione di diritto interno che designa l’autorità nazionale competente a rispondere alle domande poste dai cittadini in ordine a problemi giuridici in materia di fiscalità. 35. Al riguardo, spetta al giudice nazionale verificare se l’Elmeka, la quale ha come oggetto sociale l’utilizzo di una nave cisterna con cui effettua trasporti di prodotti petroliferi per conto di vari noleggiatori, potesse ragionevolmente presumere che il servizio delle imposte del Pireo fosse competente a decidere sull’applicazione dell’esenzione alla sua attività. 36. (..) nell’ambito del sistema comune di IVA, le autorità tributarie nazionali sono tenute a rispettare il principio della tutela del legittimo affidamento. Spetta al giudice del rinvio valutare se, nelle circostanze delle cause principali, il soggetto passivo potesse ragionevolmente presumere che la decisione controversa fosse stata adottata da un’autorità competente. IMPOSTE E TASSE – Accise Sentenza della Corte, sezione terza, 23 novembre 2006, nel procedimento C-5/05 – Staatssecretaris van Financiën Contro B.F.J. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 7-9 della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1992, 92/12/CEE, relativa 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO al regime generale, alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa (G.U. L 76, pag. 1), nel testo modificato dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/108/CEE (G.U. L 390, pag. 124; in prosieguo: la «direttiva»). Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra lo Staatssecretaris van Financiën (segretario di Stato delle Finanze) e il sig. J. in merito all’applicazione nei Paesi Bassi di accise su vini acquistati da quest’ultimo in Francia per il fabbisogno sia proprio sia di altri soggetti privati e spedito nei Paesi Bassi, per conto del medesimo, da parte di un’impresa di trasporti stabilita in quest’ultimo Stato membro. 25. Con le questioni pregiudiziali, che appare opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se la direttiva debba essere interpretata nel senso che, quando un privato, come il sig. J., che non operi a titolo commerciale e non persegua scopi lucrativi, acquisti in uno Stato membro, per il fabbisogno sia personale sia di altri privati, prodotti soggetti ad accisa, nella specie vino, già immessi al consumo nello Stato membro medesimo, e ne affidi successivamente, per proprio conto, la spedizione ad un’impresa di trasporti stabilita in un secondo Stato membro, le accise siano parimenti dovute in quest’ultimo Stato. 27. Come la Corte ha già avuto modo di rilevare, la direttiva ha inteso fissare un certo numero di regole quanto alla detenzione, alla circolazione ed ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa, segnatamente al fine di assicurare che l’esigibilità delle accise sia identica in tutti gli Stati membri (v. sentenze EMU Tabac e a., cit supra, punto 22; 5 aprile 2001, causa C-325/99, Van de Water, Racc. pag. I-2729, punto 39, e 12 dicembre 2002, causa C-395/00, Cipriani, Racc. pag. I-11877, punto 41). 28. La direttiva stabilisce a tale riguardo – come emerge, in particolare, dai ‘considerando’ quinto e sesto – una distinzione tra, da un lato, le merci detenute a fini commerciali, per il trasporto delle quali sono necessari documenti di accompagnamento e, dall’altro, le merci detenute a fini personali, per il cui trasporto non è richiesto alcun documento (v., in tal senso, la sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punti 23 e 24). 29. Pertanto, come emerge parimenti dal settimo ‘considerando’ della direttiva, ai fini dell’applicazione di quest’ultima i prodotti non detenuti a fini personali devono essere necessariamente considerati detenuti a fini commerciali. 30. Per quanto attiene a questi ultimi prodotti, sebbene l’art. 6 della direttiva preveda che l’accisa diviene esigibile all’atto dell’immissione in consumo dei prodotti in uno Stato membro, non è escluso che, in virtù degli artt. 7, 9 o 10 della direttiva medesima, l’accisa sia riscossa in seguito in un altro Stato membro, potendo allora essere rimborsate in virtù dell’art. 7, n. 6, o dell’art. 10, n. 4, della direttiva medesima, le accise eventualmente corrisposte nel primo Stato (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 42). 31. Per contro, per quanto attiene ai prodotti detenuti a fini personali, l’art. 8 della direttiva prevede che le accise siano riscosse nello Stato mem- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 115 bro in cui tali prodotti sono stati acquistati (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 24). 33. Come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’applicazione dell’art. 8 della direttiva implica che siano soddisfatti vari requisiti. Così, i prodotti soggetti ad accisa devono essere stati acquistati da «privati», i quali devono averli acquistati «per proprio uso» e devono inoltre averli trasportati essi stessi. Tali requisiti devono consentire di provare il carattere rigorosamente personale della detenzione dei prodotti soggetti ad accisa acquistati in uno Stato membro e successivamente trasportati verso un altro Stato membro (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punti 25 e 26). 35. Per quanto attiene al primo di tali requisiti, dal tenore stesso dell’art. 8 della direttiva emerge ictu oculi che essa postula che i prodotti di cui trattasi siano destinati al fabbisogno personale del privato che li abbia acquistati, escludendo, quindi, l’acquisto di prodotti da parte di un privato per soddisfare il fabbisogno di altri privati. Quanto alla detenzione di questi ultimi prodotti, non si può infatti ritenere che essa rivesta carattere strettamente personale per il privato che li abbia acquistati. 37. Per quanto attiene al secondo requisito, emerge parimenti dalla locuzione «trasportati dai medesimi», di cui all’art. 8 della direttiva, che l’applicazione di tale disposizione esige che i prodotti di cui trattasi siano stati trasportati personalmente dal privato che li abbia acquistati (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 33). 39. A tal riguardo, occorre rammentare che, come rilevato dalla Corte al punto 32 della menzionata sentenza EMU Tabac e a., quando il legislatore comunitario ha voluto prendere in considerazione, nel contesto della direttiva, l’ipotesi dell’intervento di un terzo nel trasporto dei prodotti, lo ha fatto in modo espresso con una formula ad hoc, come è accaduto per gli artt. 9, n. 3, e 10, n. 1 della direttiva medesima. 40. Inoltre, al punto 33 della detta sentenza la Corte ha parimenti rilevato che nessuna delle versioni linguistiche dell’art. 8 della direttiva prevede esplicitamente un intervento siffatto e che, al contrario, le versioni danese e greca lasciano apparire in modo particolarmente chiaro che, affinché i diritti di accisa siano dovuti nel paese di acquisto, il trasporto dev’essere effettuato personalmente dall’acquirente dei prodotti soggetti ad accisa. 41. Conseguentemente, in considerazione altresì del tenore dell’art. 8 della direttiva, che non presenta alcuna ambiguità, la Corte ha già avuto modo di affermare, ai punti 37 e 40 della menzionata sentenza, che tale disposizione non può trovare applicazione quando l’acquisto e/o il trasporto di merci soggette ad accisa sia stato effettuato tramite un agente, atteso che il legislatore comunitario non ha mai inteso prendere in considerazione l’intervento di un agente nel contesto di tale disposizione. 43. Peraltro, a prescindere dal fatto che l’iniziativa del trasporto provenga o meno dal privato, si deve necessariamente rilevare che la circostanza stessa che i prodotti soggetti ad accisa vengano spediti in un altro Stato membro da un’impresa di trasporti, facilitando la spedizione di quantitativi di prodotti eccedenti in misura significativa le esigenze del singolo privato che li 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO abbia acquistati, è sufficiente a dimostrare che la loro detenzione non riveste il carattere strettamente personale postulato dall’art. 8 della direttiva. A tal riguardo si deve d’altronde rilevare che, a termini dell’art. 9, n. 2, della direttiva, sia le modalità di trasporto utilizzate sia i quantitativi trasportati costituiscono elementi pertinenti per accertare la natura commerciale della detenzione delle merci di cui al detto art. 8, e, pertanto, il carattere non personale della medesima. 47. Ne consegue che, come dedotto da tutti i governi che hanno presentato osservazioni alla Corte, l’art. 8 della direttiva non può trovare applicazione nel caso in cui, come nella fattispecie oggetto della causa principale, i prodotti soggetti ad accisa acquistati in un primo Stato membro da un privato, ancorché per esigenze personali, siano stati spediti in un secondo Stato membro non dal privato medesimo, bensì da un’impresa di trasporti agente per conto di questi. 48. Atteso che l’art. 8 della direttiva non può trovare applicazione in una fattispecie come quella oggetto della causa principale, questa ricade quindi nella sfera di applicazione degli artt. 7, 9 o 10 della direttiva medesima. 49. (...) l’art. 10 della direttiva, riguardante gli acquisti effettuati da privati e spediti o trasportati direttamente o indirettamente da parte del venditore o per conto del medesimo, non può tuttavia trovare applicazione quando, come nella fattispecie oggetto della causa principale, l’iniziativa del trasporto non provenga dal venditore, bensì dal privato acquirente delle merci soggette ad accisa (sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punti 48 e 49). 50. Quanto all’art. 9 della direttiva, dal n. 2 della medesima emerge che tale disposizione si applica ai prodotti di cui al precedente art. 8, vale a dire ai prodotti acquistati da un privato per il proprio fabbisogno e dal medesimo trasportati. Conseguentemente, atteso che dalle suesposte considerazioni emerge che quest’ultima disposizione non riguarda la fattispecie oggetto della causa principale, nemmeno il detto art. 9 può, in quanto tale, trovare applicazione nella specie. 51. Per contro, l’art. 7 della direttiva può trovare applicazione nella fattispecie oggetto della causa principale, atteso che tale disposizione, a termini del suo n. 2, riguarda la fattispecie in cui le merci vengano fornite, o siano destinate ad essere fornite, all’interno di un altro Stato membro ovvero siano destinate, all’interno di un altro Stato membro, a soddisfare le esigenze di un operatore che svolga in modo indipendente un’attività economica. Orbene, tale ipotesi ricorre nel caso di un privato che, come nella specie, non persegua scopi lucrativi, quando la spedizione delle merci soggette ad accisa venga effettuata per il tramite di un operatore agente per conto del privato stesso (v., in tal senso, sentenza EMU Tabac e a., cit. supra, punto 52). Infatti, come emerge dal punto 29 della presente sentenza, la direttiva si fonda sul principio che i prodotti non detenuti a fini personali devono essere necessariamente considerati detenuti a scopi commerciali. 52. Nel caso in cui le accise vengano riscosse, sulla base dell’art. 7 della direttiva, nello Stato membro in cui i prodotti siano detenuti a scopi commerciali, laddove siano stati già immessi al consumo in un primo Stato membro, il IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 117 n. 6 di tale disposizione prevede che le accise versate nel primo Stato vengano rimborsate secondo le disposizioni dell’art. 22, n. 3, della direttiva stessa. 53. Conseguentemente, le questioni pregiudiziali devono essere risolte dichiarando che la direttiva dev’essere interpretata nel senso che, nel caso in cui, come nella fattispecie oggetto della causa principale, un privato, che non agisca a titolo professionale e non persegua scopi lucrativi, acquisti in un primo Stato membro, per il proprio fabbisogno personale e per quello di altri privati, prodotti soggetti ad accisa già immessi in consumo in tale Stato membro e li faccia spedire in un secondo Stato membro, per proprio conto, da un’impresa di trasporti stabilita in questo stesso secondo Stato, trova applicazione l’art. 7 della direttiva e non il successivo art. 8, con la conseguenza che le accise vengono parimenti riscosse in quest’ultimo Stato. A termini dell’art. 7, n. 6, della direttiva medesima, le accise versate nel primo Stato verranno, in tal caso, rimborsate conformemente alle disposizioni dell’art. 22, n. 3, della direttiva stessa. – Imposte dirette Sentenza della Corte, sezione prima, 30 marzo 2006, nel procedimento C-46/04 – Aro Tubi Trafilerie SpA contro Ministero dell’Economia e delle Finanze. La questione è sorta nell’ambito di una controversia tra la società Aro Tubi Trafilerie S.p.A. (in prosieguo: l’«Aro Tubi», in qualità di «società incorporante») e il Ministero dell’Economia e delle Finanze in merito alla riscossione dell’imposta di registro in occasione di una duplice fusione, mediante la quale l’Aro Tubi ha incorporato due società, vale a dire, da un lato, la propria controllata, Aro Tubi Estrusi e Profilati S.p.A. (in prosieguo: l’«Aro Tubi Estrusi», in qualità di «società incorporata»), e, d’altro lato, la propria controllante, Fratelli Gaggini S.p.A. (in prosieguo: la «Fratelli Gaggini», in qualità di «società incorporata»). L’Aro Tubi è una società per azioni di diritto italiano le cui azioni erano interamente detenute da un’altra società per azioni di diritto italiano, la Fratelli Gaggini. L’Aro Tubi, per parte sua, deteneva l’intero pacchetto azionario di una terza società per azioni di diritto italiano, l’Aro Tubi Estrusi. Con atto del 19 dicembre 1995, l’Aro Tubi ha incorporato, mediante fusione, la propria controllata, Aro Tubi Estrusi (fusione cosiddetta «impropria»). Con il medesimo atto, l’Aro Tubi ha inoltre incorporato la propria controllante, Fratelli Gaggini (fusione cosiddetta «inversa»). L’Aro Tubi ha così acquisito il patrimonio sociale della Fratelli Gaggini, che comprendeva, segnatamente, immobili, brevetti e marchi. Come corrispettivo, gli azionisti della Fratelli Gaggini si sono visti attribuire l’intero pacchetto azionario dell’Aro Tubi. In ragione di queste due fusioni, il 2 gennaio 1996 l’Aro Tubi ha dovuto versare un’imposta di registro pari all’1% della situazione patrimoniale 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO delle due società incorporate, l’Aro Tubi Estrusi e la Fratelli Saggini, per un totale di ITL 54 761 000. Con istanza del 29 luglio 1996, l’Aro Tubi ha chiesto all’Ufficio Atti Pubblici di Milano il rimborso dell’imposta di registro versata. A fronte del silenzio-rifiuto opposto dal fisco a tale istanza, l’Aro Tubi ha proposto ricorso, contestando la fondatezza dell’imposta. Il ricorso è stato dapprima accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, ma poi respinto dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, su appello dell’Amministrazione finanziaria dello Stato. Avverso la sentenza d’appello l’Aro Tubi ha proposto ricorso in cassazione. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte, in sostanza, sull’interpretazione degli artt. 4, 7 e 10 della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali (G.U. L 249, pag. 25), come modificata dalle direttive del Consiglio 9 aprile 1973, 73/80/CEE, che fissa le aliquote comuni dell’imposta sui conferimenti (G.U. L 103, pag. 15), e 10 giugno 1985, 85/303/CEE (G.U. L 156). 24. Con la sua questione, il giudice del rinvio domanda, in sostanza se, in circostanze quali quelle della causa principale, la direttiva 69/335 osti alla riscossione, all’atto di una fusione cosiddetta «inversa» – vale a dire di una fusione mediante incorporazione allorché l’intero pacchetto azionario della società incorporante è detenuto dalla società incorporanda –, di un’imposta di registro proporzionale dell’1% prelevata sul valore dell’operazione. 25. A tal fine occorre preliminarmente accertare se l’imposta di registro di cui trattasi nella causa principale rivesta le caratteristiche di un’«imposta sui conferimenti» ai sensi degli artt. 1-9 della direttiva 69/335, o se debba essere qualificata come «imposta simile all’imposta sui conferimenti» ai sensi dell’art. 10 della direttiva. 26. In proposito, discende da una costante giurisprudenza che la qualificazione di un’imposta, tassa, dazio o prelievo con riferimento al diritto comunitario incombe alla Corte in base alle caratteristiche oggettive dell’imposta, indipendentemente dalla qualificazione che le viene attribuita nel diritto nazionale (v. sentenza 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C- 252/94, Bautiaa e Société française marittime, Racc. pag. I-505, punto 39). 27. Trattandosi, come nella fattispecie, di un’imposta proporzionale dell’1% sul valore dei conferimenti in società, occorre considerare che il fatto generatore dell’imposta risiede proprio nel conferimento e non in una qualsiasi altra operazione o formalità preventiva, cosicché un’imposta del genere dev’essere, in via di principio, qualificata come «imposta sui conferimenti » e non come «imposta simile all’imposta sui conferimenti» ai fini della direttiva 69/335 (v., in tal senso, sentenza Bautiaa e Société française maritime, cit., punto 40). 28. Ne deriva che la liceità dell’imposta controversa nella causa principale dev’essere esaminata alla luce degli artt. 1-9 della direttiva 69/335. 29. Giova anzitutto rammentare che le operazioni soggette, o che possono essere assoggettate dagli Stati membri, all’imposta sui conferimenti sono IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 119 quelle definite all’art. 4 della direttiva 69/335 (v., in tal senso, segnatamente, sentenze 18 marzo 1993, causa C-280/91, Viessmann, Racc. pag. I-971, punto 12; Bautiaa e Société française maritime, cit., punti 31 e 32, nonché 27 ottobre 1998, causa C-152/97, Agas, Racc. pag. I-6553, punti 19 e 20). 30. L’operazione di cui trattasi nella causa principale costituisce una fusione mediante incorporazione. Una fusione del genere potrebbe interpretarsi, in via di principio, sia alla luce dell’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335, sia alla luce dell’art. 4, n. 2, lett. b), della stessa. 31. In tal senso, l’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335 dispone l’assoggettamento all’imposta sui conferimenti dell’aumento del capitale sociale di una società di capitali mediante conferimento di beni di qualsiasi natura. 32. L’art. 4, n. 2, lett. b), della stessa direttiva dispone che gli Stati membri possono assoggettare all’imposta sui conferimenti l’aumento del patrimonio sociale di una società di capitali mediante prestazioni effettuate da un socio che non implicano un aumento del capitale sociale, ma che possono aumentare il valore delle quote sociali. 33. Orbene, dal raffronto tra queste due norme si desume che l’«aumento del capitale sociale» ai sensi dell’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335 implica un aumento formale del capitale sociale per mezzo dell’emissione di nuove quote sociali, oppure dell’aumento del valore nominale delle quote sociali esistenti (v., in tal senso, sentenze 15 luglio 1982, causa 270/81, Felicitas Rickmers-Linie, Racc. pag. 2771, punto 15, e 12 gennaio 2006, causa C-494/03, Senior Engineering Investments, Racc. pag. I-525, punto 33). 34. Per contro, e nei limiti in cui il «patrimonio sociale» è definito come l’insieme dei beni che i soci hanno posto in comune, ivi compresi i frutti di tali beni (v., in tal senso, sentenza 28 marzo 1990, causa C-38/88, Siegen, Racc. pag. I-1447, punto 12), l’«aumento del patrimonio sociale» ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. b), della direttiva 69/335 ricomprende, in linea di principio, ogni forma di aumento del patrimonio sociale di una società di capitali (sentenza Senior Engineering Investments, cit., punto 34). Ad esempio, la Corte ha qualificato come «aumento del patrimonio sociale», ai sensi della citata norma, un trasferimento di utili (v. sentenza 13 ottobre 1992, causa C-49/91, Weber Haus, Racc. pag. I-5207, punto 10), un prestito senza interessi (v., segnatamente, sentenza 17 settembre 2002, causa C-392/00, Norddeutsche Gesellschaft zur Beratung und Durchführung von Entsorgungsaufgaben bei Kernkraftwerken, Racc. pag. I-7397, punto 18), un accollo delle perdite (v. sentenza Siegen, cit., punto 13), la rinuncia a un credito (v. sentenza 5 febbraio 1991, causa C-15/89, Deltakabel, Racc. pag. I-241, punto 12). 35. Nella causa principale, è pacifico che la fusione di cui trattasi non abbia dato luogo a un «aumento del capitale sociale» della società incorporante (Aro Tubi). Tale fusione non è quindi riconducibile all’art. 4, n. 1, lett. c), della direttiva 69/335. 36. Essa rientra, tuttavia, nell’ambito di applicazione dell’art. 4, n. 2, lett. b), della stessa direttiva. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 37. In primo luogo, infatti, risulta dall’atto di fusione che la società incorporata (Fratelli Gaggini), da un lato, non era sovraindebitata e, dall’altro, deteneva non soltanto azioni della società incorporante (Aro Tubi), ma anche altri elementi di attivo, quali, ad esempio, immobili, brevetti e marchi. All’atto della fusione, tali beni sono stati conferiti alla società incorporante (Aro Tubi). La fusione ha dunque avuto l’effetto di «aumentare il patrimonio sociale» di quest’ultima. 38. In secondo luogo, considerato tale aumento del patrimonio sociale, la fusione di cui trattasi nella causa principale poteva «aumentare il valore delle quote sociali» della società incorporante (Aro Tubi). A seguito della fusione le azioni di quest’ultima hanno, de facto, più valore. 39. In terzo luogo, la fusione in parola si presenta come una «prestazione effettuata da un socio» ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. b), della direttiva 69/335. 40. Ne consegue che la fusione in questione configura un conferimento in società rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4, n. 2, lett. b) della direttiva 69/335, assoggettabile, in via di principio, all’imposta sui conferimenti. 41. Occorre tuttavia ricordare che l’art. 7, n. 1, della direttiva 69/335 esenta dall’imposta sui conferimenti alcune operazioni che, al 1° luglio 1984, erano assoggettate ad un’aliquota pari o inferiore a 0,50%. 42. Orbene, risulta dalle versioni anteriori della medesima disposizione (illustrate ai punti 9 e 11 della presente sentenza) che, a tale data, vale a dire al 1° luglio 1984, le fusioni erano assoggettate a un’aliquota compresa tra lo 0 e lo 0,50% se ricorrevano tre condizioni, vale a dire (i) il conferimento della totalità del patrimonio di una società di capitali, o di uno o più rami della sua attività, ad una o più società di capitali in via di creazione o già esistente; (ii) la remunerazione esclusivamente mediante attribuzione di quote sociali, e (iii) la sede della direzione effettiva o la sede statutaria delle società partecipanti all’operazione sul territorio di uno Stato membro. 43. Con riferimento alla fusione in parola, si deve rilevare, in primo luogo, che una società di capitali, la Fratelli Gaggini, ha conferito tutto il suo patrimonio ad un’altra società di capitali già esistente, l’Aro Tubi. 44. In secondo luogo, tale conferimento è stato remunerato esclusivamente mediante attribuzione di azioni della società incorporante (l’Aro Tubi). Infatti, le azioni proprie che l’Aro Tubi aveva acquisito grazie al patrimonio della Fratelli Gaggini sono state poi (ri)attribuite ai soci della Fratelli Gaggini. 45. In terzo luogo, le due società di cui trattasi, l’Aro Tubi e la Fratelli Gaggini, hanno entrambe sede in Italia. 46. Di conseguenza, la fusione in parola rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 7, n. 1, della direttiva 69/335. Essa è quindi esente e non può essere assoggettata all’imposta sui conferimenti. Alla luce di quanto sopra, occorre risolvere la questione sollevata dichiarando che, in circostanze quali quelle della causa principale, la direttiva 69/335 osta alla riscossione, in occasione di una fusione cosiddetta «inversa » – vale a dire di una fusione mediante incorporazione, allorché l’intero IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 121 pacchetto azionario della società incorporante è detenuto dalla società incorporanda –, di un’imposta di registro proporzionale dell’1% prelevata sul valore dell’operazione. Sentenza della Corte, sezione terza, 14 settembre 2006, nel procedimento C-386/04 – Finanzamt München für Körperschaften. Il Centro di Musicologia Walter Stauffer fondazione riconosciuta di pubblica utilità ai sensi del diritto italiano, è proprietaria di un immobile adibito ad uso commerciale sito in Monaco di Baviera. Il Finanzamt ha assoggettato i redditi che la fondazione percepisce dalla locazione del detto immobile ad uso commerciale all’imposta sulle società per l’esercizio fiscale 1997. La fondazione non possiede locali in Germania per l’esercizio delle sue attività e non ha filiali. I servizi relativi all’affitto dell’immobile ad uso commerciale sono effettuati da una società tedesca amministratrice di immobili. Risulta dallo statuto della fondazione in vigore nel corso dell’esercizio controverso che essa non ha fini di lucro. Risulta dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio che, nel corso dell’esercizio controverso, la fondazione ha perseguito obiettivi di interesse generale ai sensi degli artt. 51-68 dell’AO. Secondo tale giudice, la promozione degli interessi della collettività ai sensi dell’art. 52 della detta legge non presuppone che le misure di promozione siano dirette ai cittadini tedeschi. Ne consegue che la fondazione sarebbe in linea di principio esente dall’imposta sulle società in forza dell’art. 5, n. 1, punto 9, prima frase, del KStG, e che non la si dovrebbe assoggettare all’imposta in base ai suoi redditi, in conformità alla seconda e terza frase della medesima disposizione, in quanto la locazione non eccederebbe l’ambito della gestione patrimoniale e non costituirebbe un’operazione di impresa commerciale ai sensi dell’art. 14, n. 1, dell’AO. Tuttavia, poiché la fondazione ha la sua sede e la sua direzione in Italia, essa percepisce i suoi redditi locativi in Germania nell’ambito del suo limitato assoggettamento all’imposta. Ne consegue che occorre dunque applicare l’art. 5, n. 2, punto 3, del KStG, in conformità al quale l’esenzione fiscale, che si applica in particolare alle persone giuridiche che perseguono esclusivamente e direttamente finalità di pubblica utilità, non è valida per i contribuenti limitatamente soggetti all’imposta. Risulta da tale disposizione che, in ragione dei redditi locativi che essa percepisce in Germania per la locazione dell’immobile adibito ad uso commerciale, la fondazione è stata assoggettata all’imposta sulle società. 14. Con la questione presentata, il Bundesfinanzhof chiede essenzialmente se le disposizioni del Trattato CE relative al diritto di stabilimento, alla libera prestazione dei servizi e/o alla libera circolazione dei capitali ostino a che uno Stato membro, che esenta dall’imposta sulle società i redditi da 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO locazione percepiti sul territorio nazionale da fondazioni riconosciute di pubblica utilità, in linea di massima soggette all’imposta illimitatamente se hanno sede in tale Stato, rifiuti di concedere la stessa esenzione per redditi dello stesso tipo ad una fondazione di diritto privato riconosciuta di pubblica utilità in quanto, avendo sede in un altro Stato membro, essa è soggetta all’imposta sul suo territorio soltanto limitatamente. 15. Occorre ricordare preliminarmente che, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx, Racc. pag. I-2493, punto 16; 10 marzo 2005, causa C-39/04, Laboratoires Fournier, Racc. pag. I-2057, punto 14, nonché 23 febbraio 2006, causa C- 513/03, Van Hilten-van der Heijden, Racc. pag. I-1957, punto 36). 16. È necessario esaminare, poi, se, considerata la fattispecie in esame, la fondazione possa avvalersi delle norme relative al diritto di stabilimento, di quelle relative alla libera prestazione dei servizi e/o di quelle che disciplinano la libera circolazione dei capitali. 17. La libertà di stabilimento, che l’art. 52 del Trattato attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i cittadini del medesimo, comprende, ai sensi dell’art. 58 del Trattato, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (sentenze 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 35; 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, Racc. pag. I-10837, punto 30, nonché sentenza 23 febbraio 2006, causa C-471/04, Keller Holding, Racc. pag. I-2107, punto 29). 18. Secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di stabilimento ai sensi del Trattato è una nozione molto ampia e implica la possibilità, per un cittadino comunitario, di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio, favorendo così l’interpenetrazione economica e sociale nell’ambito della Comunità nel settore delle attività indipendenti (v., in questo senso, sentenze 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, Racc. pag. 631, punto 21, e 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25). 19. Tuttavia, affinché le disposizioni relative al diritto di stabilimento possano essere applicate, è in linea di principio necessario che sia assicurata una presenza permanente nello Stato membro ospitante e, in caso di acquisto e di possesso di beni immobili, che la gestione di tali beni sia attiva. Orbene, deriva dalla descrizione dei fatti fornita dal giudice del rinvio che la fondazione non possiede locali in Germania per l’esercizio delle sue attività e che i servizi relativi all’affitto dell’immobile ad uso commerciale sono forniti da una società tedesca amministratrice di immobili. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 123 20. Ne consegue che si deve concludere che le disposizioni che disciplinano la libertà di stabilimento non trovano applicazione in circostanze quali quelle in causa al procedimento principale. 21. Occorre stabilire, poi, se la fondazione possa invocare le disposizioni di cui agli artt. 73 B-73 G del Trattato, riguardanti la libera circolazione dei capitali. 22. A tale proposito, occorre osservare che il Trattato non definisce le nozioni di «movimenti di capitali» e di «pagamenti». Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, poiché l’art. 73 B del Trattato CE riporta in sostanza il contenuto dell’art. 1 della direttiva 88/361 e anche se quest’ultima è stata adottata sulla base degli artt. 69 e 70, n. 1, del Trattato CEE (gli articoli 67-73 del Trattato CEE sono stati sostituiti dagli artt. 73 B-73 G del Trattato CE, divenuti artt. 56 CE-60 CE), la nomenclatura dei «movimenti di capitali» che è ad essa allegata conserva il valore indicativo che le era proprio prima della loro entrata in vigore per definire la nozione di movimenti di capitali, inteso che, conformemente alla sua introduzione, l’elenco che essa contiene non presenta un carattere esaustivo (v., in particolare, sentenze 16 marzo 1999, causa C-222/97, Trummer e Mayer, Racc. pag. I-1661, punto 21; 5 marzo 2002, cause riunite C-515/99, da C-519/99 a C-524/99 e da C- 526/99 a C-540/99, Reisch e a., Racc. pag. I-2157, punto 30, nonché citata sentenza Van Hilten-van der Heijden, punto 39). 23. È pacifico che la fondazione, che ha sede in Italia, dispone a Monaco di un immobile adibito ad uso commerciale che concede in locazione. Tra i movimenti di capitali enumerati all’allegato I della direttiva 88/361 compaiono, sotto la rubrica II, intitolata «Investimenti immobiliari», gli investimenti immobiliari effettuati sul territorio nazionale da non residenti. 24. Ne consegue che, tanto il fatto di essere proprietaria del detto bene immobile quanto quello di trarne un reddito rientrano nell’ambito della libera circolazione dei capitali. Ne deriva che non occorre esaminare se la fondazione agisca in quanto prestatrice di servizi. 25. Ai sensi dell’art. 73 B del Trattato, sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri. 26. Allo scopo di determinare se una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nella causa principale, comporti una restrizione alla libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 73 B del Trattato, è necessario esaminare se la sua applicazione produca un effetto restrittivo rispetto alle fondazioni riconosciute di pubblica utilità stabilite in altri Stati membri, non concedendo loro, per i redditi da locazione percepiti sul territorio nazionale, l’esenzione di cui beneficiano le fondazioni dello stesso tipo, che su tale territorio sono soggette illimitatamente all’imposta. 27. Orbene, il fatto che l’esenzione fiscale sui redditi da locazione si applichi esclusivamente a favore delle fondazioni riconosciute di pubblica utilità e soggette illimitatamente all’imposta sul territorio tedesco pone in una situazione di svantaggio le fondazioni la cui sede è situata in un altro Stato membro e può costituire un ostacolo alla libera circolazione dei capitali e dei pagamenti. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 28. Da quanto precede risulta che una normativa come quella di cui trattasi nella causa principale costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’art. 73 B del Trattato. 29. Occorre, tuttavia, esaminare se simile restrizione possa essere giustificata sulla base delle disposizioni del Trattato. 30. In proposito, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato, le disposizioni dell’art. 73 B non pregiudicano il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria che stabiliscono una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda la loro residenza o il luogo di collocamento del loro capitale. 31. Tuttavia, l’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato, che, in quanto deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali, deve essere oggetto di interpretazione restrittiva, non può essere interpretato nel senso che qualsiasi legislazione tributaria che operi una distinzione tra i contribuenti in base al luogo in cui essi risiedono o allo Stato membro in cui investono i loro capitali sia automaticamente compatibile con il Trattato. Infatti, la deroga prevista all’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato subisce essa stessa una limitazione per effetto dell’art. 73 D, n. 3, dello stesso Trattato, ai sensi del quale le disposizioni nazionali di cui al n. 1 del medesimo articolo «non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all’articolo 73 B». (v. sentenza 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, Racc. pag. I-7477, punto 28). 32. Occorre, pertanto, distinguere i trattamenti diseguali, consentiti in forza dell’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato dalle discriminazioni arbitrarie e dalle restrizioni dissimulate vietate dal n. 3 del medesimo articolo. Orbene, dalla giurisprudenza risulta che, perché una normativa tributaria nazionale quale quella di cui alla causa principale, che opera una distinzione tra le fondazioni soggette all’imposta illimitatamente e quelle limitatamente soggette ad essa, possa essere considerata compatibile con le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali, occorre che la differenza di trattamento riguardi situazioni che non siano oggettivamente paragonabili o sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale, come quello di salvaguardare la coerenza del regime tributario e l’efficacia dei controlli fiscali (v., in questo senso, sentenze 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 43, e citata sentenza Manninen, punto 29). Inoltre, per essere giustificata, la differenza di trattamento tra le fondazioni riconosciute di pubblica utilità e illimitatamente soggette all’imposta sul territorio tedesco, da un lato, e le fondazioni dello stesso tipo stabilite in altri Stati membri, dall’altro, non deve eccedere quanto è necessario perché sia raggiunto l’obiettivo perseguito dalla normativa di cui trattasi. 37. In primo luogo, anche se gli Stati membri hanno il diritto di pretendere l’esistenza di un nesso sufficientemente stretto tra le fondazioni che essi riconoscono di pubblica utilità ai fini della concessione di determinati vantaggi fiscali e le attività che esse esercitano, risulta dall’ordinanza di rinvio IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 125 che l’esistenza di simile nesso non è rilevante per la soluzione della causa principale. 38. Infatti, l’art. 52 dell’AO ammette che una persona giuridica persegue fini di pubblica utilità quando la sua attività mira a promuovere, in modo disinteressato, gli interessi della collettività, ma non contempla distinzioni a seconda che la detta attività si svolga sul territorio nazionale o all’estero. 39. (...) il diritto comunitario non impone agli Stati membri di disporre che le fondazioni straniere riconosciute di pubblica utilità nello Stato membro d’origine beneficino automaticamente dello stesso riconoscimento sul loro territorio. Infatti, gli Stati membri dispongono al riguardo di un potere discrezionale che devono esercitare in conformità al diritto comunitario (v., in questo senso, sentenza 9 febbraio 2006, causa C-415/04, Kinderopvang Enschede, Racc. pag. I-1385, punto 23). Essi sono liberi, in tale contesto, di decidere quali siano gli interessi della collettività che vogliono promuovere, concedendo vantaggi ad associazioni e fondazioni che perseguono in modo disinteressato fini legati ai detti interessi. 40. Resta nondimeno il fatto che, qualora una fondazione riconosciuta di pubblica utilità in uno Stato membro integri anche le condizioni stabilite a questo scopo dalla legislazione di un altro Stato membro ed abbia come obiettivo la promozione di identici interessi della collettività, cosa che spetta alle autorità nazionali di quest’ultimo Stato, ivi incluse le sue giurisdizioni, valutare, le autorità di tale Stato membro non possono negare alla detta fondazione il diritto alla parità di trattamento per il solo fatto che essa non ha sede sul loro territorio. 42. Ne consegue che, in circostanze quali quelle della causa principale, l’art. 5, n. 2, punto 3, del KStG porta a trattare in modo diverso in ragione della loro residenza fondazioni che si trovano in una situazione obiettivamente paragonabile. Ne deriva che simile misura fiscale non può, in linea di principio, costituire un trattamento diseguale permesso ai sensi dell’art. 73 D, n. 1, lett. a), del Trattato, a meno che essa non possa essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v., in questo senso, citate sentenze Verkooijen, punto 46, e Manninen, punto 29, nonché sentenza 19 gennaio 2006, causa C-265/04, Bouanich, Racc. pag. I-923, punto 38). 43. Al fine di giustificare la differenza di trattamento tra le fondazioni riconosciute di pubblica utilità e illimitatamente soggette all’imposta sul territorio tedesco, da un lato, e quelle che non hanno sede in tale Stato membro, dall’altro, sono state fatte valere dinanzi alla Corte finalità relative in particolare alla promozione della cultura, alla formazione e all’educazione, all’efficacia dei controlli fiscali, alla necessità di garantire la coerenza del regime fiscale nazionale, alla necessità di conservare la base imponibile, nonché alla lotta contro la criminalità. 48. Pertanto, prima di concedere un’esenzione fiscale a una fondazione, uno Stato membro è autorizzato ad applicare misure che gli permettono di verificare con chiarezza e precisione se essa soddisfa le condizioni richieste dalla legislazione nazionale per beneficiarne e a controllare la gestione effettiva della detta fondazione sulla base, ad esempio, della presentazione dei 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO conti annui e di un rapporto di attività. Certo, in caso di fondazioni con sede in altri Stati membri, può risultare più difficile procedere ai necessari accertamenti. Tuttavia, si tratta di semplici inconvenienti amministrativi che non sono sufficienti per giustificare un rifiuto da parte delle autorità dello Stato di cui trattasi di concedere alle dette fondazioni le stesse esenzioni fiscali concesse alle fondazioni dello stesso tipo illimitatamente soggette all’imposta sul suo territorio (v., in questo senso, sentenza 4 marzo 2004, causa C- 334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 29). 50. Inoltre, le autorità fiscali interessate possono rivolgersi, in forza della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (G.U. L. 336, pag. 15), modificata dalla direttiva del Consiglio 16 novembre 2004, 2004/106/CE (G.U. L. 359, pag. 30), alle autorità di un altro Stato membro per ottenere ogni informazione necessaria per determinare correttamente l’imposta dovuta da un contribuente, ivi inclusa la possibilità di concedergli un’esenzione fiscale (v., in questo senso, sentenze 28 ottobre 1999, causa C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 26, e 26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. I-6817, punto 42). 51. (…) il governo tedesco fa valere che l’esenzione dall’imposta sulle società concessa alle fondazioni non aventi sede sul suo territorio in base ai redditi che esse percepiscono dalla gestione del patrimonio di cui dispongono in Germania rischia di compromettere la coerenza del regime fiscale nazionale. Secondo tale governo, l’esenzione sarebbe intesa a eliminare un obbligo fiscale in ragione delle attività a vantaggio dell’interesse pubblico che le fondazioni riconosciute di pubblica utilità esercitano. Queste ultime, assumendosi direttamente la responsabilità del bene comune, si sostituirebbero allo Stato che potrebbe, in contropartita, concedere loro un vantaggio fiscale senza violare l’obbligo della parità di trattamento. 52. Al riguardo, va ricordato che la Corte ha ammesso che la necessità di salvaguardare la coerenza del regime fiscale può giustificare una restrizione all’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato (sentenze 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, Racc. pag. I-249, punto 28, e 28 gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-305, punto 21). 53. Tuttavia, perché un argomento fondato su tale giustificazione sia efficace, è necessario che sia dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra il beneficio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale beneficio attraverso un prelievo fiscale determinato (v., in questo senso, sentenze 14 novembre 1995, causa C-484/93, Svensson e Gustavsson, Racc. pag. I-3955, punto 18; 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher, Racc. pag. I-3089, punto 58; 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. I-4695, punto 29; Vestergaard, cit., punto 24; 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y, Racc. pag. I-10829, punto 52). 58. In quarto luogo, il governo tedesco sottolinea che il rifiuto di concedere l’esenzione fiscale alle fondazioni limitatamente imponibili è giustificato dalla necessità di conservare la base imponibile. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 127 59. Certo, il riconoscimento di un diritto ad esenzione dall’imposta sulle società a vantaggio delle fondazioni di pubblica utilità che non hanno sede sul suo territorio comporterà per la Repubblica federale di Germania una diminuzione degli introiti fiscali a titolo d’imposta sulle società. Tuttavia, risulta da costante giurisprudenza che la riduzione degli introiti fiscali non può essere considerata quale motivo imperativo d’interesse generale che possa essere invocato per giustificare una misura che è in linea di principio in contrasto con una libertà fondamentale (v., in questo senso, citata sentenza Verkooijen, punto 59, nonché sentenze 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner, Racc. pag. I-8147, punto 56; X e Y, cit., punto 50, nonché Manninen, cit., punto 49). 62. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la questione sottoposta dichiarando che l’art. 73 B del Trattato, letto in combinato disposto con l’art. 73 D del Trattato, deve essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro, il quale esenta dall’imposta sulle società i redditi da locazione percepiti sul territorio nazionale da fondazioni riconosciute di pubblica utilità illimitatamente imponibili se hanno sede sul suo territorio, neghi la stessa esenzione per redditi dello stesso tipo ad una fondazione di diritto privato riconosciuta di pubblica utilità per il solo motivo che, avendo sede in un altro Stato membro, essa è imponibile sul suo territorio soltanto limitatamente. Sentenza della Corte, Grande Sezione, 3 ottobre 2006, nel procedimento C-290/04 – KKP Scorpio Konzertproduktionen GmbH contro Finanzamt Hamburg-Eimsbüttel. La Scorpio, avente sede in Germania, è una società organizzatrice di concerti. Nel 1993 essa ha stipulato un contratto con una persona fisica che si firmava Europop, la quale ha messo a sua disposizione un gruppo musicale. Europop era stabilita all’epoca nei Paesi Bassi e non aveva in Germania né un domicilio, né una dimora abituale, né uno stabilimento. Il giudice del rinvio rileva di non conoscere la nazionalità di Europop. Nel primo e nel terzo trimestre del 1993 la Scorpio ha versato a Europop in totale 438 600 marchi tedeschi (DEM) per prestazioni fornite da quest’ultima. Su tale somma la Scorpio non ha effettuato la ritenuta alla fonte dell’imposta prevista dall’art. 50 a, n. 4, punto 1, dell’EStG, sebbene Europop non avesse prodotto il certificato di esenzione indicato nell’art. 50 d, n. 3, prima frase, dell’EStG. Una volta venuta a conoscenza di tali fatti, l’autorità fiscale competente ha ritenuto la responsabilità della Scorpio ed ha richiesto, con avviso di accertamento del 21 marzo 1997, il pagamento di una somma di DEM 70 395,30, pari all’imposta che la Scorpio avrebbe dovuto trattenere alla fonte sul compenso versato a Europop. 28. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE debbano essere interpretati nel senso che essi 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ostano ad una normativa nazionale che fissa una procedura di ritenuta dell’imposta alla fonte per i compensi di prestatori di servizi non residenti nello Stato membro in cui i servizi sono stati forniti, mentre il compenso versato ai prestatori residenti all’interno di tale Stato membro non è sottoposto a tale ritenuta. Tale giudice chiede alla Corte di pronunciarsi anche sul corollario di tale normativa, cioè la responsabilità in cui incorre il fruitore di servizi che non abbia effettuato la ritenuta alla fonte alla quale era tenuto. 29. La normativa in discussione nella causa principale fissa un regime fiscale differente a seconda che il prestatore di servizi sia stabilito in Germania o in un altro Stato membro. 30. Si deve in proposito innanzi tutto constatare che, sebbene la materia delle imposte dirette non rientri, in quanto tale, nelle competenze della Comunità, gli Stati membri sono comunque tenuti ad esercitare le loro competenze nel rispetto del diritto comunitario (v., in particolare, sentenza 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, Racc. pag. I-225, punto 21). 31. Si deve quindi ricordare che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, l’art. 59 del Trattato CEE esige l’eliminazione di ogni restrizione alla libera prestazione di servizi imposta per il fatto che il prestatore è stabilito in uno Stato membro diverso da quello in cui è fornita la prestazione (sentenze 4 dicembre 1986, causa 205/84, Commissione/Germania, Racc. pag. 3755, punto 25, e 26 febbraio 1991, causa C-180/89, Commissione/ Italia, Racc. pag. I-709, punto 15). 32. Infine, secondo una costante giurisprudenza, l’art. 59 del Trattato CEE conferisce diritti non soltanto al prestatore di servizi, ma anche al destinatario degli stessi (v., in particolare, sentenze 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, Racc. pag. 377; 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, Racc. pag. I-249; 28 aprile 1998, causa C-158/96, Kohll, Racc. pag. I-1931; 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, Racc. pag. I-2517, e 26 ottobre 1999, causa C-294/97, Eurowings Luftverkehr, Racc. pag. I-7447). 36. La procedura della ritenuta alla fonte e il sistema della responsabilità che opera come garanzia di essa rappresentano infatti un mezzo legittimo ed appropriato per garantire la tassazione dei redditi di un soggetto stabilito al di fuori dello Stato dell’imposizione e per evitare che i redditi in questione sfuggano alla tassazione sia nello Stato di residenza che in quello in cui i servizi sono forniti. 37. Inoltre, l’applicazione della ritenuta alla fonte rappresentava un mezzo proporzionato per garantire la riscossione del credito fiscale dello Stato dell’imposizione. 42. Occorre innanzi tutto osservare che la Corte è già stata chiamata a decidere se gli artt. 59 e 60 del Trattato CE ostino ad una normativa fiscale nazionale che, di regola, consideri, ai fini della tassazione dei non residenti, i redditi lordi, senza deduzione delle spese professionali, allorché i residenti sono tassati sui redditi netti, dopo la deduzione di tali spese (sentenza Gerritse, cit., punto 55). 43. Nella citata sentenza Gerritse la Corte ha innanzi tutto osservato che le spese professionali di cui si discuteva in tale causa erano direttamente con- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 129 nesse all’attività generatrice dei redditi imponibili, cosicché i residenti e i non residenti erano sul punto nella medesima situazione. Essa ha quindi risposto in senso affermativo alla questione pregiudiziale che le era stata posta, dichiarando che costituisce una discriminazione indiretta sulla base della nazionalità, in linea di principio contraria agli artt. 59 e 60 del Trattato CE, una normativa nazionale la quale neghi ai non residenti, in materia impositiva, la deduzione delle spese professionali concessa invece ai residenti. Essa non si è tuttavia pronunciata su quale debba essere il momento della procedura impositiva in cui le spese professionali sostenute da un prestatore di servizi devono essere dedotte nel caso in cui sia possibile fare riferimento a più fasi. 44. Pertanto, per poter dare una risposta utile al giudice del rinvio, è necessario intendere il concetto di «spese professionali economicamente connesse» nel senso che esso riguarda le spese che sono direttamente connesse, ai sensi della giurisprudenza inaugurata dalla citata sentenza Gerritse, all’attività economica generatrice dei redditi imponibili. 45. Il Bundesfinanzhof desidera dunque sapere se gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE ostino anche ad una normativa fiscale nazionale che escluda la deduzione delle spese professionali dal reddito imponibile nel momento in cui il debitore del compenso effettua la ritenuta alla fonte dell’imposta, ma che consenta ai non residenti di essere tassati, in funzione dei redditi netti percepiti in Germania, secondo una procedura che fa seguito, su loro domanda, a quella della ritenuta alla fonte, ottenendo così il rimborso dell’eventuale differenza fra tale importo e quello della ritenuta alla fonte. 46. Muovendo dalla premessa del Bundesfinanzhof, vale a dire l’esistenza, all’epoca dei fatti di cui alla causa principale, di una procedura di rimborso che consentiva di prendere in considerazione a posteriori le spese professionali di un prestatore di servizi non residente, occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza della Corte, l’applicazione ai prestatori di servizi delle normative nazionali dello Stato membro ospitante può impedire, ostacolare o rendere meno attraenti le prestazioni di servizi qualora essa comporti spese o oneri amministrativi ed economici supplementari (v. sentenze 15 marzo 2001, causa C-165/98, Mazzoleni e ISA, Racc. pag. I-2189, punto 24, e 25 ottobre 2001, cause riunite C-49/98, C-50/98, da C-52/98 a C-54/98 e da C-68/98 a C-71/98, Finalarte e a., Racc. pag. I-7831, punto 30). 48. Nessun argomento è stato proposto per giustificare la normativa nazionale di cui si discute nella causa principale nella parte in cui la stessa non consente al destinatario di servizi, debitore del compenso versato ad un prestatore di servizi non residente, di dedurre, nel momento in cui effettua la ritenuta alla fonte dell’imposta, le spese professionali direttamente connesse alle attività svolte dal prestatore di servizi non residente nello Stato membro in cui la prestazione è effettuata, qualora il prestatore di servizi gliele abbia comunicate. 49. (...) gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale la quale non consente che il destinatario di servizi, debitore del compenso versato ad un prestatore di servizi non residente, deduca, nel procedere alla ritenuta dell’imposta alla fonte, 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO le spese professionali che tale prestatore gli ha comunicato e che sono direttamente connesse alle sue attività nello Stato membro in cui è effettuata la prestazione, mentre un prestatore di servizi residente in tale Stato sarebbe soggetto all’imposta soltanto sui suoi redditi netti, cioè quelli calcolati deducendo le spese professionali. 50. (...), il Bundesfinanzhof chiede in sostanza se gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE debbano essere interpretati nel senso che non ostano ad una disciplina nazionale in base alla quale siano deducibili, al momento della ritenuta alla fonte, soltanto le spese professionali direttamente connesse alle attività compiute nello Stato membro in cui è effettuata la prestazione, comunicate al debitore del compenso da parte del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro, e in base alla quale altre eventuali spese professionali possano essere prese in considerazione nell’ambito di una successiva procedura di rimborso. 51. Si deve risolvere tale questione sulla base delle considerazioni svolte a proposito della questione precedente e tenendo conto del fatto che la Corte non dispone di elementi che le consentano di confrontare la situazione dei prestatori di servizi residenti e non residenti. Orbene, se è vero che le spese che il prestatore di servizi ha comunicato al proprio debitore devono essere dedotte al momento della ritenuta alla fonte dell’imposta, gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE non ostano al fatto che si possa tenere eventualmente conto, nell’ambito di una successiva procedura di rimborso, di spese che non sono direttamente connesse, ai sensi della citata giurisprudenza Gerritse, all’attività economica generatrice dei redditi imponibili. 54. Occorre preliminarmente ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di provvedimenti di unificazione o di armonizzazione comunitaria, gli Stati membri restano competenti per determinare i criteri per la tassazione dei redditi e del patrimonio al fine di evitare, eventualmente attraverso accordi, la doppia imposizione (v. sentenza 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 57). 55. Tuttavia, per quanto riguarda l’esercizio del potere impositivo così ripartito, gli Stati membri devono conformarsi alle regole comunitarie (v., in tal senso, sentenze Saint-Gobain ZN, cit., punto 58; 12 dicembre 2002, causa C-385/00, De Groot, Racc. pag. I-11819, punto 94, e 19 gennaio 2006, causa C-265/04, Bouanich, Racc. pag. I-923, punto 50). 56. Orbene, se è accertato che, come è stato rilevato al punto 15 della presente sentenza, i redditi ricavati dalle prestazioni artistiche di cui alla causa principale non erano tassabili in Germania ma soltanto nei Paesi Bassi, ai sensi della Convenzione fiscale Germania-Paesi Bassi, si deve rilevare, come ha fatto l’avvocato generale al paragrafo 88 delle sue conclusioni, che l’obbligo imposto ad un prestatore di servizi residente nei Paesi Bassi di richiedere all’autorità fiscale tedesca competente il rilascio di un certificato di esenzione per evitare un’imposizione supplementare dei suoi redditi in Germania costituisce, come è stato ricordato al punto 44 della presente sentenza, una restrizione alla libera prestazione dei servizi, a causa degli adempimenti amministrativi che impone a tale prestatore. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 131 57. Allo stesso modo, l’obbligo imposto ad un fruitore di servizi di produrre tale certificato di esenzione nel caso sia avviata nei suoi confronti un’azione di accertamento può dissuadere quest’ultimo dal rivolgersi ad un prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro. Infatti, come sostiene la Scorpio, il debitore del compenso deve accertarsi che l’altro contraente abbia avviato autonomamente la procedura di esenzione o di rimborso (girandogli l’importo dell’eventuale rimborso) o che l’abbia autorizzato ad avviare tale procedura in suo favore. Si può temere che il prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro abbia poco interesse per tali adempimenti, o che non sia più raggiungibile dopo la conclusione del rapporto contrattuale. 59. Tale ostacolo è tuttavia giustificato dall’obiettivo di garantire il buon funzionamento della procedura di tassazione alla fonte. 60. Come infatti hanno osservato, in particolare, il governo belga e l’avvocato generale al paragrafo 90 delle sue conclusioni, sembra importante che il debitore del compenso possa sottrarsi all’obbligo di prelevare l’imposta alla fonte solo qualora abbia la certezza che il prestatore di servizi possiede i requisiti che gli consentono di beneficiare di un’esenzione. Non si può pretendere che il debitore del compenso verifichi per proprio conto se, in ciascun singolo caso, i redditi in questione siano o meno esenti sulla base di una convenzione contro la doppia imposizione. Infine, permettere al debitore del compenso di sottrarsi unilateralmente alla ritenuta alla fonte potrebbe, in caso di errore da parte sua, compromettere la riscossione dell’imposta nei confronti del creditore del compenso. 62. Con tali questioni il Bundesfinanzhof desidera in sostanza sapere se l’art. 59 del Trattato CEE debba essere interpretato nel senso che esso è applicabile se il destinatario dei servizi che invoca tale articolo per beneficiare della libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità è cittadino di uno Stato membro e stabilito all’interno della Comunità mentre l’altra parte del contratto, il prestatore di servizi, è stabilito in un altro paese della Comunità ma è cittadino di uno Stato terzo. 63. Si deve preliminarmente ricordare che, come è stato osservato al punto 32 della presente sentenza e fissato da una costante giurisprudenza, l’art. 59 del Trattato CEE conferisce diritti non soltanto al prestatore di servizi, ma anche al destinatario degli stessi. 64. Se è vero che tali diritti comprendono la libertà del destinatario dei servizi di recarsi in un altro Stato membro per usufruire di un servizio senza essere ostacolato da restrizioni (sentenze Ciola, cit., punto 11, e 28 ottobre 1999, causa C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 20), risulta altresì in modo costante dalla giurisprudenza della Corte che il destinatario dei servizi può avvalersi di tali diritti anche qualora né lui né il prestatore dei servizi compiano uno spostamento intracomunitario (v., in tal senso, sentenze Eurowings Luftverkehr, cit., punto 34; 6 novembre 2003, causa C-243/01, Gambelli e a., Racc. pag. I-13031, punti 55 e 57, nonché 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, Racc. pag. I-9609, punto 25). 66. Poiché dunque risulta dalle considerazioni svolte che la Scorpio, assimilata, in quanto società ai sensi dell’art. 58, primo comma, del Trattato CEE 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (divenuto art. 58 del Trattato CE, a sua volta divenuto art. 48 CE), ad una persona fisica cittadina di uno Stato membro, dovrebbe in linea di principio poter far valere, ai sensi dell’art. 66 del Trattato CEE (divenuto art. 66 del Trattato CE, a sua volta divenuto art. 55 CE), i diritti conferiti dall’art. 59 del Trattato CEE, si deve verificare se l’eventuale fatto che Europop, in quanto prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro, sia un cittadino di uno Stato terzo osti a che la Scorpio possa far valere tali diritti. 67. A tale proposito si deve osservare che il Trattato CEE stabilisce, dal momento che il Consiglio non ha dato seguito alla possibilità prevista dal secondo comma dell’art. 59 del medesimo Trattato, che le disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi si applicano qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: – la prestazione deve essere effettuata all’interno della Comunità; – il prestatore di servizi deve essere cittadino di uno Stato membro e stabilito all’interno di un paese della Comunità. 68. Ne consegue che il Trattato CEE non estende il beneficio di tali disposizioni ai prestatori di servizi cittadini di uno Stato terzo, neppure qualora essi siano stabiliti all’interno della Comunità e la prestazione sia intracomunitaria. 69. Si devono dunque risolvere la seconda questione e la terza questione, lett. d), dichiarando che l’art. 59 del Trattato CEE deve essere interpretato nel senso che esso non è applicabile a favore di un prestatore di servizi cittadino di uno Stato terzo. Sentenza della Corte, Grande Sezione, 14 novembre 2006, nel procedimento C-513/04 – M.K., B.M. e Belgische Staat. I coniugi K.-M., residenti in Belgio, hanno percepito nel corso degli anni 1995 e 1996 dividendi della società Eurofers SARL stabilita in Francia. Una parte delle somme percepite corrispondeva al credito d’imposta per imputazione, per l’ammontare del 50% dei dividendi versati, concesso dalle autorità fiscali francesi in forza dell’art. 15, n. 3, della convenzione francobelga a titolo di compensazione dell’imposta sulle società. In conformità alla detta disposizione, tale credito d’imposta per imputazione è assimilato ad un reddito da dividendi. I dividendi lordi hanno subito in Francia un prelievo del 15% mediante ritenuta alla fonte a titolo di imposta sul reddito. I coniugi hanno dichiarato di aver percepito dalla Eurofers SARL BEF … e BEF … a titolo, rispettivamente, dei redditi degli anni 1995 e 1996. Essi hanno chiesto nella loro dichiarazione dei redditi di ottenere il beneficio del vantaggio fiscale previsto all’art. 19 A, n. 1, della convenzione franco- belga, corrispondente all’imposta francese alla fonte. Considerata la soppressione da parte del legislatore belga di tale vantaggio fiscale, la loro domanda è stata respinta. Ritenendo che tale diniego del vantaggio fiscale di cui al procedimento principale avesse per effetto di sottoporre i dividendi di origine francese ad IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 133 una pressione fiscale maggiore di quella esercitata sui dividendi delle società stabilite in Belgio, i coniugi hanno adito il Rechtbank van eerste aanleg te Gent, allo scopo di far annullare la decisione dell’amministrazione fiscale belga che respingeva la loro domanda, invocando in particolare una violazione dell’art. 73 B, n. 1, del Trattato. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 73 B, n. 1, del trattato CE (divenuto art. 56, n. 1, CE). 15. Occorre preliminarmente ricordare che, in forza di una giurisprudenza costante, benché la materia delle imposte dirette rientri nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario (sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx, Racc. pag. I-2493, punto 16; 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, Racc. pag. I-4071, punto 32; 4 marzo 2004, causa C-334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 21; 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz, Racc. pag. I-7063, punto 19, nonché 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, Racc. pag. I-7477, punto 19). 16. Nelle citate sentenze Verkooijen, Lenz e Manninen, la Corte ha ritenuto che la normativa degli Stati membri in causa stabilisse una differenza di trattamento tra i redditi derivanti dai dividendi di società aventi sede nello Stato membro di residenza del contribuente interessato e quelli tratti dai dividendi di società aventi sede in un altro Stato membro, in quanto negava ai beneficiari di questi ultimi dividendi i vantaggi fiscali concessi agli altri. Avendo constatato che la situazione dei contribuenti che percepivano dividendi di società stabilite in un altro Stato membro non era obiettivamente diversa da quella dei contribuenti che percepivano dividendi di società stabilite nello Stato membro in cui erano residenti, la Corte ha dichiarato che le normative di cui si trattava costituivano un ostacolo alle libertà sancite dal Trattato. 20. In circostanze come quelle della fattispecie, le conseguenze svantaggiose che l’applicazione di un sistema di imposizione dei redditi, quale il regime belga di cui alla causa principale, potrebbe comportare derivano dall’esercizio parallelo da parte di due Stati membri della loro competenza fiscale. 21. Occorre al riguardo ricordare che le convenzioni che prevengono la doppia imposizione, come quelle previste all’art. 293 CE, servono ad eliminare o ad attenuare gli effetti negativi per il funzionamento del mercato interno che derivano dalla coesistenza di sistemi fiscali nazionali richiamata al punto precedente. 22. Orbene, il diritto comunitario, al suo stato attuale ed in una situazione come quella di cui alla causa principale, non stabilisce criteri generali per la ripartizione delle competenze tra Stati membri con riferimento all’eliminazione della doppia imposizione all’interno della Comunità. Infatti, fatta eccezione per la direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (G.U. L 225, pag. 6), la convenzione 23 luglio 1990 relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (G.U. L 225, pag. 10) e la direttiva del Consiglio 3 giugno 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2003, 2003/48/CE, in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi (G.U. L 157, pag. 38), non è stata finora adottata, nell’ambito del diritto comunitario, alcuna misura di unificazione o di armonizzazione intesa ad eliminare le situazioni di doppia imposizione. 23. Ne consegue che spetta agli Stati membri adottare le misure necessarie per prevenire situazioni come quella di cui alla causa principale utilizzando, in particolare, i criteri di ripartizione seguiti nella prassi fiscale internazionale. È sostanzialmente questa la finalità della convenzione francobelga, che effettua una ripartizione della competenza fiscale tra la Repubblica francese e il Regno del Belgio in simili situazioni. La detta convenzione non costituisce tuttavia oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale in esame. 24. Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la questione sollevata nel senso che l’art. 73 B, n. 1, del trattato non osta alla normativa di uno Stato membro, quale la legislazione fiscale belga, che, nell’ambito dell’imposta sul reddito, assoggetta alla stessa aliquota d’imposta uniforme i dividendi di azioni di società stabilite sul territorio del detto Stato e i dividendi di azioni di società stabilite in un altro Stato membro, senza prevedere la possibilità di imputare l’imposta prelevata mediante ritenuta alla fonte in quest’altro Stato membro. Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 dicembre 2006, nel procedimento C-374/04 – Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation e Commissioners of Inland Revenue. La controversia di cui alla causa principale è parte di un contenzioso del tipo «group litigation» a titolo dell’ACT, costituito da domande di restituzione e/o di risarcimento proposte contro i Commissioners of Inland Revenue dinanzi alla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division, a seguito della citata sentenza Metallgesellschaft e a. In tale sentenza la Corte, statuendo su questioni pregiudiziali provenienti dallo stesso giudice nazionale, ha dichiarato, in risposta alla prima questione sottoposta, che l’art. 43 CE osta alla normativa fiscale di uno Stato membro che accordi alle società stabilite in tale Stato la possibilità di beneficiare di un regime fiscale che consenta loro di pagare i dividendi alla loro capogruppo senza essere tenute al pagamento anticipato dell’imposta sulle società quando anche la loro società capogruppo sia stabilita in questo stesso Stato e neghi loro tale possibilità quando la loro società capogruppo abbia sede in un altro Stato membro. Nella soluzione alla seconda questione sottoposta in questa stessa causa, la Corte ha dichiarato che, qualora una controllata con sede in uno Stato membro sia stata assoggettata all’obbligo di pagare anticipatamente l’imposta sulle società per i dividendi versati alla sua società capogruppo avente sede in un altro Stato membro, mentre, in circostanze simili, le controllate di società capogruppo con sede nel primo Stato hanno potuto opta- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 135 re per un regime fiscale che ha consentito loro di sottrarsi a tale obbligo, l’art. 43 CE richiede che le società controllate con sede nel detto Stato e le loro società capogruppo non aventi ivi sede dispongano di un mezzo di ricorso effettivo per ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche da esse sofferte, a vantaggio delle autorità dello Stato membro interessato, in seguito al pagamento anticipato dell’imposta da parte delle controllate. Le quattro cause scelte dal giudice del rinvio come cause «pilota» ai fini del presente rinvio pregiudiziale riguardano domande proposte al tempo stesso da società residenti e da società non residenti appartenenti allo stesso gruppo delle società residenti e che hanno percepito dividendi da queste. Si tratta di dividendi versati tra il 1974 ed il 1998 a società residenti in Italia (caso del gruppo Pirelli), in Francia (caso del gruppo ESSILOR) e nei Paesi Bassi (caso dei gruppi BMW e Sony). Mentre, nel caso del gruppo Pirelli, la società non residente detiene una partecipazione minoritaria, di almeno il 10%, nella società residente, gli altri casi riguardano società capogruppo non residenti che controllano al 100% la loro controllata residente. Per quanto riguarda le due società madri residenti nei Paesi Bassi, la prima è detenuta integralmente da una società residente in Germania, mentre la seconda è detenuta da una società residente in Giappone. 30. Con la sua prima questione, lett. a), il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli artt. 43 CE e 56 CE ostino ad una normativa di uno Stato membro, come quella di cui alla causa principale, che, al momento di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente, concede un credito d’imposta pieno agli azionisti finali beneficiari dei detti dividendi che risiedono in tale Stato membro o in un altro Stato con cui questo primo Stato membro ha concluso una CDI che prevede un tale credito d’imposta, ma non concede alcun credito d’imposta, pieno o parziale, a società beneficiarie di tali dividendi che risiedono in alcuni altri Stati membri. 31. Risulta dal fascicolo che, piuttosto che sottoporre alla Corte un problema di disparità di trattamento tra, da una parte, azionisti finali, residenti o meno, beneficiari di dividendi versati da una società residente e, dall’altra, società non residenti beneficiarie di tali dividendi, il giudice del rinvio chiede un’interpretazione del diritto comunitario che gli permetta di valutare la compatibilità con quest’ultimo del trattamento differenziato a cui sono assoggettate nel Regno Unito, da una parte, una società residente che beneficia di un credito d’imposta allorché essa percepisce dividendi di un’altra società residente e i cui azionisti finali residenti beneficiano anch’essi di un credito d’imposta quando vengono loro versati dividendi e, dall’altra, una società non residente che non beneficia nel Regno Unito, salvo in taluni casi rientranti in convenzioni sulla doppia imposizione, di nessun credito d’imposta allorché essa percepisce dividendi da una società residente e i cui azionisti finali, residenti o meno, non hanno nemmeno essi diritto ad un credito d’imposta. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 37. Relativamente al punto se la legislazione nazionale di cui trattasi nella causa principale rientri nell’ambito dell’art. 43 CE relativo alla libertà di stabilimento o dell’art. 56 CE relativo alla libera circolazione dei capitali, occorre sottolineare che la questione sottoposta riguarda provvedimenti nazionali in materia di assoggettamento ad imposta di dividendi secondo i quali, indipendentemente dall’entità della partecipazione detenuta dall’azionista beneficiario, ad una società residente che percepisce dividendi da un’altra società residente viene concesso un credito d’imposta, mentre, per una società non residente che percepisce tali dividendi, la concessione di un credito d’imposta dipende dalle disposizioni di un’eventuale CDI che il Regno Unito ha concluso con il suo Stato di residenza. Risulta che talune CDI, come quella conclusa con il Regno dei Paesi Bassi, fanno variare l’entità del credito d’imposta secondo l’ampiezza della partecipazione detenuta dall’azionista beneficiario nella società distributrice. 38. Ne deriva che i provvedimenti di cui trattasi possono rientrare nell’ambito di applicazione tanto dell’art. 43 CE quanto dell’art. 56 CE. 41. Per quanto riguarda, innanzi tutto, l’esame della questione pregiudiziale sotto il profilo della libertà di stabilimento, le ricorrenti di cui alla causa principale sostengono che, dal momento che, al di fuori di taluni casi che rientrano nelle CDI, la legislazione in vigore nel Regno Unito non concede crediti d’imposta ad una società non residente che percepisce dividendi da una società residente, né ai suoi azionisti finali, siano essi residenti o meno, essa limita la libertà di una tale società non residente di costituire controllate nel detto Stato membro. Rispetto alle società residenti che percepiscono dividendi da una società residente, una società non residente sarebbe in una posizione svantaggiata nel senso che, per il fatto che i suoi azionisti non beneficiano di un credito d’imposta, essa dovrebbe aumentare l’importo dei suoi dividendi affinché i suoi azionisti ricevano un importo equivalente a ciò che essi riceverebbero se fossero azionisti di una società residente. 42. A tale riguardo occorre ricordare che la libertà di stabilimento, che l’art. 43 CE attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, comprende, ai sensi dell’art. 48 CE, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (v., in particolare, sentenze 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint- Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 35; 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, Racc. pag. I-10837, punto 30, nonché Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, cit., punto 41). 43. Per le società, occorre rilevare che la loro sede ai sensi dell’art. 48 CE serve per determinare, come la cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato. Ammettere che lo Stato membro di stabilimento possa liberamente riservare IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 137 un trattamento diverso per il solo fatto che la sede di una società si trova in un altro Stato membro svuoterebbe quindi di contenuto l’art. 43 CE (v., in tal senso, sentenze 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, Racc. pag. 273, punto 18; 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank, Racc. pag. I-4017, punto 13; Metallgesellschaft e a., cit., punto 42, e Marks & Spencer, cit., punto 37). La libertà di stabilimento mira dunque ad assicurare il beneficio del trattamento nazionale nello Stato membro ospitante, vietando ogni discriminazione fondata sul luogo della sede delle società (v., in tal senso, citate sentenze Commissione/Francia, punto 14, e Saint-Gobain ZN, punto 35). 46. Per determinare se una disparità di trattamento fiscale sia discriminatoria, occorre tuttavia verificare se, in considerazione della misura nazionale di cui trattasi, le società interessate si trovino in una situazione obiettivamente comparabile. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, la discriminazione consiste nell’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe ovvero nell’applicazione della stessa norma a situazioni diverse (v. sentenze 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, Racc. pag. I-225, punto 30, e 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank 49. In considerazione di ciò, occorre ricordare che i dividendi distribuiti da una società ai suoi azionisti possono essere oggetto, da una parte, di un’imposizione a catena se sono tassati, innanzi tutto, in capo alla società distributrice, in quanto utili realizzati, e, in seguito, in capo ad una società madre, a titolo dell’imposta sugli utili, e dall’altra, di una doppia imposizione allorché sono tassati, innanzi tutto, in capo alla società distributrice e, in seguito, in capo all’azionista finale, a titolo dell’imposta sul reddito. 50. Spetta ad ogni Stato membro organizzare, in osservanza del diritto comunitario, il proprio sistema d’imposizione di utili distribuiti e definire, in tale ambito, la base imponibile nonché il tasso d’imposizione che vengono applicati, in capo alla società distributrice e/o in capo all’azionista beneficiario, purché siano assoggettati all’imposta nel detto Stato. 51. In forza dell’art. 293 CE, gli Stati membri avvieranno fra loro, per quanto occorra, negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, l’eliminazione della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità. Tuttavia, a prescindere dalla convenzione 23 luglio 1990, 90/436/CEE, relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (G.U. L 225, pag. 10), nessuna misura di unificazione o di armonizzazione diretta ad eliminare le doppie imposizioni è stata adottata nell’ambito comunitario, e gli Stati membri non hanno stipulato, in forza dell’art. 293 CE, nessuna convenzione multilaterale in materia (v., in tal senso, sentenze 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly, Racc. pag. I-2793, punto 23; 5 luglio 2005, causa C-376/03, D., Racc. pag. I-5821, punto 50, e 7 settembre 2006, causa C-470/04, N, Racc. pag. I-7409, punti 43). 53. Soltanto per le società degli Stati membri che detengono nel capitale di una società di un altro Stato membro una partecipazione minima del 25%, l’art. 4 della direttiva 90/435, letto in combinato disposto con l’art. 3 della stessa, nella sua versione iniziale applicabile al tempo dei fatti di cui 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO alla causa principale, impone a ogni Stato membro di esonerare gli utili che una società madre residente percepisce da una controllata residente in un altro Stato membro o di autorizzare tale società madre a dedurre dall’importo della sua imposta la frazione dell’imposta della controllata relativa a tali utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro di residenza della controllata. 54. Il solo fatto che spetta agli Stati membri, per le partecipazioni che non rientrano nell’ambito della direttiva 90/435, determinare se, ed in quale misura, l’imposizione a catena nonché la doppia imposizione degli utili distribuiti debbano essere evitate e introdurre, a tale effetto, in modo unilaterale o mediante CDI concluse con altri Stati membri meccanismi che mirino a prevenire o ad attenuare tale imposizione a catena e tale doppia imposizione non significa che è consentito loro applicare misure contrarie alle libertà di circolazione garantite dal Trattato. 55. Pertanto, uno Stato membro, allorché adotta un sistema per prevenire o attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione nel caso di dividendi versati a residenti da società residenti, deve concedere un trattamento equivalente ai dividendi versati a residenti da società non residenti (v., in tal senso, sentenze 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz, Racc. pag. I-7063, punti 27-49, e 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, Racc. pag. I-7477, punti 29-55). 56. Infatti, nell’ambito di tali sistemi, la situazione di azionisti residenti in uno Stato membro che percepiscano dividendi da una società stabilita in questo stesso Stato è analoga a quella di azionisti residenti nel detto Stato che percepiscano dividendi da una società stabilita in un altro Stato membro, in quanto sia i dividendi di origine nazionale sia quelli di origine estera possono costituire oggetto, da una parte, nel caso di società azioniste, di un’imposizione a catena, e dall’altra, nel caso di azionisti finali, di una doppia imposizione (v., in tal senso, citate sentenze Lenz, punti 31 e 32, nonché Manninen, punti 35 e 36). 57. Tuttavia, se la situazione di tali azionisti dev’essere considerata analoga per quanto riguarda l’applicazione agli stessi della legislazione fiscale del loro Stato membro di residenza, questo non è necessariamente il caso, per quanto riguarda l’applicazione della legislazione fiscale dello Stato membro di residenza della società distributrice, delle situazioni in cui si trovano gli azionisti beneficiari residenti in tale Stato membro e gli azionisti beneficiari residenti in un altro Stato membro. 58. Infatti, qualora la società distributrice e l’azionista beneficiario non risiedano nello stesso Stato membro, lo Stato membro di residenza della società distributrice, vale a dire lo Stato membro della fonte degli utili, non si trova, per quanto riguarda la prevenzione o l’attenuazione dell’imposizione a catena e della doppia imposizione, nella stessa posizione dello Stato membro di residenza dell’azionista beneficiario. 59. A tale riguardo occorre considerare, da una parte, che richiedere che lo Stato di residenza della società distributrice assicuri che gli utili distribuiti ad un azionista non residente non siano colpiti da un’imposizione a catena IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 139 o da una doppia imposizione, esonerando tali utili dall’imposta in capo alla società distributrice o concedendo al detto azionista un beneficio fiscale corrispondente all’imposta versata su tali utili da parte della società distributrice, significherebbe infatti che il detto Stato debba rinunciare al suo diritto di assoggettare ad imposta un reddito generato da un’attività economica esercitata nel suo territorio. 60. D’altra parte, per quanto riguarda un meccanismo che mira a prevenire o ad attenuare la doppia imposizione attraverso la concessione di un beneficio fiscale all’azionista finale, è necessario rilevare che normalmente lo Stato membro di residenza di quest’ultimo è nella migliore posizione per valutare la capacità contributiva personale del detto azionista (v., in tal senso, citate sentenze Schumacker, punti 32 e 33, nonché D., punto 27). Parimenti, per le partecipazioni che rientrano nella direttiva 90/435, l’art. 4, n. 1, di quest’ultima impone allo Stato membro della società madre che percepisce utili distribuiti da una controllata residente in un altro Stato membro, e non a quest’ultimo Stato, di evitare l’imposizione a catena, astenendosi dall’assoggettare ad imposta tali utili o assoggettandoli ad essa pur autorizzando la società madre a dedurre dall’importo della sua imposta la frazione dell’imposta della controllata relativa a tali utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro di residenza della controllata. 63. Una disparità sussiste tuttavia tra le società beneficiarie residenti e le società beneficiarie non residenti per quanto riguarda la possibilità per le dette società beneficiarie di effettuare una distribuzione di dividendi ai loro azionisti finali in un quadro normativo che prevede per questi ultimi un credito d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle società versata dalla società che ha generato gli utili distribuiti. È chiaro che la detta possibilità è riservata alle società residenti. 64. Orbene, è nella sua qualità di Stato di residenza dell’azionista che questo stesso Stato membro, allorché una società residente distribuisce dividendi ai suoi azionisti finali residenti, concede a questi ultimi un credito d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle società versata anticipatamente dalla società che ha generato gli utili distribuiti al momento della distribuzione dei detti dividendi. 65. Per quanto riguarda l’applicazione dei meccanismi che mirano a prevenire o ad attenuare l’imposizione a catena o la doppia imposizione, la posizione di uno Stato membro in cui risiedono sia le società distributrici sia gli azionisti finali non è pertanto analoga a quella di uno Stato membro in cui risiede una società che distribuisce dividendi ad una società non residente che li versa, a sua volta, ai suoi azionisti finali, nel senso che quest’ultimo Stato agisce, in via di principio, solo in qualità di Stato della fonte degli utili distribuiti. 66. Soltanto se, in quest’ultimo caso, una società residente in uno Stato membro distribuisce dividendi ad una società residente in un altro Stato membro e gli azionisti di quest’ultima società, dal canto loro, risiedono in questo primo Stato, incombe a quest’ultimo, in quanto Stato di residenza dei detti azionisti, in conformità del principio enunciato nelle citate sentenze 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Lenz e Manninen, come ricordato al punto 55 della presente sentenza, di vigilare affinché i dividendi che tali azionisti percepiscono da una società non residente siano soggetti ad un trattamento fiscale equivalente a quello riservato ai dividendi che un azionista residente percepisce da una società residente. 70. Orbene, se lo Stato membro di residenza della società generatrice degli utili da distribuire decide di esercitare la sua competenza fiscale non soltanto sugli utili generati in tale Stato, ma anche sul reddito che proviene dal detto Stato percepito dalle società beneficiarie non residenti, è il solo esercizio da parte di questo stesso Stato della sua competenza fiscale che, indipendentemente da ogni imposizione in un altro Stato membro, genera un rischio di imposizione a catena. In tale caso, affinché le società beneficiarie non residenti non si trovino di fronte ad una limitazione della libertà di stabilimento vietata, in via di principio, dall’art. 43 CE, lo Stato di residenza della società distributrice deve vigilare affinché, in relazione al meccanismo previsto dal suo diritto nazionale allo scopo di prevenire o attenuare l’imposizione a catena, le società azioniste non residenti siano assoggettate ad un trattamento equivalente a quello di cui beneficiano le società azioniste residenti. 71. Spetta al giudice nazionale decidere, in ciascun caso, se tale obbligo sia stato rispettato, tenendo conto, eventualmente, delle disposizioni della CDI che il detto Stato membro ha concluso con lo Stato di residenza della società azionista (v., in tal senso, sentenza 19 gennaio 2006, causa C-265/04, Bouanich, Racc. pag. I-923, punti 51-55). 72. Risulta da quanto precede che una legislazione di uno Stato membro che, nell’ambito di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente e in mancanza di una CDI, concede alle sole società beneficiarie residenti un credito d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta sulle società versata, in anticipo, dalla società generatrice degli utili distribuiti, riservando al tempo stesso ai soli azionisti finali residenti la concessione di tale credito d’imposta, non costituisce una discriminazione vietata dall’art. 43 CE. 73. Dal momento che le considerazioni formulate ai punti precedenti si applicano nello stesso modo alle società azioniste non residenti che hanno percepito dividendi sulla base di una partecipazione che non conferisce loro una sicura influenza sulle decisioni della società distributrice residente e non permette loro di indirizzarne le attività, una tale legislazione non limita nemmeno la libera circolazione dei capitali ai sensi dell’art. 56 CE. 74. Occorre dunque risolvere la prima questione lett. a), nel senso che gli artt. 43 CE e 56 CE non ostano a che uno Stato membro, al momento di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente nel detto Stato, conceda alle società beneficiarie dei detti dividendi che risiedono anch’esse nel detto Stato un credito d’imposta corrispondente alla frazione dell’imposta versata dalla società distributrice sugli utili distribuiti, ma non lo conceda alle società beneficiarie che risiedono in un altro Stato membro e che non sono assoggettate all’imposta in questo primo Stato a titolo di tali dividendi. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 141 75. Con la sua prima questione, lett. b)-d), il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli artt. 43 CE e 56 CE ostino al fatto che uno Stato membro applichi CDI concluse con altri Stati membri in forza delle quali, al momento di una distribuzione di dividendi da parte di una società residente, le società beneficiarie residenti in taluni Stati membri non beneficiano di un credito d’imposta, mentre alle società beneficiarie residenti in determinati altri Stati membri viene concesso un credito d’imposta parziale. 76. In tale ambito, esso chiede anche se sia possibile che uno Stato membro applichi una disposizione di una CDI, detta di «limitazione dei benefici », in forza della quale esso non concede alcun credito d’imposta ad una società residente nell’altro Stato membro contraente se quest’ultima è controllata da una società residente in un terzo Stato con cui il primo Stato membro ha concluso una CDI che, al momento di una distribuzione di dividendi, non prevede alcun credito d’imposta per la società beneficiaria residente nel terzo Stato, e se rilevi, a tal riguardo, il fatto che la società beneficiaria residente sia controllata da una società residente in uno Stato membro o in un paese terzo. 77. Per i motivi esposti nei punti 37-40 della presente sentenza, occorre esaminare i provvedimenti nazionali di cui trattasi nella causa principale sotto il profilo sia della libertà di stabilimento sia della libera circolazione dei capitali. 81. A tale riguardo occorre ricordare che, in mancanza di provvedimenti di unificazione o di armonizzazione comunitaria diretti ad eliminare le doppie imposizioni, gli Stati membri restano competenti a determinare i criteri d’imposizione dei redditi al fine di eliminare, se del caso mediante convenzioni, le doppie imposizioni. In tale contesto gli Stati membri sono liberi, nell’ambito delle convenzioni bilaterali, di stabilire gli elementi di collegamento per la ripartizione della competenza fiscale (v. citate sentenze Gilly, punti 24 e 30; Saint-Gobain ZN, punto 57; D., punto 52, e Bouanich, punto 49). 82. Le ricorrenti di cui alla causa principale denunciano la disparità di trattamento inflitta a società non residenti nel Regno Unito, per il fatto che le CDI concluse dal detto Stato membro con taluni altri Stati membri prevedono un credito d’imposta per le società residenti dei detti Stati membri, mentre le CDI concluse dal Regno Unito con altri Stati membri non ne prevedono. 83. Per determinare se una tale disparità di trattamento sia discriminatoria, occorre verificare se, riguardo ai provvedimenti di cui trattasi, le società non residenti interessate si trovino in una situazione obiettivamente analoga. 87. Le situazioni in cui il Regno Unito concede un credito d’imposta a società residenti nell’altro Stato contraente che percepiscono dividendi da una società residente nel Regno Unito sono quelle in cui quest’ultimo si è altresì riservato il diritto di assoggettare ad imposta tali società a titolo di tali dividendi. L’aliquota di imposizione che, in un tale caso, il Regno Unito può applicare varia a seconda delle circostanze, in particolare a seconda che una CDI preveda un credito d’imposta pieno o parziale. Esiste dunque una diretta connessione tra il diritto ad un credito d’imposta e l’aliquota d’imposta 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO che una tale CDI prevede (v., in tal senso, sentenza 25 settembre 2003, causa C-58/01, Océ Van der Grinten, Racc. pag. I-9809, punto 87). 88. Pertanto, la concessione di un credito d’imposta ad una società non residente che percepisce dividendi da una società residente, come quello previsto in talune CDI concluse dal Regno Unito, non può essere considerata come un’agevolazione che possa essere separata dal resto della convenzione, ma ne costituisce parte integrante e contribuisce al suo equilibrio generale (v., in tal senso, sentenza D., cit., punto 62). 89. Lo stesso dicasi per le disposizioni delle CDI che sottopongono la concessione di un tale credito d’imposta alla condizione che la società non residente non sia detenuta, direttamente o indirettamente, da una società residente in uno Stato membro o in un paese terzo con cui il Regno Unito ha concluso una CDI che non prevede un credito d’imposta. 90. Infatti, anche se tali disposizioni si riferiscono alla situazione di una società non residente in uno degli Stati membri contraenti, esse si applicano soltanto a soggetti residenti in uno dei detti Stati membri e, contribuendo al loro equilibrio generale, costituiscono parte integrante delle CDI interessate. 91. Il fatto che tali diritti e obblighi reciproci si applichino soltanto a soggetti residenti in uno dei due Stati membri contraenti è una conseguenza inerente alle convenzioni bilaterali volte a prevenire la doppia imposizione. Ne consegue che, per quanto riguarda l’imposizione dei dividendi versati da una società residente nel Regno Unito, una società residente in uno Stato membro che ha concluso con il Regno Unito una CDI che non prevede un credito d’imposta non si trova nella stessa situazione di una società residente in uno Stato membro che ha concluso una CDI che lo prevede (v., in tal senso, sentenza D., cit, punto 61). 92. Ne deriva che le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento non ostano al fatto che il diritto ad un credito d’imposta previsto in una CDI conclusa da uno Stato membro con un altro Stato membro per società residenti in quest’ultimo Stato che percepiscono dividendi da una società residente nel primo Stato non sia esteso a società residenti in un terzo Stato membro con cui il primo Stato ha concluso una CDI che non prevede un tale diritto. 93. Dal momento che una tale situazione non comporta una discriminazione nei confronti di società non residenti che percepiscono dividendi da una società residente, la conclusione tratta al punto precedente vale anche a proposito delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali. 94. Avuto riguardo alle considerazioni che precedono occorre risolvere la prima questione, lett. b)-d), nel senso che gli artt. 43 CE e 56 CE non ostano al fatto che uno Stato membro non estenda il diritto ad un credito d’imposta, previsto in una CDI conclusa con un altro Stato membro per società residenti in quest’ultimo Stato che percepiscono dividendi da una società residente nel primo Stato, a società residenti in un terzo Stato membro con cui esso ha concluso una CDI, che non prevede un tale diritto per società residenti in questo terzo Stato. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 143 Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 settembre 2006, nel procedimento C-196/04 – Cadbury Schweppes plc, Cadbury Schweppes Overseas Ltd contro Commissioners of Inland Revenue. La CS, società residente, è la madre del gruppo Cadbury Schweppes, costituito da società stabilite nel Regno Unito, in altri Stati membri dell’Unione europea e in paesi terzi. Il gruppo comprende, in particolare, due controllate irlandesi, vale a dire la Cadbury Schweppes Treasury Services (in prosieguo: la «CSTS») e la Cadbury Schweppes Treasury International (in prosieguo: la «CSTI»), che la CS detiene indirettamente attraverso un gruppo di controllate a capo delle quali si trova la CSO. La CSTS e la CSTI, che sono state costituite in seno all’IFSC, all’epoca dei fatti della causa principale erano soggette ad un’aliquota d’imposta del 10%. Le attività della CSTS e della CSTI consistono nel raccogliere fondi e nel metterli a disposizione delle controllate del gruppo Cadbury Schweppes. Secondo la decisione del rinvio, la CSTS è andata a sostituirsi ad un’organizzazione precedente similare che comprendeva una società di Jersey. Triplice lo scopo della sua costituzione: in primo luogo, ovviare a un problema tributario avvertito dai contribuenti canadesi titolari di azioni preferenziali della CS; in secondo luogo, evitare di dover ottenere l’autorizzazione delle autorità del Regno Unito a prestiti per l’estero e, in terzo luogo, ridurre le trattenute alla fonte sui dividendi versati nella struttura di gruppo, avvalendosi della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (G.U. L. 225 pag. 6). Sempre secondo tale decisione, i detti tre obiettivi ben avrebbero potuto essere raggiunti se la CSTS fosse stata costituita conformemente alla legislazione del Regno Unito e ivi avesse avuto sede. La CSTI è una controllata della CSTS. Secondo il giudice remittente, essa è stata costituita in Irlanda per sfuggire all’applicazione di certe disposizioni fiscali del Regno Unito in materia di cambio. Stando alla decisione di rinvio, è certo che la CSTS e la CSTI sono state stabilite a Dublino unicamente perché le loro attività di finanziamento del gruppo Cadbury Schweppes potessero beneficiare del regime fiscale dell’IFSC. Tenuto conto dell’aliquota fiscale applicata alle società costituite nel detto Centro, gli utili conseguiti dalla CSTS e dalla CSTI risultavano soggetti a un «livello inferiore di tassazione» nel senso della legislazione sulle SEC. Le autorità fiscali britanniche ritenevano che, a titolo dell’esercizio contabile 1996, non sussistesse per queste controllate nessuna delle condizioni di esenzione dalla detta 23. In primo luogo, si domanda se, nello stabilire e finanziare società in un altro Stato membro al solo scopo di beneficiare di un sistema tributario più favorevole di quello in vigore nel Regno Unito, la CS abbia abusato delle libertà fondamentali istituite dal Trattato CE. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 24. In secondo luogo, qualora, così facendo, la CS abbia solo esercitato effettivamente le dette libertà, il giudice remittente si domanda se nelle circostanze di specie la legislazione sulle SEC debba essere considerata una restrizione all’esercizio di tali libertà o una discriminazione. 25. In terzo luogo, qualora la suddetta legislazione debba essere considerata restringere le libertà consacrate dal Trattato, il giudice remittente si domanda se l’eventualità che la CS non paghi più tasse di quelle che la CSTS e la CSTI avrebbero pagato se fossero state stabilite nel Regno Unito permetta di escludere l’esistenza di una tale restrizione. Si chiede anche se rilevino le divergenze sotto dati profili tra le regole di calcolo del debito fiscale per i redditi della CSTS e della CSTI e quelle comunemente applicate alle controllate di CS stabilite nel Regno Unito, nonché il fatto che non vi è sgravio fiscale per le perdite di una SEC sugli utili di un’altra SEC o su quelli della CS e delle sue controllate nel Regno Unito, sgravio invece possibile se la CSTS e la CSTI fossero state stabilite in tale Stato membro. 26. In quarto luogo, ove si dovesse ritenere che la legislazione sulle SEC comporti una discriminazione, si domanda se occorra fare un confronto tra i fatti della causa principale e l’ipotesi della creazione da parte della CS di controllate nel Regno Unito o in uno Stato membro che non applica un’aliquota fiscale inferiore nel senso della detta legislazione. 27. In quinto luogo, qualora questa integri una discriminazione o una restrizione alla libertà di stabilimento, il giudice remittente si domanda se la legislazione sulle SEC possa essere giustificata da motivi di lotta all’evasione fiscale, dato che intende prevenire la riduzione o la distrazione degli utili imponibili nel Regno Unito; e, in caso di risposta affermativa, se tale normativa sia davvero una misura proporzionata, tenuto conto della sua finalità e delle deroghe all’imposizione di cui possono beneficiare attraverso il «motive test» le società che, diversamente dalla CS, riescono a dimostrare di non perseguire l’obiettivo di evadere le tasse. 29. Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli artt. 43 CE, 49 CE e 56 CE ostino a una legislazione fiscale nazionale, come quella oggetto della causa principale, che prevede, in determinate circostanze, di tassare la società madre per gli utili realizzati da una SEC. 30. Tale questione deve ritenersi far riferimento anche all’art. 48 CE che, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento, assimila ai cittadini comunitari, di cui all’art. 43 CE, le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi sede sociale, amministrazione centrale ovvero stabilimento principale all’interno della Comunità. 31. È giurisprudenza costante che rientrano nell’ambito di applicazione materiale delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento le disposizioni nazionali che si applicano alla detenzione da parte di un cittadino, nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro, di una partecipazione tale da conferirgli una sicura influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne le attività (v., in tal senso, sentenze 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, Racc. pag. I-2787, punto IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 145 22, nonché 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y, Racc. pag. I-10829, punto 37). 34. Prima di esaminare la legislazione sulle SEC alla luce degli artt. 43 CE e 48 CE occorre rispondere al quesito preliminare del giudice del rinvio, se cioè il fatto per una società stabilita in uno Stato membro di costituire e di finanziare società in un altro Stato membro al solo scopo di beneficiare del regime fiscale più favorevole quivi in vigore costituisca un abuso della libertà di stabilimento. 35. Certo, i cittadini di uno Stato membro non possono tentare, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, di sottrarsi abusivamente all’impero delle loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario (sentenze 7 febbraio 1979, causa 115/78, Knoors, Racc. pag. 399, punto 25; 3 ottobre 1990, causa C-61/89, Bouchoucha, Racc. pag. I-3551, punto 14, e 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros, Racc. pag. I-1459, punto 24). 36. Un cittadino comunitario, persona fisica o giuridica, non può, tuttavia, essere privato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede (v., in tal senso, sentenza 11 dicembre 2003, causa C-364/01, Barbier, Racc. pag. I-15013, punto 71). 37. Quanto alla libertà di stabilimento, la Corte ha già dichiarato che la circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà (v., in tal senso, sentenze Centros, cit., punto 27, e 30 settembre 2003, causa C-167/01, Inspire Art, Racc. pag. I-10155, punto 96). 38. (...) il fatto che la CS abbia deciso di costituire la CSTS e la CSTI nell’IFSC al fine di beneficiare del favorevole regime fiscale che tale stabilimento comporta non costituisce di per sé un abuso e quindi non preclude alla CS la possibilità di invocare gli artt. 43 CE e 48 CE (v., in tal senso, citate sentenze Centros, punto 18, e Inspire Art, punto 98). 39. Verifichiamo, ora, se gli artt. 43 CE e 48 CE ostino all’applicazione di una normativa come quella sulle SEC. 41. La libertà di stabilimento, che l’art. 43 CE attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i cittadini di questo, comprende, ai sensi dell’art. 48 CE, per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (v., in particolare, sentenze 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, Racc. pag. I-6161, punto 35; Marks & Spencer, cit., punto 30, nonché 23 febbraio 2006, causa C-471/04, Keller Holding, Racc. pag. I-2107, punto 29). 42. Anche se, alla lettera, intendono specificamente assicurare il beneficio del trattamento nazionale nello Stato di stabilimento, le disposizioni del 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Trattato relative alla libertà di stabilimento vietano parimenti che lo Stato d’origine intralci lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione (v., in particolare, sentenze 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. I-4695, punto 21, nonché Marks & Spencer, cit., punto 31). 43. Nel caso di specie, è pacifico che la legislazione sulle SEC comporta una disparità di trattamento fra le società residenti in funzione del livello di tassazione applicato alla società in cui esse detengono una partecipazione tale da assicurargliene il controllo. 49. È giurisprudenza costante in materia che un’eventuale agevolazione fiscale risultante dalla tassazione poco elevata alla quale viene assoggettata una controllata stabilita in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata costituita la società madre non può consentire a quest’ultimo di riservare, in cambio, alla società madre un trattamento fiscale meno favorevole (v., in tal senso, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, Racc. pag. 273, punto 21; v. anche, per analogia, sentenze 26 ottobre 1999, causa C-294/97, Eurowings Luftverkehr, Racc. pag. I-7447, punto 44, nonché 26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. I-6817, punto 52). L’esigenza di impedire la riduzione del gettito tributario non rientra né tra gli obiettivi enunciati all’art. 46, n. 1, CE, né tra le ragioni imperative di interesse generale suscettibili di giustificare una restrizione a una libertà prevista dal Trattato (v., in tal senso, sentenze 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner, Racc. pag. I-8147, punto 56, nonché Skandia e Ramstedt, cit., punto 53). 50. Risulta altresì dalla giurisprudenza che la mera circostanza che una società residente crei uno stabilimento secondario, per esempio una controllata, in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 26 settembre 2000, causa C-478/98, Commissione/Belgio, Racc. pag. I-7587, punto 45; X e Y, cit., punto 62, nonché 4 marzo 2004, causa C- 334/02, Commissione/Francia, Racc. pag. I-2229, punto 27). 51. Per contro, una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro interessato (v., in tal senso, sentenze ICI, cit., punto 26; 12 dicembre 2002, causa C- 324/00, Lankhorst-Hohorst, Racc. pag. I-11779, punto 37; De Lasteyrie du Saillant, cit., punto 50, nonché Marks & Spencer, cit., punto 57). 52. Nel valutare il comportamento del soggetto imponibile si deve tener particolarmente presente l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento (v., in tal senso, citate sentenze Centros, punto 25, e X e Y, punto 42). 53. Trattasi dell’obiettivo di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e favorire così l’interpenetrazione economica e sociale nel territorio della Comunità nel settore delle attività indipendenti (v. sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, Racc. pag. 631, punto 21). La libertà di sta- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 147 bilimento intende, a tal fine, permettere a un cittadino comunitario di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio (sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25). 54. Tenuto conto di questo obiettivo di integrazione nello Stato membro ospite, la nozione di stabilimento di cui alle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro (v. sentenze 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a., Racc. pag. I-3905, punto 20, nonché 4 ottobre 1991, causa C- 246/89, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-4585, punto 21). Essa presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale. 55. Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. 56. Al pari delle pratiche abusive di cui al punto 49 della sentenza Marks & Spencer, cit., che consisterebbero nell’organizzare trasferimenti di perdite, all’interno di un gruppo di società, in direzione delle società stabilite negli Stati membri che applicano le aliquote fiscali maggiori ed in cui, di conseguenza, è maggiore il valore fiscale delle perdite, il tipo di comportamenti descritti al punto precedente è tale da violare il diritto degli Stati membri di esercitare la propria competenza fiscale in relazione alle attività svolte sul loro territorio e da compromettere, così, un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri (v. sentenza Marks & Spencer, cit., punto 46). 57. Ciò considerato, si deve accertare se la restrizione alla libertà di stabilimento derivante dalla legislazione sulle SEC possa essere giustificata da motivi di lotta alle costruzioni di puro artificio e, eventualmente, se sia proporzionata a tale obiettivo. 65. Alla luce di quanto sopra, perché la legislazione sulle SEC sia conforme al diritto comunitario, la tassazione da essa prevista non deve trovare applicazione se, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la costituzione di una SEC corrisponde a una realtà economica. 66. Tale costituzione deve corrispondere a un insediamento reale che abbia per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive nello Stato membro di stabilimento, come risulta dalla giurisprudenza richiamata ai punti 52-54 della presente sentenza. 68. Se la verifica dei detti elementi portasse a constatare che la SEC corrisponde a un’installazione fittizia che non esercita alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento, la creazione di tale SEC dovrebbe essere ritenuta costruzione di puro artificio. Potrebbe essere questo il caso, in particolare, di una società «fantasma» o «schermo» (v. sentenza 2 maggio 2006, causa C-341/04, Eurofood IFSC, Racc. pag. I- 3813, punti 34 e 35). 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 71. Visti gli elementi forniti dalla società residente, le competenti autorità nazionali hanno la possibilità, per ottenere le informazioni necessarie sulla reale situazione della SEC, di ricorrere ai meccanismi di collaborazione e di scambio d’informazioni tra amministrazioni fiscali nazionali istituiti da strumenti giuridici come quelli menzionati dall’Irlanda nelle sue osservazioni scritte, vale a dire la direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (G.U. L. 336, pag. 15), e, con riferimento alla presente controversia, la convenzione 2 giugno 1976 tra Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e Irlanda volta ad evitare la doppia imposizione e a prevenire l’evasione dell’imposta sui redditi e sui capital gains. 72. Nella fattispecie, spetta al giudice del rinvio verificare se, come sostiene il governo del Regno Unito, il «motive test», quale definito dalla legislazione sulle SEC, si presti ad un’interpretazione che permetta di limitare l’applicazione della tassazione prevista da tale legislazione alle costruzioni puramente fittizie o se, al contrario, i criteri sui quali poggia tale test comportino che, quando nessuna delle eccezioni previste da questa stessa legislazione trova applicazione e la volontà di ottenere una diminuzione dell’imposta nel Regno Unito appare tra le ragioni principali della costituzione della SEC, alla società madre residente si applichi la detta legislazione nonostante l’assenza di elementi oggettivi nel senso dell’esistenza di una montatura siffatta. 73. Nella prima ipotesi, la legislazione sulle SEC dovrebbe essere considerata compatibile con gli artt. 43 CE e 48 CE. 74. Nella seconda ipotesi contraria agli artt. 43 CE e 48 CE. 75. Tutto ciò considerato, la questione pregiudiziale dev’essere risolta dichiarando che gli artt. 43 CE e 48 CE vanno interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una SEC stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la SEC è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive. – Imposta di registro Sentenza della Corte, Grande Sezione, 26 ottobre 2006 – Comunità europea contro Belgio – Causa principale e questioni pregiudiziali. L’esecuzione di un contratto concluso nel 1993 tra la Commissione e la MCFE SA è stata oggetto di una controversia dinanzi al Tribunal de première IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 149 instance de Bruxelles (Tribunale di primo grado di Bruxelles). Con sentenza pronunciata dal detto Tribunale il 25 gennaio 1994, esso condannava la Commissione a pagare alla MCFE, a titolo di provvisionale, l’importo di BEF 10 845 935, pari a ECU 269 589, maggiorato degli interessi e delle spese. Con lettera 14 giugno 1994, l’esattore del nono Ufficio del registro di Bruxelles invitava la Commissione a pagare la somma di BEF 325 470 a titolo di imposta di registro, in conformità alla suddetta condanna. Il 2 agosto 1995, l’Administration de l’Enregistrement belge (Amministrazione del Registro belga; in prosieguo: l’«Amministrazione») intimava alla Commissione di pagare entro quindici giorni il suddetto importo, aumentato di un’ammenda per pagamento in ritardo, nonché degli interessi di legge e delle spese. Il 15 gennaio 1996 l’esattore del nono Ufficio del registro di Bruxelles invitava la Commissione a pagare, entro il 25 gennaio 1996, un importo complessivo pari a BEF 363 470 ed emetteva un’ingiunzione di pagamento nei confronti di quest’ultima. Con lettera raccomandata 19 gennaio 1996, la Commissione, nella persona del suo legale, rispondeva all’amministrazione di ritenersi esente dall’imposta di registro, nonché da qualsiasi diritto indiretto, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo. Il 25 gennaio 1996 l’Amministrazione replicava che l’imposta in questione non andava considerata alla stregua di una tassa sull’acquisto di beni di consumo, bensì come rimunerazione di un servizio giudiziario. Con lettera 28 aprile 1997, il legale della Commissione veniva informato che la posizione dell’amministrazione in materia era stata confermata da una decisione ministeriale del 18 aprile 1997. Il 15 luglio 1997 la Commissione ha proposto opposizione avverso l’ingiunzione del 15 gennaio 1996 ed ha citato lo Stato belga dinanzi al Tribunal de première instance de Bruxelles, nell’ambito di un procedimento diretto all’annullamento di tale ingiunzione. Con sentenza 6 giugno 2001, il Tribunal de première instance de Bruxelles ha dichiarato l’opposizione all’ingiunzione ricevibile, ma infondata, ed ha respinto l’istanza della Commissione. Tale giudice ha statuito che l’imposta di registro addebitata alla Commissione non costituisce la mera rimunerazione di servizi di utilità generale ai sensi dell’art. 3, terzo comma, del Protocollo, dato che si tratta di un’imposta destinata a far fronte agli oneri generali dei pubblici poteri. Al contrario, siffatti diritti non rientrerebbero nel prezzo da pagare per i servizi della società per azioni MCFE e troverebbero origine nella decisione giurisdizionale recante condanna della Commissione. Pertanto, l’esenzione richiesta da quest’ultima non dovrebbe essere concessa. Inoltre, il detto giudice ha considerato superfluo sollevare una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dato che, a suo avviso, non esisteva «alcun ragionevole dubbio» in merito all’esclusione di tali diritti dal beneficio dell’art. 3, secondo comma, del Protocollo. Con atto depositato presso la cancelleria della Cour d’appel de Bruxelles il 14 settembre 2001, la Commissione ha impugnato tale sentenza. 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 17. Occorre osservare, in via preliminare, che il giudice del rinvio, presentando le circostanze della controversia sottopostagli, osserva che il Tribunal de première instance de Bruxelles ha considerato l’imposta di registro oggetto della causa principale un’imposta indiretta, il che non è stato contestato dalle parti nei procedimenti nazionali. Il giudice del rinvio stesso ha dichiarato che «la Comunità europea e lo Stato belga non concordano sull’interpretazione da dare all’art. 3, secondo e terzo comma, del Protocollo sui privilegi e sulle immunità della Comunità». Neppure i governi belga ed italiano, né, tanto meno, la Commissione, nelle osservazioni prodotte dinanzi alla Corte, hanno rimesso in discussione tale qualificazione. Pertanto, è in tale contesto che saranno esaminate le questioni sottoposte alla Corte in merito all’interpretazione delle disposizioni dell’art. 3, secondo e terzo comma, del Protocollo. 18. Con tale questione, che occorre esaminare per prima, il giudice del rinvio chiede se un’imposta come l’imposta di registro costituisca la mera rimunerazione di servizi di utilità generale, ai sensi dell’art. 3, terzo comma, del Protocollo, per la quale non è concessa nessuna esenzione. 21. Come la Corte ha già avuto occasione di rilevare, la distinzione fra un’imposta destinata a far fronte agli oneri generali della pubblica amministrazione e una tassa che costituisce la contropartita di un determinato servizio è ammessa espressamente dall’art. 3 del Protocollo. In proposito, la Corte ha precisato che la stessa nozione di contropartita di un determinato servizio presuppone che il servizio sia prestato, o quanto meno possa esserlo, a coloro che pagano la tassa (sentenza 28 marzo 1996, causa C-191/94, AGF Belgium, Racc. pag. I-1859, punti 25 e 26). 22. Anche ammettendo che tale criterio sia l’elemento determinante per stabilire la distinzione menzionata al punto precedente, occorre constatare che è poco probabile che il detto criterio sia soddisfatto nel caso di specie, dato che l’imposta oggetto della causa principale può essere posta a carico di persone che non hanno affatto richiesto di usufruire dei servizi dell’istituzione giudiziaria dello Stato membro interessato o che neppure hanno avuto l’intenzione di farlo. Come osservato dal governo belga, anche se, ai sensi della normativa in esame nella causa principale, il pagamento dell’imposta di registro può essere reclamato sia al convenuto sia al ricorrente, in pratica il detto pagamento, in linea di principio, è sempre reclamato per prima alla parte soccombente. 23. Inoltre, il criterio della contropartita di un servizio reso non è l’unico criterio decisivo in questa fattispecie. 24. Infatti, in conformità ad una costante giurisprudenza della Corte, sviluppata in un settore del diritto comunitario in cui esiste una nozione analoga a quella in causa in questa fattispecie, ossia la nozione di «diritti di carattere remunerativo», di cui all’art. 12, n. 1, lett. e), della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali (G.U. L. 249, pag. 25), un diritto il cui importo aumenta direttamente e senza limiti in proporzione all’importo nominale sul quale è applicato non può, di per sé, costituire un’imposta a carattere remunerativo IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 151 di un servizio reso. L’importo di tale imposta sarà generalmente privo di correlazione con le spese concretamente affrontate dall’amministrazione a fronte della realizzazione dell’atto in esame (v., in questo senso, in particolare, sentenze 21 settembre 2000, causa C-19/99, Modelo, Racc. pag. I-7213, punto 33, e 21 giugno 2001, causa C-206/99, SONAE, Racc. pag. I-4679, punto 34). 25. Da tale giurisprudenza risulta che la qualificazione di un’imposta come rimunerazione di un servizio di utilità generale è subordinata all’esistenza di un nesso diretto e proporzionale tra il costo reale di tale servizio e l’imposta assolta da chi ne ha beneficiato, ossia una correlazione tra il prezzo pagato da quest’ultimo come contropartita di un particolare servizio ed il costo concreto che la prestazione di tale servizio ha causato all’amministrazione. 26. Tale criterio del nesso diretto e proporzionale tra il servizio reso e la rimunerazione pagata, che può essere applicato all’art. 3, terzo comma, del Protocollo, in questa fattispecie non è soddisfatto. 27. È infatti pacifico che, da una parte, l’importo dell’imposta di registro in esame nella causa principale aumenta direttamente e senza limiti in proporzione all’importo della somma da pagare a titolo della condanna pronunciata dal giudice nazionale competente, senza che sia considerato il costo reale del servizio reso dall’istituzione giudiziaria. Manca quindi la necessaria correlazione tra gli importi pagati ed il servizio reso. Inoltre, il fatto che l’imposta di registro sia prelevata solo in caso di condanna, mentre il costo reale del servizio reso dall’istituzione giudiziaria dovrebbe essere lo stesso in caso di rigetto, conferma che la detta imposta non è destinata a coprire il costo reale del servizio. 28. D’altra parte, come dichiarato dal Tribunal de première instance de Bruxelles, l’imposta in esame è destinata a far fronte agli oneri generali dei pubblici poteri. Pertanto, gli importi pagati per assolvere tale imposta non sono concretamente destinati a finanziare il servizio pubblico della giustizia. 29. Di conseguenza, occorre risolvere la seconda questione nel senso che un’imposta come l’imposta di registro non costituisce una mera rimunerazione di servizi di utilità generale ai sensi dell’art. 3, terzo comma, del Protocollo. 30. (...) il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 3, secondo comma, del Protocollo debba essere interpretato nel senso che un’imposta come l’imposta di registro rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione. 31. Per risolvere tale questione è necessario rilevare che, a differenza dell’art. 3, primo comma, del Protocollo, che dispone l’esenzione incondizionata e generale delle Comunità, nonché dei loro averi, delle loro entrate e dei loro beni, da qualsiasi imposta indiretta a livello nazionale, l’immunità fiscale prevista dal secondo comma dello stesso articolo non è illimitata. Quest’ultima disposizione prevede, a determinate condizioni da essa chiaramente elencate, l’abbuono o il rimborso dell’importo dei diritti indiretti e delle tasse sulla vendita gravanti sui beni che le Comunità acquistano per 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO loro uso ufficiale. La Corte ha interpretato l’art. 3, secondo comma, del Protocollo nel senso che nel suo ambito di applicazione rientra ogni forma di acquisto, compresa la fruizione di prestazioni di servizi, che sia necessario per l’assolvimento del compito delle Comunità (vedi sentenza AGF Belgium, cit., punto 36). 32. La più significativa delle condizioni elencate dall’art. 3, secondo comma, del Protocollo, evidenziata due volte in tale disposizione, è quella secondo cui i diritti e le tasse indiretti devono essere inclusi nel prezzo dei beni e dei servizi oggetto dei contratti stipulati dalle Comunità. 36. Occorre infatti rilevare, in primo luogo, che la natura e l’impatto di imposte nazionali come l’imposta di registro di cui alla causa principale non devono essere ricercati e individuati solo in funzione dell’applicazione di tali imposte alla Comunità, bensì tenendo conto del loro ambito di applicazione complessivo, ossia nei confronti di tutte le persone fisiche e giuridiche che, effettivamente o potenzialmente, sono o possono divenire parti di una procedimento dinanzi alle corti o ai tribunali dello Stato membro interessato. I procedimenti giudiziari che coinvolgono la Comunità dinanzi ai giudici nazionali, infatti, costituiscono solamente una parte minima della totalità dei procedimenti che danno origine all’assolvimento di siffatte imposte. 37. Dal fascicolo risulta che tali imposte sono dovute nell’ipotesi in cui un rapporto giuridico tra persone fisiche o giuridiche dia luogo ad un’azione in giudizio da cui scaturisca una decisione giurisdizionale che comporta la condanna al pagamento di una somma di denaro. Pertanto, sono compresi non solo i rapporti contrattuali, ma anche i rapporti extracontrattuali di qualsiasi natura, nell’ambito dei quali non si può includere la somma di denaro relativa alla condanna nel prezzo d’acquisto di un bene o di un servizio. 38. In secondo luogo, occorre osservare che le imposte indirette possono essere considerate comprese nel prezzo degli acquisti effettuati dalle Comunità, ai sensi dell’art. 3, secondo comma, del Protocollo, solo se sono prevedibili e il loro importo può essere calcolato anticipatamente con una certa precisione, affinché le autorità nazionali possano procedere al loro abbuono o rimborso su istanza delle istituzioni comunitarie. 39. Ebbene, l’esecuzione di un contratto non dà sistematicamente origine a controversie tra le parti e, in ogni caso, la probabilità che una controversia sorga non può essere valutata nella fase della stipulazione del contratto. Peraltro, l’oggetto e la portata di tali eventuali controversie rimangono incerti ed esse non necessariamente saranno risolte in sede giurisdizionale, dato che la via stragiudiziale costituisce un’altra possibile modalità di soluzione. Infine, l’esito di un’eventuale azione in giudizio è altrettanto incerto, come l’importo della condanna inflitta ad una delle parti. Di conseguenza, il prezzo del contratto non può includere, quali imposte indirette rimborsabili, un elemento futuro incerto ed impreciso come l’imposta di registro oggetto della causa principale. 42. Per quanto riguarda, in terzo luogo, l’argomento vertente sull’interpretazione dell’art. 3, secondo comma, del Protocollo alla luce della finalità di tale articolo, occorre ricordare che l’immunità fiscale necessaria all’assol- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 153 vimento dei compiti della Comunità, di cui quest’ultima gode in forza dell’art. 291 CE, è concessa «alle condizioni definite dal Protocollo». Un’interpretazione alla luce del contesto e della finalità di una disposizione non può avere il risultato di privare di qualsiasi effetto utile la formulazione chiara e precisa di tale disposizione (v., in questo senso, per quanto riguarda i privilegi e le immunità della Banca centrale europea, sentenza 8 dicembre 2005, causa C-220/03, BCE/Germania, Racc. pag. I-10595, punto 31). 43. In ogni caso, anche ammettendo che l’esenzione dall’imposta di registro oggetto della causa principale costituisca un vantaggio finanziario a favore della Comunità, occorre constatare che la Commissione non ha fornito alcun elemento decisivo atto a dimostrare che il pagamento di tali imposte sia idoneo a minare l’indipendenza della Comunità e ad ostacolare il suo buon funzionamento. LAVORO Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica italiana. Con il ricorso in esame, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo preso in considerazione l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite in un altro Stato membro da un lavoratore comunitario dipendente nel settore del pubblico impiego italiano, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 10 CE, 39 CE e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (G.U. L 257, pag. 2; in prosieguo: il «regolamento »). 16. In proposito risulta da una giurisprudenza costante che, in forza dell’art. 39 CE, qualora, assumendo personale per posti che non rientrano nella sfera d’applicazione del n. 4 di tale disposizione, un ente pubblico di uno Stato membro stabilisca di prendere in considerazione le attività lavorative svolte in precedenza dai candidati presso una pubblica amministrazione, tale ente non può, nei confronti di cittadini comunitari, operare alcuna distinzione a seconda che tali attività siano state esercitate nello Stato membro cui appartiene il detto ente o in un altro Stato membro (v., in particolare, sentenze 23 febbraio 1994, causa C-419/92, Scholz, Racc. pag. I-505, punto 12; 12 maggio 2005, Commissione/Italia, cit., punto 14, e 23 febbraio 2006, causa C-205/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto 14). 17. Per quanto riguarda l’art. 7 del regolamento, occorre ricordare che tale articolo costituisce solamente una particolare espressione del principio di non discriminazione – sancito dall’art. 39, n. 2, CE – nel campo specifico delle condizioni di impiego e di lavoro e che, pertanto, esso deve essere 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO interpretato allo stesso modo di quest’ultimo articolo (sentenza Commissione/ Spagna, cit., punto 15). 18. Dall’insieme di tale giurisprudenza si evince che il rifiuto di riconoscere l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite nell’esercizio di un’attività analoga presso un’amministrazione pubblica di un altro Stato membro da cittadini comunitari successivamente impiegati nel settore pubblico italiano, con la motivazione che i detti cittadini non avrebbero superato alcun concorso prima di esercitare la loro attività nel settore pubblico di tale altro Stato, non può essere ammesso dato che, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 28 delle sue conclusioni, non tutti gli Stati membri assumono i dipendenti del loro settore pubblico in questo solo modo. La discriminazione può essere evitata solo tenendo conto dei periodi di attività analoga svolta nel settore pubblico di un altro Stato membro da una persona assunta conformemente alle condizioni locali. Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento C-53/04 – C.M., G.S. e Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate. I ricorrenti nella causa principale sono stati impiegati, con la qualifica di «operatore tecnico cuoco», presso l’azienda ospedaliera in virtù di una serie di contratti a tempo determinato, gli ultimi dei quali conclusi nel corso del gennaio 2002 per una durata di sei mesi. Tali assunzioni sono state effettuate sulla base di una graduatoria redatta in esito ad una selezione pubblica, indetta nel 1998 dall’azienda ospedaliera per l’assunzione di personale a tempo determinato con la qualifica di «operatore tecnico cuoco», selezione alla quale i ricorrenti nella causa principale avevano partecipato con successo. Gli ultimi contratti a durata determinata, giunti a scadenza nel corso del luglio 2002, non sono stati rinnovati dall’azienda ospedaliera, la quale ha proceduto al licenziamento formale dei ricorrenti nella causa principale, quando questi si sono presentati al loro posto di lavoro alla scadenza dei rispettivi contratti. I lavoratori hanno impugnato l’atto di licenziamento, chiedendo, da un lato, di dichiarare, in applicazione del D.Lgs. n. 368/2001, la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera, decorrente dalla data d’inizio dei primi rapporti di lavoro in corso al momento dell’entrata in vigore di tale decreto legislativo, e, dall’altro, di condannare tale azienda al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento del danno subito. Nella fattispecie, il giudice del rinvio constata, per ciascuno dei casi controversi dinanzi ad esso, che sono trascorsi otto giorni tra la data di scadenza del penultimo contratto concluso con l’azienda ospedaliera e quella di inizio dell’ultimo contratto. Orbene, l’art. 5, terzo comma, del D.Lgs. n. 368/2001 prevede che, qualora un lavoratore venga riassunto a termine «entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 155 durata fino a sei mesi», il secondo contratto si considera automaticamente concluso a tempo indeterminato. L’azienda ospedaliera sostiene che l’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 non è applicabile al caso di specie, poiché l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 vieta alle amministrazioni pubbliche di concludere contratti di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’accordo quadro debba essere interpretato nel senso che esso osti ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso risultante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi ultimi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre una tale trasformazione è prevista per quanto riguarda i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato. 51. (...) quando, come nel caso di specie, il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (sentenza Adeneler e a., cit., punto 94). 52. Anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonché Adeneler e a., cit., punto 95). 53. Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva» (sentenza Adeneler e a., cit., punto 102). 54. Non spetta alla Corte pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, compito che incombe esclusivamente al giudice del rinvio, il quale deve, nella fattispecie, determinare se i requisiti ricordati ai tre punti precedenti siano soddisfatti dalla normativa nazionale pertinente. Tuttavia la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazio- 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ne (v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., Racc. pag. I-1609, punti 76 e 77). Atal riguardo occorre rilevare che una normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale, che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato, nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, sembra prima facie soddisfare i requisiti ricordati ai punti 51-53 della presente sentenza. 56. Tuttavia, spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, secondo comma, prima frase, del D.Lgs. n. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. 57. (...), si deve risolvere la questione sollevata dichiarando che l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico. Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento C-180/04 – A.V. contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 1, lett. b), e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), che figura in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (G.U. L 175, pag. 43). La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. A.V. e il suo datore di lavoro, l’Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate (in prosieguo: l’«azienda ospedaliera»), in ordine al mancato rinnovo del contratto di lavoro che lo vincolava a tale datore di lavoro. Il lavoratore è stato assunto in qualità di cuoco dall’azienda ospedaliera in forza di due successivi contratti a tempo determinato, il primo per il IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 157 periodo 5 luglio 200 -4 gennaio 2002 e il secondo, firmato il 2 gennaio 2002, che prolungava tale periodo sino all’11 luglio 2002. Il secondo contratto del ricorrente nella causa principale non è stato rinnovato alla sua scadenza dall’azienda ospedaliera e quest’ultima ha proceduto al formale licenziamento dell’interessato al momento in cui egli si è presentato sul posto di lavoro al termine del detto contratto. Il lavoratore ha impugnato la decisione di licenziamento dinanzi al Tribunale di Genova, chiedendo a quest’ultimo, da una parte, di dichiarare, sulla base del D.Lgs. n. 368/2001, la sussistenza di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera e, dall’altra, di condannare l’azienda stessa al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento del danno subito. L’azienda ospedaliera fa valere che l’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 è inapplicabile nel caso di specie, in quanto l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 vieta alle pubbliche amministrazioni di stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice del rinvio ritiene che il D.Lgs. n. 368/2001 non abbia abrogato l’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale avrebbe il carattere di una lex specialis risultante dai principi costituzionali in materia di funzionamento e di organizzazione dei pubblici servizi. Esso si basa, a questo proposito, sulla sentenza 13 marzo 2003, n. 89, della Corte costituzionale, da cui risulterebbe che l’art. 36, n. 2, prima frase, del D.Lgs. n. 165/2001 è conforme ai principi costituzionali di uguaglianza e di buon andamento dell’amministrazione sanciti rispettivamente agli artt. 3 e 97 della Costituzione italiana. La Corte costituzionale ha considerato che il principio fondamentale in forza del quale l’accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione avviene mediante concorso, in applicazione dell’art. 97, terzo comma, della detta Costituzione, rende legittima la disparità di trattamento esistente tra i lavoratori del settore privato e quelli della pubblica amministrazione in caso di accertamento di un’illegalità nella conclusione di contratti successivi a tempo determinato. Tuttavia, secondo il giudice del rinvio, è escluso che il legislatore italiano abbia inteso, mediante il D.Lgs. n. 165/2001, attuare la direttiva 1999/70. Esso si chiede se il sistema istituito dall’art. 36 del detto decreto legislativo comprenda «norme equivalenti per la prevenzione degli abusi» ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro. Inoltre, se si doveva riconoscere che la Repubblica italiana non ha effettuato una trasposizione completa di tale direttiva, dato che essa l’avrebbe trasposta unicamente per quanto riguarda i rapporti di lavoro nel settore privato, il giudice nazionale si chiede se la detta direttiva attribuisca ai singoli un diritto specifico alla conversione del loro rapporto di lavoro ovvero se, alla luce delle specificità dell’organizzazione del lavoro nel settore pubblico e, pertanto, dell’impossibilità di applicare a quest’ultimo le disposizioni del D.Lgs. n. 368/2001, un tale inadempimento possa determinare solo diritti a un indennizzo nei confronti dello Stato membro inadempiente, conformemente alla giurisprudenza instaurata dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357). 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 42. (...) l’accordo quadro dev’essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi ultimi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per quanto riguarda i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico. LIBERE PROFESSIONI – Regimi nazionali relativi alla tariffa degli onorari di avvocato Sentenza della Corte, Grande Sezione, 5 dicembre 2006, nei procedimenti riuniti C-94/04 e C-202/04 – F.C. contro R.P. in F., e S.M., C.C. contro R.M. Le domande di pronuncia pregiudiziale riguardano l’interpretazione degli artt. 10 CE, 49 CE, 81 CE e 82 CE. Tali domande sono state proposte nell’ambito di controversie tra due avvocati e i relativi clienti per il pagamento degli onorari. Dal provvedimento del giudice del rinvio risulta che, nell’ambito della controversia ad esso sottoposta, si pone il problema di determinare se, qualora sia dimostrata l’esistenza di un accordo tra le parti relativamente alla remunerazione forfettaria dell’avvocato, tale presunto accordo, concluso per la somma complessiva di ITL 1 850 000, possa essere, nonostante la normativa italiana, ritenuto valido, in quanto una sua sostituzione d’ufficio con un compenso per l’avvocato calcolato sulla base della tariffa non sarebbe conforme alle norme comunitarie in materia di concorrenza. Il giudice del rinvio osserva inoltre che, nel caso in cui un professionista non residente in Italia fornisse una prestazione di servizi legali ad un destinatario residente in tale Stato membro sulla base di un contratto soggetto alla legge italiana, la prestazione di servizi legali sarebbe soggetta al divieto assoluto di derogare ai compensi determinati dalla tariffa. Pertanto, in tal caso, dovrebbe essere applicato l’importo minimo obbligatorio. Tale divieto avrebbe dunque l’effetto di ostacolare l’accesso di altri avvocati al mercato dei servizi italiano. 31. Si deve dunque verificare se le disposizioni del Trattato in materia di libera prestazione dei servizi, la cui interpretazione è richiesta dal summenzionato giudice, ostino all’applicazione di una normativa nazionale come quella in esame nella causa principale, nella misura in cui essa sia IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 159 applicabile a soggetti residenti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana. 44. (...) i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se gli artt. 10 CE, 81 CE e 82 CE ostino all’adozione, da parte di uno Stato membro, di un provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da un ordine professionale forense come il CNF, una tariffa che fissi un limite minimo per gli onorari degli avvocati e a cui, in linea di principio, non sia possibile derogare né per le prestazioni riservate agli avvocati, né per quelle, come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che possono essere svolte anche da altri operatori economici non vincolati da tale tariffa. 45. Si deve preliminarmente osservare che, interessando l’intero territorio di uno Stato membro, tale tariffa è in grado di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri ai sensi degli artt. 81, n. 1, CE e 82 CE (v., in tal senso, sentenze 17 ottobre 1972, causa 8/72, Vereniging van Cementhandelaren/ Commissione, Racc. pag. 977, punto 29; 10 dicembre 1991, causa C-179/90, Merci convenzionali porto di Genova, Racc. pag. I-5889, punti 14 e 15, e 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino, Racc. pag. I-1529, punto 33). 46. Secondo costante giurisprudenza, sebbene di per sé gli artt. 81 CE e 82 CE riguardino esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, è pur vero che tali articoli, in combinato disposto con l’art. 10 CE, che instaura un dovere di collaborazione, obbligano gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei ad eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese (v., in particolare, ordinanza 17 febbraio 2005, causa C-250/03, Mauri, Racc. pag. I-1267, punto 29, e giurisprudenza ivi citata). 47. La Corte ha in particolare dichiarato che si è in presenza di una violazione degli artt. 10 CE e 81 CE qualora uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 81 CE, o rafforzi gli effetti di tali accordi, o revochi alla propria normativa il suo carattere pubblico delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica (ordinanza Mauri, cit., punto 30, e giurisprudenza ivi citata). 48. A tale proposito, la circostanza che uno Stato membro affidi ad un’organizzazione professionale composta di avvocati, come il CNF, l’elaborazione di un progetto di tariffa per gli onorari non appare, nelle circostanze della causa principale, tale da poter affermare che tale Stato abbia revocato alla tariffa infine adottata il suo carattere statale, delegando ad avvocati la responsabilità di assumere decisioni in materia. 53. Per le ragioni indicate ai punti 50 e 51 della presente sentenza, non può essere nemmeno contestato allo Stato in questione di imporre o di favorire la conclusione, da parte del CNF, di intese in contrasto con l’art. 81 CE, o di rinforzarne gli effetti, né di imporre o di favorire abusi di posizione dominante in contrasto con l’art. 82 CE o di rafforzarne gli effetti (v., in tal senso, sentenza Arduino, cit., punto 43, e ordinanza Mauri, cit., punto 37). 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 54. (…) gli artt. 10 CE, 81 CE e 82 CE non ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro, di un provvedimento normativo che approvi, sulla base di un progetto elaborato da un ordine professionale forense quale il CNF, una tariffa che fissi un limite minimo per gli onorari degli avvocati e a cui, in linea di principio, non sia possibile derogare né per le prestazioni riservate agli avvocati né per quelle, come le prestazioni di servizi stragiudiziali, che possono essere svolte anche da qualsiasi altro operatore economico non vincolato da tale tariffa. 55. (...) la Corte d’appello di Torino chiede in sostanza se l’art. 49 CE osti ad una disciplina che vieta in maniera assoluta di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa, come quella di cui trattasi nella causa principale, per prestazioni che sono al tempo stesso di natura giudiziale e riservate agli avvocati. 56. Si deve ricordare che l’art. 49 CE impone non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora tale restrizione si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli di altri Stati membri, quando sia tale da vietare o rendere più difficili le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi (v., in particolare, sentenze 29 novembre 2001, causa C-17/00, De Coster, Racc. pag. I-9445, punto 29, nonché 8 settembre 2005, cause riunite C-544/03 e C-545/03, Mobistar e Belgacom Mobile, Racc. pag. I-7723, punto 29). 57. Inoltre, la Corte ha già affermato che l’art. 49 CE osta all’applicazione di qualsiasi normativa nazionale che abbia l’effetto di rendere la prestazione di servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi puramente interna ad uno Stato membro (v. citate sentenze De Coster, punto 30, e giurisprudenza ivi citata, nonché Mobistar e Belgacom Mobile, punto 30). 58. Ora, il divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari, come previsto dalla legislazione italiana, può rendere più difficile l’accesso degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana al mercato italiano dei servizi legali, ed è in grado quindi di ostacolare l’esercizio delle loro attività di prestazione di servizi in quest’ultimo Stato membro. Tale divieto si rivela pertanto una restrizione ai sensi dell’art. 49 CE. 59. Il detto divieto, infatti, priva gli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana della possibilità di fornire, chiedendo onorari inferiori a quelli tariffari, una concorrenza più efficace nei confronti degli avvocati stabiliti permanentemente nello Stato membro in questione, i quali dispongono, per tale ragione, di una maggiore facilità di crearsi una clientela rispetto agli avvocati stabiliti all’estero (v., per analogia, sentenza 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 13). 60. Allo stesso modo, il divieto citato limita la scelta dei destinatari di servizi in Italia, poiché questi ultimi non possono ricorrere ai servizi di avvo- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 161 cati stabiliti in altri Stati membri che potrebbero offrire in Italia le loro prestazioni ad un prezzo inferiore ai minimi tariffari. 61. Tuttavia, un simile divieto può essere giustificato qualora risponda a ragioni imperative di interesse pubblico, purché sia idoneo a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo (v., in particolare, sentenze 5 giugno 1997, causa C-398/95, SETTG, Racc. pag. I-3091, punto 21, e Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, cit., punto 37). 64. A tal riguardo si deve osservare che la tutela, da un lato, dei consumatori, in particolare dei destinatari dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia, e, dall’altro, della buona amministrazione della giustizia sono obiettivi che rientrano tra quelli che possono essere ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi (v., in tal senso, sentenze 12 dicembre 1996, causa C-3/95, Reisebüro Broede, Racc. pag. I-6511, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag. I-6067, punto 33), alla duplice condizione che il provvedimento nazionale di cui si discute nella causa principale sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vada oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo medesimo. 65. Spetta al giudice del rinvio determinare se, nella causa principale, la restrizione della libera prestazione dei servizi creata dalla normativa nazionale rispetti tali condizioni. A tal fine, detto giudice dovrà tenere conto degli elementi indicati nei punti seguenti. 66. Egli dovrà pertanto verificare, in particolare, se vi sia una relazione tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati e se, in particolare, la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, vale a dire la tutela dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia. 68. Dovrà anche essere tenuto conto delle peculiarità sia del mercato in questione, le quali sono state ricordate al punto precedente, che dei servizi in esame e, in particolare, del fatto che, in materia di prestazioni di avvocati, vi è in genere un’asimmetria informativa tra i «clienti-consumatori» e gli avvocati. Infatti, gli avvocati dispongono di un elevato livello di competenze tecniche che i consumatori non necessariamente possiedono, cosicché questi ultimi incontrano difficoltà per valutare la qualità dei servizi loro forniti [v., in particolare, la Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali, contenuta nella comunicazione della Commissione 9 febbraio 2004, COM(2004) 83 def., pag. 10]. 69. Il giudice del rinvio dovrà tuttavia verificare se alcune norme professionali relative agli avvocati, in particolare norme di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità siano di per sé sufficienti per raggiungere gli obiettivi della tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO LIBERTÀ FONDAMENTALI – Libera prestazione dei servizi Sentenza della Corte, Grande Sezione, 3 ottobre 2006, nel procedimento C-452/04 – Fidium Finanz AG contro Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht. La questione è sorta nell’ambito di un ricorso presentato dalla Fidium Finanz AG , società avente sede in Svizzera, avverso una decisione della Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (Ufficio federale di controllo dei servizi finanziari) con cui tale autorità le ha vietato di concedere, a titolo professionale, crediti a clienti residenti in Germania perché non disponeva dell’autorizzazione richiesta dalla legislazione tedesca. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 49 CE, 56 CE e 58 CE. 1. Risulta dalla formulazione degli artt. 49 CE e 56 CE, nonché dalla loro collocazione in due diversi capi del titolo III del Trattato, che, pur essendo strettamente collegate, tali disposizioni sono destinate a disciplinare situazioni diverse e che hanno ciascuna un ambito di applicazione diverso. È vero che non può escludersi che, in taluni casi specifici, in cui una disposizione nazionale si riferisce contemporaneamente alla libera prestazione dei servizi e alla libera circolazione dei capitali, essa sia idonea ad ostacolare simultaneamente l’esercizio di queste due libertà. A tale proposito, non può essere sostenuto che, in tali condizioni, le disposizioni relative alla libera prestazione dei servizi si applicano in subordine rispetto a quelle che disciplinano la libera circolazione dei capitali. Quando un provvedimento nazionale si riferisce contemporaneamente alla libera prestazione dei servizi e alla libera circolazione dei capitali, occorre esaminare in quale misura il detto provvedimento pregiudichi l’esercizio di tali libertà fondamentali e se, nelle circostanze della causa principale, una di esse prevalga sull’altra. L’esame del provvedimento di cui trattasi va effettuato, in linea di principio, con riferimento ad una sola delle due libertà fondamentali qualora risulti che, nel caso di specie, una delle due è affatto secondaria rispetto all’altra e può esserle ricollegata. 2. Un regime nazionale in forza del quale uno Stato membro assoggetta ad autorizzazione preliminare l’esercizio dell’attività di concessione di crediti a titolo professionale, sul suo territorio, da parte di una società con sede in uno Stato terzo, e in forza del quale una tale autorizzazione dev’essere negata, in particolare, quando la detta società non ha la sua direzione generale o una succursale su tale territorio, avendo l’effetto di ostacolare l’accesso al mercato finanziario di uno Stato membro delle società aventi sede in Stati terzi, pregiudica in modo preponderante l’esercizio della libera prestazione dei servizi ai sensi degli artt. 49 e seguenti. Poiché gli effetti restrittivi di un siffatto regime sulla libera circolazione dei capitali sono soltanto una conseguenza ineluttabile della restrizione IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 163 imposta nei riguardi delle prestazioni di servizi, non occorre esaminare la compatibilità di tale regime con gli artt. 56 CE e seguenti. Una società con sede in uno Stato terzo non è legittimata a valersi degli artt. 49 CE e seguenti. Infatti, contrariamente al capo del Trattato relativo alla libera circolazione dei capitali, quello riguardante la libera prestazione dei servizi non comporta alcuna disposizione che estenda il beneficio delle sue disposizioni ai prestatori di servizi cittadini di uno Stato terzo e residenti al di fuori dell’Unione europea, poiché l’obiettivo di quest’ultimo capo è di garantire la libera prestazione dei servizi a favore dei cittadini di Stati membri. – Libera circolazione delle persone Sentenza della Corte, sezione prima, 27 aprile 2006, nel procedimento C-441/02 – Commissione delle Comunità europee, sostenuta da: Repubblica italiana contro Repubblica federale di Germania. A seguito dell’esame di diverse decine di petizioni e denunce inoltrate al Parlamento europeo e alla Commissione da parte di cittadini italiani residenti nel Land del Baden-Württemberg riguardo a provvedimenti adottati nei loro confronti dalle autorità tedesche per motivi di ordine pubblico e aventi effetto sul loro diritto di soggiorno in Germania, la Commissione, per mezzo di una lettera di diffida dell’8 luglio 1998, ha richiamato l’attenzione della Repubblica federale di Germania sulla compatibilità di certe disposizioni legali e prassi amministrative con le disposizioni del diritto comunitario relative al diritto di soggiorno negli Stati membri. Nella sua risposta del 26 settembre 2000, il governo tedesco ha negato l’esistenza di una prassi amministrativa contraria al diritto comunitario dichiarandosi pronto a verificare l’eventuale necessità di apportare certe chiarificazioni in alcuni settori specifici della normativa nazionale. La Commissione, non essendo stata informata che tali chiarificazioni fossero state apportate e ritenendo, altresì, che le verifiche annunciate per determinare la necessità di procedere a tali chiarificazioni sarebbero state sicuramente insufficienti a porre rimedio agli addebiti da essa formulati, ha deciso di proporre il presente ricorso. 1. Nell’ambito di un procedimento per inadempimento, la Commissione ha l’obbligo di dimostrare l’esistenza dell’inadempimento contestato e fornire alla Corte gli elementi necessari alla verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di tale inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione. Per quanto riguarda, in particolare, una censura avente ad oggetto l’attuazione di una disposizione nazionale, la dimostrazione di un inadempimento di Stato richiede la produzione di elementi di prova di natura specifica rispetto a quelli abitualmente presi in considerazione nell’ambito di un 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ricorso per inadempimento avente unicamente ad oggetto il contenuto di una disposizione nazionale. Pertanto, l’inadempimento può essere dimostrato soltanto mediante una dimostrazione sufficientemente documentata e circostanziata della prassi rimproverata alle autorità amministrative e/o giudiziarie nazionali e attribuibile allo Stato membro di cui trattasi. Inoltre, se un comportamento di uno Stato consistente in una prassi amministrativa in contrasto con gli obblighi del diritto comunitario può essere idoneo a costituire un inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, occorre che tale prassi amministrativa presenti un certo grado di costanza e di generalità. 2. Il ricorso da parte di un’autorità nazionale alla nozione di ordine pubblico, in quanto deroga al principio fondamentale della libera circolazione delle persone, presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione dell’ordine sociale insita in qualsiasi infrazione della legge, l’esistenza di una minaccia effettiva ed abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività. Viene meno al riguardo agli obblighi ad esso incombenti in forza degli artt. 39 CE, 3 della direttiva 64/221, per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d’ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, e 10 della direttiva 73/148, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi, uno Stato membro che stabilisca che, nel caso in cui si tratti di cittadini comunitari aventi una carta di soggiorno a tempo indeterminato, solo «gravi» motivi di ordine pubblico possano giustificare un’espulsione. Una siffatta normativa nazionale suscita infatti un dubbio in merito alla corretta considerazione delle prescrizioni del diritto comunitario riguardo ai cittadini comunitari aventi una carta di soggiorno a tempo determinato. Sentenza della Corte, sezione prima, 19 gennaio 2006, nel procedimento C-330/03 – Colegio de Ingenieros de Caminos, Canales y Puertos Contro Administración del Estrado, con l’intervento di G.M.I. Il sig. G.M.I. è in possesso di un diploma di laurea in ingegneria civile idraulica conseguito in Italia, il quale consente, in tale Stato, di esercitare la professione di ingegnere civile in ambito idraulico. Il 27 giugno 1996 egli ha chiesto al Ministero spagnolo per la Promozione dello Sviluppo il riconoscimento del suo diploma al fine di poter accedere, in Spagna, alla professione di ingegnere civile. Il citato Ministero ha riconosciuto il diploma del sig. G.M.I. e lo ha autorizzato ad accedere alla professione di ingegnere civile in Spagna senza alcuna condizione preliminare. Il Colegio ha impugnato tale provvedimento dinanzi all’Audiencia Nacional (Tribunale spagnolo con competenze speciali e giurisdizione su IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 165 tutto il territorio nazionale). Nel corso del procedimento, esso ha insistito sulla differenza fondamentale tra la professione di ingegnere civile in Spagna e quella di ingegnere civile in ambito idraulico in Italia, sia sul piano dei contenuti della formazione che su quello delle attività abbracciate da ciascuna di tali professioni. Con decisione 1° aprile 1998, l’Audiencia Nacional ha respinto il ricorso, in particolare poiché il diploma di ingegneria civile ad indirizzo idraulico consentirebbe, in Italia, di accedere alla medesima professione svolta da un ingegnere civile in Spagna. D’altra parte, tale giudice ha osservato che la formazione ricevuta dal titolare del citato diploma in ingegneria comprendeva le materie fondamentali richieste in Spagna per il settore dell’ingegneria di cui si discute. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 3, primo comma, lett. a), e 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni (G.U. 1989, L 19, pag. 16; in prosieguo: la «direttiva»), oltre che degli artt. 39 CE e 43 CE. 1. La direttiva 89/48, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni, non osta al fatto che, quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richieda l’autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, le autorità di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, se il titolare del diploma lo chiede, limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività alle quali il diploma in questione dà accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito. 2. Gli artt. 39 CE e 43 CE non ostano a che, quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richiede l’autorizzazione preliminare per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, questo Stato membro non consenta l’accesso parziale alla detta professione, limitato all’esercizio di una o più attività comprese da quest’ultima, qualora le lacune nella formazione in possesso dell’interessato rispetto a quella necessaria nello Stato membro ospitante possano essere effettivamente colmate con misure di compensazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 89/48, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni. Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che il detto Stato membro non accordi tale accesso parziale quando l’interessato lo richieda e quando le differenze tra gli ambiti di attività siano così rilevanti che sarebbe in realtà necessario seguire una formazione completa, a meno che il detto diniego di accesso parziale non sia giustificato da ragioni imperative di pubblico interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione dell’obiettivo che perseguono e non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Sentenza della Corte, sezione seconda, 7 settembre 2006, nel procedimento C-470/04 – N. contro Inspecteur van de Belastingdienst Oost/kantoor Almelo. La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 18 CE e 43 CE. Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra N e l’Inspecteur van de Belastingdienst Oost/kantoor Almelo (in prosieguo: l’«inspecteur») relativamente ad un provvedimento di quest’ultimo che ha dichiarato inammissibile il reclamo di N contro la cartella esattoriale per l’imposta sul reddito e i contributi previdenziali per l’anno 1997. Ai sensi dell’art. 3 della legge sull’imposta sul reddito (Wet op de inkomstenbelasting) del 1964 (in prosieguo: la «WIB»), l’imposta di un contribuente nazionale è calcolata sul reddito imponibile, che comprende, in particolare, ai sensi dell’art. 4 di tale legge, i redditi da partecipazioni rilevanti. Ai sensi dell’art. 20a, n. 1, lett. b), della WIB, l’importo totale ricavato dalla cessione di azioni che fanno parte di una partecipazione costituisce un reddito da partecipazione rilevante. Ai sensi del n. 3 di tale articolo, si ha una partecipazione rilevante quando il contribuente detiene, direttamente o indirettamente, il 5% del capitale di una società. Con la terza e la quinta questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 43 CE debba essere interpretato nel senso che esso non consente ad uno Stato membro di istituire un regime di tassazione delle plusvalenze in caso di trasferimento del domicilio fiscale di un contribuente al di fuori di tale Stato membro, come nella vicenda di cui alla causa principale. 21. Con le sue due prime questioni, che vanno esaminate insieme, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, quali disposizioni del Trattato CE siano applicabili a una vicenda come quella di cui alla causa principale. Più specificamente, il giudice a quo desidera ottenere un chiarimento sui rapporti esistenti tra le libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e la libertà di stabilimento. 22. A tale proposito, occorre ricordare che l’art. 18 CE, il quale enuncia in chiave generale il diritto, per ogni cittadino dell’Unione, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, trova una specifica applicazione nell’art. 43 CE (sentenza 29 febbraio 1996, causa C-193/94, Skanavi e Chryssanthakopoulos, Racc. pag. I-929, punto 22). 23. Di conseguenza, è solo nella misura in cui l’art. 43 CE non trova applicazione a tutta la vicenda di cui alla causa principale che deve essere valutato alla luce dell’art. 18 CE ciò che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 43 CE. Sull’applicabilità dell’art. 43 CE 24. Si deve verificare se il semplice status di azionista unico delle proprie società consenta a N di avvalersi dell’art. 43 CE. 26. A tale proposito, e conformemente ad una consolidata giurisprudenza, va ricordato che la nozione di «stabilimento» ai sensi dell’art. 43 CE è molto IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 167 ampia, e implica la possibilità, per un cittadino comunitario, di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine (sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 25). Più specificamente, la Corte ha affermato che una partecipazione pari al 100% del capitale di una società avente la propria sede in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede il titolare di tale partecipazione fa senza dubbio rientrare tale contribuente nell’ambito di applicazione delle disposizioni del Trattato relative al diritto di stabilimento (v. sentenza 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, Racc. pag. I-2787, punto 21). 27. Può quindi avvalersi della libertà di stabilimento il cittadino comunitario che risieda in uno Stato membro e che detenga nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro una partecipazione tale da conferirgli una sicura influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne le attività: ciò è sempre il caso di chi detenga il 100% delle quote (v., in tal senso, sentenza Baars, cit., punti 22 e 26). 28. Si deve in proposito rilevare che la situazione alla base della causa principale è quella di un cittadino comunitario il quale risiede, dopo il trasferimento della propria residenza, in uno Stato membro, e che detiene la totalità delle azioni di alcune società aventi sede in un altro Stato membro. Ne consegue che, dopo tale trasferimento, la situazione di N rientra nel campo di applicazione dell’art. 43 CE (v., in tal senso, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-152/03, Ritter-Coulais, Racc. pag. I-1711, punto 32). 30. Le prime due questioni devono dunque essere risolte dichiarando che può avvalersi dell’art. 43 CE un cittadino comunitario, come il ricorrente nella causa principale, il quale risieda, dopo il trasferimento della propria residenza, in uno Stato membro, e detenga la totalità delle azioni di società aventi sede in un altro Stato membro. 51. Per contro, quanto all’obbligo di costituire una garanzia per ottenere una sospensione del pagamento dell’imposta normalmente dovuta, sebbene tale garanzia agevoli senza dubbio la riscossione di tale imposta nei confronti di un soggetto residente all’estero, essa va al di là di ciò che è strettamente necessario per garantire il funzionamento e l’efficacia di un tale regime fiscale, basato sul principio di territorialità. Esistono infatti mezzi meno restrittivi nei confronti delle libertà fondamentali. 52. Come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 113 delle sue conclusioni, il legislatore comunitario ha già adottato taluni provvedimenti di armonizzazione, i quali perseguono in sostanza il medesimo obiettivo. In concreto, la direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (G.U. L 336, pag. 15), come modificata dalla direttiva del Consiglio 16 novembre 2004, 2004/106/CE (G.U. L 359, pag. 30), permette ad uno Stato membro di chiedere alle autorità competenti di un altro Stato membro tutte le informazioni che gli sono necessarie per determinare correttamente l’imposta sul reddito (sentenze 28 ottobre 1999, causa C-55/98, Vestergaard, Racc. pag. I-7641, punto 26, e 26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, Racc. pag. I-6817, punto 42). 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 53. Inoltre, la direttiva del Consiglio 15 marzo 1976, 76/308/CEE, relativa all’assistenza reciproca in materia di ricupero dei crediti risultanti da operazioni che fanno parte del sistema di finanziamento del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, nonché di prelievi agricoli e di dazi doganali (G.U. L 73, pag. 18), come modificata dalla direttiva del Consiglio 15 giugno 2001, 2001/44/CE (G.U. L 175, pag. 17), prevede che uno Stato membro possa chiedere l’assistenza di un altro Stato membro per il recupero dei crediti relativi a talune imposte, tra le quali quelle sul reddito e sul capitale. 54. Infine, in tale contesto, può essere considerato proporzionato all’obiettivo perseguito soltanto un sistema di riscossione dell’imposta sul reddito derivato da titoli mobiliari che tenga interamente conto delle diminuzioni di valore che possono intervenire successivamente al trasferimento della residenza del contribuente interessato, a meno che tali riduzioni di valore non siano già state considerate nello Stato membro ospitante. 55. (…) l’art. 43 CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato membro istituisca un regime impositivo sulle plusvalenze nel caso di trasferimento di residenza di un contribuente al di fuori di tale Stato membro come quello di cui alla causa principale, il quale condizioni la sospensione del pagamento di tale imposta alla costituzione di garanzie e non tenga interamente conto delle riduzioni di valore che possono intervenire successivamente al cambio di residenza dell’interessato e che non sono state considerate dallo Stato membro ospitante. 67. Di conseguenza, la quarta questione deve essere risolta dichiarando che un ostacolo causato dalla costituzione di una garanzia imposta in violazione del diritto comunitario non può essere eliminato con effetto retroattivo dal semplice svincolo di tale garanzia. La natura dell’atto sulla base del quale la garanzia è stata svincolata non ha alcun rilievo per tale valutazione. Qualora lo Stato membro preveda il pagamento di interessi di mora in occasione della restituzione di una garanzia imposta in violazione del diritto interno, tali interessi sono altresì dovuti nel caso di violazione del diritto comunitario. Spetta poi al giudice del rinvio valutare, in conformità alle linee guida fornite dalla Corte, e nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, l’esistenza di una responsabilità dello Stato membro interessato per il danno causato dall’obbligo di costituire tale garanzia. Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica italiana. La Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo preso in considerazione l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite in un altro Stato membro da un lavoratore comunitario dipendente nel settore del pubblico impiego italiano, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 10 CE, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 169 39 CE e 7, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (G.U. L 257, pag. 2; in prosieguo: il «regolamento»). 12. Facendo riferimento alle sentenze 15 gennaio 1998, causa C-15/96, Schöning-Kougebetopoulou (Racc. pag. I-47); 12 marzo 1998, causa C-187/96, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-1095); 30 novembre 2000, causa C-195/98, Österreichischer Gewerkschaftsbund (Racc. pag. I-10497), e 12 maggio 2005, causa C-278/03, Commissione/Italia (Racc. pag. I-3747), la Commissione fa valere che il principio della parità di trattamento dei lavoratori comunitari, che deriva dagli artt. 39 CE e 7, n. 1, del regolamento, osta a che i periodi di impiego svolti da uno di tali lavoratori in un analogo settore di attività in uno Stato membro non siano presi in considerazione dall’amministrazione di un altro Stato membro nella determinazione delle condizioni d’esercizio dell’attività lavorativa, quali la retribuzione, il grado o la carriera, mentre si tenga conto dell’esperienza maturata nel pubblico impiego di quest’ultimo Stato. 13. Alla luce di tale giurisprudenza, nella causa in esame la Repubblica italiana avrebbe violato le disposizioni in questione non avendo tenuto conto dell’esperienza e dell’anzianità acquisite in altri Stati membri da lavoratori dipendenti nel settore del pubblico impiego italiano, in particolare nei settori pubblici dell’istruzione e della sanità. 14. Al contrario, il governo italiano sostiene che l’obbligo incombente alle autorità pubbliche di uno Stato membro di riconoscere, per determinati fini, periodi di lavoro svolti in precedenza in un altro Stato membro è subordinato alla presenza di due condizioni cumulative: da una parte, i settori delle attività svolte nei due Stati membri devono essere analoghi e, dall’altra, l’attività svolta nell’altro Stato membro dev’essere riconducibile al servizio pubblico. 16. In proposito risulta da una giurisprudenza costante che, in forza dell’art. 39 CE, qualora, assumendo personale per posti che non rientrano nella sfera d’applicazione del n. 4 di tale disposizione, un ente pubblico di uno Stato membro stabilisca di prendere in considerazione le attività lavorative svolte in precedenza dai candidati presso una pubblica amministrazione, tale ente non può, nei confronti di cittadini comunitari, operare alcuna distinzione a seconda che tali attività siano state esercitate nello Stato membro cui appartiene il detto ente o in un altro Stato membro (v., in particolare, sentenze 23 febbraio 1994, causa C-419/92, Scholz, Racc. pag. I-505, punto 12; 12 maggio 2005, Commissione/Italia, cit., punto 14, e 23 febbraio 2006, causa C-205/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto 14). 17. Per quanto riguarda l’art. 7 del regolamento, occorre ricordare che tale articolo costituisce solamente una particolare espressione del principio di non discriminazione – sancito dall’art. 39, n. 2, CE – nel campo specifico delle condizioni di impiego e di lavoro e che, pertanto, esso deve essere interpretato allo stesso modo di quest’ultimo articolo (sentenza Commissione/Spagna, cit., punto 15). 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 18. Dall’insieme di tale giurisprudenza si evince che il rifiuto di riconoscere l’esperienza professionale e l’anzianità acquisite nell’esercizio di un’attività analoga presso un’amministrazione pubblica di un altro Stato membro da cittadini comunitari successivamente impiegati nel settore pubblico italiano, con la motivazione che i detti cittadini non avrebbero superato alcun concorso prima di esercitare la loro attività nel settore pubblico di tale altro Stato, non può essere ammesso dato che, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 28 delle sue conclusioni, non tutti gli Stati membri assumono i dipendenti del loro settore pubblico in questo solo modo. La discriminazione può essere evitata solo tenendo conto dei periodi di attività analoga svolta nel settore pubblico di un altro Stato membro da una persona assunta conformemente alle condizioni locali. Sentenza della Corte, sezione prima, 9 novembre 2006, nel procedimento C-520/04 – P.M.T. contro Uudenmaan verovirastro (Ufficio delle Imposte di Uudenmaa). La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 18 CE e 39 CE, nonché della direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/365/CEE, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno cessato la propria attività professionale (G.U. L 180, pag. 28). Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di un procedimento avviato dalla sig.ra P.M.T., cittadina finlandese collocata a riposo, residente in Spagna all’epoca dei fatti della causa principale, in merito all’imponibilità, in Finlandia, della pensione di vecchiaia corrispostale da un ente finlandese. Sino al 1998, la sig.ra P.M.T. risiedeva in Finlandia dove svolgeva attività lavorativa in qualità di psichiatra infantile nell’ambito del servizio pubblico finlandese. Nel 1998 beneficiava del prepensionamento e si trasferiva in Belgio. Nel 1999, collocata definitivamente a riposo, si stabiliva permanentemente in Spagna. I redditi della sig.ra P.M.T. consistono in un’unica pensione di vecchiaia corrispostale dal Kuntien Eläkevakuutus (assicurazione pensionistica comunale). Per effetto della convenzione conclusa tra la Repubblica di Finlandia e il Regno di Spagna in materia di doppie imposizioni, la detta pensione di vecchiaia, corrisposta a seguito di attività lavorativa svolta nel settore pubblico, è imponibile unicamente in Finlandia. 1. Non possono invocare la libera circolazione garantita dall’art. 39 CE quei soggetti che abbiano svolto tutta la loro attività lavorativa nello Stato membro di cui sono cittadini avvalendosi del diritto di soggiorno in un altro Stato membro solamente dopo il collocamento a riposo, senza alcuna intenzione di ivi esercitare un’attività lavorativa dipendente. 2. L’art. 18 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in base alla quale l’imposta sui redditi relativa alla pensione IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 171 di vecchiaia versata dall’ente dello Stato membro di cui trattasi ad un soggetto residente in un altro Stato membro supera, in taluni casi, l’imposta che sarebbe dovuta nell’ipotesi in cui il soggetto medesimo fosse residente nel primo Stato membro, qualora la detta pensione costituisca la totalità o quasi totalità dei redditi di tale soggetto. Una normativa nazionale che svantaggi determinati cittadini nazionali solo per aver esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno in un altro Stato membro provoca infatti una disparità di trattamento contraria ai principi che sono alla base dello status di cittadino dell’Unione, vale a dire la garanzia di un medesimo trattamento giuridico nell’esercizio della propria libertà di circolazione. È vero che, in materia di imposte dirette, la situazione dei residenti e quella dei non residenti non sono di regola paragonabili. Tuttavia i pensionati non residenti, nei limiti in cui la pensione di vecchiaia corrisposta in uno Stato membro costituisce la totalità o quasi la totalità dei loro redditi, si trovano oggettivamente, per quanto riguarda l’imposta sui redditi, nella stessa situazione dei pensionati residenti in tale Stato che percepiscono una pensione di vecchiaia identica. NE BIS IN IDEM Sentenza della Corte, sezione prima, 28 settembre 2006, nel procedimento C-467/04 – G.F.G., J.M.L.A.G., G.C.B., J.d.L.C., F.M.G., J.A. H. M., Sindicatura Quiebra. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione, da una parte, dell’art. 54 della convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese, relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni (G.U. 2000, L 239, pag. 19), firmata a Schengen il 19 giugno 1990 (in prosieguo: la «CAAS»), e, dall’altra, dell’art. 24 CE. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale a carico dei sigg. G.F.G., J.M.L.A.G., C.B., d.L.C., F.M.G. e H.M., nonché della Sindicatura Quiebra, sospettati di aver immesso sul mercato spagnolo olio d’oliva di contrabbando. Secondo l’Audiencia Provincial de Málaga, da indizi razionali emerge che, in una data non precisata dell’anno 1993, gli azionisti e i gestori della società Minerva hanno deciso di introdurre attraverso il porto di Setúbal (Portogallo) olio d’oliva lampante (cioè raffinato) originario della Tunisia e della Turchia, che non era stato oggetto di una dichiarazione presso le autorità doganali. La merce sarebbe stata successivamente trasportata con autocarri da Setúbal a Málaga (Spagna). Gli imputati avrebbero ideato un sistema di falsa fatturazione volto a far credere che l’olio fosse originario della Svizzera. Il Supremo Tribunal de Justiça (Portogallo), nella sua sentenza pronunciata sull’appello proposto contro 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO la sentenza del Tribunal de Setúbal, ha giudicato che l’olio lampante introdotto in Portogallo proveniva in dieci casi dalla Tunisia e in un caso dalla Turchia, e che quantitativi inferiori a quelli realmente introdotti erano stati dichiarati alle autorità doganali portoghesi. Il Supremo Tribunal de Justiça ha assolto per prescrizione due degli imputati nella causa per la quale era stato adito, i quali sono perseguiti anche nella controversia principale. L’Audiencia Provincial de Málaga spiega che essa deve pronunciarsi sulla questione se esista un reato di contrabbando o se, al contrario, un tale reato è inesistente con riferimento all’autorità di cosa giudicata della sentenza del Supremo Tribunal de Justiça, o al fatto che le merci sono in libera pratica nel territorio comunitario. 23. Conformemente al detto art. 54, una persona non può essere perseguita in uno Stato contraente per i medesimi fatti per i quali è già stata «giudicata con sentenza definitiva» in un altro Stato contraente, a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o non possa più essere eseguita. 25. Così, il principio ne bis in idem, sancito all’art. 54 della CAAS, va applicato ad una decisione delle autorità giudiziarie di uno Stato contraente con la quale un imputato viene definitivamente assolto per insufficienza di prove (sentenza Van Straaten, cit., punto 62). 26. La controversia principale pone la questione se lo stesso accada per quanto riguarda un’assoluzione definitiva per prescrizione del reato che ha dato luogo al procedimento penale. 27. È pacifico che l’art. 54 della CAAS ha lo scopo di evitare che una persona, a causa del fatto che esercita il suo diritto alla libera circolazione, sia sottoposta a procedimento penale per i medesimi fatti sul territorio di più Stati membri (v. sentenze 11 febbraio 2003, cause riunite C-187/01 e C-385/01, Gözütok e Brügge, Racc. pag. I-1345, punto 38, e sentenza pronunciata in data odierna, Van Straaten, cit., punto 57). Esso assicura la pace civica delle persone che, dopo essere state assoggettate a procedimento penale, sono state giudicate con sentenza definitiva. Queste devono poter circolare liberamente senza dover temere nuovi procedimenti penali per i medesimi fatti in un altro Stato contraente. 29. Certo, in materia di termini di prescrizione non vi è stata un’armonizzazione delle legislazioni degli Stati contraenti. Tuttavia, nessuna disposizione del titolo VI del Trattato sull’Unione europea, relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, i cui artt. 34 e 31 sono stati indicati come fondamento normativo degli artt. 54-58 della CAAS, né dell’Accordo di Schengen o della stessa CAAS assoggetta l’applicazione dell’art. 54 di quest’ultima all’armonizzazione o, quanto meno, al ravvicinamento delle legislazioni penali degli Stati membri nel settore delle procedure di estinzione dell’azione penale (sentenza Gözütok e Brügge, cit.,punto 35) e, più in generale, all’armonizzazione o al ravvicinamento delle legislazioni penali di questi (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-436/04, Van Esbroeck, Racc. pag. I-2333, punto 29). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 173 30. Occorre aggiungere che il principio ne bis in idem, sancito dall’art. 54 della CAAS, implica necessariamente che esista una fiducia reciproca degli Stati contraenti nei confronti dei loro rispettivi sistemi di giustizia penale e che ciascuno di essi accetti l’applicazione del diritto penale vigente negli altri Stati contraenti, anche quando il ricorso al suo diritto nazionale condurrebbe a soluzioni diverse (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 30). 31. La decisione quadro 2002/584 non osta all’applicazione del principio ne bis in idem nel caso di un’assoluzione definitiva per prescrizione del reato. L’art. 4, punto 4, della medesima, fatto valere dal governo olandese nelle osservazioni presentate alla Corte, consente all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo in particolare se l’azione penale è caduta in prescrizione secondo la legislazione dello Stato membro di esecuzione e i fatti rientrano nella competenza di tale Stato membro in virtù del suo proprio diritto penale. L’attuazione di tale facoltà non è subordinata all’esistenza di una sentenza basata sulla prescrizione dell’azione penale. L’ipotesi secondo cui la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro è disciplinata dall’art. 3, punto 2, della detta decisione quadro, decisione che enuncia un motivo di non esecuzione obbligatoria del mandato di arresto europeo. 33. Dalle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la prima questione nel senso che il principio ne bis in idem, sancito all’art. 54 della CAAS, si applica a una decisione di un giudice di uno Stato contraente, pronunciata in seguito all’esercizio di un’azione penale, con cui un imputato viene definitivamente assolto in ragione della prescrizione del reato che ha dato luogo al procedimento penale. 35. A tal riguardo, emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 54 della CAAS che possono trarre beneficio dal principio ne bis in idem solo le persone che sono state giudicate con sentenza definitiva una prima volta. 49. In virtù dell’art. 24 CE, devono essere soddisfatte tre condizioni perché prodotti provenienti da paesi terzi siano considerati in libera pratica in uno Stato membro. A tale effetto, sono considerati tali i prodotti per i quali, in primo luogo, siano state adempiute le formalità di importazione, in secondo luogo, siano stati riscossi in tale Stato membro i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente esigibili e, in terzo luogo, che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi e tasse. 50. L’accertamento da parte di un giudice di uno Stato membro che il reato di contrabbando contestato ad un imputato è prescritto non modifica la qualificazione giuridica dei prodotti in questione. 51. Il principio ne bis in idem vincola i giudici di uno Stato contraente solo in quanto esso osta a che un imputato che è già stato giudicato con sentenza definitiva in un altro Stato contraente venga perseguito una seconda volta per i medesimi fatti. 52. (…) il giudice penale di uno Stato contraente non può considerare una merce in libera pratica sul suo territorio per il solo fatto che il giudice penale di un altro Stato contraente ha accertato, a proposito di tale medesima merce, che il reato di contrabbando è prescritto. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 54. L’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione della nozione di «medesimi fatti» ai sensi dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 36). 55. Per quanto riguarda, più in particolare, una situazione come quella in oggetto nella causa principale, occorre rilevare che essa è idonea a costituire un tale insieme di fatti. 56. Tuttavia, la valutazione definitiva in proposito spetta ai giudici nazionali competenti, che debbono accertare se i fatti materiali di cui trattasi costituiscano un insieme di fatti inscindibilmente collegati nel tempo, nello spazio nonché per oggetto (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 38). 57. Risulta da quanto precede che l’immissione sul mercato di una merce in un altro Stato membro, successiva alla sua importazione nello Stato membro che ha pronunciato l’assoluzione, costituisce un comportamento idoneo a far parte dei «medesimi fatti» ai sensi dell’art. 54 della CAAS. Sentenza della Corte, sezione prima, 28 settembre 2006, nel procedimento C-150/05 – J.L.V.S. e Staat der Nederlanden, Repubblica italiana. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 54 della convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni (G.U. 2000, L 239, pag. 19; in prosieguo: la «CAAS»), firmata a Schengen (Lussemburgo) il 19 giugno 1990. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia pendente tra il sig. V.S., da un lato, e lo Staat der Nederlanden e la Repubblica italiana, dall’altro, in merito alla segnalazione nel Sistema d’informazione Schengen (in prosieguo: il «SIS»), effettuato dalle autorità italiane, della condanna penale irrogata nei suoi confronti in Italia per traffico di stupefacenti, ai fini della sua estradizione. Dall’ordinanza di rinvio risulta che il sig. V.S., nel periodo intorno al 27 marzo 1983, è stato trovato in possesso di una partita di circa 5 chilogrammi di eroina, che tale eroina era diretta dall’Italia ai Paesi Bassi e che il sig. V.S. ha disposto, tra il 27 ed il 30 marzo 1983, di una quantità pari a 1 000 grammi di tale partita di eroina. L’interessato è stato perseguito nei Paesi Bassi, in primo luogo, per aver importato dall’Italia, con il sig. A.Y., il 26 marzo 1983 o comunque in tale periodo, un quantitativo di circa 5 500 grammi di eroina, in secondo luogo per aver disposto di una quantità di circa 1 000 grammi di eroina nei Paesi Bassi nel periodo tra il 27 ed il 30 marzo 1983 circa, e, in terzo luogo, per aver detenuto armi da fuoco e munizioni nei Paesi Bassi durante il mese di marzo 1983. Con sentenza 23 giugno 1983, l’Arrondissementsrechtbank te’ s-Hertogenbosch (Paesi Bassi) ha assolto il sig. V.S. dal capo di accusa rela- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 175 tivo all’importazione di eroina, ritenendo tale fattispecie non provata in modo legale e convincente, e lo ha condannato per gli altri due capi ad una pena detentiva di 20 mesi. In Italia, il sig. V.S. è stato giudicato, insieme ad altri, per essere stato in possesso, intorno al 27 marzo 1983, ed aver esportato nei Paesi Bassi a più riprese, con il sig. K.C., un rilevante quantitativo di eroina, per un peso complessivo di circa 5 chilogrammi. Con sentenza pronunciata in contumacia il 22 novembre 1999 dal Tribunale ordinario di Milano, il sig. V.S. e altri due imputati sono stati condannati per tali reati ad una pena detentiva di dieci anni, ad un’ammenda di 50 milioni di lire italiane ed alle spese del procedimento. La causa principale oppone il sig. V.S. allo Staat der Nederlanden e alla Repubblica italiana. Il giudice del rinvio attesta una segnalazione relativa al sig. V.S. la cui regolarità è al centro della controversia e che deve essere esaminata alla luce della CAAS. Con ordinanza 16 luglio 2004, la Repubblica italiana è stata chiamata in causa nella controversia principale. Dinanzi al giudice del rinvio, la Repubblica italiana ha respinto gli argomenti del sig. V.S. secondo cui, ai sensi dell’art. 54 della CAAS, egli non avrebbe dovuto essere giudicato dallo o in nome dello Stato italiano e tutti gli atti collegati a tale giudizio sarebbero illegali. Secondo la Repubblica italiana, con la sentenza 23 giugno 1983, per quanto riguarda il capo d’accusa relativo all’importazione di eroina, non si è giudicata la colpevolezza del sig. VS., in quanto l’interessato è stato assolto dal detto capo d’accusa. Il sig. V.S. non sarebbe stato giudicato per tale reato ai sensi dell’art. 54 della CAAS. Inoltre, la Repubblica italiana ha fatto valere di non essere vincolata dall’art. 54 della CAAS, considerata la sua dichiarazione ai sensi dell’art. 55, n. 1, initio e lett. a), della stessa convenzione. Quest’ultimo motivo è stato respinto dal giudice del rinvio. 41. A tale riguardo, la Corte al punto 27 della sentenza 9 marzo 2006, causa C-436/04, V.E. (Racc. pag. I-2333), ha constatato che dal testo dell’art. 54 della CAAS, che ricorre alla locuzione «i medesimi fatti», risulta che tale disposizione si riferisce all’aspetto materiale dei fatti in causa, restando esclusa la loro qualificazione giuridica. 43. Il principio «ne bis in idem», sancito dall’art. 54 della CAAS, implica necessariamente che esista una fiducia reciproca degli Stati contraenti nei confronti dei loro rispettivi sistemi di giustizia penale e che ciascuno di essi accetti l’applicazione del diritto penale vigente negli altri Stati contraenti, anche quando il ricorso al proprio diritto nazionale condurrebbe a soluzioni diverse (sentenza V.E., cit., punto 30). 44. Ne deriva che l’eventualità di qualificazioni giuridiche divergenti dei medesimi fatti in due Stati contraenti diversi non può ostare all’applicazione dell’art. 54 della CAAS (sentenza V.E., cit., punto 31). 45. Tali constatazioni sono ulteriormente corroborate dalla finalità dell’art. 54, consistente nell’evitare che una persona, per il fatto di aver esercitato il suo diritto alla libera circolazione, sia sottoposta a procedimento penale per i medesimi fatti sul territorio di più Stati contraenti (sentenza V.E., cit., punto 33 e giurisprudenza ivi citata). 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 46. Tale diritto alla libera circolazione è efficacemente tutelato soltanto qualora l’autore di un atto sappia che, una volta condannato e scontata la pena – o, se del caso, una volta definitivamente assolto in uno Stato membro –, può circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di essere perseguito in un altro Stato membro nel cui ordinamento giuridico tale atto integri una distinta infrazione (v. sentenza Van Esbroeck, cit., punto 34). 47. Orbene, data l’assenza di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali, un criterio fondato sulla qualificazione giuridica dei fatti o sull’interesse giuridico tutelato sarebbe tale da creare altrettanti ostacoli alla libertà di circolazione nello spazio Schengen quanti sono i sistemi penali esistenti negli Stati contraenti (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 35). 48. Stando così le cose, l’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione dell’art. 54 della CAAS è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro (sentenza Van Esbroeck, cit., punto 36). 53. (...) l’art. 54 della CAAS dev’essere interpretato nel senso che: – il criterio pertinente ai fini dell’applicazione del citato articolo è quello dell’identità dei fatti materiali, inteso come esistenza di un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica di tali fatti o dall’interesse giuridico tutelato; – per quanto riguarda i reati relativi agli stupefacenti, non viene richiesto che siano identici i quantitativi di droga di cui trattasi nei due Stati contraenti interessati né i soggetti che si presume abbiano partecipato alla fattispecie nei due Stati; – i fatti punibili consistenti nell’esportazione e nell’importazione degli stessi stupefacenti e perseguiti in diversi Stati contraenti della detta convenzione devono in via di principio essere considerati come «i medesimi fatti» ai sensi di tale art. 54, sebbene la valutazione definitiva in proposito spetti ai giudici nazionali competenti. 54. Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se il principio del ne bis in idem, sancito all’art. 54 della CAAS, sia applicabile ad una decisione dell’autorità giudiziaria di uno Stato contraente che assolve un imputato per insufficienza di prove. 56. La proposizione principale contenuta nell’unica frase che costituisce l’art. 54 della CAAS non fa alcun riferimento al contenuto della sentenza passata in giudicato. È solo nella proposizione subordinata che l’art. 54 della CAAS menziona l’ipotesi di una condanna disponendo che, in tal caso, il divieto di procedimento penale è sottoposto a una condizione specifica. Qualora la regola generale enunciata nella proposizione principale fosse applicabile solo alle sentenze di condanna, sarebbe superflua la precisazione secondo cui la regola speciale è applicabile in caso di condanna. 58. Ora, non applicare tale articolo ad una decisione definitiva di assoluzione per insufficienza di prove avrebbe l’effetto di pregiudicare l’esercizio del diritto alla libera circolazione (v., in tal senso, sentenza Van Esbroeck, cit., punto 34). 59. Inoltre, l’avvio di un procedimento penale in un altro Stato contraente per i medesimi fatti comprometterebbe, nel caso di un’assoluzione defini- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 177 tiva per insufficienza di prove, i principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento. Infatti, l’imputato dovrebbe temere nuovi procedimenti penali in un altro Stato contraente, sebbene gli stessi fatti siano già stati definitivamente giudicati. 60. Occorre aggiungere che, nella sua sentenza 10 marzo 2005, causa C-469/03, Miraglia (Racc. pag. I-2009, punto 35), la Corte ha dichiarato che il principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 54 della CAAS, non si applica a una decisione delle autorità giudiziarie di uno Stato membro che dichiara chiusa una causa dopo che il Pubblico Ministero ha deciso di non proseguire l’azione penale per il solo motivo che è stato avviato un procedimento penale in un altro Stato membro a carico dello stesso imputato e per gli stessi fatti, senza alcuna valutazione nel merito. Ora, senza che sia necessario pronunciarsi, nel procedimento in esame, sul problema se un’assoluzione non fondata su una valutazione del merito possa rientrare nell’ambito di applicazione di tale articolo, si deve constatare che un’assoluzione per insufficienza di prove si fonda su una siffatta valutazione. PRESTAZIONE SERVIZI Sentenza della Corte, sezione seconda, 6 aprile 2006 – Agip Petroli SpA contro Capitaneria di porto di Siracusa, Capitaneria di porto di Siracusa – Sezione staccata di Santa Panagia, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 3, n. 3, del regolamento (CEE) del Consiglio 7 dicembre 1992, n. 3577, concernente l’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi fra Stati membri (cabotaggio marittimo) (G.U. L 364, pag. 7; in prosieguo: il «regolamento»). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Agip Petroli S.p.A. (in prosieguo: la «Agip Petroli»), da una parte, e la Capitaneria di porto di Siracusa, la Capitaneria di porto di Siracusa – Sezione staccata di Santa Panagia (in prosieguo: la «capitaneria») e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dall’altra, in merito ad una decisione con cui la capitaneria ha negato ad una nave cisterna, battente bandiera greca, l’autorizzazione ad effettuare una tratta di cabotaggio insulare tra Magnisi e Gela. 12. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se, nel settore del trasporto marittimo di merci all’interno degli Stati membri, la nozione di «viaggio che segue o precede» il viaggio di cabotaggio (in prosieguo: il «viaggio internazionale») di cui all’art. 3, n. 3, del regolamento comprenda solo il viaggio con carico a bordo o se possa essere estesa all’ipotesi di un viaggio in zavorra. 13. In via preliminare, occorre ricordare che l’obiettivo di liberalizzazione perseguito dal regolamento (ce) del Consiglio 7 dicembre 1992, n. 3577, 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO come risulta in particolare dal terzo e dal quarto ‘considerando’ del medesimo, e che mira all’abolizione delle restrizioni alla prestazione dei servizi di trasporto marittimo all’interno degli Stati membri, non è ancora pienamente compiuto. Uno dei limiti alla liberalizzazione prevista dal regolamento riguarda il cabotaggio insulare. Infatti, mentre gli artt. 1 e 3, n. 1, del detto regolamento precisano che, in linea di principio, prevalgono le condizioni stabilite dal diritto dello Stato di bandiera, l’art. 3, n. 2, del regolamento prevede un’eccezione in materia di cabotaggio insulare, stabilendo che, per le navi che effettuano questo tipo di trasporto, tutte le questioni relative all’equipaggio sono disciplinate dal diritto dello Stato ospitante. Il principio dell’applicazione delle norme dello Stato di bandiera alla composizione dell’equipaggio è tuttavia previsto all’art. 3, n. 3, del regolamento, qualora il cabotaggio insulare sia preceduto o seguito da un viaggio internazionale effettuato da una nave di oltre 650 tonnellate lorde. 14. Per quanto riguarda la nozione di «viaggio internazionale», occorre rilevare innanzi tutto che l’art. 3, n. 2, del regolamento si limita a richiedere che il viaggio di cabotaggio sia preceduto o seguito da un viaggio internazionale, senza fornire alcuna indicazione né sulla nozione stessa di «viaggio» né sull’eventuale presenza di carico a bordo per le navi di oltre 650 tonnellate lorde. 15. Di conseguenza, e poiché il regolamento non contiene alcuna definizione della nozione di «viaggio» né alcun elemento che faccia supporre che il legislatore comunitario abbia inteso consentire che si tenga conto di criteri supplementari, quali la necessità di un carico a bordo o l’esistenza di un’autonomia funzionale e commerciale del viaggio internazionale, occorre intendere tale nozione come comprendente, in linea di principio, qualsiasi viaggio a prescindere dalla presenza di un carico a bordo. 16. Tale interpretazione è del resto conforme all’obiettivo del regolamento, che è quello di attuare la libera prestazione dei servizi nel cabotaggio marittimo alle condizioni e con riserva delle deroghe da esso previste (v., in particolare, sentenza 20 febbraio 2001, causa C-205/99, Analir e a., Racc. pag. I-1271, punto 19). Infatti, essa consente la piena applicazione dell’art. 3, n. 3, del regolamento che, prescrivendo dal canto suo l’applicazione delle norme dello Stato di bandiera, si inserisce nel diretto prolungamento di tale obiettivo. 17. Tale interpretazione è peraltro confortata anche dalla pratica nel trasporto marittimo, in cui risulta usuale che talvolta vengano effettuati viaggi in zavorra. 18. Tuttavia, nonostante tale constatazione, non possono essere ammessi viaggi in zavorra intrapresi abusivamente allo scopo di aggirare le norme previste dall’art. 3 del regolamento e l’obiettivo del regolamento medesimo, quale ricordato al punto 13 della presente sentenza. 19. A questo proposito occorre rilevare che, secondo una giurisprudenza costante, gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas e a., Racc. pag. I-2843, punto 20; 23 marzo 2000, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 179 causa C-373/97, Diamantis, Racc. pag. I-1705, punto 33, e 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., Racc. pag. I-1609, punto 68). 20. Infatti, l’applicazione della normativa comunitaria non può estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire le operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di aggirare le norme previste dal diritto comunitario (v. in tal senso, in particolare, sentenze 11 ottobre 1977, causa 125/76, Cremer, Racc. pag. 1593, punto 21; 3 marzo 1993, causa C-8/92, General Milk Products, Racc. pag. I-779, punto 21, e Halifax e a., cit., punto 69). 21. I giudici nazionali possono pertanto tener conto, basandosi su elementi obiettivi, del comportamento abusivo dell’interessato per negargli eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni di diritto comunitario invocate. Al riguardo essi debbono tuttavia tener presenti le finalità perseguite dalle disposizioni di cui trattasi (v. sentenza Diamantis, cit., punto 34 e giurisprudenza ivi citata). 23. L’accertamento di una pratica abusiva del genere richiede, da un lato, che il viaggio internazionale in zavorra, nonostante l’applicazione formale delle condizioni di cui all’art. 3, n. 3, del regolamento, abbia come risultato che l’armatore fruisca, per tutte le questioni relative all’equipaggio, dell’applicazione delle norme dello Stato di bandiera in spregio dell’obiettivo dell’art. 3, n. 2, del regolamento, il quale consiste nel consentire l’applicazione delle norme dello Stato ospitante a tutte le questioni relative all’equipaggio nel caso del cabotaggio insulare. D’altro lato, deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo essenziale di tale viaggio internazionale in zavorra è quello di evitare l’applicazione dell’art. 3, n. 2, del regolamento, a vantaggio di quella del n. 3 del medesimo articolo (v., in tal senso, sentenza Halifax e a., cit., punto 86). 24. Spetta al giudice del rinvio verificare, conformemente alle norme nazionali sull’onere della prova, ma senza che venga compromessa l’efficacia del diritto comunitario, se gli elementi costitutivi di un comportamento abusivo sussistano nella causa principale (v. sentenze 21 luglio 2005, causa C-515/03, Eichsfelder Schlachtbetrieb, Racc. pag. I-7355, punto 40, e Halifax, cit., punto 76). Sentenza della Corte, sezione prima, 9 febbraio 2006 – La Cascina Soc. coop. a rl, Zilch Srl (C-226/04) contro Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Pedus Service, Cooperativa Italiana di Ristorazione Soc. coop. a rl (CIR), Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e Consorzio G. f. M. (C-228/04) contro Ministero della Difesa, La Cascina Soc. coop. a rl, Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1) 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che oppongono le società La Cascina Soc. coop. a rl e Zilch Srl nonché il consorzio G. f. M. (in prosieguo: il «G. f. M.»), al Ministero della Difesa e al Ministero dell’Economia e delle Finanze italiani, nella loro qualità di amministrazione aggiudicatrice, relativamente, da un lato, all’esclusione di queste imprese dalla partecipazione ad una procedura di appalto pubblico di servizi e, dall’altro, alla conformità con l’art. 29 della direttiva della disposizione corrispondente della normativa italiana che assicura il recepimento di questa direttiva nel diritto nazionale. 20. Al fine di fornire una soluzione utile a tali questioni, occorre rilevare, in via preliminare, che le direttive comunitarie relative agli appalti pubblici hanno per oggetto il coordinamento delle procedure nazionali in materia. Per quanto riguarda più in particolare gli appalti pubblici di servizi, il terzo considerando della direttiva enuncia che gli obiettivi definiti al primo e secondo ‘considerando’ «(…) richiedono il coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi». 21. In tale contesto di coordinamento, l’art. 29 della direttiva prevede sette cause di esclusione dei candidati dalla partecipazione ad un appalto, che si riferiscono all’onestà professionale, alla solvibilità o all’affidabilità di questi ultimi. Questa disposizione lascia l’applicazione di tutti questi casi di esclusione alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione «può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto (…)», che figura all’inizio della detta disposizione, e rinvia, sub e) e f), esplicitamente alle disposizioni legislative nazionali. 22. Pertanto, come fa giustamente osservare la Commissione delle Comunità europee, la disposizione considerata fissa essa stessa i soli limiti della facoltà degli Stati membri, nel senso che questi non possono prevedere cause di esclusione diverse da quelle ivi indicate. Tale facoltà degli Stati membri è limitata anche dai principi generali di trasparenza e di parità di trattamento (v., in particolare, sentenze 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punti 91 e 92, nonché 16 ottobre 2003, causa C-421/01, Traunfellner, Racc. pag. I-11941, punto 29). 23. Di conseguenza, l’art. 29 della direttiva non prevede in materia una uniformità di applicazione delle cause di esclusione ivi indicate a livello comunitario, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione, optando per la partecipazione più ampia possibile alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati membri hanno il potere di alleviare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti dall’art. 29 della direttiva. 24. Per quanto riguarda, innanzi tutto, la questione se l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva, debba essere interpretato nel senso che si oppone ad una disposizione nazionale che fa riferimento alla situazione del IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 181 prestatore di servizi che «non è in regola» con i suoi obblighi previdenziali o tributari, questa disposizione offre la facoltà agli Stati membri di escludere qualunque candidato «il quale non abbia adempiuto i suoi obblighi» relativi al pagamento dei contributi previdenziali e delle imposte e tasse, «conformemente alle disposizioni legislative» nazionali. 26. Il legislatore italiano ha fatto uso della facoltà che gli conferisce l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva, introducendo le due cause di esclusione di cui trattasi nell’art. 12, lett. d) ed e), del decreto legislativo n. 157/1995. Il giudice del rinvio si chiede tuttavia, innanzi tutto, se, con l’impiego dell’espressione «che non sono in regola con gli obblighi (…)», tale disposizione non sia più permissiva e non conferisca un più ampio margine di manovra alle autorità nazionali rispetto alla formula utilizzata all’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva. 30. Al fine di determinare il momento in cui occorre collocarsi per valutare se il candidato abbia adempiuto i suoi obblighi, occorre constatare che, dato che l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva rinvia alle disposizioni legislative degli Stati membri al fine di stabilire il contenuto della nozione «aver adempiuto i suoi obblighi» e il legislatore comunitario non ha voluto procedere ad un’uniformazione dell’applicazione di tale articolo a livello comunitario, è coerente ritenere che lo stesso rinvio alle disposizioni nazionali venga operato per quanto riguarda la determinazione del momento di cui trattasi. 31. Spetta quindi alle norme nazionali determinare fino a che momento o entro quale termine gli interessati devono aver effettuato i pagamenti corrispondenti ai loro obblighi oppure, per quanto riguarda le altre situazioni considerate dal giudice del rinvio e che sono trattate ai punti 34-39 della presente sentenza, aver provato che le condizioni per una regolarizzazione a posteriori sono soddisfatte. Tale termine può essere, in particolare, la data limite per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, la data di spedizione della lettera di invito a presentare un’offerta, la data limite della presentazione delle offerte dei candidati, la data di valutazione delle offerte da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o, ancora, il momento che precede immediatamente l’aggiudicazione dell’appalto. 32. Occorre precisare, tuttavia, che i principi di trasparenza e di parità di trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, in base ai quali le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione ad un appalto devono essere chiaramente definite in anticipo, richiedono che questo termine sia determinato con una certezza assoluta e reso pubblico, affinché gli interessati possano conoscere esattamente gli obblighi procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi obblighi valgano per tutti i concorrenti. Tale termine può essere fissato dalla normativa nazionale, oppure questa può affidare tale compito alle amministrazioni aggiudicatrici. 34. In terzo luogo, la domanda del giudice del rinvio riguarda, in sostanza, la questione se possano essere considerate compatibili con l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva una normativa o una prassi ammi- 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO nistrativa nazionali che conferiscono ai prestatori di servizi, al fine della loro ammissione a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, la possibilità di regolarizzare a posteriori la loro situazione in materia tributaria e previdenziale, in applicazione di misure di sanatoria o di condono fiscale adottate dallo Stato membro di cui trattasi o in forza di un concordato inteso ad una rateizzazione o a una riduzione dei debiti. 36. Pertanto, una normativa o una prassi amministrativa nazionali secondo cui, in caso di misure di sanatoria o di condono fiscale nonché in seguito ad un concordato, i candidati interessati sono considerati in regola con i loro obblighi al fine della loro ammissione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto, non è incompatibile con l’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva, a condizione che, entro il termine indicato al punto 31 della presente sentenza, possano fornire la prova di aver beneficiato di misure di sanatoria o di condono fiscale o di un concordato relativamente ai loro debiti. 38. Occorre considerare che il rinvio al diritto nazionale effettuato dall’art. 29, primo comma, lett. e) e f), della direttiva è valido anche per quanto riguarda tale questione. Tuttavia, gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sono strettamente collegati all’esercizio e alla salvaguardia dei diritti fondamentali relativi alla tutela giurisdizionale, il cui rispetto è anch’esso assicurato dall’ordinamento giuridico comunitario. Una normativa nazionale che ignorasse totalmente gli effetti della presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale sulla possibilità di partecipare ad una procedura di aggiudicazione di appalto rischierebbe di violare i diritti fondamentali degli interessati. 39. Tenuto conto di questo limite, spetta quindi all’ordinamento giuridico nazionale determinare se la presentazione di un ricorso amministrativo o giurisdizionale comporti effetti che obbligano l’amministrazione aggiudicatrice a considerare che il candidato interessato è in regola con i suoi obblighi, finché non sia emessa una decisione definitiva, ai fini della sua ammissione alla procedura di aggiudicazione di appalto, a condizione che un tale ricorso sia presentato entro il termine indicato al punto 31 della presente sentenza. PRODOTTI ALIMENTARI Sentenza della Corte, sezione quarta, 7 settembre 2006, nel procedimento C-489/04 – A.J., Weinhaus Kiderlen contro Land Baden- Württemberg. Il ricorrente nella causa principale vende olio d’oliva al dettaglio con il metodo detto «bag in the box». A tal fine, l’olio è versato dall’imbottigliatore in un sacchetto di plastica a due strati («bag»), della capacità di cinque litri e recante una indicazione di origine e un sigillo di controllo. Il sacchetto è munito di un tappo speciale ad apertura unica la cui membrana dev’essere perforata prima che possa essere versato l’olio. Tale sacchetto di pla- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 183 stica viene inserito in un vaso di terracotta («box») dal quale sporge unicamente un tubo per versare il prodotto. A partire da questo insieme (il «bag in the box»), il cliente ottiene il quantitativo di olio desiderato, che viene versato in un recipiente da lui stesso portato o acquistato in loco nel negozio. Le indicazioni sull’origine, la qualità ed il prezzo dell’olio possono essere lette dal cliente sull’etichetta che il ricorrente nella causa principale ha apposto sul vaso di terracotta. Il Landratsamt Ravensburg, Amt für Veterinärwesen und Verbraucherschutz (Ufficio per le questioni veterinarie e la tutela dei consumatori dell’amministrazione del distretto di Ravensburg ha ingiunto al ricorrente di cessare lo smercio dell’olio d’oliva secondo il metodo sopra descritto. Il Landratsamt Ravensburg ha precisato che discende dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 che l’olio d’oliva poteva essere venduto ai consumatori solo preimballato in confezioni della capacità massima di cinque litri. Il ricorrente ha allora intentato dinanzi al Verwaltungsgericht Sigmaringen un’azione di accertamento, chiedendo a quest’ultimo giudice di dichiarare che il regolamento n. 1019/2002 non gli vieta di continuare a vendere olio d’oliva utilizzando il metodo detto «bag in the box». Egli ha in particolare asserito che il regolamento n. 1019/2002 non disciplina la vendita dell’olio d’oliva sfuso, ma soltanto la vendita dell’olio di oliva confezionato e che, di conseguenza, il suo art. 2 non contiene un divieto di vendita dell’olio di oliva sfuso, ma unicamente le prescrizioni relative alla commercializzazione dell’olio d’oliva imballato. Poiché il regolamento n. 1019/2002 è stato adottato a integrazione della direttiva 2000/13, quest’ultima continuerebbe ad applicarsi negli ambiti non specificamente disciplinati da tale regolamento. Orbene, l’art. 14 della direttiva 2000/13 ammetterebbe la possibilità di una presentazione al consumatore finale di prodotti alimentari non preconfezionati, incaricando gli Stati membri di adottare le modalità secondo le quali le indicazioni obbligatorie devono essere fornite. L’interpretazione proposta dal ricorrente nella causa principale è contestata dal Landratsamt Ravensburg. Quest’ultimo sostiene che l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 contiene un divieto di presentare al consumatore finale l’olio d’oliva non imballato. Il Verwaltungsgericht Sigmaringen ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli artt. 1-12 del regolamento n. 1019/2002 (…) debbano essere interpretati nel senso che recano una disciplina applicabile anche alla presentazione ai consumatori finali di oli d’oliva e di oli di sansa di oliva non confezionati. 2) Se l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 (…) debba essere interpretato nel senso che impone un divieto di presentare ai consumatori finali oli d’oliva e oli di sansa d’oliva non confezionati. 3) Eventualmente, se l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 (…) debba essere interpretato restrittivamente, nel senso che 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO esso impone sì un divieto di presentare al consumatore finale oli d’oliva ed oli di sansa d’oliva non confezionati, ma che questo divieto non riguarda la vendita di tali oli non confezionati, effettuata con il sistema “bag in box”». 24. (...) il fondamento normativo del regolamento n. 1019/2002 è costituito dall’art. 35 bis del regolamento n. 136/66, il cui n. 1, primo comma, dispone che per i prodotti di cui all’art. 1 dello stesso regolamento possono essere stabilite norme di commercializzazione riguardanti, in particolare, la classificazione per qualità, l’imballaggio e la presentazione. I prodotti elencati da quest’ultima disposizione, fra i quali figurano l’olio di oliva e l’olio di sansa di oliva, sono tutti individuati attraverso designazioni delle merci e numeri tariffari con cui figurano nella nomenclatura combinata. Tali prodotti non sono né definiti né distinti secondo considerazioni connesse al loro imballaggio. 25. I prodotti considerati più in particolare dal regolamento n. 1019/2002 sono specificati all’art. 1, n. 1, di tale regolamento. Sono gli oli d’oliva e gli oli di sansa di oliva, di cui ai punti 1, lett. a) e lett. b), 3 e 6 dell’allegato del regolamento n. 136/66, in cui essi sono classificati in relazione a caratteristiche qualificative e indipendentemente dal modo della loro commercializzazione, vale a dire imballati o sfusi. 26. Al fine, in particolare, di garantire l’autenticità degli oli d’oliva, il regolamento n. 1019/2002 ha stabilito norme di commercializzazione relative all’imballaggio di tali oli. Così, l’art. 2, primo comma, di tale regolamento dispone che gli oli sono presentati al consumatore finale preimballati in imballaggi la cui capacità non superi i cinque litri e che siano muniti di un sistema di chiusura che perde la sua integrità dopo la prima utilizzazione. Tali imballaggi recano, inoltre, un’etichettatura conforme alle disposizioni di cui agli artt. da 3 a 6 del regolamento n. 1019/2002. 27. Tali norme si applicano a tutti gli oli di cui all’art. 1, n. 1, del regolamento n. 1019/2002 e prevedono una sola eccezione, esplicitamente menzionata all’art. 2, secondo comma, di tale regolamento. Tale eccezione, che non riguarda del resto l’obbligo di presentare gli oli in un imballaggio, ma unicamente la capacità di tali imballaggi, autorizza gli Stati membri a fissare, in funzione dell’organismo interessato, una capacità massima dei detti imballaggi superiore a cinque litri per gli oli destinati al consumo in collettività. 28. Risulta da tutte le considerazioni che precedono che, al di fuori dell’eccezione di cui al punto precedente, gli oli d’oliva e gli oli di sansa di oliva possono essere presentati ai consumatori finali solo se rispettano le norme stabilite dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002, e in particolare l’obbligo di imballaggio a cui si riferisce tale disposizione. Infatti, ai sensi dell’art. 35 bis, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 136/66, quando sono state adottate norme di commercializzazione, i prodotti cui si applicano possono essere commercializzati soltanto conformemente a tali norme. 29. Tale interpretazione non si trova infirmata dalla riserva contenuta nell’art. 1, n. 1, del regolamento n. 1019/2002, secondo la quale le norme di commercializzazione degli oli di oliva e degli oli di sansa di oliva sono stabilite «[f]erme restando le disposizioni della direttiva 2000/13/CE». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 185 30. Ai sensi del primo ‘considerando’ del regolamento n. 1019/2002, le norme specifiche in materia di etichettatura introdotte da tale regolamento integrano quelle previste dalla direttiva 2000/13, che sono disposizioni di carattere generale e orizzontale, applicabili a tutti i prodotti alimentari immessi in commercio. Di conseguenza, il riferimento alla direttiva 2000/13 contenuto all’art. 1, n. 1, del regolamento n. 1019/2002 non può essere compreso nel senso che esso sia diretto a stabilire una deroga o una dispensa rispetto alle norme specifiche di tale regolamento in materia di etichettatura degli oli d’oliva e degli oli di sansa di oliva, ma va invece inteso nel senso che esso mira a garantire, oltre al rispetto delle dette norme specifiche, l’osservanza delle norme di carattere più generale stabilite dalla direttiva 2000/13. 32. Per contro, l’art. 14 della direttiva 2000/13, fatto valere dal ricorrente nella causa principale, nella misura in cui autorizza gli Stati membri ad adottare le modalità secondo le quali devono essere apposte sui prodotti presentati in imballaggi non preconfezionati le indicazioni di cui agli artt. 3 e 4, n. 2, della stessa direttiva, non è pertinente, in quanto, da una parte, l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 vieta una tale presentazione degli oli d’oliva e degli oli di sansa di oliva e, dall’altra, gli Stati membri rimangono competenti solo in ordine alla capacità massima degli imballaggi destinati alle collettività. 33. (...) il regolamento n. 1019/2002 e, in particolare, il suo art. 2, primo comma, devono essere interpretati nel senso che gli oli d’oliva e gli oli di sansa di oliva possono essere presentati al consumatore finale solo imballati secondo le prescrizioni di tale disposizione. 35. Il ricorrente nella causa principale ha affermato che il procedimento detto «bag in the box» sarebbe tale da garantire al consumatore una tutela analoga a quella offerta da una limitazione di vendita dell’olio d’oliva alla sola vendita dell’olio preimballato. Per questo motivo il giudice del rinvio si chiede se le particolarità di questo modo di commercializzazione possano ostare al suo divieto. 38. (...) l’art. 35 bis, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 136/66 dispone che, quando sono state adottate norme di commercializzazione, i prodotti ai quali esse si applicano possono essere commercializzati soltanto conformemente a dette norme. 39. Ne consegue che un modo di commercializzazione degli oli d’oliva e degli oli di sansa di oliva dev’essere valutato in riferimento alle condizioni stabilite dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 e dev’essere considerato incompatibile con tale regolamento ove tali condizioni non siano rispettate. 40. Nella fattispecie, è giocoforza constatare che, secondo il modo di commercializzazione utilizzato dal ricorrente nella causa principale, l’acquisto di olio d’oliva e di olio di sansa di oliva da parte del consumatore finale presuppone che essi siano travasati sul luogo di acquisto, a partire da un contenitore aperto o da aprire, in un recipiente acquistato o portato dallo stesso consumatore. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 41. Ora, a seguito della necessità di tale travaso, un siffatto modo di commercializzazione non permette di soddisfare l’obbligo imposto dall’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002, secondo il quale l’olio d’oliva dev’essere presentato al consumatore finale, ossia messo in vendita, in un imballaggio provvisto di un sistema di chiusura che perde la sua integrità dopo la prima utilizzazione. 43. Allo stesso modo, non si può affermare, come ha fatto la Commissione delle Comunità europee, che un modo di commercializzazione come quello controverso nella causa principale dovrebbe essere considerato lecito nella misura in cui i recipienti nei quali è versato l’olio soddisfano le condizioni relative alla capacità massima, al sistema di chiusura e all’etichettatura, previste all’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002. L’apposizione di un sistema di chiusura adeguato sul recipiente solo al momento della sua consegna al consumatore finale non è tale da soddisfare all’obiettivo perseguito con l’imposizione di tale sistema, in quanto i rischi di pregiudizio all’autenticità dell’olio d’oliva e dell’olio di sansa di oliva si collocano ad uno stadio anteriore a tale consegna. 45. (...) l’art. 2, primo comma, del regolamento n. 1019/2002 dev’essere interpretato nel senso che vieta un modo di commercializzazione, come quello utilizzato dal ricorrente nella causa principale, che non soddisfi le condizioni stabilite da tale disposizione. Sentenza della Corte, sezione seconda, 23 novembre 2006, nel procedimento C-315/05 – Lidl Italia Srl contro Comune di Arcole (VR). La Jürgen Weber GmbH produce in Germania una bevanda alcolica, denominata «amaro alle erbe», sulla cui etichetta viene indicato un titolo alcolometrico volumico di 35%. Le competenti autorità sanitarie regionali italiane prelevavano cinque campioni di tale bevanda in un punto di vendita, appartenente alla rete della Lidl Italia, situato a Monselice. Dalle analisi di tali campioni, effettuate in laboratorio il 17 marzo 2003, risultava un titolo alcolometrico volumico effettivo del 33,91%, inferiore a quello menzionato nell’etichetta del prodotto interessato. Successivamente, la Lidl Italia chiedeva una controperizia. A tal fine, altri campioni del prodotto controverso venivano prelevati e le analisi di questi ultimi, effettuate da un laboratorio il 20 novembre 2003, rivelavano un titolo alcolometrico volumico effettivo che, per quanto più elevato, e cioè del 34,54%, era sempre inferiore a quello figurante sull’etichetta del detto prodotto. Con verbale del 3 luglio 2003, le competenti autorità sanitarie regionali contestavano alla Lidl Italia la violazione dell’art. 12, n. 3, lett. d), del decreto legislativo n. 109/92, in quanto il titolo alcolometrico volumico effettivo della bevanda in questione era inferiore a quello figurante sulla sua etichetta, tenendo conto del margine di tolleranza dello 0,3%. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 187 Al termine di un procedimento amministrativo, il Comune di Arcole, con provvedimento del suo direttore generale del 23 dicembre 2004, constatava l’esistenza di un’infrazione e, ai sensi dell’art. 18, n. 3, del decreto legislativo n. 109/92, ingiungeva alla Lidl Italia di pagare una sanzione amministrativa pecuniaria di EUR 3 115. La Lidl Italia proponeva ricorso contro tale provvedimento amministrativo dinanzi al Giudice di pace di Monselice. Questi, ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la direttiva 2000/13/CE (…), per quanto riguarda i prodotti preconfezionati di cui all’articolo 1 della [detta] direttiva (…), debba essere interpretata nel senso che gli obblighi normativi in essa previsti, ed in particolare quelli di cui agli articoli 2, 3 e 12, debbano essere considerati imposti esclusivamente al produttore dell’alimento preconfezionato. 2) In caso di risposta affermativa al primo quesito, se gli articoli 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13/CE debbano essere interpretati nel senso che escludono che il semplice distributore, situato all’interno di uno Stato membro, di un prodotto preconfezionato (come definito dall’articolo 1 della direttiva 2000/13/CE) da un operatore situato in uno Stato membro diverso dal primo – possa essere considerato responsabile di una violazione contestata da un’Autorità pubblica, consistente nella differenza tra il valore (nella fattispecie titolo alcolometrico) indicato dal produttore sull’etichetta del prodotto alimentare preconfezionato e venga di conseguenza sanzionato anche se lo stesso (il semplice distributore) si limita a commercializzare il prodotto alimentare così come consegnato dal produttore dell’alimento stesso». 35. Con le sue due questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se gli artt. 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno Stato membro, come quella controversa nella causa principale, che prevede la possibilità per un operatore, stabilito in tale Stato membro, che distribuisce una bevanda alcolica destinata ad essere consegnata come tale, ai sensi dell’art. 1 della detta direttiva, e prodotta da un operatore stabilito in un altro Stato membro, di essere considerato responsabile di una violazione di detta normativa, constatata da una pubblica autorità, derivante dall’inesattezza del titolo alcolometrico volumico indicato dal produttore sull’etichetta di detto prodotto, e di subire conseguentemente una sanzione amministrativa pecuniaria, mentre si limita, nella sua qualità di semplice distributore, a commercializzare tale prodotto così come a lui consegnato dal produttore. 36. L’art. 2, n. 1, della direttiva 2000/13 vieta in particolare che l’etichettatura e le modalità con le quali essa è effettuata inducano l’acquirente in errore su una delle caratteristiche dei prodotti alimentari. 37. Questo divieto generale è concretizzato all’art. 3, n. 1, di detta direttiva che contiene un elenco tassativo di indicazioni che devono obbligatoriamente figurare nell’etichetta dei prodotti alimentari destinati ad essere consegnati come tali al consumatore finale. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 38. Per quanto riguarda le bevande con contenuto alcolico superiore all’1,2% in volume, come la bevanda denominata «amaro alle erbe» di cui trattasi nella causa principale, il punto 10 di detta disposizione impone l’indicazione del titolo alcolometrico volumico effettivo nell’etichetta delle bevande stesse. 39. Le modalità per l’indicazione del titolo alcolometrico volumico, di cui all’art. 12, secondo comma, della direttiva 2000/13, sono disciplinate dalla direttiva 87/250, il cui art. 3, n. 1, prevede un margine di tolleranza in più o in meno dello 0,3%. 40. Se discende così dal combinato disposto degli artt. 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13 che l’etichettatura di talune bevande alcoliche, come quella di cui trattasi nella causa principale, deve indicare, salvo un certo margine di tolleranza, il titolo alcolometrico volumico effettivo di queste ultime, non è meno vero che tale direttiva, contrariamente ad altri atti comunitari che impongono obblighi in materia di etichettatura (v., in particolare, la direttiva controversa nella causa C-40/04, in cui è stata pronunciata la sentenza 8 settembre 2005, Yonemoto, Racc. pag. I-7755), non designa l’operatore che deve adempiere tale obbligo in materia di etichettatura e non contiene neppure alcuna norma ai fini della designazione dell’operatore che può essere considerato responsabile in caso di violazione di detto obbligo. 42. D’altro canto, secondo una giurisprudenza costante, ai fini dell’interpretazione di una norma di diritto comunitario si deve tener conto non soltanto del suo tenore letterale, ma anche del sistema e del contesto della norma e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (v., in questo senso, in particolare, sentenze 17 settembre 1997, causa C-83/96, Dega, Racc. pag. I-5001, punto 15, e 13 novembre 2003, causa C-294/01, Granarolo, Racc. pag. I-13429, punto 34). 43. Orbene, da un esame sistematico degli artt. 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13, del contesto in cui essi si collocano nonché degli obiettivi perseguiti da tale direttiva risulta una serie sufficiente di indizi concordanti che consentono di giungere alla conclusione che la direttiva stessa non osta ad una normativa nazionale, come quella controversa nella causa principale, ai sensi della quale un distributore può essere considerato responsabile di una violazione dell’obbligo in materia di etichettatura imposto da dette disposizioni. 44. Infatti, per quanto riguarda, in primo luogo, il sistema delle citate disposizioni della direttiva 2000/13 e il contesto nel quale esse si collocano, è importante rilevare che altre disposizioni di tale direttiva si riferiscono ai distributori nell’ambito dell’adempimento di taluni obblighi in materia di etichettatura. 46. Per quanto riguarda la disposizione, identica a quella di tale punto 7, di cui all’art. 3, n. 1, punto 6, della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, 79/112/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità (G.U. 1979, L 33, pag. 1), direttiva abrogata e sostituita dalla direttiva 2000/13, la Corte ha già dichiarato che tale disposizione ha come obiettivo principale quello di con- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 189 sentire che i responsabili del prodotto, tra i quali, oltre ai produttori e ai condizionatori, si trovano anche i venditori, siano facilmente identificabili dal consumatore finale affinché quest’ultimo possa, se del caso, comunicare loro le sue critiche positive o negative relative al prodotto acquistato (v., in questo senso, citata sentenza Dega, punti 17 e 18). 47. Per quanto riguarda, in secondo luogo, la finalità della direttiva 2000/13, sia dal sesto ‘considerando’ di tale direttiva sia dal suo art. 2 discende che essa è stata concepita con l’intento di informare e tutelare il consumatore finale dei prodotti alimentari, segnatamente per quanto concerne la natura, l’identità, le qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza e il modo di fabbricazione o di ottenimento di questi prodotti (v., per quanto riguarda la direttiva 79/112, citata sentenza Dega, punto 16). 48. La Corte ha dichiarato che, se una materia non è disciplinata da una direttiva a causa dell’armonizzazione incompleta che essa comporta, gli Stati membri restano in linea di principio competenti a prescrivere norme in materia, purché tuttavia tali norme non siano tali da compromettere seriamente il risultato prescritto dalla direttiva di cui trattasi (citata sentenza Granarolo, punto 45). 49.Orbene, una normativa nazionale, come quella controversa nella causa principale, che prevede, in caso di violazione di un obbligo in materia di etichettatura imposto dalla direttiva 2000/13, la responsabilità non solo dei produttori ma anche dei distributori non è assolutamente tale da compromettere il risultato prescritto da tale direttiva. 51. Questa conclusione non può essere rimessa in discussione dall’argomento, sollevato dalla Lidl Italia sia dinanzi al giudice del rinvio sia dinanzi alla Corte, secondo il quale il diritto comunitario imporrebbe il principio della responsabilità esclusiva del produttore per quanto riguarda l’esattezza delle indicazioni figuranti nell’etichetta dei prodotti destinati ad essere consegnati come tali al consumatore finale, principio che risulterebbe anche dalla direttiva 85/374. 52. Al riguardo, si deve innanzi tutto constatare che il diritto comunitario non sancisce un siffatto principio generale. 54. Per quanto riguarda poi la direttiva 85/374, è giocoforza constatare che tale direttiva non è pertinente nel contesto di una situazione come quella di cui trattasi nella causa principale. 55. Infatti, la responsabilità del distributore per infrazioni alla normativa in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, che espone detto distributore in particolare al pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie, è estranea al campo di applicazione specifico del regime di responsabilità oggettiva istituito dalla direttiva 85/374. 56. Pertanto, gli eventuali principi in materia di responsabilità che la direttiva 85/374 comporterebbe non sono trasponibili nel contesto degli obblighi in materia di etichettatura prescritti dalla direttiva 2000/13. 57. In ogni caso, la direttiva 85/374 prevede effettivamente, al suo art. 3, n. 3, una responsabilità, per quanto limitata, del fornitore nella sola ipotesi in 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO cui il produttore non possa essere individuato (sentenza 10 gennaio 2006, causa C-402/03, Skov e Bilka, Racc. pag. I-199, punto 34). 58. Infine, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte relativa all’art. 10 CE, pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati membri devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo (v., in particolare, sentenza 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punto 65 e giurisprudenza ivi citata). 59. Nei limiti così posti dal diritto comunitario, spetta in linea di principio al diritto nazionale fissare le modalità secondo le quali un distributore può essere considerato responsabile di una violazione dell’obbligo in materia di etichettatura imposto dagli artt. 2, 3 e 12 della direttiva 2000/13 e, in particolare, disciplinare la ripartizione delle responsabilità rispettive dei vari operatori che intervengono nell’immissione in commercio del prodotto alimentare considerato. RICORSI – pregiudiziale Sentenza della Corte, sezione terza, 13 luglio 2006 – V.M. (causa C- 295/04) contro Lloyd Adriatico Assicurazioni SpA, A.C. (causa C- 296/04) contro Fondiaria Sai SpA, e N.T. (causa C-297/04), P.M. (causa C-298/04) contro Assitalia SpA, Nell’ambito della collaborazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale ai fini della pronuncia della propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, quando le questioni pregiudiziali sollevate vertono sull’interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire. Tuttavia, in ipotesi eccezionali, spetta alla Corte esaminare le condizioni in presenza delle quali è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza. Il rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti manifestamente che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta da tale giudice non ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale, quando il problema è di natura teorica o quando la Corte non dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 191 – Ricorso per inadempimento Sentenza della Corte, sezione seconda, 26 ottobre 2006, nella causa C-371/04 – Commissione delle Comunità europee, contro Repubblica italiana. 8. Occorre ricordare, in via preliminare, che la Corte può esaminare d’ufficio se ricorrano i presupposti previsti dall’art. 226 CE per la proposizione di un ricorso per inadempimento (v., tra le altre, sentenze 31 marzo 1992, causa C-362/90, Commissione/Italia, Racc. pag. I-2353, punto 8; 27 ottobre 2005, causa C-525/03, Commissione/Italia, Racc. pag. I-9405, punto 8, e 4 maggio 2006, causa C-98/04, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-4003, punto 16). 9. In proposito si deve sottolineare che il procedimento precontenzioso ha lo scopo di dare allo Stato membro interessato la possibilità di conformarsi agli obblighi che gli derivano dal diritto comunitario o di sviluppare un’utile difesa contro gli addebiti formulati dalla Commissione (sentenza 2 febbraio 1988, causa 293/85, Commissione/Belgio, Racc. pag. 305, punto 13, e ordinanza 11 luglio 1995, causa C-266/94, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-1975, punto 16). La regolarità di tale procedimento costituisce così una garanzia essenziale, prevista dal Trattato CE a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi. Solo quando tale garanzia è rispettata il procedimento in contraddittorio dinanzi alla Corte può consentire a quest’ultima di stabilire se lo Stato membro sia effettivamente venuto meno agli obblighi che la Commissione sostiene esso abbia violato (ordinanza Commissione/Spagna, cit., punti 17 e 18). In particolare, nel procedimento precontenzioso la lettera di diffida ha lo scopo di circoscrivere l’oggetto del contendere e di fornire allo Stato membro, invitato a presentare le sue osservazioni, i dati che gli occorrono per predisporre la propria difesa (sentenza 5 giugno 2003, causa C-145/01, Commissione/Italia, Racc. pag. I-5581, punto 17). – Appello Sentenza della Corte, Grande Sezione, 12 settembre 2006, nel procedimento C-131/03 – Philips Morris International Inc. ed altri contro Commissione delle Comunità europee. Nell’ambito della lotta contro il contrabbando di sigarette destinate alla Comunità europea, la Commissione approvava, il 19 luglio 2000, «la proposizione di un’azione civile, in nome della Commissione, diretta contro alcuni produttori americani di sigarette». Essa decideva inoltre d’informarne il Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) secondo le procedure previste ed autorizzava il proprio presidente, nonché il membro della Commissione responsabile del bilancio, a dare istruzioni al servizio giuridico per l’adozione dei necessari provvedimenti. 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il 3 novembre 2000 la Comunità europea, rappresentata dalla Commissione ed «agendo in nome proprio ed in nome degli Stati membri che essa ha la capacità di rappresentare», proponeva un’azione civile contro diverse società appartenenti al gruppo Philip Morris (in prosieguo: il «gruppo Philip Morris») e al gruppo Reynolds (in prosieguo: il «gruppo Reynolds») nonché contro la società Japan Tobacco, Inc. (in prosieguo: la «Japan Tobacco»), dinanzi alla United States District Court, Eastern District of New York, una giurisdizione federale degli Stati Uniti d’America (in prosieguo: la «District Court»). Nell’ambito di tale azione (in prosieguo: la «prima azione»), la Comunità deduceva la partecipazione delle ricorrenti, imprese produttrici di tabacco, ad un sistema di contrabbando per l’introduzione e la distribuzione di sigarette sul territorio della Comunità europea. La Comunità mirava, in particolare, ad ottenere il risarcimento del danno derivante da tale sistema di contrabbando e consistente, principalmente, nella perdita dei dazi doganali e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) che sarebbero stati versati in caso di regolare importazione, nonché la pronuncia di ingiunzioni dirette a far cessare il comportamento delittuoso. La Comunità fondava le proprie domande su una legge federale statunitense, il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act del 1970 (legge sul riciclaggio dei proventi del crimine; in prosieguo il «RICO»), nonché su alcune teorie di common law, vale a dire le teorie della common law fraud, della public nuisance e dell’unjust enrichment. Il RICO si propone di combattere la criminalità organizzata, in particolare facilitando la perseguibilità dei reati commessi dagli operatori economici. A tal fine esso conferisce legittimazione ad agire alle parti civili. Per incentivare le azioni civili, il RICO prevede che l’attore possa ottenere un risarcimento corrispondente al triplo del danno effettivamente subìto (treble damages). La causa è ancora pendente innanzi ai giudici americani. La Philps Morris International inc. e la R.J. Reynolds Tobacco Holdings Inc. ed associate hanno presentato ricorso nelle cause T-377/00, T-379/00 e T-380/00, diretto all’annullamento della decisione della Commissione di proporre la prima azione, nonché, nelle cause T-379/00 e T-380/00, diretto all’annullamento di un’eventuale decisione del Consiglio in merito. Con separati atti, depositati nella cancelleria del Tribunale il 29 gennaio 2001, il Consiglio e la Commissione hanno sollevato, per ognuna di tali cause, un’eccezione di irricevibilità ai sensi dell’art. 114 del regolamento di procedura del Tribunale. Le eccezioni di irricevibilità della Commissione sono fondate ciascuna su un unico motivo, vertente sul fatto che gli atti impugnati non potrebbero formare oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE. Alcuni intervenienti fanno inoltre valere che le ricorrenti non sarebbero direttamente ed individualmente interessate dagli atti impugnati e che non avrebbero interesse ad agire. Con riguardo all’unico motivo dedotto dalla Commissione, gli argomenti delle parti riguardano tre aspetti della questione della ricevibilità dei pre- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 193 senti ricorsi. In primo luogo, le parti sviluppano argomenti relativi alla natura delle decisioni della Commissione 19 luglio 2000 e 25 luglio 2001 (in prosieguo: gli «atti impugnati»). In secondo luogo, esse procedono all’analisi dei differenti effetti che tali atti possono produrre. In terzo luogo, esse discutono determinate considerazioni di ordine generale svolte dalla Commissione a fondamento della propria posizione. 49. In via preliminare occorre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, dagli artt. 225 CE, 58, primo comma, dello Statuto della Corte di giustizia e 112, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura della Corte risulta che un ricorso avverso una sentenza del Tribunale deve indicare in modo preciso gli elementi contestati della sentenza di cui si chiede l’annullamento nonché gli argomenti di diritto dedotti a specifico sostegno di tale domanda (v., in particolare, sentenze 4 luglio 2000, causa C-352/98 P, Bergaderm e Goupil/Commissione, Racc. pag. I-5291, punto 34; 8 gennaio 2002, causa C-248/99 P, Francia/Monsanto e Commissione, Racc. pag. I-1, punto 68, e 6 marzo 2003, causa C-41/00 P, Interporc/Commissione, Racc. pag. I-2125, punto 15). 50. Non risponde dunque ai requisiti di motivazione stabiliti da queste disposizioni un ricorso di impugnazione che si limiti a ripetere o a riprodurre pedissequamente i motivi e gli argomenti già presentati dinanzi al Tribunale, ivi compresi gli argomenti di fatto da questo espressamente disattesi (v., in particolare, ordinanza 25 marzo 1998, causa C-174/97 P, FFSA e a./Commissione, Racc. pag. I-1303, punto 24, e sentenza Interporc/Commissione, cit., punto 16). Infatti, un’impugnazione di tal genere costituisce in realtà una domanda diretta ad ottenere un semplice riesame del ricorso presentato dinanzi al Tribunale, il che esula dalla competenza della Corte (v. ordinanza 26 settembre 1994, causa C-26/94 P, X/Commissione, Racc. pag. I-4379, punto 13, e sentenza Bergaderm e Goupil/Commissione, cit., punto 35). 51. Tuttavia, qualora un ricorrente contesti l’interpretazione o l’applicazione del diritto comunitario effettuata dal Tribunale, i punti di diritto esaminati in primo grado possono essere di nuovo discussi nel corso di un’impugnazione (v. sentenza 13 luglio 2000, causa C-210/98 P, Salzgitter/Commissione, Racc. pag. I-5843, punto 43). Infatti, se un ricorrente non potesse così basare l’impugnazione su motivi e argomenti già utilizzati dinanzi al Tribunale, il procedimento d’impugnazione sarebbe privato di una parte di significato (v., in particolare, ordinanza FNAB e a./Consiglio, punti 30 e 31, nonché sentenze 16 maggio 2002, causa C-321/99 P, ARAP e a./Commissione, Racc. pag. I-4287, punto 49, e Interporc/Commissione, cit., punto 17). 54. Per quanto riguarda la prima parte di tale motivo, come giustamente ricordato dal Tribunale al punto 77 della sentenza impugnata, per costante giurisprudenza costituiscono atti o decisioni che possono essere oggetto di un ricorso di annullamento soltanto i provvedimenti che producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi di chi li impugna, modificando in misura rilevante la situazione giuridica di questo (v., in particolare, sentenza IBM/Commissione, citata, punto 9; ordinanza 4 ottobre 1991, causa C-117/91, Bosman/Commissione, Racc. pag. I-4837, punto 13, e sen- 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tenza 9 dicembre 2004, causa C-123/03 P, Commissione/Greencore, Racc. pag. I-11647, punto 44). 55. Pertanto, diversamente da quanto sostengono le ricorrenti, sono esenti dal controllo giurisdizionale previsto dall’art. 230 CE non solo gli atti preparatori, ma tutti gli atti che non producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi del singolo, quali gli atti confermativi e gli atti di mera esecuzione (v., in particolare, sentenza 1° dicembre 2005, causa C-46/03, Regno Unito/Commissione, Racc. pag. I-10167, punto 25), le semplici raccomandazioni e pareri (sentenza 23 novembre 1995, causa C-476/93 P, Nutral/Commissione, Racc. pag. I-4125, punto 30) e, in linea di principio, le istruzioni di servizio (v. sentenza Francia/Commissione, cit., punto 9). 56. Quindi il Tribunale non è incorso in un errore di diritto deducendo dalla circostanza che le decisioni controverse non producevano effetti giuridici vincolanti ai sensi dell’art. 230 CE che esse non erano suscettibili di formare oggetto di un ricorso, senza limitare la portata di tale soluzione ai soli atti preparatori. 58. Quanto alla seconda parte, nei limiti in cui essa non si confonde con la terza, la quarta e la quinta, occorre constatare che il Tribunale ha giustamente rilevato, al punto 47 della citata sentenza Commissione/Germania, che se il fatto di adire un giudice è un atto indispensabile per ottenere una decisione giurisdizionale vincolante, di per sé non determina in maniera definitiva gli obblighi delle parti della controversia, di modo che, a fortiori, la decisione di avviare un’azione giurisdizionale non modifica, di per sé, la situazione giuridica controversa. 61. Quanto alla terza parte, ancora una volta a ragione il Tribunale ha dichiarato, al punto 105 della sentenza impugnata, che l’applicazione, da parte del giudice, delle proprie norme procedurali costituisce una delle conseguenze necessariamente connesse al fatto di adire qualsiasi organo giurisdizionale e non può essere qualificata come effetto giuridico, ai sensi dell’art. 230 CE, della decisione di proporre un ricorso. 62. Va aggiunto che la possibilità di qualificare le decisioni controverse della Commissione come atti giuridici impugnabili ai sensi della giurisprudenza di cui al punto 54 di questa sentenza non può essere fatta dipendere dalla circostanza che se la Commissione avesse adito un giudice di uno Stato membro sarebbe stato possibile un rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE nell’ambito del procedimento così avviato. 64. Aproposito della quarta parte del primo motivo, il Tribunale ha interpretato correttamente la citata sentenza Spagna/Commissione (punti 12-20), specificando che da tale sentenza risulta che la decisione di avviare l’esame degli aiuti di Stato produce effetti giuridici ai sensi dell’art. 230 CE. Infatti, dalla valutazione e dalla qualificazione degli aiuti considerati, e dalla scelta della procedura che ne risulta, derivano determinate conseguenze giuridiche. Il mero fatto che la Commissione, attraverso le decisioni controverse, abbia operato una scelta relativa al procedimento da avviare contro le ricorrenti, escludendo in tal modo altri procedimenti, non può, di per sé, costituire un effetto giuridico nel senso previsto dal detto articolo. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 195 66. Riguardo alla quinta parte del motivo, come ha giustamente rilevato il Tribunale, se le decisioni controverse, come ogni atto di un’istituzione, implicano in via accessoria una decisione del loro autore quanto alla propria competenza ad adottarle, siffatta decisione non può tuttavia essere qualificata, di per sé, come effetto giuridico vincolante ai sensi dell’art. 230 CE, come interpretato dalla giurisprudenza. 67. Per quanto riguarda l’utilizzo di risorse di bilancio, implicitamente autorizzato dalle decisioni controverse per avviare e seguire le azioni in esame, è sufficiente constatare che tale circostanza non incide sull’accertamento del fatto se le dette decisioni producano effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi delle ricorrenti modificando significativamente la loro situazione giuridica. 74. Le ricorrenti affermano che il Tribunale le ha private della tutela giurisdizionale effettiva e ha commesso un errore di diritto avendo considerato, al punto 123 della sentenza impugnata, che il criterio pertinente in tale materia è l’accesso al giudice piuttosto che l’esistenza di ricorsi effettivi, cui fa riferimento la giurisprudenza. A tale riguardo, esse fanno valere la sentenza 25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio (Racc. pag. I-6677, punto 39). 75. Inoltre, il fatto che la Corte, nelle sentenze Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio, cit. (punto 40), e 2 aprile 1998, causa C-321/95 P, Greenpeace Council e a./Commissione (Racc. pag. I-1651), abbia menzionato l’esistenza di un sistema completo di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni, senza tuttavia includervi l’art. 288 CE, dimostrerebbe l’inesattezza della tesi, enunciata dal Tribunale al punto 123 della sentenza impugnata, secondo cui non è in contrasto con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva il fatto di non considerare ricevibile un ricorso di annullamento a causa della possibilità di proporre un ricorso per responsabilità extracontrattuale sulla base del detto articolo. Per di più, la mera incompetenza delle istituzioni comunitarie non farebbe sorgere la responsabilità extracontrattuale della Comunità, così che un ricorso per risarcimento non basterebbe a fornire alle ricorrenti un’effettiva tutela giurisdizionale. 76. La Commissione sostiene che il principio della effettiva tutela giurisdizionale garantisce la tutela contro gli atti delle istituzioni comunitarie idonei a violare i diritti e le libertà riconosciute dal diritto comunitario, ossia gli atti che producono effetti giuridici sugli interessati. Orbene, a suo avviso le decisioni controverse non costituiscono atti di questo genere. 79. Anzitutto occorre dichiarare che il Tribunale, al punto 123 della sentenza impugnata, si è giustamente fondato sul principio che i provvedimenti che non producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi dei singoli non possono formare oggetto di un ricorso di annullamento. 80. È vero che, come ricordato al punto 121 della detta sentenza, mediante gli artt. 230 CE e 241 CE, da un lato, e l’art. 234 CE, dall’altro, il Trattato istituisce un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO inteso ad affidare alla Corte di giustizia il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni (v. citate sentenze Les Verts/Parlamento, punto 23; Foto- Frost, punto 16, e 6 dicembre 2005, causa C-461/03, Gaston Schul Douaneexpediteur, Racc. pag. I-10513, punto 22). 81. Tuttavia, rimane il fatto che, sebbene il requisito relativo agli effetti giuridici vincolanti, idonei ad incidere sugli interessi del ricorrente modificando significativamente la sua situazione giuridica, debba essere interpretato alla luce del principio di una tutela giurisdizionale effettiva, tale interpretazione non può condurre ad escludere questo requisito senza eccedere le competenze attribuite dal Trattato ai giudici comunitari (v., per analogia, quanto al requisito secondo cui la persona fisica o giuridica ricorrente deve essere individualmente interessata dall’atto impugnato, sentenza Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio, cit., punto 44). 82. Il Tribunale ha avuto ancora una volta ragione quando ha dichiarato, al punto 123 della sentenza impugnata, che anche se i singoli non possono proporre un ricorso di annullamento contro siffatte misure, essi non sono però privati dell’accesso al giudice, poiché resta aperta la via del ricorso per responsabilità extracontrattuale, previsto negli artt. 235 CE e 288, secondo comma, CE se un simile comportamento è di natura tale da far sorgere la responsabilità della Comunità. 83. Siffatto ricorso non fa parte del sistema di controllo della validità degli atti comunitari che producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi del ricorrente, ma è a disposizione quando una parte ha subito un danno dovuto al comportamento illegittimo di un’istituzione. 84. Inoltre, la circostanza che magari le ricorrenti non siano in grado di dimostrare l’esistenza di un comportamento illegittimo da parte delle istituzioni comunitarie, o del danno lamentato, o ancora del nesso causale tra siffatto comportamento e siffatto danno subito, non significa che gli sarà negata la tutela giurisdizionale effettiva. 86. Le ricorrenti sottolineano che nessuna disposizione del Trattato e nessun atto di diritto derivato legittima la Comunità ad intentare un’azione giudiziaria fuori dall’ordinamento giuridico comunitario, né autorizza la Commissione ad adottare un atto esecutivo per la riscossione dei dazi doganali e dell’IVA. A tale riguardo, le ricorrenti osservano che l’art. 211 CE non è una norma generale di autorizzazione che rende irrilevante l’art. 7 CE. Quindi, dato che le decisioni controverse sarebbero manifestamente illegittime, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare i ricorsi di annullamento ricevibili, in conformità alla citata sentenza IBM/Commissione. 87. Quanto alla citata ordinanza FNAB e a./Consiglio, richiamata dal Tribunale ai punti 87 e 88 della sentenza impugnata, le ricorrenti affermano che la Corte, quando al punto 40 di tale ordinanza si è rifatta ai «criteri di ricevibilità espressamente fissati dal Trattato», si riferiva ai requisiti relativi all’interesse diretto ed individuale menzionati all’art. 230, quarto comma, CE, a prescindere dal fatto che, in circostanze eccezionali, provvedimenti sprovvisti anche della più vaga apparenza di regolarità possano formare oggetto di ricorsi di annullamento. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 197 88. Ad ogni modo, le ricorrenti sostengono che il Tribunale ha applicato in modo errato la giurisprudenza risultante, tra l’altro, dalle sentenze 9 ottobre 1990, Francia/Commissione, citata, e 16 giugno 1993, causa C-325/91, Francia/Commissione (Racc. pag. I-3283), ed ha commesso una violazione di una forma sostanziale non avendo riunito la questione della ricevibilità al merito. 89. La Commissione ritiene, in primo luogo, che questo motivo sia irricevibile in quanto gli argomenti sviluppati sono solo la ripetizione di quelli che erano stati sollevati in primo grado. 90. In secondo luogo, essa osserva che, dinanzi al Tribunale, le parti legittimate a ricorrere ex art. 230, secondo comma, CE, sulle cui prerogative istituzionali incide direttamente una presa di posizione unilaterale della Commissione sulla sua competenza, hanno sostenuto molto chiaramente il diritto della Commissione di adottare le decisioni controverse. La stessa Commissione avrebbe inoltre ricordato le prerogative in materia di rappresentanza della Comunità conferitele dall’art. 282 CE, che costituirebbe un’applicazione del principio generale secondo cui solo la Commissione è autorizzata a rappresentare la Comunità dinanzi ai tribunali. Nella replica all’istanza di rigetto presentata dinanzi alla District Court, la Commissione si sarebbe fondata sull’art. 211 CE, oltre che su altri articoli del Trattato. Quindi, posto che la Commissione, per lo meno a priori, dispone della competenza in questione, non si può sostenere che ci sia incompetenza manifesta, né che le decisioni controverse siano prive della più vaga apparenza di regolarità. 91. In terzo luogo, quanto alla citata ordinanza FNAB e a./Consiglio, e all’argomento delle ricorrenti secondo cui il Tribunale avrebbe dovuto riunire la questione della ricevibilità al merito, la Commissione ricorda che, per poter contestare una decisione, il singolo deve anzitutto dimostrare che essa abbia prodotto taluni effetti giuridici definitivi, il che non sarebbe avvenuto. 93. Inoltre, non è necessario pronunciarsi sul punto se dalla citata sentenza IBM/Commissione risulti che, in circostanze eccezionali, i ricorsi di annullamento diretti contro misure prive della più vaga apparenza di regolarità debbano essere dichiarati ricevibili. Occorre infatti constatare che, palesemente, tale situazione non si riscontra nel caso di specie. 94. Basta infatti rilevare che, in proposito, l’art. 211 CE prevede che la Commissione vigila sull’applicazione delle disposizioni del Trattato e delle disposizioni adottate in virtù di esso; che, conformemente all’art. 281 CE, la Comunità ha personalità giuridica e che l’art. 282 CE – il quale, sebbene il suo disposto si limiti agli Stati membri, costituisce l’espressione d’un principio generale – precisa che la Comunità possiede la capacità giuridica e a tal fine è rappresentata dalla Commissione. 95. Per quanto riguarda la censura secondo la quale il Tribunale avrebbe dovuto riunire la valutazione dell’eccezione di irricevibilità al merito, si deve dichiarare che, contrariamente a quanto accadeva nelle sentenze citate dalle ricorrenti, la valutazione della fondatezza dell’eccezione di irricevibilità sollevata dinanzi al Tribunale non dipendeva, nel caso di specie, da quella che doveva essere svolta sui motivi di merito fatti valere dalle ricorrenti. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 97. Le ricorrenti affermano che, concludendo che la District Court poteva dirimere tutte le controversie relative alla competenza della Commissione ad avviare i procedimenti in questione negli Stati Uniti, il Tribunale ha optato per una soluzione in contrasto con l’art. 292 CE e con il sistema dei Trattati. 98. L’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario sarebbe infatti compromessa da qualsiasi sistema extracomunitario in base al quale la Comunità e le sue istituzioni risultassero vincolate da una particolare interpretazione delle norme di diritto comunitario nell’esercizio delle loro competenze interne (v., in particolare, pareri 14 dicembre 1991, n. 1, Racc. pag. I-6079, punti 41-46, e 18 aprile 2002, n. 1, Racc. pag. I-3493, punto 45). Ciò si verificherebbe se la District Court decidesse sulla competenza della Commissione ad intentare azioni in uno Stato terzo per recuperare dazi doganali ed IVA che si ritiene non siano stati versati. 99. La Commissione rammenta, innanzi tutto, che l’art. 292 CE riguarda gli Stati membri e non essa stessa. 100. Essa afferma poi che la Comunità non cerca di sostituire alla Corte la District Court in qualità di arbitro di questioni di diritto comunitario. Tutti gli argomenti relativi alla legittimazione ed alla competenza della Commissione suscettibili di essere presentati dalle ricorrenti dinanzi alla District Court sarebbero trattati da essa allo stesso modo di qualsiasi altra questione preliminare risultante da un’azione civile proposta contro di esse dalla Comunità. Quando risulta necessario tener conto del diritto comunitario al fine dell’applicazione delle disposizioni del suo ordinamento giuridico, la District Court raccoglierebbe tutte le informazioni a tal fine richieste. 101. Quanto alla scelta del giudice, per la Commissione si tratterrebbe di una questione di strategia. Essa farebbe in modo di intentare azioni o intervenire nei procedimenti nello Stato in cui si sono svolte le attività incriminate o in cui avrà luogo l’esecuzione. La District Court sarebbe il giudice competente per la giurisdizione cui sono assoggettate una o più ricorrenti e in cui hanno avuto luogo le attività illecite. Pertanto, si tratterebbe del giudice che si trova nella posizione migliore per ottenere l’auspicata effettiva esecuzione della sentenza. 102. Occorre dichiarare che, contrariamente a quanto sostengono le ricorrenti, la decisione di un giudice statunitense sulla competenza della Commissione ad intentare dinanzi ad esso un’azione giudiziaria non è idonea a vincolare la Comunità e le sue istituzioni, nell’esercizio delle loro competenze interne, ad una particolare interpretazione delle norme di diritto comunitario. Infatti, come osservato dall’avvocato generale al paragrafo 90 delle conclusioni, siffatta decisione sarebbe vincolante solamente in relazione ad uno specifico procedimento. – Mancata esecuzione del giudicato ( art. 228 CE ) Sentenza della Corte, Grande Sezione, 18 luglio 2006, nella causa C- 119/04 – Commissione delle Comunità europee contro Italia. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 199 La Corte di giustizia con sentenza 26 giugno 2001 in causa Commissione delle Comunità Europee contro Italia in causa C- 212/99 ha dichiarato e statuito «La Repubblica italiana, non avendo assicurato il riconoscimento dei diritti quesiti agli ex lettori (…), divenuti collaboratori [ed esperti] linguistici, riconoscimento invece garantito alla generalità dei lavoratori nazionali, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. [39 CE]» Con lettera 31 gennaio 2002 la Commissione ha ricordato alle autorità italiane la necessità di conformarsi agli obblighi derivanti dalla citata sentenza Commissione/Italia. Con lettere 10 aprile, 8 luglio e 16 ottobre 2002 dette autorità hanno risposto a tale lettera di sollecito comunicando alla Commissione i seguenti elementi: – copia di una lettera, del 27 marzo 2002, con la quale il Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca italiano invitava le Università interessate a conformarsi a quanto stabilito dalla citata sentenza Commissione/Italia, entro un termine di 45 giorni; – l’informazione relativa agli atti adottati dalle dette Università per «assicurare agli ex lettori (…) il riconoscimento dell’anzianità del servizio prestato, sulla base di quanto stabilito dalla sentenza della Corte di giustizia»; – spiegazioni sul contenuto e sugli effetti delle decisioni prese da ciascuna di dette Università. In seguito a tali comunicazioni la Commissione ha chiesto alle autorità italiane, con lettera 11 dicembre 2002, chiarimenti sul metodo e sui criteri applicati dalle Università interessate per calcolare l’ammontare degli aumenti di retribuzione concessi agli ex lettori inseriti dal 1994 nel ruolo di nuova istituzione dei collaboratori ed esperti linguistici. Il governo italiano ha risposto a tale domanda con lettera 24 gennaio 2003, comunicando alla Commissione un’ipotesi di accordo riguardante il CCNL – secondo biennio economico 2000-2001, stipulato il 18 dicembre 2002 fra l’agenzia governativa di negoziazione dei contratti di lavoro del pubblico impiego (ARAN) e le organizzazioni sindacali del personale universitario. Tale progetto conteneva una specifica normativa per i collaboratori ed esperti linguistici (ex lettori), al fine di «rispettare la sentenza della Corte di giustizia del 26 giugno 2001 nella causa C-212/99». Ritenendo che tali misure non dimostrassero che era stato posto fine all’inadempimento, il 30 aprile 2003 la Commissione ha inviato alla Repubblica italiana un parere motivato nel quale concludeva che, non avendo adottato tutti i provvedimenti che l’esecuzione della citata sentenza Commissione/Italia comporta, tale Stato membro era venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza dell’art. 39 CE. La Commissione ricordava al detto Stato membro che, se la controversia fosse stata portata dinanzi alla Corte, essa avrebbe proposto la condanna di quest’ultimo ad una penalità. Inoltre, il detto parere motivato prevedeva che la Repubblica italiana adottasse i provvedimenti necessari per conformarsi al parere stesso entro un termine di due mesi a partire dalla sua notifica. In risposta al detto parere motivato il governo italiano ha fatto pervenire alla Commissione svariati documenti, fra i quali figuravano in particola- 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO re le lettere 16 giugno e 12 novembre 2003, con cui venivano comunicati a quest’ultima, rispettivamente, la versione definitiva del CCNL, concluso il 13 maggio 2003, e gli adempimenti che le amministrazioni competenti intendevano adottare a breve scadenza. Il 28 gennaio 2004 tale governo ha trasmesso alla Commissione una copia del decreto legge n. 2/2004. Alla luce di quanto sopra la Commissione, ritenendo che la Repubblica italiana non avesse dato piena esecuzione alla citata sentenza Commissione/Italia, ha deciso di proporre il presente ricorso. 25. In via preliminare, occorre ricordare che uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del suo ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi risultanti dal diritto comunitario (v., in particolare, sentenze Commissione/Italia, cit., punto 34, e 9 settembre 2004, causa C-195/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-7857, punto 82). 26. Pertanto, non può essere accolto l’argomento fatto valere dalla Repubblica italiana secondo il quale il problema del riconoscimento dei diritti quesiti degli ex lettori dev’essere valutato alla luce del sistema italiano di regolamentazione del rapporto di lavoro, sistema fondato sulla contrattazione collettiva. 27. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante, la data di riferimento per valutare l’esistenza di un inadempimento ai sensi dell’art. 228 CE si colloca alla scadenza del termine fissato nel parere motivato emesso in forza della detta disposizione (v. sentenze 12 luglio 2005, causa C-304/02, Commissione/ Francia, Racc. pag. I-6263, punto 30, e 14 marzo 2006, causa C-177/04, Commissione/Francia, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20). 29. Come risulta dai punti 21 e 22 della citata sentenza Commissione/Italia, il principio di parità di trattamento previsto all’art. 39 CE imponeva che gli ex lettori, che sono stati vincolati da un contratto di lavoro a tempo determinato, conservassero, al momento della sostituzione di tale contratto con un contratto a tempo indeterminato, tutti i loro diritti quesiti sin dalla data della loro prima assunzione. Tale garanzia aveva conseguenze non solo sotto il profilo degli aumenti di retribuzione, ma anche sull’anzianità e sul versamento, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali. 30. Risulta dagli atti che, in esecuzione della citata sentenza Commissione/Italia, la Repubblica italiana ha attuato, in una prima fase, i seguenti provvedimenti: – all’Università di Milano, un contratto collettivo relativo ai collaboratori ed esperti linguistici, firmato il 27 novembre 1999, aveva previsto che l’attività esercitata da questi ultimi in quanto lettori di lingua straniera dovesse essere presa in considerazione per determinarne la retribuzione. In seguito, tale Università, con lettera 7 maggio 2002, ha informato il governo italiano del fatto che le retribuzioni dei collaboratori ed esperti linguistici erano state aumentate e che gli arretrati di retribuzione erano stati calcolati sulla base di un massimale di 450 ore annue di insegnamento; IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 201 – all’Università di Pisa, con decisioni del direttore amministrativo, in data 13 marzo 2002, e del rettore, in data 10 maggio 2002, gli ex lettori beneficiano degli arretrati di retribuzione in base a tre fasce di anzianità; – una decisione del direttore amministrativo dell’Università «La Sapienza» di Roma, in data 17 maggio 2002, ha stabilito che l’anzianità degli ex lettori fosse calcolata sulla base di 400 ore annue di insegnamento; – l’Università di Palermo ha annunciato, con lettera 27 maggio 2002, che stava per procedere all’adeguamento della retribuzione degli ex lettori sulla base dei calcoli che erano in corso; – con decisione del rettore dell’Istituto universitario orientale di Napoli, in data 20 maggio 2002, i collaboratori ed esperti linguistici hanno beneficiato degli arretrati di retribuzione calcolati sulla base di 318 ore annue di insegnamento; – una decisione del direttore amministrativo dell’Università della Basilicata, in data 22 maggio 2002, ha fissato l’anzianità dei collaboratori ed esperti linguistici in relazione a cinque fasce e ad una base forfetaria di 400 ore annue di insegnamento. 31. Questi provvedimenti non potevano essere considerati come sufficienti né come definitivi ai fini dell’esecuzione della citata sentenza Commissione/Italia, e lo stesso governo italiano non li ha considerati tali. 33. Poiché la Commissione ha concluso per la condanna della Repubblica italiana al pagamento di una penalità, occorre accertare se l’inadempimento contestato sia perdurato sino all’esame dei fatti da parte della Corte (v. citate sentenze 12 luglio 2005, Commissione/Francia, punto 31, e 14 marzo 2006, Commissione/Francia, punto 21). 34. Il 14 gennaio 2004 la Repubblica italiana ha adottato il decreto legge n. 2/2004 il cui scopo era quello di fornire il quadro normativo e finanziario necessario perché ciascuna delle Università interessate fosse finalmente in grado di procedere alla ricostruzione precisa della carriera degli ex lettori. 35. Il quadro normativo stabilito dal decreto legge n. 2/2004 è fondato su due principi in forza dei quali, salvo trattamenti eventualmente più favorevoli: – la ricostruzione della carriera degli ex lettori è effettuata prendendo come parametro di riferimento la retribuzione dei ricercatori confermati a tempo parziale; – tale retribuzione è riconosciuta agli ex lettori proporzionalmente al numero di ore di lavoro fornite, tenendo conto del fatto che l’impegno pieno corrisponde a 500 ore annue di insegnamento. 38. Alla luce di quanto precede, la Corte non è in grado, sulla base degli elementi forniti dalla Commissione, di constatare il carattere inadeguato dei parametri indicati ai punti 36 e 37 della presente sentenza, tanto più che risulta chiaramente che la loro applicazione non osta a che, in casi particolari, la ricostruzione della carriera degli ex lettori possa essere effettuata sulla base di trattamenti più favorevoli. 39. Non può pertanto ritenersi che il decreto legge n. 2/2004 abbia fornito un quadro normativo scorretto per mettere ciascuna delle Università 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO interessate in grado di procedere alla ricostruzione precisa della carriera degli ex lettori. 40. Resta da verificare se le azioni condotte dalle Università interessate dopo l’adozione del decreto legge n. 2/2004 abbiano raggiunto gli obiettivi annunciati. 41. Secondo la giurisprudenza della Corte, spetta alla Commissione, nell’ambito del presente procedimento, fornire alla Corte gli elementi necessari per stabilire il livello di esecuzione da parte di uno Stato membro di una sentenza di condanna per inadempimento (sentenza 4 luglio 2000, causa C-387/97, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-5047, punto 73). Inoltre, dato che la Commissione ha fornito sufficienti elementi da cui risulta la persistenza dell’inadempimento, spetta allo Stato membro interessato contestare in modo approfondito e particolareggiato i dati prodotti e le conseguenze che ne derivano (sentenza 12 luglio 2005, Commissione/Francia, cit., punto 56). 42. Occorre constatare che, oltre alle dichiarazioni delle Università interessate attestanti che il riconoscimento completo dei diritti quesiti degli ex lettori era stato effettuato, il governo italiano ha presentato prospetti dettagliati relativi all’attuazione di tale riconoscimento in ciascuna delle dette Università. 44. Tuttavia, i dati forniti alla Corte non possono rimettere in discussione le informazioni menzionate al punto 42 della presente sentenza. 45. Di conseguenza, non esistono elementi sufficienti per permettere alla Corte di concludere che, alla data dell’esame dei fatti da parte di quest’ultima, l’inadempimento persista. 46. Quindi, l’irrogazione di una penalità non si giustifica. 47. Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dichiarare che, non avendo assicurato, alla data di scadenza del termine impartito nel parere motivato, il riconoscimento dei diritti quesiti agli ex lettori, divenuti collaboratori ed esperti linguistici, mentre tale riconoscimento era garantito alla generalità dei lavoratori nazionali, la Repubblica italiana non ha attuato tutti i provvedimenti che l’esecuzione della citata sentenza Commissione/Italia comportava ed è pertanto venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 228 CE. – Pregiudiziale Sentenza della Corte, Grande Sezione, 5 dicembre 2006, procedimenti riuniti C-94/04 e c-202/04 – F.C. contro R.P. in F. 25. Per quanto riguarda le eccezioni di irricevibilità sollevate dall’avv. C., si deve ricordare che le questioni relative all’interpretazione del diritto comunitario proposte dal giudice nazionale nell’ambito del contesto di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza (v. sentenza 15 maggio 2003, causa C-300/01, Salzmann, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 203 Racc. pag. I-4899, punti 29 e 31). Il rigetto, da parte della Corte, di una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta non ha alcun rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenze 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099, punto 39, e 15 giugno 2006, causa C-466/04, Acereda Herrera, Racc. pag. I-5341, punto 48). 26. Ebbene, tale presunzione di rilevanza non può essere messa in discussione dalla semplice circostanza che una delle parti nella causa principale contesti taluni fatti, come quelli rilevati al punto 22 della presente sentenza, di cui non spetta alla Corte verificare l’esattezza e dai quali dipende la definizione dell’oggetto della controversia. 27. Si deve pertanto rilevare che, come risulta dalla decisione di rinvio, la causa principale riguarda la necessità di determinare se l’accordo concluso tra una cliente e il suo avvocato, relativamente al compenso forfettario di quest’ultimo, esista e debba essere ritenuto valido, in quanto la sua sostituzione d’ufficio con un calcolo del compenso dell’avvocato sulla base della tariffa vigente nello Stato membro interessato non sarebbe conforme alle norme comunitarie in materia di concorrenza. 28. Si deve a tale proposito rilevare che non appare manifesto che l’interpretazione delle regole comunitarie richiesta dal giudice del rinvio sia priva di ogni rapporto con l’effettività o l’oggetto della causa principale, né che le questioni relative all’interpretazione di tali regole siano ipotetiche. 29. Pertanto, anche qualora si ritenesse non dimostrata l’esistenza dell’accordo di cui trattasi nella causa principale, non si può escludere che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta dal giudice del rinvio, che può consentire a quest’ultimo di valutare la compatibilità della tariffa con le norme sulla concorrenza fissate dal Trattato, possa essere utile a tale giudice per decidere la controversia ad esso sottoposta. Essa, infatti, riguarda essenzialmente la liquidazione degli onorari di avvocato che, come rilevato al punto 5 della presente sentenza, è compiuta dall’autorità giudiziaria mantenendosi, salvo eccezioni, nei limiti massimo e minimo previamente fissati dal Ministro della Giustizia. 30. Per quanto infine riguarda più specificamente le questioni relative all’interpretazione dell’art. 49 CE, sebbene sia pacifico che tutti gli elementi della controversia sottoposta al giudice del rinvio sono limitati all’interno di un unico Stato membro, una risposta può tuttavia essere utile al giudice del rinvio, in particolare nel caso in cui il diritto nazionale imponga, in un procedimento come quello in esame, di riconoscere ad un cittadino italiano gli stessi diritti di cui godrebbe nella medesima situazione, in base al diritto comunitario, un cittadino di uno Stato diverso dalla Repubblica italiana (v., in particolare, sentenza 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 29). 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – Procedimento di infrazione Sentenza della Corte, 30 novembre 2006, nella causa C-293/05 – Commissione delle Comunità europee contro Italia. 19. (...) secondo una costante giurisprudenza, in un ricorso per inadempimento la fase precontenziosa del procedimento ha lo scopo di offrire allo Stato membro interessato l’opportunità, da un lato, di conformarsi agli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto comunitario e, dall’altro, di far valere utilmente i suoi motivi di difesa contro gli addebiti formulati dalla Commissione (v., in particolare, sentenza 24 giugno 2004, causa C-350/02, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-6213, punto 18 e giurisprudenza ivi richiamata). 20. La regolarità di tale procedimento costituisce una garanzia essenziale prevista dal Trattato CE non soltanto a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi, ma anche per garantire che l’eventuale procedimento contenzioso verta su una controversia chiaramente definita (v., in particolare, citata sentenza Commissione/Paesi Bassi, punto 19 e giurisprudenza ivi richiamata). 21. L’oggetto di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 226 CE è pertanto determinato dalla fase precontenziosa del procedimento prevista dalla medesima disposizione. Il parere motivato della Commissione ed il ricorso devono essere basati sui medesimi motivi e mezzi, di modo che la Corte non può esaminare una censura che non sia stata sollevata nel parere motivato, il quale deve contenere un’esposizione coerente e particolareggiata delle ragioni che hanno indotto la Commissione al convincimento che lo Stato membro interessato sia venuto meno ad un obbligo ad esso incombente in forza del Trattato (v., in tal senso, citata sentenza Commissione/Paesi Bassi, punto 20 e giurisprudenza ivi richiamata). 22. In pratica, l’avvio di un procedimento di infrazione nei confronti di uno Stato membro è preceduto da una fase informale nel corso della quale la Commissione cerca di ottenere tutte le informazioni che essa ritiene necessarie al fine, e quindi prima, di procedere, eventualmente, all’invio di una lettera di diffida. 23. Nella fattispecie, dopo aver analizzato le informazioni contenute nella denuncia ad essa presentata, la Commissione ha chiesto alle autorità italiane di fornirle un certo numero di chiarimenti. Lo scambio di lettere che ne è conseguito costituisce precisamente questa fase preliminare al procedimento d’infrazione propriamente detto, il quale ha avuto inizio formalmente con l’invio della lettera di diffida, in data 17 ottobre 2003. 24. In tale contesto, non si può utilmente sostenere che il riferimento, nella lettera di diffida, ad un articolo della direttiva di cui non è stata fatta menzione nella fase preliminare, ha posto la Repubblica italiana nell’impossibilità di adempiere i suoi obblighi o di far valere utilmente i suoi motivi di difesa. 25. Per quanto riguarda l’argomento della Repubblica italiana secondo cui il termine che è stato ad essa impartito nel parere motivato era insuffi- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 205 ciente, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, il duplice scopo perseguito dalla fase precontenziosa del procedimento (v. punto 19 della presente sentenza) impone alla Commissione di concedere agli Stati membri un termine ragionevole per rispondere alla lettera di diffida e per conformarsi al parere motivato o, eventualmente, per preparare la propria difesa. Per valutare la ragionevolezza del termine impartito, si deve tener conto del complesso delle circostanze caratterizzanti la fattispecie (v. sentenze 2 febbraio 1988, causa 293/85, Commissione/Belgio, Racc. pag. 305, punto 14, e 28 ottobre 1999, causa C-328/96, Commissione/Austria, Racc. pag. I-7479, punto 51). 26. Nella fattispecie, la Repubblica italiana ha avuto un termine di circa sei anni per conformarsi alle disposizioni dell’art. 5, nn. 2 e 5, della direttiva, ossia dal 31 dicembre 1998, data limite dell’adempimento stabilita da tale direttiva, al 9 settembre 2004, data di scadenza del termine fissato nel parere motivato. Sentenza della Corte, prima sezione, 27 aprile 2006, nel procedimento C-441/02 – Commissione delle Comunità europee c. Repubblica di Germania. La lettera di diffida inviata dalla Commissione allo Stato membro e poi il parere motivato emesso dalla Commissione ai sensi dell’art. 226 CE delimitano la materia del contendere, che quindi non può più essere ampliata. Di conseguenza, il parere motivato e il ricorso della Commissione devono vertere sugli stessi addebiti già mossi nella lettera di diffida che apre il procedimento precontenzioso. Tuttavia, non si potrà esigere in ogni caso una perfetta coincidenza tra l’esposizione degli addebiti nella lettera di diffida, il dispositivo del parere motivato e le conclusioni del ricorso, quando l’oggetto della controversia non sia stato ampliato o modificato ma, al contrario, semplicemente ridotto. TELECOMUNICAZIONI Sentenza della Corte, sezione terza, 18 luglio 2006, nel procedimento C-339/04 – Nuova società di telecomunicazioni SpA e Ministero delle Comunicazioni, ENI SpA. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 10 aprile 1997, 97/13/CE, relativa ad una disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazione (G.U. L 117, pag. 15). Questa domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la Nuova società di telecomunicazioni S.p.A. (in prosieguo: la «NST») e il Ministero delle Comunicazioni in merito al versamento di un canone per l’uso 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO privato di una rete di telecomunicazioni. Con le sue due questioni, il Consiglio di Stato chiede in sostanza se l’art. 11 della direttiva 97/13 osti a una normativa nazionale, quale quella di cui alla causa principale, la quale assoggetta una società titolare di una licenza individuale per l’esercizio di una rete pubblica di telecomunicazioni, per la quale ha versato un contributo in base a quanto disposto dal detto articolo, al versamento di un contributo aggiuntivo in relazione all’uso privato della detta rete. Il governo italiano asserisce che la direttiva 97/13 non si applica alle reti o ai servizi di telecomunicazione privati, bensì unicamente a reti o a servizi di telecomunicazione pubblici. Di conseguenza, esso ritiene che la detta direttiva non osti alla riscossione di un contributo aggiuntivo, quale il secondo contributo di cui alla causa principale, riguardo all’uso privato di una rete di telecomunicazioni. 26. A tale proposito occorre costatare che, ai sensi dell’art. 1, n. 1, della direttiva 97/13, quest’ultima riguarda le procedure connesse alla concessione di autorizzazioni ai fini della prestazione di servizi di telecomunicazione, senza distinguere tra le reti aperte al pubblico e le reti private. 27. Inoltre, l’art. 7, n. 2, di detta direttiva autorizza gli Stati membri a prevedere un sistema di licenze individuali per la creazione e la fornitura di reti di telecomunicazione pubbliche nonché di altre reti che prevedano l’utilizzo di frequenze radio. 28. Di conseguenza detta direttiva si applica, in linea di principio, non solo alle reti e ai servizi pubblici di telecomunicazione, bensì anche alle reti private di telecomunicazione che non siano state aperte al pubblico e siano riservate a un circolo chiuso di utenti nonché ai servizi forniti su tali reti private. 30. Atale riguardo occorre ricordare che, conformemente al quinto ‘considerando’ della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 30 giugno 1997, 97/33/CE, sull’interconnessione nel settore delle telecomunicazioni e finalizzata a garantire il servizio universale e l’interoperabilità attraverso l’applicazione dei principi di fornitura di una rete aperta (ONP) (G.U. L 199, pag. 32), il termine «pubblico» va riferito a qualsiasi rete o servizio messo a disposizione del pubblico affinché sia utilizzato dai terzi. 31. Inoltre, dall’art. 2, punto 2, secondo comma, della direttiva del Consiglio 28 giugno 1990, 90/387/CEE, sull’istituzione del mercato interno per i servizi delle telecomunicazioni mediante la realizzazione della fornitura di una rete aperta di telecomunicazioni (G.U. L 192, pag. 1), nella versione modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 ottobre 1997, 97/51/CE (G.U. L 295, pag. 23), si evince che con «rete pubblica di telecomunicazione» si intende una rete di telecomunicazione «utilizzata, in tutto o in parte, per fornire servizi di telecomunicazione a disposizione del pubblico». 32. Ne discende che una rete quale quella di cui alla causa principale, che è stata messa a disposizione del pubblico dopo essere stata usata unicamente a fini privati, deve essere considerata come una rete pubblica di telecomunicazione ai sensi della direttiva 97/13. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 207 33. Di conseguenza, una rete di telecomunicazioni di tal genere nonché tutti i servizi forniti tramite quest’ultima rientrano integralmente nella sfera di applicazione di questa direttiva. 35. A questo proposito occorre rilevare che gli Stati membri non possono riscuotere, per le procedure di autorizzazione, tasse o canoni diversi da quelli previsti dalla direttiva 97/13 (v., in tal senso, sentenza Albacom e Infostrada, cit., punto 41). 37. Ebbene, dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate alla Corte si evince che il secondo contributo è stato calcolato conformemente ai criteri previsti dal codice prima della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, i quali non corrispondevano a quelli previsti dall’art. 11 della direttiva 97/13. 38. L’art. 11 della direttiva 97/13 osta a una normativa nazionale, quale quella di cui alla causa principale, la quale assoggetta il titolare di una licenza individuale per l’esercizio di una rete pubblica di telecomunicazioni, per la quale ha versato un contributo in base a quanto disposto dal detto articolo, al versamento di un contributo aggiuntivo in relazione all’uso privato della detta rete e calcolato in base a criteri che non corrispondono a quelli previsti dal citato articolo. Avv. Maurizio Fiorilli 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Le misure cautelari nei confronti di atti legislativi in contrasto con il diritto comunitario (Corte di Giustizia delle Comunità europee, ordinanze 19 dicembre 2006 e 27 febbraio 2007) L’ordine di sospensione della L. Reg. Liguria n. 36/2006 Il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro l’Italia ai sensi dell’art. 226 T.C.E., avente ad oggetto la L. Reg. Liguria, n. 36/2006 per violazione dell’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, ha visto l’instaurazione del procedimento cautelare (C-503/06 R). La Commissione ha infatti presentato, ai sensi degli artt. 242-243 T.C.E., una domanda di provvedimenti provvisori intesa ad ottenere, nei confronti della Repubblica italiana, un’ingiunzione ad adottare le misure necessarie per sospendere l’esecuzione della legge nella parte controversa. Aparere della Commissione la legge n. 36/2006 rimetterebbe sostanzialmente in vigore una disciplina anteriore, vale a dire la legge n. 34/2001 (Attuazione dell’articolo 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE del 2 aprile 1979 sulla conservazione degli uccelli selvatici) rispetto alla quale le autorità italiane avevano in precedenza ammesso la contrarietà alla Dir. 79/409; inoltre, con riguardo all’urgenza, si sottolinea che la prosecuzione della caccia agli storni, come consentita dalla legge n. 36, rischi di causare un danno grave e irreparabile al patrimonio faunistico e ornitologico. Con ordinanza in epigrafe (1) il Presidente della Corte ha ingiunto, a titolo conservativo, all’Italia di sospendere l’esecuzione della legge contestata fino alla pronuncia dell’ordinanza che ponga fine al procedimento sommario (2). La tutela cautelare nei confronti degli atti legislativi L’art. 242 T.C.E. stabilisce che “i ricorsi proposti alla Corte di giustizia non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando reputi che le (1) Per un primo commento STEFUTTI, Ancora sul prelievo venatorio in deroga. Ingiunta da Bruxelles la sospensione della L.R. 31 ottobre 2006 n. 36 della Regione Liguria, in www.dirittoambiente.com. (2) Il procedimento cautelare potrà concludersi con un’ordinanza di proroga dell’efficacia del provvedimento cautelare fino alla pronuncia sul merito del ricorso ovvero di revoca dello stesso. LE DECISIONI circostanze lo richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato” (3). Il potere di adottare provvedimenti sospensivi è stato dalla Corte riconosciuto anche in capo ai giudici nazionali con riferimento ai provvedimenti nazionali di esecuzione di atti comunitari di cui risulta contestata la validità ai sensi dell’art. 234 T.C.E. Oltre alla sospensione degli atti delle istituzioni, la Corte può disporre provvedimenti provvisori atipici. Infatti, in virtù dell’art. 243 T.C.E., “la Corte di giustizia, negli affari che le sono proposti, può ordinare i provvedimenti provvisori necessari” (4). Nella prassi i provvedimenti provvisori si sostanziano in un’ingiunzione con cui si chiede agli Stati membri di sospendere l’applicazione di determinati atti. Anche per la concessione dei provvedimenti provvisori, che segue lo stesso iter procedurale previsto per la sospensiva di cui all’art. 242 T.C.E., occorre la previa instaurazione di un giudizio di merito innanzi alla Corte, chiamata a giudicare della validità di un atto ovvero l’inadempimento dello Stato rispetto agli obblighi del Trattato. In sede comunitaria non è infatti possibile proporre una istanza cautelare ante causam. L’art. 84, n. 2 del regolamento di procedura della Corte di Giustizia, consente invece al Presidente di “accogliere una domanda di provvedimenti provvisori anche prima che l’altra parte abbia presentato le sue osservazioni”, con la possibilità che tale provvedimento possa essere successivamente modificato o revocato anche d’ufficio. La lettura dell’ordinanza 19 dicembre 2006 consente di evidenziare i presupposti di un provvedimento cautelare inaudita altera parte. L’adozione di un tale provvedimento risulta subordinata ad una valutazione sommaria sulla non infondatezza degli argomenti addotti dalla parte a sostegno del ricorso (fumus boni iuris) e sulla sussistenza di circostanze che giustifichino la necessaria urgenza della concessione del provvedimento provvisorio immediato (periculum in mora), nonché ad un bilanciamento di interessi, la “buona amministrazione della giustizia” e gli obiettivi che l’atto controverso si propone di raggiungere, che non devono essere “seriamente” pregiudicati dalla ritardata applicazione. La possibilità per il giudice comunitario di ordinare la sospensione di un atto legislativo che si assume in contrasto con il diritto comunitario costituisce 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (3) Per una breve ricostruzione sulla tutela cautelare innanzi al giudice comunitario sia consentito rinviare al mio Ancora sul divieto di circolazione nel Land Tirolo (Corte Ce, ord. 30 luglio 2003, 2 ottobre 2003, 27 aprile 2004), in questa Rivista, 2006, II, 109. (4) Le disposizioni degli artt. 242-243 T.C.E. sono riprodotte in maniera analoga nell’articolo III-379 della Costituzione europea che stabilisce che: «I ricorsi proposti alla Corte di giustizia dell’Unione europea non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, la Corte può, quando reputi che le circostanze lo richiedono, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. La Corte di giustizia dell’Unione europea, nelle cause che le sono proposte, può ordinare le misure provvisorie necessarie». un potere di non poco rilievo se si considera che, nel diritto interno, fino a non molto tempo fa, al giudice costituzionale non era consentito adottare un simile provvedimento in pendenza di una questione di legittimità costituzionale, sia che questa fosse stata proposta in via incidentale, sia in via principale. L’art. 9 della legge n. 131 del 2003, modificando l’art. 35 della legge n. 87/1953, ha introdotto, limitatamente al giudizio in via principale, un potere d’ufficio di sospensione dell’atto impugnato, qualora la sua esecuzione «possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini» (5). In sede di conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni l’art. 40 della legge n. 87/1953 attribuisce poi espressamente alla Corte il potere di disporre, con ordinanza motivata, la sospensione degli atti oggetto del conflitto in presenza di gravi ragioni (6). In proposito l’art. 28 delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte precisa che la sospensione può essere richiesta in qualsiasi momento, anche all’udienza di discussione, e che viene concessa con un provvedimento adottato in camera di consiglio uditi i rappresentanti delle parti, che possono presentare documenti e memorie. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 211 (5) Per un’analisi dei presupposti e i limiti del potere di sospensione di cui all’art. 35 si vedano, CARETTI, Il contenzioso costituzionale, in FALCON (a cura di), Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, 2003, PINELLI, Art. 9, in AA.VV., Legge “La Loggia”, Commento alla legge 5 giugno 2003 n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003, LAMARQUE, Articolo 9, in CAVALERI - LAMARQUE (a cura di), L’attuazione del nuovo Titolo V, parte seconda, della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia” (Legge 5 giugno 2003, n. 131), Torino, 2004, DRAGO, I ricorsi in via d’azione tra attuazione del Titolo V e giurisprudenza costituzionale, in Giur. Cost., 2004, 4815. Sull’ammissibilità dell’istanza cautelare proposta dalla regione nei confronti di una legge statale si veda di recente Corte cost. ordinanza 22 giugno 2006, n. 245, in www.giurcost.org, con nota di MILAZZO, L’impugnativa regionale del “codice dell’ambiente”: un’occasione per qualche riflessione sulla struttura ed i limiti del potere di sospensione delle leggi nell’ambito dei giudizi in via d’azione introdotti dalle regioni, in corso di pubblicazione in Le Regioni, 2007, I. (6) Nell’accertamento delle «gravi» ragioni che, nei conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni, legittimano la sospensione dell’atto impugnato la Corte dà rilievo, oltre all’incidenza dell’atto sui rapporti giuridici cui si riferisce, anche alla sussistenza del fumus boni iuris: sul punto si vedano PIZZORUSSO, La tutela cautelare nei giudizi costituzionali sui conflitti tra enti, in I processi speciali (Studi offerti a V. Andrioli), Napoli, 1979, 304 e segg., AZZENA, Irreparabilità del danno e «gravi ragioni» per la sospensione nei conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni, in Le Regioni, 1980, 143 e segg., MOR, La sentenza sospesa, in Le Regioni, 1980, 1023 e segg., VOLPE, Garanzie costituzionali. Art. 137, in Commentario alla Costituzione a cura di Branca, Bologna-Roma, 1981, GRASSI, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e regioni e tra regioni, Milano, 1985, 287 e segg. La valutazione della configurabilità del rimedio cautelare anche nei conflitti di attribuzione tra poteri resta è ritenuta dalla Corte «impregiudicata» ma in concreto manca una espressa statuizione sulla configurabilità del rimedio (così Corte cost. 5 giugno 1997, n. 171, in www.giurcost.org con nota di LOLLI, La sospensione cautelare di atti impugnati nel conflitto fra poteri: ancora un’occasione mancata dalla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1997, 1735 e segg.). Diversamente una legge ritenuta incostituzionale, in ragione di una presunzione di legittimità riconosciuta in ossequio al principio del favor legislatoris, continua a produrre medio tempore i suoi effetti. Conseguentemente le disposizioni di un atto legislativo illegittimo non potranno essere disapplicate da alcun organo dello Stato, essendo riservato al giudice a quo il potere di “sospenderne” l’applicazione sollevando la questione di legittimità e disponendo la sospensione del processo in corso (7). Gli effetti eventualmente prodotti sono destinati ad essere irreversibili, nonostante l’efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità, in presenza dei c.d. diritti quesiti, e quando siano, per loro natura, irreversibili (come risulterebbe nel caso di specie). È pur vero che la parte potrà aver ottenuto la sospensione degli atti pregiudizievoli, adottati in esecuzione della legge della cui costituzionalità si dubita, secondo l’ordinario procedimento cautelare. Ciò peraltro non esclude la possibilità che sia rimessa alla Corte la questione di legittimità. Il giudice costituzionale ha infatti più volte ribadito che il giudice amministrativo ben può sollevare la questione di legittimità in sede cautelare, sia quando non provveda sulla relativa domanda, sia quando conceda la relativa misura, «purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice amministrativo fruisce: con la conseguenza che la questione di legittimità è inammissibile – oltre che, ovviamente, se la misura è espressamente negata (ordinanza n. 82 del 2005) – quando essa sia concessa sulla base di ragioni, quanto al fumus boni juris, che prescindono dalla non manifesta infondatezza della questione stessa (sentenza n. 451 del 1993)» viceversa quando la misura cautelare è fondata, quanto al fumus, sulla non manifesta infondatezza la «potestas judicandi non può ritenersi esaurita (…) dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di costituzionalità» (8). Il rilevato favor legislatoris risulta invece parzialmente oscurato laddove l’illegittimità sia contestata, come nel caso di specie, con ricorso diretto a livello comunitario: in presenza dei presupposti in precedenza enunciati, l’esecuzione dell’atto legislativo oggetto di una questione comunitaria sarà 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (7) Sulla sorte degli atti amministrativi adottati in esecuzione di una disposizione di legge poi dichiarata incostituzionale si veda CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 1994, 228. (8) Così da ultimo Corte cost., ord. 25 gennaio 2006, n. 25. Tali principi sono richiamati anche in molte pronunce del giudice amministrativo (da ultimo Cons. Stato, VI, ord, 24 marzo 2000, n. 1431) in cui si precisa che «il giudice che intenda sospendere un provvedimento basato su una legge sospetta di incostituzionalità, deve sollevare contestualmente incidente di legittimità costituzionale e sospendere l’atto impugnato in via provvisoria fino all’esito della definizione dell’incidente medesimo», così confermando la pregiudizialità della questione di legittimità costituzionale. posticipata al termine del giudizio cautelare ovvero, laddove la misura sia confermata, alla soluzione della causa nel merito. L’ottemperanza alla decisione cautelare Al di là del tenore formale del dispositivo (ordine ovvero dichiarazione di sospensione), è da escludere che le ordinanze cautelari adottate dalla Corte di Giustizia abbiano efficacia diretta nell’ordinamento nazionale e che dunque siano idonee a produrre l’effetto sospensivo a prescindere da un atto formale dello Stato che ne riproduca il dispositivo. Si deve pertanto ritenere che la decisione della Corte, che impone la sospensione dell’atto impugnato, abbia un’efficacia di mero accertamento analoga alla sentenza pronunciata nell’ambito del procedimento d’infrazione (9) e che, in caso di inadempienza da parte dello Stato destinatario della stessa, la Corte possa emanare ex art. 228 T.C.E. a carico dello Stato membro inadempiente una sentenza di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria (10). Nel caso di specie, in ottemperanza alla decisione cautelare il governo ha adottato il D.L. 27 dicembre 2006, n. 297 recante «disposizioni urgenti per il recepimento delle direttive comunitarie 2006/48/CE e 2006/49/CE e per l’adeguamento a decisioni in ambito comunitario relative all’assistenza a terra negli aeroporti, all’Agenzia nazionale per i giovani e al prelievo venatorio », esercitando il potere sostitutivo di cui all’art. 120 Cost., così come disciplinato dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (11). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 213 (9) Gli effetti della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia nell’ambito del procedimento d’infrazione sono disciplinati dall’art. 228 T.C.E., secondo cui «quando la Corte di giustizia riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del presente trattato, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta»: si tratta dunque di una sentenza meramente dichiarativa, senza possibilità di esecuzione coattiva mediante l’individuazione delle misure atte a far cessare l’inadempimento. Gli Stati sono comunque tenuti a prendere i provvedimenti conseguenti in virtù del principio di leale collaborazione sancito dall’art. 10 T.C.E. (diffusamente sul punto TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2001, 245). Il Trattato non fa alcun riferimento al termine entro cui debba essere eseguita la sentenza: tuttavia, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, l’esecuzione deve concludersi in tempi brevi per garantire l’immediata ed uniforme applicazione del diritto comunitario. (10) La previsione di una sanzione pecuniaria per l’ipotesi che uno Stato membro non abbia adottato le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza che riconosce l’inadempimento è stata introdotta dal Trattato di Maastricht: pertanto, in sede di reiterazione della procedura di infrazione, la Commissione preciserà l’importo della somma forfetaria o della penalità di mora che lo Stato potrà essere condannato a versare. In ordine alla quantificazione delle sanzioni la Commissione ha adottato le Comunicazioni n. 96/C 242/07 del 21 agosto 1996 e n. 97/C 63/02 del 28 febbraio 1997 (cfr. in proposito, TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2001, 247). (11) Si veda in proposito CALINI, Un nuovo intervento sostitutivo dello Stato sulle Regioni per violazione della normativa comunitaria: il D.L. 27 dicembre 2006, n. 297 e l’“esecuzione” dell’ordinanza del 19 dicembre 2006 del Presidente della Corte di giustizia dell’Unione europea, in www.giustamm.it, nonché per il precedente esercizio del potere soL’art. 4 stabiliva infatti che «in esecuzione dell’ordinanza del Presidente della Corte di giustizia delle Comunità europee 19 dicembre 2006, in causa C-503/06, è sospesa l’applicazione della legge della regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36». Si trattava dunque di una sospensione temporalmente limitata, la cui durata non risultava legata solo all’esito della decisione conclusiva della Corte di Giustizia sulla domanda cautelare, ma anche all’approvazione della relativa legge-provvedimento di conversione. Il 30 dicembre 2006 il governo italiano ha presentato le proprie osservazioni scritte nell’ambito del procedimento cautelare, comunicando di aver impugnato innanzi alla Corte costituzionale la legge regionale, già prima che fosse introdotta la fase cautelare della procedura di inadempimento, e concludendo nel senso della revoca dell’ordinanza cautelare in quanto non più necessaria. L’art. 4 del D.L. è stato poi convertito senza modificazioni dalla legge 23 febbraio 2007 n. 15. Il 27 febbraio il Presidente della Corte si è espresso con un’ordinanza di non luogo a provvedere sul mantenimento della sospensione per mancanza di oggetto, in considerazione del fatto che la legge regionale impugnata si applicava alla stagione venatoria 2006/2007, conclusasi il 31 gennaio 2007. Dott.ssa Chiara Di Seri (*) Corte di Giustizia delle Comunità europee, ordinanza del Presidente della Corte 19 dicembre 2006(•) nel procedimento C-503/06 R - Domanda di sospensione dell’esecuzione e di provvedimenti provvisori ai sensi degli artt. 242 CE e 243 CE, proposta il 13 dicembre 2006 - Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana. «(...) Il Presidente della Corte, sentito il primo avvocato generale, sig.ra J. Kokott, ha pronunciato la seguente ordinanza. 1.- Con il suo ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di ordinare alla Repubblica italiana di prendere i provvedimenti necessari per sospendere l’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della dero- 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO stitutivo per l’adeguamento alla medesima direttiva 79/409/CEE in materia di conservazione della fauna selvatica ID., D.L. 16 agosto 2006, n. 251: il primo “tentativo” di intervento sostitutivo a seguito della legge 5 giugno 2003, n. 131, in www.giustamm.it e BILANCIA, Obblighi comunitari sulla caccia: un decreto legge prevede un intervento sostitutivo “urgente” e l’abrogazione di leggi regionali in contrasto, in www.federalismi.it. In generale sul potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost., si veda il recente studio di FONTANA, Alla ricerca di uno statuto giuridico dei poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2 Cost., in Nuovi rapporti Stato-Regione dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, MODUGNO – CARNEVALE (a cura di), Milano, 2003. (*) Dottoranda di ricerca presso la Scuola dottorale Interuniversitaria Internazionale in Diritto europeo, Storia e Sistemi giuridici dell’Europa, Università degli Studi di Roma Tre. (•) Lingua processuale: l’italiano. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 215 ga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag. 697; in prosieguo: la «legge regionale n. 36/2006»), fino alla pronuncia della sentenza di merito. 2.- La Commissione ha anche chiesto, ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura, che tale domanda sia provvisoriamente accolta prima ancora che l’altra parte abbia presentato le sue osservazioni, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del procedimento sommario. 3.- Tali domande sono state proposte nell’ambito di un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, presentato dalla Commissione il 13 dicembre 2006 e finalizzato a far dichiarare che, poiché la Regione Liguria ha adottato ed applicato una normativa che autorizza deroghe al regime di protezione degli uccelli selvatici senza rispettare le condizioni fissate dall’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi di tale disposizione. Contesto normativo 4.- La direttiva 79/409 ha per obiettivo la protezione, la gestione e la regolazione di tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli Stati membri a cui si applica il Trattato. A tal fine, essa impone agli Stati membri di istituire un regime generale di tutela che preveda, in particolare, il divieto di uccidere, di catturare o di disturbare gli uccelli indicati al suo art. 1 e di distruggere i nidi. 5.- L’art. 9 della direttiva 79/409 così prevede: «1. Sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti, gli Stati membri possono derogare agli articoli 5, 6, 7 e 8 per le seguenti ragioni; a) – nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica, – nell’interesse della sicurezza aerea, – per prevenire gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca e alle acque, – per la protezione della flora e della fauna; b) ai fini della ricerca e dell’insegnamento, del ripopolamento e della reintroduzione nonché per l’allevamento connesso a tali operazioni; c) per consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità. 2. Le deroghe dovranno menzionare: – le specie che formano oggetto delle medesime, – i mezzi, gli impianti e i metodi di cattura o di uccisione autorizzati, – le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo in cui esse possono esser fatte, – l’autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite sono realizzate e a decidere quali mezzi, impianti e metodi possano essere utilizzati, entro quali limiti, da quali persone, – i controlli che saranno effettuati. 3. Gli Stati membri inviano ogni anno alla Commissione una relazione sull’applicazione del presente articolo. 4. In base alle informazioni di cui dispone, in particolare quelle comunicatele ai sensi del paragrafo 3, la Commissione vigila costantemente affinché le conseguenze di tali deroghe non siano incompatibili con la presente direttiva. Essa prende adeguate iniziative in merito». 6.- Lo storno (sturnus vulgaris), essendo una specie indicata nella parte 2, come modificata dalla direttiva del Consiglio 8 giugno 1994, 94/24/CE (G.U. L 164, pag. 9), dell’allegato II alla direttiva 79/409, può essere cacciato, ai sensi dell’art. 7, n. 3, della direttiva stessa, soltanto negli Stati membri per i quali è menzionato. Dal momento che la Repubblica italiana non rientra fra tali Stati membri, l’eventuale caccia a tale specie deve, per essere lecita, assumere la forma di una deroga e rispettare le condizioni fissate a tale proposito dall’art. 9 della direttiva 79/409. 7.- La legge regionale n. 36/2006 dispone quanto segue: «Art. 1 (Disposizioni in materia di conservazione degli uccelli selvatici) 1. Per la stagione venatoria 2006/2007 è autorizzato, sentito l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, per le ragioni previste dall’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea della direttiva comunitaria 79/409/CEE (…), il prelievo in deroga di esemplari appartenenti alla specie storno (Sturnus vulgaris) al fine di prevenire gravi danni alle colture olivicole, presenti nella Regione, con le seguenti modalità: a) mezzi di prelievo autorizzati: fucile a canna liscia con non più di tre colpi, non sono consentiti richiami né vivi né elettroacustici; b) modalità di prelievo: da appostamento fisso o temporaneo, oppure in forma vagante; c) luogo di applicazione e periodo: su tutto il territorio regionale dalla data di entrata in vigore della presente legge al 31 gennaio 2007; d) limite massimo di prelievo giornaliero per soggetto autorizzato: n. 10 capi; e) limite massimo di prelievo stagionale per soggetto autorizzato: n. 90 capi; f) giornate aperte al prelievo: tutte le giornate in cui è consentita la caccia alla migratoria con l’esclusione di martedì e venerdì; g) controllo: monitoraggio attraverso la certificazione dei prelievi realizzata mediante apposita scheda di rilevazione. 2. Il prelievo è autorizzato ai cacciatori in possesso del tesserino venatorio regionale che ne facciano richiesta alla Amministrazione provinciale di competenza e che risultino essere in possesso dell’apposita scheda di prelievo predisposta dalla Regione, rilasciata dalle Province. 3. I prelievi devono essere annotati sull’apposita scheda per il prelievo in deroga; entro il 31 marzo 2007, le schede devono essere restituite alle Province competenti, le quali provvedono, entro il 30 aprile 2007, ad inviare alla Regione i dati riassuntivi relativi ai prelievi effettuati. 4. Le funzioni di controllo sono esercitate dai soggetti di cui all’articolo 27 della legge 157/1992. 5. La presente legge regionale è dichiarata urgente ed entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare come legge della Regione Liguria». Sulla domanda di pronuncia inaudita altera parte 8.- Ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura, il presidente della Corte può accogliere provvisoriamente la domanda cautelare anche prima che l’altra parte abbia presentato le sue osservazioni. Sul fumus boni iuris 9.- Secondo la Commissione, la legge regionale n. 36/2006 rimette sostanzialmente in vigore una disciplina anteriore, vale a dire la legge della Regione Liguria 5 ottobre 2001, n. 34, Attuazione dell’articolo 9 della direttiva comunitaria 79/409/CEE del 2 aprile 1979 sulla 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 217 conservazione degli uccelli selvatici (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 10 ottobre 2001, n. 10), come modificata dalla legge della Regione Liguria 13 agosto 2002, n. 31 (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 28 agosto 2002, n. 12) (in prosieguo: la «legge regionale n. 34/2001 modificata»). 10.- Per quanto riguarda la legge regionale n. 34/2001 modificata, le autorità italiane avrebbero ammesso la sua contrarietà alla direttiva 79/409. La Commissione precisa a tale proposito che, in seguito a contatti con le autorità italiane nell’ambito di una procedura di infrazione relativa a tale legge regionale, quest’ultima legge è stata abrogata e sostituita dalla legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 35, Attuazione dell’articolo 9 della direttiva comunitaria 79/409 del 2 aprile 1979 sulla conservazione degli uccelli selvatici. Misure di salvaguardia per le zone di protezione speciale (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag. 692; in prosieguo: la «legge regionale n. 35/2006»), che, ad un primo sommario esame, sembra alla Commissione conforme alle disposizioni della direttiva 79/409. 11.- Tuttavia, il giorno stesso dell’adozione della legge regionale n. 35/2006, il Consiglio regionale della Liguria avrebbe adottato la legge regionale n. 36/2006, la quale contiene, secondo la Commissione, sostanzialmente gli stessi elementi di incompatibilità con l’art. 9 della direttiva 79/409 contenuti nella legge regionale n. 34/2001 modificata. 12.- La Commissione osserva in proposito, in particolare, che non sarebbe stata verificata l’inesistenza di altre soluzioni accettabili, che mancherebbe una giustificazione specifica della necessità di autorizzare il prelievo di un certo numero di esemplari di una determinata specie al fine di proteggere l’olivicoltura e che la deroga all’art. 9 della direttiva 79/409 effettuata dalla legge regionale n. 36/2006 non sarebbe, contrariamente a quanto impone il diritto comunitario, di natura eccezionale e specifica. Pertanto la legge regionale n. 36/2006 autorizzerebbe, come la legge regionale n. 34/2001 modificata, la continuazione di una pratica regolare della caccia ad uccelli protetti dalla direttiva 79/409. 13.- Poiché la Repubblica italiana, in questa fase del procedimento, non ha ancora potuto presentare le sue osservazioni sulla domanda cautelare della Commissione, non è al momento possibile decidere se la Commissione abbia sufficientemente dimostrato, sia in diritto che in fatto, il fondamento di tale domanda. 14.- Tuttavia, a prima vista gli argomenti presentati dalla Commissione non sembrano privi di fondamento. Infatti, sebbene la legge regionale n. 36/2006 sia formulata in termini più precisi della legge regionale n. 34/2001 modificata, resta tuttavia il fatto che essa autorizza il prelievo venatorio di esemplari appartenenti alla specie degli storni sulla base di condizioni definite in modo piuttosto ampio, senza che siano indicate le ragioni per le quali è ritenuto necessario proteggere in tal modo l’olivicoltura della Regione Liguria. 15.- Si deve in proposito osservare che, nonostante alcune precisazioni per quanto riguarda, in particolare, i metodi di prelievo e i limiti massimi del prelievo stesso, la legge regionale n. 36/2006 autorizza la caccia agli storni su tutto il territorio della Regione Liguria, per tutta la stagione venatoria 2006/2007 e da parte di tutti i cacciatori in possesso del permesso di caccia regionale. Sull’urgenza 16 .- La legge regionale n. 36/2006, essendo stata dichiarata urgente, ha iniziato a produrre i suoi effetti dal momento della pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione Liguria, e continuerà a produrli fino al 31 gennaio 2007. Eventuali provvedimenti cautelari, per non essere privi di efficacia, dovranno dunque essere disposti prima di tale data. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 17.- A ciò si deve aggiungere il fatto che la protezione degli uccelli di cui alla direttiva 79/409 è ritenuta una materia in cui la gestione del patrimonio comune è affidata, per il rispettivo territorio, agli Stati membri (sentenza 8 giugno 2006, causa C 60/05, WWF Italia e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 24). È pacifico che ogni attività di caccia è idonea a perturbare la fauna selvatica e che essa può, in numerosi casi, condizionare lo stato di conservazione delle specie considerate, indipendentemente dall’ampiezza dei prelievi ai quali essa dà luogo. L’eliminazione periodica di individui alimenta infatti, tra le popolazioni oggetto di caccia, uno stato di allerta permanente che ha conseguenze nefaste su molteplici aspetti delle loro condizioni di vita (sentenza 19 gennaio 1994, causa C 435/92, Association pour la protection des animaux sauvages e a., Racc. pag. I 67, punto 16). 18.- Sembra dunque, sulla base delle informazioni disponibili in questa fase del procedimento, che la prosecuzione della caccia agli storni, come consentita dalla legge regionale n. 36/2006, rischi di causare un danno grave e irreparabile al patrimonio faunistico e ornitologico. Sul bilanciamento degli interessi 19.- Mentre è sufficientemente dimostrata, ai fini del presente procedimento, la realtà di un danno grave e irreparabile, a prima vista non appare, per contro, che la sospensione dell’applicazione della legge regionale n. 36/2006 fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento sommario possa compromettere gravemente l’obiettivo perseguito da tale legge. Infatti, come è stato rilevato al punto 14 della presente ordinanza, la lettura delle disposizioni della legge regionale n. 36/2006 non consente di individuare con precisione le ragioni per le quali è ritenuto necessario raggiungere l’obiettivo perseguito mediante la deroga prevista da tale legge. 20.- Sulla base di quanto sopra, e tenuto conto delle particolarità della controversia, in particolare delle condizioni di applicabilità ratione temporis della legge regionale n. 36/2006, come rilevata al punto 16 della presente ordinanza, appare necessario, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, ordinare alla Repubblica italiana di sospendere l’applicazione di tale legge per la stagione venatoria 2006/2007 fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento sommario. Per questi motivi, il presidente della Corte così provvede: 1) La Repubblica italiana sospenderà l’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della deroga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento sommario. 2) Le spese sono riservate». Corte di Giustizia delle Comunità europee, ordinanza del Presidente della Corte 27 febbraio 2007(•) nel procedimento C-503/06 R - Domanda di sospensione dell’esecuzione e di provvedimenti provvisori ai sensi degli artt. 242 CE e 243 CE, proposta il 13 dicembre 2006 - Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana. (•) Lingua processuale: l’italiano. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 219 «Il Presidente della Corte, sentito l’avvocato generale, sig.ra J. Kokott, ha emesso la seguente ordinanza. 1.- Con il ricorso in oggetto la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di ordinare alla Repubblica italiana di prendere i provvedimenti necessari per sospendere l’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della deroga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea, della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici (Bollettino ufficiale della Regione Liguria 2 novembre 2006, n. 16, pag. 697; in prosieguo: la «legge regionale n. 36/2006»), fino alla pronuncia della sentenza di merito. 2.- La Commissione ha anche chiesto, ai sensi dell’art. 84, n. 2, del regolamento di procedura, che tale domanda sia provvisoriamente accolta prima ancora che l’altra parte abbia presentato le sue osservazioni, fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del procedimento sommario. 3.- Tali domande sono state proposte nell’ambito di un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, presentato dalla Commissione il 13 dicembre 2006 e finalizzato a far dichiarare che, poiché la Regione Liguria ha adottato e applicato una normativa che autorizza deroghe al regime di protezione degli uccelli selvatici senza rispettare le condizioni fissate dall’art. 9 della direttiva del Consiglio 2 aprile 1979, 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U. L 103, pag. 1), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi di tale disposizione. Procedimento 4.- Con ordinanza 19 dicembre 2006, causa C-503/06 R, Commissione/Italia (non pubblicata nella Raccolta), il presidente della Corte ha ordinato alla Repubblica italiana, in via cautelare, di sospendere l’applicazione della legge regionale n. 36/2006 fino alla pronuncia dell’ordinanza di chiusura del presente procedimento sommario. 5.- La Repubblica italiana ha presentato osservazioni scritte sulla domanda di provvedimenti provvisori con telefax del 30 dicembre 2006. 6.- In tali osservazioni, il governo italiano informa la Corte che il Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana ha approvato, in data 22 dicembre 2006, il testo di un decreto legge avente ad oggetto, tra l’altro, l’adozione dei provvedimenti necessari affinché la Repubblica italiana si adegui alla citata ordinanza Commissione/Italia (decreto legge 27 dicembre 2006, n. 297, Disposizioni urgenti per il recepimento delle direttive comunitarie 2006/48/CE e 2006/49/CE e per l’adeguamento a decisioni in ambito comunitario relative all’assistenza a terra negli aeroporti, all’Agenzia nazionale per i giovani e al prelievo venatorio; Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 299 del 27 dicembre 2006). 7.- L’art. 4 di tale decreto legge statuisce che, «in esecuzione dell’ordinanza [Commissione/Italia, citata], è sospesa l’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36». In conformità al suo art. 7, il detto decreto legge è entrato in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, ossia il 27 dicembre 2006. 8.- Il governo italiano precisa che l’utilizzazione di un atto statale di decretazione d’urgenza per sospendere l’efficacia di una legge regionale, ossia di un atto legislativo che esso descrive come l’espressione più alta dell’autonomia politica delle regioni, non ha molti precedenti nell’ordinamento interno. 9.- Tale governo fa inoltre presente di aver deciso, in data 12 dicembre 2006 – quindi prima della presentazione del ricorso in esame – di contestare la costituzionalità della legge regionale n. 36/2006 dinanzi alla Corte costituzionale, e ciò per le stesse ragioni fatte valere dalla Commissione nella sua domanda di provvedimenti provvisori. 10.- Di conseguenza, il governo italiano suggerisce alla Corte, senza tuttavia formulare una domanda formale in tal senso, di non dar corso ulteriormente al procedimento in esame, revocando la citata ordinanza Commissione/Italia, in quanto non più necessaria. 11.- Su invito della Corte, la Commissione ha comunicato, con lettera pervenuta in cancelleria il 1° febbraio 2007, di non aver osservazioni da formulare in merito ad un’eventuale decisione di non luogo a provvedere. Il governo italiano, a sua volta invitato a pronunciarsi in proposito, non si è espresso. Sul seguito del procedimento 12.- Dalle osservazioni del governo italiano emerge che esso, in sostanza, condivide i motivi per cui la Commissione ritiene che la legge regionale n. 36/2006 sia in contrasto con la direttiva 79/409. 13.- Tuttavia, dato che la normativa impugnata si applicava alla stagione venatoria 2006/2007 e che tale stagione si è conclusa il 31 gennaio 2007, la questione vertente sulla necessità di mantenere, oltre tale data, il provvedimento che sospende l’applicazione della legge regionale n. 36/2006, adottato con la citata ordinanza Commissione/Italia, è divenuta priva d’oggetto. Per questi motivi, il presidente della Corte così provvede 1) Non vi è luogo a provvedere sul mantenimento della sospensione dell’applicazione della legge della Regione Liguria 31 ottobre 2006, n. 36, Attivazione della deroga per la stagione venatoria 2006/2007 ai sensi dell’articolo 9, comma 1, lettera a), terzo alinea, della direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici, disposta con ordinanza 19 dicembre 2006, causa C-503/06 R, Commissione/Italia. 2) Le spese sono riservate». 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il meccanismo dell’IVA italiana al vaglio della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, sentenza 15 marzo 2007) La sentenza 15 marzo 2007 di seguito riportata unitamente alle osservazioni del Governo italiano, assume un particolare rilievo in quanto la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi dalla Corte di Cassazione non solo sul meccanismo del rimborso ex art. 38 ter del d.P.R. n. 633/72 (che recepisce l’ottava direttiva in materia di IVA, la n. 79/1072/CEE), ma anche sul rapporto cedente-cessionario (o prestatore-committente) così come configurato ai fini IVA nel sistema italiano. La Corte ha sostanzialmente condiviso la posizione del Governo italiano, salvo un punto che ha formato oggetto di dibattito in udienza. Si tratta del problema se il cessionario-committente, ancorché non soggetto passivo dell’imposta, in caso di erronea applicazione dell’IVA su una operazione esente o non imponibile, possa agire contro lo Stato nell’ipotesi in cui non riesca a recuperare dal cedente-prestatore l’imposta indebitamente assolta. La Corte ha aderito alla tesi della Commissione che sosteneva la soluzione affermativa. Avv. Gianni De Bellis Corte di Giustizia delle Comunità europee – Osservazioni del Governo della Repubblica italiana nella causa C-35/05 - Reemtsma Cigarettenfabriken Gmbh c/ Ministero dell’Economia e delle Finanze, promossa dalla Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con ordinanza 19 gennaio 2005 n. 1015 (ct. 23902/05, Avv. dello Stato G. De Bellis). «Con ordinanza 19 gennaio 2005 n. 1015, la Corte di Cassazione ha chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi ex art. 234 CE sulle seguenti questioni pregiudiziali: 1) se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE del 6 dicembre 1979, nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbano essere interpretati nel senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa, se sia contraria alle citate disposizioni della direttiva una norma nazionale che escluda il rimborso del cessionario/committente non residente in considerazione della non detraibilità dell’imposta addebitata e versata benché non dovuta; 2) se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confron- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 221 ti dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria al principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione del diritto comunitario, una disciplina nazionale - ricavata dall’interpretazione datane dai giudici nazionali - che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza nell’ordinamento nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle imposte dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere il rimborso all’erario. La questione è stata sollevata nell’ambito di un giudizio tributario che vede contrapposti la società Reemtsma Cigarettenfabriken Gmbh (in seguito “la società”) con sede in Germania e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. La società aveva chiesto all’Amministrazione Finanziaria italiana il rimborso delle somme di £ 37.236.165 (€ 19.230,87) e £ 138.785.860 (€ 71.676,91) che asseriva avere indebitamente corrisposto nel 1994 a titolo di IVA su operazioni che avrebbero dovuto essere invece non imponibili in base all’art. 7 comma 4 lettera d) del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (1) (di seguito “il d.P.R. 633/72”). Trattavasi di servizi di promozione pubblicitaria e marketing resi da un soggetto italiano alla società (soggetto passivo IVA con sede in altro stato della Comunità). Non avendo ricevuto risposta, la società proponeva un ricorso giurisdizionale davanti alle Commissioni Tributarie che respingevano le sue domande sia in primo che in secondo grado. La società ricorreva allora alla Corte di Cassazione la quale riteneva indispensabile, per potersi pronunciare sulla questione sottoposta al suo esame, formulare alla Corte di Giustizia i quesiti suesposti. In linea di fatto la Corte di Cassazione precisa che non è contestato in giudizio: a) che la società abbia la propria sede in Germania e che sia priva di una stabile organizzazione in Italia; b) che le operazioni in relazione alle quali chiedeva il rimborso dell’IVA avrebbero dovuto essere esenti dal tributo. IL PRIMO QUESITO La Società aveva fondato la sua domanda di rimborso sull’art. 38 ter del d.P.R. 633/72, il quale dispone al comma 1: Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti - I soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità economica europea, senza stabile organizzazione in Italia e senza rappresentante nominato ai sensi del secondo comma dell’art. 17, assoggettati all’imposta nello Stato in cui hanno il domicilio o la residenza, che non hanno effettuato operazioni in Italia, ad eccezione delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art. 7, quarto comma, lettera e), possono ottenere, in relazione a periodi inferiori all’anno, il rimborso dell’imposta, se detraibile a norma dell’art. 19, relative ai beni mobili e ai servizi importati o acquistati, sem- 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Recante “Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”, pubblicato nella G.U.R.I. 11 novembre 1972, n. 292, S.O. preché di importo complessivo non inferiore a lire duecentocinquantamila. Se l’importo complessivo relativo ai periodi infrannuali risulta inferiore a lire duecentocinquantamila il rimborso spetta annualmente, sempreché di importo non inferiore a lire trentacinquemila. L’art. 38 ter è stato introdotto in Italia per recepire le disposizioni contenute negli artt. 2 e 5 della direttiva 79/1072/CEE (di seguito “l’ottava direttiva”), i quali a loro volta prevedono: Art. 2- Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno del Paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso, l’imposta sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli sono ceduti all’interno del Paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di beni nel Paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a) e b) della direttiva 77/388/CEE o delle prestazioni di servizi di cui all’articolo 1, lettera b). Art. 5- Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato conformemente all’articolo 17 della direttiva 77/388/CEE, quale si applica nello Stato membro del rimborso. La presente direttiva non si applica alle cessioni di beni esentate o che possono essere esentate ai sensi dell’articolo 15, punto 2, della direttiva 77/388/CEE. Con il primo quesito il giudice remittente chiede in sostanza alla Corte se il meccanismo previsto dai citati articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva, possa essere utilizzato per ottenere il rimborso dell’imposta non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa (come è avvenuto nel giudizio a quo). Il Governo italiano ritiene che al quesito debba essere data risposta negativa. Lo scopo delle disposizioni citate infatti, come risulta dal secondo “considerando” dell’ottava direttiva, è quello di “evitare che un soggetto passivo residente all’interno di uno Stato membro sia gravato in via definitiva dell’imposta che gli è stata fatturata in un altro Stato membro per cessioni di beni o prestazioni di servizi o che è stata versata per importazioni in questo altro Stato membro, e si trovi così assoggettato ad una doppia imposizione”. Si tratta pertanto di un particolare meccanismo che ha la finalità di impedire che l’IVA assolta da un soggetto IVA con sede in uno Stato membro per una operazione posta in essere in altro Stato membro, non venga a gravare nei suoi confronti allorché egli avrebbe potuto dedurla (in Italia si usa il termine detrazione) ai sensi dell’art. 17 della direttiva 77/388/CEE qualora fosse stato residente nello Stato dell’operazione. Nella fattispecie si discute invece di rimborso dell’imposta a cui l’operazione è stata erroneamente assoggettata. La sola circostanza che il rimborso sia stato chiesto dal committente della prestazione, soggetto con sede in altro Stato membro (come tale destinatario, però ad altri fini, degli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva) non appare motivo idoneo a far rientrare la fattispecie nel particolare regime previsto dall’art. 38 ter del d.P.R. 633/72 (che ha recepito gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva). Ovviamente, la procedura di rimborso ex art. 38 ter non potrà essere utilizzata dalla società nemmeno per ottenere il rimborso ai sensi degli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva, in quanto manca il diritto alla detrazione dell’IVA pagata, che costituisce il presupposto indispensabile per l’accoglimento dell’istanza di rimborso. Come infatti evidenzia correttamente il giudice remittente (che richiama la sentenza Genius 13 dicembre 1989 in causa C-342/87, a cui si è adeguata la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione) “l’erronea indicazione in fattura, e conseguenti addebito e versamento all’erario, di un’IVA in tutto o in parte non dovuta, mentre impone al cedente/prestatore del servizio il pagamento dell’imposta, non attribuisce al cessionario o committente IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 223 (che non siano consumatori finali, ma soggetti all’imposta) il diritto alla detrazione, salva la possibilità, da esercitarsi nelle forme stabilite dal legislatore nazionale, di apportare le necessarie rettifiche, in modo che sia evitata ogni possibilità di danno all’erario”. In conclusione la società non può invocare la procedura di cui agli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva né per ottenere il rimborso dell’imposta indebitamente fatturata, né (eventualmente) per ottenere il rimborso per l’imposta in quanto non detratta. La seconda parte del primo quesito, in quanto presuppone una soluzione positiva alla prima parte, non necessita di risposta. IL SECONDO QUESITO Con il secondo quesito il giudice remittente formula in realtà tre diverse domande e precisamente: a) se il concessionario–committente possa ritenersi debitore di imposta sulla base della disciplina comunitaria dell’IVA; b) se sia compatibile con tale disciplina una normativa nazionale che da un lato considera il cessionario-committente destinatario degli obblighi di fatturazione e pagamento dell’imposta, dall’altro gli neghi il diritto al rimborso nei confronti dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; c) se nel caso suddetto una disciplina nazionale, quale quella vigente in Italia, che consenta al cessionario-committente di agire nei soli confronti del cedente prestatore (e non anche dell’erario) per ottenere la restituzione dell’IVA indebitamente versata, sia contraria ai principi di effettività e non discriminazione in tema di rimborso dell’IVA riscossa in violazione del diritto comunitario, tenuto conto del diverso sistema previsto invece da disposizioni nazionali in tema di rimborso di imposte dirette. In relazione al quesito 2-a), il Governo Italiano ritiene che ai fini della vertenza sia sufficiente, per il giudice remittente, sapere se nel caso sottoposto al suo esame il committente (la società) della prestazione di servizi che avrebbe dovuto essere esente da imposta (rectius: non imponibile) possa ritenersi debitore di imposta. In linea di fatto non è contestato che la fattura con l’IVA indebita è stata emessa dal prestatore (un soggetto passivo IVA italiano) il quale ha sua volta ha ottenuto dalla società il pagamento del corrispettivo pattuito oltre all’IVA esposta in fattura. A tale riguardo occorre ricordare che a norma dell’art. 21 par. 1 della direttiva 77/388/CEE (nel testo vigente all’epoca dei fatti, il 1994, prima della sua sostituzione avvenuta con l’art. 1 della direttiva 2000/65/CE) l’imposta sul valore aggiunto è dovuta: 1. In regime interno: a) dai soggetti passivi che eseguono un’operazione imponibile diversa da quelle previste dall’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), eseguite da un soggetto passivo residente all’estero. Quando l’operazione imponibile è effettuata da un soggetto passivo residente all’estero gli Stati membri possono adottare disposizioni secondo cui l’imposta è dovuta da una persona diversa. A tale scopo possono in particolare essere designati un rappresentante fiscale o il destinatario dell’operazione imponibile. Gli Stati membri possono altresì prevedere che una persona diversa dal soggetto passivo sia tenuta in solido al versamento dell’imposta. b) ………. c) da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in una altro documento che ne fa le veci. La normativa nazionale di recepimento è contenuta nell’art. 17 comma 1 del d.P.R. 633/72. Tale disposizione, sempre nel testo in vigore del 1994, prevedeva: 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Soggetti passivi. - L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo. Pertanto la qualità di soggetto passivo del tributo era attribuita esclusivamente al cedente-prestatore, il quale era tenuto ad emettere la fattura ed a versare la corrispondente imposta, ancorché il relativo onere venisse a gravare sul cessionario-committente per effetto della traslazione. Ed è proprio questo che è avvenuto nella fattispecie, dove la fattura è stata regolarmente emessa dal prestatore e l’imposta relativa (erroneamente applicata) addebitata in rivalsa alla società committente. In tale situazione, il soggetto passivo del tributo è soltanto il prestatore italiano, cioè il soggetto previsto dalla norma contenuta nell’art. 17 comma 1 del d.P.R. 633/72 e nell’art. 21 paragrafo 1 della direttiva 77/388/CEE. Al quesito 2-a) si ritiene pertanto che debba essere risposto nel senso che in un caso come quello di specie, la società committente non può ritenersi debitrice di imposta ancorché ne venga ad essere incisa. Ne consegue che la somma da quest’ultima indebitamente versata a titolo di IVA non dovrà essere richiesta all’erario, bensì dovrà essere richiesta in restituzione al prestatore, configurandosi una ripetizione di indebito civilistica fra due parti private. Ai fini dell’accoglimento della domanda infatti, il giudice adito dovrà esaminare il contenuto del contratto per risalire alla volontà delle parti allo scopo di verificare se il prezzo pattuito era da ritenersi comprensivo o meno dell’eventuale IVA dovuta e di valutare (sempre con criteri civilistici), l’incidenza e gli effetti dell’errore commesso. La soluzione al quesito 2-a) nei termini suesposti esclude la necessità di rispondere ai quesiti 2-b) e 2-c), i quali presuppongono a loro volta una situazione in capo alla società (obbligo di fatturazione e versamento dell’imposta) che è pacificamente non sussistente. In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame affermando che: 1) gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE del 6 dicembre 1979, nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbono essere interpretati nel senso che non sono applicabili per ottenere il rimborso dell’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario; 2) in un caso come quello esaminato nel giudizio a quo, la società committente non può ritenersi debitrice di imposta ancorché ne venga ad essere incisa e conseguentemente non può far valere nei confronti dell’erario il diritto al rimborso dell’IVA versata dal soggetto passivo. Roma, 26 maggio 2005 – Avvocato dello Stato Gianni De Bellis». Corte di Giustizia delle Comunità europee, causa C-35/05 - Udienza 30 marzo 2006 - Intervento orale del Governo italiano (Avv. dello Stato G. De Bellis). «Signor Presidente, signori Giudici, signor Avvocato Generale. Il Governo italiano, nel leggere le osservazioni depositate dalla Commissione, era orientato a non chiedere la discussione orale della causa. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 225 La Commissione suggeriva infatti di rispondere al primo quesito nello stesso senso proposto dal Governo italiano, e cioè nel senso della non utilizzabilità del meccanismo di rimborso di cui agli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva in un caso come quello di specie, di imposta versata per un’operazione che non era imponibile, Così come la Commissione concordava anche sulla soluzione da dare alla prima questione del secondo quesito; il cessionario di un bene non è di norma soggetto passivo d’imposta. Stessa soluzione appariva per la seconda questione relativa al meccanismo di rimborso previsto in Italia. E così si condivideva in particolare il punto 46 dove la Commissione afferma: il principio della neutralità dell’imposta e il divieto di ingiustificati arricchimenti impongono ad uno stato membro l’obbligo di rimborsare l’IVA non dovuta nei confronti del soggetto passivo che l’abbia erroneamente fatturata e pagata; ed ancora i punti da 48 a 50: La commissione ritiene che gli Stati Membri siano liberi di scegliere la procedura che ritengono idonea ad assicurare tale rimborso, con l’unico limite che tali disposizioni rispettino il principio di effettività. In tale contesto, un sistema secondo il quale soltanto il prestatore di beni/servizi sia legittimato a richiedere all’autorità delle entrate il rimborso delle imposte pagate e non dovute non sembra, di per sé, in contrasto con il diritto Comunitario. Inoltre tale sistema sembra particolarmente adeguato e coerente nel campo dell’IVA, tenuto conto del sistema previsto in ambito comunitario. Infatti, dal momento che il prestatore di servizi è, in linea generale, il soggetto responsabile ai fini dell’imposta, questi è l’unico che potrebbe essere tenuto al pagamento dell’IVA e l’unico legato da un rapporto giuridico con l’autorità delle entrate. Sembra del tutto ragionevole, pertanto, ritenere che sia l’unico soggetto legittimato ad agire nei confronti dell’autorità delle entrate per ottenere il rimborso di quanto abbia versato indebitamente. Sennonché la Commissione aggiunge poi che “tuttavia, laddove il recupero delle somme indebitamente pagate attraverso questo meccanismo divenga «impossibile o eccessivamente difficile» […] e il rischio di riduzione del gettito fiscale sia stato completamente eliminato, gli Stati Membri debbono predisporre strumenti adeguati per evitare che si possa produrre un ingiustificato arricchimento per l’autorità delle entrate a danno del destinatario dei beni o servizi”. Il Governo italiano non ritiene corretta tale affermazione, per una serie di motivi. In primo luogo l’ultima affermazione appare in contrasto con la precedente. Se il rapporto tra cedente e cessionario (così come tra prestatore e committente) è di tipo privatistico, significa che il cessionario può chiedere al cedente non la restituzione dell’IVAindebitamente applicata all’operazione, bensì una riduzione del prezzo di cessione, corrispondente all’importo dell’IVA. La questione tributaria, relativa cioè al fatto se si trattava di una operazione imponibile o meno, dovrà essere risolta dal giudice civile incidenter tantum. Lo stesso giudice dovrà poi valutare il contesto del contratto, l’effettiva volontà dei contraenti e la rilevanza, nell’ambito dell’accordo raggiunto, della non applicabilità dell’IVA. Se questa è la situazione, non si vede per quale motivo del credito civilistico del cessionario debba essere chiamato a rispondere l’erario. Trattandosi di un credito civilistico (e non IVA) nessun problema di rispetto del principio di effettività si pone. In altri termini, se il cessionario non è soggetto passivo del tributo, non potrà mai agire nei confronti dello Stato per il rimborso. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In secondo luogo, se si volesse aderire alla tesi della Commissione, alla possibilità per il cessionario di pretendere il rimborso del tributo dall’erario dovrebbe essere contrapposta la possibilità inversa per l’Erario di pretendere il tributo dal cessionario. Secondo la Commissione la deroga opererebbe in presenza di 2 presupposti: 1) quando il cedente ha versato l’IVA non dovuta; 2) quando il cessionario non è riuscito ad ottenerne il rimborso dal cedente. In tale caso, secondo la Commissione, il danno del cessionario e l’ingiustificato arricchimento dell’erario giustificherebbero l’azione di rimborso, di norma non consentita. Ma allora rovesciamo la situazione. Ipotizziamo che venga considerata esente o non imponibile una cessione che doveva essere invece soggetta ad IVA. Lo Stato dovrebbe recuperare l’IVAsolo nei confronti del cedente, unico soggetto passivo. Qualora però ciò non fosse possibile (perché ad esempio il cedente si è estinto o è insolvente) seguendo la tesi della Commissione lo Stato potrebbe pretendere il pagamento dell’IVA non assolta al cessionario, il quale si sarebbe arricchito in modo ingiustificato acquistando il bene ad un prezzo inferiore. Ma una simile possibilità è esclusa dalla sesta direttiva, come si deduce dall’art. 21 n. 3 che autorizza gli Stati Membri a prevedere “che una persona diversa dal debitore dell’imposta sia responsabile in solido per il versamento dell’imposta”. Cioè gli Stati possono prevedere una responsabilità solidale, ma se non lo fanno (e il caso in esame non è uno di questi), nulla possono pretendere dal cessionario. È opportuno precisare che il meccanismo delle imposte dirette è proprio questo: il rimborso possono chiederlo sia il sostituto che il sostituito. Ma il fisco può agire verso entrambi. Anche questo argomento dimostra quindi come la tesi della Commissione sia in contrasto con il sistema risultante dall’art. 21 della sesta direttiva. Per completezza si ritiene opportuno precisare che in Italia in base alla giurisprudenza della Corte di Cassazione il cedente può chiedere il rimborso dell’IVA erroneamente versata o mediante una variazione della fattura, ovvero mediante una richiesta di rimborso da presentare entro un termine adeguato. In quest’ultimo caso dovrà ovviamente dimostrare, come avete affermato nella sentenza 19 settembre 2000 in causa C- 454/98, di avere eliminato qualsiasi danno per l’erario. Inoltre appare difficile ipotizzare un contrasto di giudicati tra il giudice civile, nel rapporto cedente-cessionario, e il giudice tributario, nel rapporto cedente-fisco. La possibilità che le due diverse giurisdizioni possano pervenire a soluzioni difformi circa il regime IVA applicabile all’operazione, è esclusa dal fatto che l’organo di vertice di entrambe è costituito dalla stessa Corte di Cassazione. Infatti le sentenze di secondo grado sia dei giudici tributari che dei giudici civili sono impugnabili in cassazione per i medesimi motivi (tra cui la violazione o errata applicazione della legge). In conclusione il Governo italiano ribadisce di essere d’accordo sulle osservazioni della Commissione, ad esclusione però della parte in cui vorrebbe consentire una deroga al principio derivante dall’art. 21 della sesta direttiva, secondo cui il soggetto passivo del tributo è solo il cedente. Un breve accenno alle osservazioni della parte privata, che sostiene la tesi secondo cui la sentenza Genius del 1989 che aveva stabilito l’importante principio secondo cui è deducibile ai sensi dell’articolo 17 della sesta Direttiva soltanto l’IVA che sia effettivamente dovuta per quella operazione, sarebbe stata superata nella sentenza Beruhard del 17 settembre 1997 in causa C-141/96. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 227 Non riteniamo corretta tale affermazione la quale si fonda sul punto 28 della sentenza, che contiene una semplice argomentazione a sostegno della soluzione del quesito. La giurisprudenza Genius è invece ribadita a chiare lettere nella successiva sentenza 19 settembre 2000 in causa C-454/98 come correttamente evidenziato dalla Commissione. Escluso perciò il diritto della società alla deduzione di un’IVA erroneamente indicata in fattura, viene meno ogni possibilità di avvalersi del meccanismo di rimborso previsto nell’ottava direttiva in quanto, come la Corte ha affermato nella sentenza 13 luglio 2000 C- 136/95 (Monte dei Paschi), ai punti 20 e 21, la sua finalità è quella di “armonizzare il diritto al rimborso, quale è sancito dall’articolo 17 n. 3 della sesta direttiva”. In conclusione nel caso di caso di specie il soggetto passivo del tributo era la società italiana in quanto prestatore, che aveva emesso la fattura, e non invece la parte privata di questo giudizio che, in quanto committente, viene a trovarsi nella stessa situazione di una operazione interna, erroneamente assoggettata ad IVA. Così come il cessionario-committente interno, essa non ha diritto né al rimborso né alla detrazione dall’erario, bensì soltanto al rimborso nei confronti del cedente-prestatore di quanto pagato in più. Grazie. Avvocato dello Stato Gianni De Bellis». Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston presentate l’8 giugno 2006 (1) - Causa C-35/05 - Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH c/ Ministero delle Finanze. «1. La questione sollevata dalla Corte Suprema di Cassazione italiana nella presente causa riguarda le modalità secondo le quali un soggetto passivo può recuperare l’IVA pagata a un prestatore di servizi che l’abbia erroneamente fatturata e versata all’erario. 2. Ai sensi della sesta direttiva (2), sostanzialmente, il cedente o prestatore che fatturi l’IVA al cliente deve versarne il relativo importo all’erario, indipendentemente dal fatto che essa dovesse o meno essere fatturata. Inoltre, ai sensi della citata direttiva, il soggetto passivo può dedurre l’imposta fatturatagli sulle sue forniture o prestazioni ricevute a monte dall’imposta che deve versare sulle sue operazioni a valle. 3. Per giurisprudenza costante (3), il diritto di dedurre l’imposta pagata a monte non si applica all’imposta che sia dovuta in quanto menzionata sulla fattura ma che, altrimenti, non sarebbe stata dovuta. In tali circostanze, tuttavia, il diritto nazionale deve prevedere una possibilità di rettifica degli importi fatturati (e/o dedotti) erroneamente. 4. Inoltre, il diritto a deduzione in forza della sesta direttiva si applica unicamente qualora il soggetto passivo effettui un’operazione imponibile nello Stato membro in cui ha 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Lingua originale: l’inglese. (2) Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. 1977, L 145, pag. 1, più volte modificata; in prosieguo: la «sesta direttiva»). (3) V. sentenze 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding (Racc. pag. 4227), 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth (Racc. pag. I-6973) nonché 6 novembre 2003, cause riunite da C-78/02 a C-80/02, Karageorgou (Racc. pag. I-13295), di cui si parlerà più estesamente infra, ai paragrafi 11 e segg. pagato l’imposta a monte, e sia pertanto tenuto al versamento dell’imposta a valle, dalla quale può dunque dedurre l’imposta pagata a monte. 5. Nel caso di specie, il soggetto passivo al quale è stata erroneamente fatturata l’IVA (su prestazioni consistenti nel fornirgli servizi pubblicitari) non effettuava operazioni a valle nello stesso Stato membro. Tale situazione rientra di regola nell’ambito di applicazione dell’ottava direttiva IVA (4), in forza della quale l’imposta assolta a monte non viene dedotta dall’imposta a valle, bensì rimborsata al soggetto passivo. 6. Il giudice nazionale desidera in sostanza sapere se, in tali circostanze, (a) l’IVA fatturata e pagata erroneamente possa essere rimborsata ai sensi dell’ottava direttiva, anche ove non sia deducibile a norma della sesta direttiva, e (b) al soggetto passivo non residente debba essere conferito il diritto di agire direttamente nei confronti dell’autorità tributaria che ha riscosso l’imposta, o se sia sufficiente che egli sia legittimato ad agire indirettamente, rivolgendosi al prestatore che aveva fatturato l’imposta (e che, a sua volta, potrebbe agire contro l’autorità tributaria). Normativa e giurisprudenza comunitarie in materia di IVA La situazione interna ad uno Stato membro in forza della sesta direttiva 7. L’art. 21, n. 1, della sesta direttiva, all’epoca dei fatti di causa (5), per quanto qui rileva così disponeva: «L’imposta sul valore aggiunto è dovuta in regime interno: (a) dal soggetto passivo che effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile (…); (c) da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci; (…)». 8. L’art. 17, n. 2 (6) così dispone, per quanto qui rileva: «Nella misura in cui i beni ed i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre all’imposta di cui è debitore: (a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per i beni che gli sono o gli saranno forniti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo debitore dell’imposta all’interno del paese [(7)]; (…)». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 229 (4) Ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese (G.U. L 331, pag. 11). (5) L’attuale testo dell’art. 21 si rinviene nell’art. 28 octies della stessa direttiva, introdotto dalla direttiva del Consiglio 16 dicembre 1991, 91/680/CEE, che completa il sistema comune di imposta sul valore aggiunto e modifica, in vista della soppressione delle frontiere fiscali, la direttiva 77/388/CEE (G.U. L 376, pag. 1), a sua volta modificata in più occasioni. La presente fattispecie riguarda l’IVA pagata nel 1994. La disposizione contenuta all’epoca nell’art. 21, n. 1, lett. c), coincide oggi con l’art. 21, n. 1, lett. d). Ho scelto di esporre le disposizioni della sesta direttiva non nel loro ordine numerico (che in ogni caso non è più l’ordine secondo il quale appaiono nella direttiva) bensì in un ordine che mi pare di maggiore aiuto per una più rapida comprensione della normativa nel presente contesto. (6) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 septies, anch’esso introdotto dalla direttiva 91/680, e anch’esso modificato. (7) Nella versione applicabile all’epoca dei fatti, l’inciso «all’interno del paese» o un suo equivalente, introdotto dalla direttiva 91/680, appariva riferito all’obbligo del fornitore in diverse versioni linguistiche, ivi comprese l’inglese, la francese, l’italiana e la spagnola. Nella versione tedesca, invece, tale inciso si riferiva al luogo in cui l’imposta risultava dovuta o assolta, e nella versione olandese si riferiva al luogo della prestazione. La direttiva del Consiglio 10 aprile 1995, 95/7/CE, che modifi9. Ai sensi dell’art. 18, n. 1, lett. a) (8), al fine di esercitare il suo diritto a deduzione il soggetto passivo deve essere in possesso di una fattura, redatta ai sensi dell’art. 22, n. 3, lett. b) (9). Tale disposizione impone che la fattura indichi distintamente il prezzo al netto dell’imposta e l’imposta corrispondente per ogni aliquota diversa, nonché ogni esenzione. 10. Ai sensi dell’art. 20, n. 1, lett. a), la deduzione iniziale deve essere rettificata secondo le modalità fissate dagli Stati membri, in particolare «quando la deduzione è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto». La giurisprudenza sulla sesta direttiva 11. La causa Genius Holding (10), che costituisce la causa pilota, riguardava una situazione in cui un subappaltatore aveva erroneamente fatturato l’IVA a un appaltatore principale. Ai sensi della normativa nazionale allora vigente, autorizzata in conformità alla sesta direttiva, l’imposta in realtà era dovuta soltanto dall’appaltatore principale sull’importo da esso fatturato al suo committente. Ci si chiedeva pertanto se il diritto a deduzione si applicasse all’imposta che era dovuta, in conformità all’art. 21, n. 1, lett. c), esclusivamente per il fatto di essere indicata sulla fattura. 12. La Corte ha esaminato la lettera dell’art. 17, n. 2, lett. a), in particolare laddove essa si discostava sia dal tenore testuale della norma che aveva preceduto tale articolo, vale a dire l’art. 11, n. 1, lett. a), della seconda direttiva del Consiglio (11), sia da quello dell’art. 17, n. 2, lett. a), della proposta della Commissione di sesta direttiva (12). La Corte ne ha concluso che l’esercizio del diritto a detrazione è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto erano 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO ca la direttiva 77/388/CEE e introduce nuove misure di semplificazione in materia di imposta sul valore aggiunto – Campo di applicazione delle esenzioni e relative modalità pratiche di applicazione (G.U. L 102, pag. 18), entrata in vigore il 1° gennaio 1996, ha in seguito allineato tutte le versioni linguistiche a quella tedesca. Di conseguenza, la versione italiana dell’art. 17, n. 2, lett. a), è attualmente così formulata: «l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta all’interno del paese per i beni che gli sono o saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo» (il corsivo è mio). (8) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 septies, non più modificato a partire dalla direttiva 91/680. (9) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 nonies, nella versione introdotta dalla direttiva 91/680, applicabile all’epoca dei fatti; successivamente modificato. (10) Cit. supra, nota 3. (11) Seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Struttura e modalità di applicazione del sistema comune di imposta sul valore aggiunto (G.U. L 71, pag. 1303). Ai sensi dell’art. 11, n. 1, lett. a), della stessa: «Nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati per i bisogni della sua impresa, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: (a) l’imposta sul valore aggiunto che gli viene fatturata per i beni che gli sono forniti e per i servizi che gli sono prestati» (il corsivo è mio). (12) – G.U. 1973, C 80, pag. 1. L’art. 17, n. 2, lett. a) della proposta così disponeva: «Quando i beni ed i servizi sono destinati ad essere impiegati per i bisogni delle proprie attività soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: (a) l’imposta sul valore aggiunto che gli viene fatturata ai sensi dell’art. 22, n. 3), per i beni che gli sono forniti e per i servizi che gli sono prestati» (il corsivo è mio). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 231 dovute. Tale interpretazione era inoltre corroborata dalla necessità per il titolare di essere in possesso di una fattura recante l’importo dell’imposta corrispondente a ogni operazione e dall’esistenza di un meccanismo di rettifica applicabile qualora la deduzione iniziale fosse stata superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo aveva diritto (13). 13. Dopo aver sottolineato che «spetta agli Stati membri contemplare nei rispettivi ordinamenti giuridici interni la possibilità di rettificare ogni imposta indebitamente fatturata purché chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede», la Corte ha statuito che «l’esercizio del diritto di detrazione (…) non si estende all’imposta dovuta esclusivamente per il fatto di essere indicata nella fattura» (14). Il meccanismo della deduzione non era pertanto applicabile, tuttavia doveva essere predisposto un meccanismo di correzione o rettifica in modo da ripristinare la situazione qualora l’errore fosse stato commesso in buona fede. 14. Nelle sue conclusioni, invece, l’avvocato generale Mischo aveva affermato (15) che, per salvaguardare il principio di neutralità dell’IVA, tale imposta avrebbe dovuto far sorgere un diritto a deduzione, a meno che (in circostanze idonee a far sospettare una frode) il cedente o prestatore che l’aveva fatturata non l’avesse poi versata alle autorità tributarie. 15. La causa Schmeink & Cofreth (16) riguardava anch’essa una situazione in cui l’IVA era stata fatturata per errore. In quel caso, tuttavia, gli importi erroneamente fatturati lo erano stati, in realtà, non in buona fede bensì fraudolentemente. Ciononostante, la Corte ha ritenuto che non dovesse necessariamente essere soddisfatto il criterio della buona fede per ottenere una rettifica, sempreché fosse eliminato qualunque rischio di perdita del gettito fiscale. Essa ha statuito come segue: «1) Allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della neutralità dell’imposta sul valore aggiunto richiede che l’imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso tale fattura. (2) Spetta agli Stati membri definire il procedimento in base al quale l’imposta sul valore aggiunto indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, purché la regolarizzazione non sia lasciata al potere discrezionale dell’amministrazione fiscale». 16. Nella sentenza Karageorgou (17), la Corte ha esaminato una situazione in cui un importo indicato come IVA su una fattura emessa da una persona che forniva servizi allo Stato non poteva in realtà essere qualificato come IVA. Ciò era dovuto al fatto che le persone interessate ritenevano erroneamente di prestare i loro servizi come lavoratori autonomi, mentre, in realtà, si era in presenza di un rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente. La Corte, nel solco della giurisprudenza Genius Holding e Schmeink & Cofreth, ha dichiarato che l’art. 21, n. 1, lett. c) non osta al rimborso di un importo del genere. In caso (13) V. punti 12-16 della sentenza. (14) Punti 18 e 19, nonché dispositivo della sentenza. (15) Come anche la Commissione nelle sue osservazioni; la Corte aveva invece seguito l’approccio preconizzato dai governi dei Paesi Bassi, tedesco e spagnolo. V., in particolare, paragrafi 17-27 delle conclusioni. (16) Cit. alla nota 3, punti 58 e 59. (17) Cit. alla nota 3 della sentenza. di regolarizzazione dell’importo in tal modo riportato, che in nessun caso può costituire IVA, non vi è alcun rischio di perdita di entrate fiscali nell’ambito del regime dell’IVA. Ancora una volta la Corte ha rilevato che la sesta direttiva non prevede espressamente tali casi, e ha dichiarato che, fino a quando tale lacuna non sarà colmata dal legislatore comunitario, spetta agli Stati membri il compito di ovviarvi (18). 17. Un’altra sentenza, menzionata nelle osservazioni presentate nella presente causa, riguardava circostanze di fatto leggermente diverse. Si tratta della causa Langhorst (19), nella quale un agricoltore aveva venduto dei suini ad alcuni commercianti di bestiame. Anziché essere lui a rilasciare ai commercianti una fattura per il prezzo, erano stati questi ultimi a trasmettergli note di credito per quel prezzo, sul quale avevano erroneamente calcolato l’IVA ad un’aliquota superiore a quella applicabile. La Corte ha dichiarato che una tale nota di credito poteva essere considerata un documento che «fa le veci di una fattura» e che il destinatario della nota (nella fattispecie, l’agricoltore) doveva essere considerato come la persona che aveva effettivamente indicato l’IVA in quel documento, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), cosicché era debitore dell’importo indicato (20). Luogo delle prestazioni pubblicitarie 18. L’art. 9 della sesta direttiva contiene norme in merito al luogo in cui si considera avvenuta una prestazione di servizi ai fini della direttiva. L’art. 9, n. 2, lett. e), così dispone: «Il luogo delle seguenti prestazioni di servizi, rese (…) a soggetti passivi stabiliti nella Comunità, ma fuori del paese del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede della sua attività economica o ha costituito un centro di attività stabile nel quale si è avuta la prestazione di servizi o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale: (…) – Prestazioni pubblicitarie, (…)». 19. Ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. b) (21), «[il] destinatario di un servizio di cui all’art. 9, paragrafo 2, lett. e), prestato da un soggetto passivo residente all’estero» è debitore dell’IVA sul servizio di cui trattasi (22). «Tuttavia, gli Stati membri possono stabilire che il prestatore sia tenuto in solido al pagamento dell’imposta». Rimborsi nell’ambito delle prestazioni transfrontaliere ai sensi dell’ottava direttiva 20. L’art. 17, n. 2, lett. a), della sesta direttiva, precedentemente illustrato (23), riguarda la deduzione dell’IVApagata a monte dall’imposta da versarsi a valle all’interno dello stesso Stato membro. Per le altre situazioni, l’art. 17, nn. 3 e 4 (24), così dispone, per quanto qui di rilievo: «3. Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini: 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (18) Punti 42 e 48-53 della sentenza. (19) Sentenza 17 settembre 1997, causa C-141/96 (Racc. pag. I-5073). (20) V. punti 8, 9, 24, 27 e 28 della sentenza. (21) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 octies, nella versione introdotta dalla direttiva 91/680 e in vigore all’epoca dei fatti; successivamente modificato. (22) Tale meccanismo è noto come «tassazione inversa» o «autofatturazione». (23) Al paragrafo 8. (24) V. art. 28 septies. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 233 (a) di sue operazioni (…) effettuate all’estero che darebbero diritto a deduzione [(25)] se fossero effettuate all’interno del paese; (…)». 4. Il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 3 viene effettuato: – A favore dei soggetti passivi che non sono stabiliti all’interno del paese ma che sono stabiliti in un altro Stato membro, secondo le modalità di applicazione stabilite dalla [ottava direttiva], (…)». 21. L’art. 2 dell’ottava direttiva così dispone: «Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno del paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso, l’imposta sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli sono ceduti all’interno del paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di beni nel paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a ) (…)» della sesta direttiva. 22. Ai sensi dell’art. 5 della stessa direttiva: «Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato conformemente all’articolo 17 [della sesta direttiva], quale si applica nello Stato membro del rimborso. (…)». Effetti della normativa sulle prestazioni transfrontaliere 23. In forza delle disposizioni citate, qualora un soggetto stabilito nello Stato membro A fornisca beni o presti servizi ad un destinatario commerciale (26) stabilito in uno Stato membro B, che non sia soggetto ad IVA nello Stato membro A in quanto non vi svolge operazioni imponibili a valle, il principio generale è che il destinatario commerciale ha diritto al rimborso dell’IVA fatturatagli dal prestatore nello Stato membro A, e non avrà su tali prestazioni alcuna imposta a monte da dedurre dalla sua imposta a valle nello Stato membro B. 24. Nelle specifiche situazioni in cui si applica invece il meccanismo dell’autofatturazione (ad esempio nel caso di prestazione di servizi pubblicitari, che si ritiene siano forniti nello Stato membro B, e non nello Stato membro A), il prestatore non dovrebbe fatturare l’IVA sulla prestazione nello Stato membro A. Al contrario, il destinatario commerciale è debitore dell’IVA sulla prestazione ricevuta nello Stato membro B, e può dedurre l’imposta pagata a monte dall’imposta a valle cui è tenuto nello Stato membro B. 25. Qualora, ciononostante, il prestatore fatturi l’IVA al destinatario commerciale nello Stato membro A(come se la prestazione fosse avvenuta nello Stato membro A), in una situazione in cui avrebbe dovuto applicarsi il meccanismo dell’autofatturazione (poiché si reputa che la prestazione abbia avuto luogo nello Stato membro B), l’IVA è stata fatturata erroneamente. È esattamente quanto avvenuto nella fattispecie. 26. Ove il destinatario commerciale paghi quindi l’IVA erroneamente fatturata e il prestatore la versi, debitamente, alle autorità tributarie nello Stato membro A, allora – a meno (25) Questa nota non riguarda la versione italiana della direttiva. (26) Per evitare continue ripetizioni, userò il termine «destinatario» o «destinatario commerciale » per indicare il soggetto passivo che acquisti beni o servizi soggetti a imposta e che li usi ai fini delle proprie operazioni imponibili a valle, in modo da distinguere tale soggetto dal destinatario che sia consumatore finale. che e fintanto che il destinatario commerciale non riesca a farsi rimborsare (a) sia dal prestatore (b) sia dalle autorità tributarie dello Stato membro A l’IVA erroneamente pagata – l’operazione non è «neutrale dal punto di vista dell’IVA» per il destinatario commerciale, e le autorità tributarie dello Stato membro A hanno riscosso l’IVA indebitamente. La causa principale Contesto di fatto e processuale 27. I fatti di causa, come risultano dall’ordinanza di rinvio nonché dalle osservazioni presentate alla Corte, possono essere riassunti nel modo seguente. 28. La Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH (in prosieguo: la «Reemtsma») è una società avente la sede principale in Germania. Non possiede una sede stabile in Italia. 29. Nel 1994 una società italiana ha fornito alla Reemtsma servizi pubblicitari e di marketing, sui quali ha applicato l’IVA per un importo totale di LIT 175 022 025 (27). 30. Si trattava, come risulta dall’ordinanza di rinvio, di servizi esenti da IVA, cosicché erroneamente l’imposta è stata menzionata in fattura e pagata, dapprima dalla Reemtsma alla società italiana, e poi da quest’ultima alle autorità tributarie. 31. Sembra emergere dalla normativa citata (28) che i servizi non fossero esenti strictu sensu, ma si reputava fossero stati forniti in Germania, dove la Reemtsma aveva sede, conformemente all’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva. Ciononostante, sempre per errore l’IVAera stata fatturata e pagata in Italia. Poiché trovava applicazione il meccanismo dell’autofatturazione, era in realtà la Reemtsma ad essere debitrice dell’IVA in Germania. 32. La Reemtsma ha chiesto il rimborso parziale dell’IVA di cui trattasi. Non è chiaro perché sia stato chiesto un rimborso soltanto parziale, probabilmente perché i servizi acquistati non erano destinati unicamente alle operazioni della Reemtsma imponibili a valle. In tale situazione, sorgerebbe un diritto solo parziale al rimborso (29). 33. A fronte del diniego di rimborso oppostole dalle autorità tributarie, la Reemtsma ha adito l’autorità giudiziaria. 34. Il ricorso presentato dalla Reemtsma è stato respinto tanto in primo grado quanto in appello, con la motivazione che il pagamento dell’imposta si riferiva a servizi non rientranti tra quelli soggetti ad IVA, essendo stati forniti ad una persona che rivestiva la qualità di soggetto passivo in un altro Stato membro. 35. Avverso la sentenza d’appello la Reemtsma ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione di alcune disposizioni del diritto nazionale (30), nonché omessa motivazione. 36. La Corte Suprema di cassazione, nutrendo dubbi sull’interpretazione della normativa italiana alla luce delle sentenze della Corte Genius Holding, Langhorst, Schmeink & 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (27) Pari, all’incirca, a EUR 91 000. (28) Art. 7, quarto comma, lett. d) e e), del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 (in prosieguo: il «d.P.R. 633/1972»). (29) Sentenza 13 luglio 2000, causa C-136/99, Monte dei Paschi di Siena (Racc. pag. I-6109). (30) Art. 19 del d.P.R. 633/1972, che stabilisce il diritto a deduzione, e art. 38 bis dello stesso decreto, relativo al rimborso, sostanzialmente, di ogni eccedenza dell’imposta versata rispetto a quella dovuta. L’art. 38 ter provvede in merito al rimborso, conformemente all’ottava direttiva, ai soggetti stabiliti in un altro Stato membro, dell’IVA che sarebbe stata detraibile ai sensi dell’art. 19. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 235 Cofreth e Karageorgou, si è rivolta alla Corte di giustizia sottoponendole in via pregiudiziale le seguenti questioni: (1) Se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva (…), nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbano essere interpretati nel senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa, se sia contraria alle citate disposizioni della direttiva una norma nazionale che escluda il rimborso del cessionario/committente non residente in considerazione della non detraibilità dell’imposta addebitata e versata benché non dovuta. (2) Se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confronti dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria ai principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione del diritto comunitario, una disciplina nazionale – ricavata dall’interpretazione datane dai giudici nazionali – che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza nell’ordinamento nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle imposte dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere il rimborso all’erario». 37. Hanno presentato osservazioni scritte la Reemtsma, il governo italiano e la Commissione. All’udienza, svoltasi il 30 marzo 2006, hanno presentato osservazioni orali il governo italiano e la Commissione. Valutazione Sulla prima questione 38. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio domanda in sostanza se l’impostazione adottata dalla giurisprudenza a far tempo dalla sentenza Genius Holding con riferimento alle deduzioni ai sensi della sesta direttiva debba essere seguita anche con riferimento ai rimborsi ai sensi dell’ottava direttiva. 39. Prima di risolvere tale questione, è tuttavia necessario esaminare i dubbi sollevati dalla Reemtsma in merito al perdurare della validità dei principi stabiliti nella sentenza Genius Holding. I principi stabiliti nella sentenza Genius Holding sono tuttora validi? 40. A parere della Reemtsma, la decisione della Corte nella sentenza Genius Holding non era giustificata dal tenore testuale dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva ed è stata, per giunta, superata dalla sentenza Langhorst. Essa fa riferimento al passaggio di quest’ultima sentenza in cui la Corte ha dichiarato che, se il soggetto passivo, considerato come colui che ha indicato l’IVA nella nota di credito, non fosse debitore dell’importo indicato, «parte dell’IVA indicata nel documento facente le veci di fattura non dovrebbe essere pagata dal soggetto passivo, pur se (…) tale IVA avrebbe potuto essere detratta per intero dal 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO destinatario dei beni o dei servizi (…)» (31). Ciò implica, a parere della Reemtsma, un capovolgimento di quanto dichiarato nella sentenza Genius Holding e un ritorno a un diritto a deduzione onnicomprensivo. La Reemtsma afferma che il diritto a deduzione è lo strumento principale per garantire l’applicazione del principio fondamentale di neutralità dell’IVA, e che gli Stati membri non hanno la facoltà di porre limiti a tale diritto (32). 41. La Reemtsma rimarca inoltre le differenze rispetto alla sentenza Karageorgou. Sebbene la motivazione teorica di quella sentenza sia valida, essa scaturisce da un contesto di fatto diverso (33). Nel presente caso, l’importo in questione non può essere, al contempo, IVA che il prestatore che ha emesso la fattura è tenuto a pagare ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), e «non IVA» dal punto di vista del destinatario della prestazione. 42. Per parte mia, non posso condividere la tesi secondo la quale la sentenza Langhorst metterebbe in discussione la validità della statuizione contenuta nella sentenza Genius Holding. 43. Il passaggio dal quale la Reemtsma inferisce che la Corte abbia capovolto il proprio orientamento fa parte della soluzione della seconda questione sollevata nella causa Langhorst: se il soggetto passivo che non abbia contestato l’indicazione, figurante in una nota di credito facente le veci di una fattura, di un importo IVA superiore a quello dovuto in base alle operazioni imponibili, possa essere considerato la persona che ha indicato tale importo e se sia, quindi, debitore dell’importo indicato, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva. 44. A tale questione la Corte ha dato la medesima soluzione (affermativa) preconizzata dall’avvocato generale Léger, che aveva fondato ampiamente la propria analisi sulla sentenza Genius Holding (34). In tali circostanze, mi pare difficile intravedere un ripudio della sentenza Genius Holding nella motivazione della Corte, che semplicemente segue il ragionamento dell’avvocato generale, sebbene con una formulazione molto più breve e omettendo ogni menzione di quella sentenza. Peraltro, la sentenza Genius Holding è stata successivamente seguita, del tutto chiaramente, tanto nella sentenza Schmeink & Cofreth quanto nella sentenza Karageorgou. 45. Quanto alla frase «avrebbe potuto essere detratta per intero dal destinatario dei beni o dei servizi», contenuta nella sentenza Langhorst, mi pare chiaro che la Corte non stava dicendo che il destinatario avrebbe potuto avere il diritto di dedurre l’imposta erroneamente fatturata. La Corte stava piuttosto considerando l’ipotesi che egli potesse di fatto averla dedotta, e che avrebbe potuto presentarsi un’opportunità di frode qualora il prestatore non fosse stato debitore dell’intero importo indicato. 46. Ciò premesso, condivido ampiamente l’opinione della Reemtsma sotto un aspetto. È illogico considerare un importo erroneamente fatturato al contempo come IVA, che deve essere pagata dal prestatore ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, e come «non IVA», non deducibile da un destinatario commerciale ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a). (31) Punti 27 e 28 della sentenza. (32) La Reemtsma cita le sentenze 21 settembre 1988, causa 50/87, Commissione/Francia (Racc. pag. 4797, punti 16 e 17), e 11 luglio 1991, causa C-97/90, Lennartz (Racc. pag. I-3795, punto 27). (33) In quel contesto, infatti, l’importo fatturato non era affatto correttamente qualificabile come IVA, in quanto il prestatore era in realtà un dipendente: v. supra, paragrafo 16. (34) V. paragrafi 52 e segg. delle conclusioni. 47. La tesi della Reemtsma riecheggia ampiamente l’analisi proposta alla Corte dalla Commissione e dall’avvocato generale Mischo nella causa Genius Holding, secondo cui l’IVA che dev’essere pagata dal prestatore in forza dell’art. 21, n. 1, lett. c), dovrebbe anche essere considerata imposta «dovuta o assolta» ai sensi dell’art. 17, n. 2, lett. a). Essa dovrebbe pertanto essere deducibile da un destinatario commerciale (sempre che si eviti ogni frode, escludendo i casi in cui risulti che l’importo di cui trattasi in realtà non è stato pagato). 48. Quest’analisi, lo confesso, mi sembra preferibile, in termini di coerenza e di semplicità del sistema, rispetto all’impostazione infine adottata dalla Corte nella sentenza Genius Holding. Mi chiedo anche se una tale soluzione non sarebbe stata maggiormente in sintonia con la più recente giurisprudenza della Corte in materia di frodi a carosello. 49. La frode a carosello è certamente una situazione diversa, nella quale l’IVA è correttamente fatturata attraverso una catena di cessioni, ma viene fraudolentemente sottratta al fisco in uno o più passaggi. Tuttavia, nella sentenza Optigen (35) la Corte ha dichiarato che, qualora un soggetto passivo effettui operazioni che soddisfano i criteri obiettivi sanciti dalla sesta direttiva, il suo diritto di dedurre l’IVApagata a monte non può essere compromesso dalla circostanza che, nella catena di cessioni, un’altra operazione, precedente o successiva, sia inficiata da frode all’IVA, senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo. È irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di dedurre l’IVA pagata a monte, stabilire se l’IVA su operazioni precedenti o successive riguardanti i beni interessati sia stata versata o meno all’erario. 50. Ritengo che, posto che il diritto a deduzione rimane impregiudicato in circostanze del genere, il sistema sarebbe più coerente se tale diritto rimanesse impregiudicato anche in circostanze come quelle della causa Genius Holding. Inoltre, la Corte ha espressamente dichiarato che la possibilità di rettifica ai sensi dell’art. 20, n. 1, lett. a), della sesta direttiva dipende dalla dimostrazione della buona fede, in origine, da parte della persona che ha emesso la fattura (36), oppure, secondo la sentenza Schmeink & Cofreth, dal fatto che sia stato eliminato qualunque rischio di perdita di gettito fiscale (37). Una condizione del genere avrebbe potuto applicarsi, mutatis mutandis, ove il destinatario avesse mantenuto un diritto a deduzione, piuttosto che un diritto a rettifica. 51. Ciò nondimeno, non propongo alla Corte di riconsiderare la propria statuizione nella sentenza Genius Holding. Questa statuizione si fonda su principi interpretativi accettati e consegue, pur se attraverso una procedura più macchinosa, lo stesso risultato della tesi propugnata dall’avvocato generale, risultato che sembra manifestamente corretto in termini di neutralità dell’IVA. Inoltre, essa costituisce giurisprudenza costante da più di quindici anni, cosicché ogni sovvertimento oggi comporterebbe presumibilmente un indesiderabile scompiglio nella prassi IVA degli Stati membri. 52. Ciò detto, non mi pare possano trarsi conclusioni utili dal fatto che il principio sancito nella sentenza Genius Holding sia stato applicato a circostanze diverse nella sentenza Karageorgou. Passerò quindi ad esaminare ora se tale principio debba applicarsi anche a situazioni disciplinate dall’ottava direttiva. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 237 (35) Sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03 (Racc. pag. I- 0000; v., in particolare, punti 51-54). (36) Sentenza Genius Holding, punto 18. (37) Sentenza Schmeink & Cofreth, punti 56-63. Il principio sancito dalla sentenza Genius Holding è applicabile nel contesto dell’ottava direttiva? 53. Il giudice nazionale rileva che la ragione del divieto di deduzione ai sensi della sesta direttiva, nel caso di erronea indicazione in fattura di un’imposta non dovuta, non consiste nel far gravare definitivamente l’onere del tributo sul destinatario commerciale, che sarebbe stato altrimenti autorizzato alla deduzione, bensì piuttosto nella necessità di evitare l’evasione fiscale. Ai sensi dell’ottava direttiva, invece, la finalità di limitare il diritto al rimborso ai casi in cui sarebbe stata concessa la deduzione in forza della sesta direttiva è diversa. Essa consiste nell’escludere i destinatari sui quali deve gravare l’onere del tributo (vuoi in quanto sono consumatori finali, vuoi perché le loro cessioni a monte sono utilizzate per operazioni esenti). Data questa diversa finalità, non è chiaro se debba trovare applicazione lo stesso approccio. 54. Anche la Reemtsma rileva la differente finalità. Ne conclude che sia inappropriato vietare un rimborso ai sensi dell’ottava direttiva laddove il motivo della non deducibilità ai sensi della sesta direttiva sarebbe stato semplicemente che l’imposta è stata fatturata per errore. 55. Il governo italiano sottolinea invece che il presente caso riguarda un rimborso dell’IVA erroneamente applicata ad una prestazione. A suo parere, non può trovare applicazione il procedimento di cui agli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva in quanto non ricorre la condizione secondo la quale l’imposta sarebbe stata deducibile se il destinatario fosse stato residente in Italia (38). 56. Secondo la Commissione, dalla sentenza Debouche (39) risulta che l’ottava direttiva non ha lo scopo di pregiudicare il regime introdotto dalla sesta direttiva. Come l’avvocato generale Tesauro ha affermato nelle conclusioni presentate in quella causa (40), il rimborso dell’IVA a favore di soggetti passivi non residenti all’interno del paese risponde alla medesima logica e, quindi, va sottoposto alle stesse regole applicabili alla deduzione cui procede il soggetto passivo residente nel paese. Ciò è confermato dall’orientamento seguito dalla Corte nella sentenza Monte dei Paschi di Siena (41), che ha applicato le regole in materia di deduzione pro rata di cui all’art. 17, n. 5, della sesta direttiva a un rimborso in forza dell’ottava direttiva. 57. Su questo punto, condivido le conclusioni cui pervengono il governo italiano e la Commissione. 58. Sotto il profilo formale, i riferimenti all’art. 17 della sesta direttiva contenuti negli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva sono chiari. L’art. 2 conferisce un diritto al rimborso «nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui all’articolo 17, paragrafo 3, lettera a) (…)» della sesta direttiva. L’art. 5 dispone espressamente che «il rimborso dell’imposta è determinato conformemente all’articolo 17 [della sesta direttiva], quale si applica nello Stato membro del rimborso». 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (38) V. art. 17, n. 3, lett. a), della sesta direttiva. (39) Sentenza 26 settembre 1996, causa C-302/93 (Racc. pag. I-4495, punto 18). (40) Paragrafo 7, terzo comma, a pag. I-4500. (41) Citata supra, alla nota 29. 59. Inoltre, adottando il medesimo criterio interpretativo letterale accolto nella sentenza Genius Holding (42), si può rilevare che l’art. 17, n. 3, della proposta della Commissione di sesta direttiva faceva riferimento, così come l’art. 17, n. 2, lett. a), di quella proposta, all’IVA «fatturata» a un soggetto passivo, ma il testo è stato modificato, per cui ora si parla di IVA «di cui al paragrafo 2» – mentre «fatturata» è divenuto «dovuta o assolta». 60. Peraltro, la giurisprudenza citata dalla Commissione depone nel senso di un trattamento parallelo. 61. Ciò che è forse più importante, comunque, è che la coerenza tra il sistema del rimborso e quello della deduzione sembra auspicabile come questione di principio, salvo che vi sia qualche differenza nella natura di una catena transfrontaliera di cessioni che imponga un trattamento differenziato. Ma non sembra che non ve ne siano. 62. Vero è che il meccanismo del rimborso previsto dall’ottava direttiva non è identico al meccanismo della deduzione ai sensi della sesta direttiva. Ciò nonostante, vi è un considerevole parallelismo tra le situazioni disciplinate dalle due direttive. 63. Ipotizziamo che X e Y siano soggetti passivi, dei quali X sia il cedente o prestatore nell’ambito di un’operazione e Y il destinatario commerciale. In una situazione limitata ad un singolo Stato membro, X fattura l’IVA a Y, che deduce il corrispondente importo dall’imposta a valle di cui è debitore. 64. Qualora X sia stabilito in uno Stato membro A, e Y, stabilito in uno Stato membro B, non effettui operazioni imponibili nello Stato membro A, può verificarsi o la situazione (a), nella quale Y, in forza dell’ottava direttiva, ottiene un rimborso dell’IVA fatturata nello Stato membro A, e l’importo dell’IVA che egli fattura ai suoi clienti e che deve versare al fisco nello Stato membro B è calcolato sull’intero prezzo netto al quale egli effettua la propria prestazione, oppure la situazione (b), nella quale trova applicazione il meccanismo di autofatturazione di cui alla sesta direttiva: X non fattura l’IVA e Y diviene debitore dell’IVA sulla cessione o prestazione nello Stato membro B, ma può anche dedurla. In entrambi i casi la catena continua poi normalmente. 65. Qualora X erroneamente fatturi l’IVA a Y sull’operazione, se Y paga la fattura e X versa il relativo importo alle autorità tributarie, allora, in conformità al principio sancito dalla sentenza Genius Holding, ove la situazione sia limitata a un singolo Stato membro (Stato membro A): – X deve restituire a Y l’importo erroneamente fatturato; – le autorità tributarie devono rimborsare l’importo a X; e – Y deve escludere tale importo dalla sua deduzione [oppure, se è già stato dedotto, rettificare la propria deduzione in conformità all’art. 20, n. 1, lett. a), della sesta direttiva]. 66. Qualora X e Y siano stabiliti in Stati membri diversi, il primo e il secondo di tali requisiti rimangono applicabili. Tuttavia, sia in forza dell’ottava direttiva (43) sia nell’ambito del meccanismo di autofatturazione della sesta direttiva (44), Y non avrebbe mai potuto dedurre l’IVA fatturata da X, in quanto nessuna delle due situazioni consente una dedu- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 239 (42) V. supra, paragrafo 12. (43) Con riferimento a cessioni o prestazioni effettuate nello Stato membro A. (44) Con riferimento a cessioni o prestazioni che si reputano effettuate nello Stato membro B. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione in quanto tale. L’equivalente, pertanto, è che Y non abbia diritto ad alcun rimborso. Ancora una volta, la catena continuerà normalmente. 67. In entrambi gli scenari, la neutralità dell’IVA è preservata (45) attraverso strumenti che sono sostanzialmente paralleli (quantunque, come già detto, più complessi di quanto avverrebbe se la deduzione o il rimborso, a seconda dei casi, fossero consentiti). 68. Si può inoltre rilevare che anche la disposizione nazionale in discussione nella causa Genius Holding imponeva un meccanismo di autofatturazione, sebbene si trattasse di un meccanismo autorizzato dal Consiglio in forza dell’art. 27 della sesta direttiva anziché di un meccanismo del genere di cui si occupa l’ottava direttiva (46). Si potrebbe ritenere strano che il principio sotteso a tale sentenza dovesse applicarsi ad un tipo di situazione di autofatturazione e non ad un altro. 69. Ritengo pertanto che l’approccio assunto dalla Corte nella sentenza Genius Holding con riferimento alle deduzioni ai sensi della sesta direttiva debba essere mantenuto anche rispetto ai rimborsi di cui all’ottava direttiva. Sulla seconda questione 70. Nel caso in cui un destinatario commerciale, che si trovi in una situazione come quella della Reemtsma (vale a dire, nel mio esempio, nella situazione di Y), non abbia il diritto a un rimborso ai sensi dell’art. 17, nn. 3 e 4, della sesta direttiva nonché delle disposizioni dell’ottava direttiva, il giudice nazionale desidera sapere, in sostanza, se sia sufficiente che gli sia conferito un diritto a pretendere la restituzione nei confronti del prestatore (nel mio esempio, X) che ha fatturato l’imposta e che potrebbe, a sua volta, agire nei confronti delle autorità tributarie che l’hanno riscossa, o se debba essergli concesso il diritto di agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie. 71. La questione, come hanno sottolineato il governo italiano e la Commissione, si pone sotto tre profili, che possono riassumersi come segue: (a) il destinatario della cessione o della prestazione può essere considerato, in linea generale, debitore dell’IVA su un’operazione? (b) è compatibile con il sistema comunitario dell’IVA (e con i principi di neutralità, effettività ed equivalenza o non discriminazione) il fatto che una normativa nazionale non conferisca al destinatario un’azione nei confronti delle autorità tributarie nel caso in cui l’IVA, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata? (c) è rilevante il fatto che altre norme nazionali (nel settore della tassazione diretta) consentano un’azione congiunta di entrambe le parti nei confronti delle autorità tributarie in circostanze grosso modo analoghe? 72. Affronterò questi tre profili nell’ordine. Può il destinatario della cessione o della prestazione essere considerato in generale debitore dell’IVA su un’operazione? 73. Come sottolinea la Reemtsma, l’art. 21, n. 1, lett. a), della sesta direttiva (47) consente agli Stati membri di prevedere che, oltre al cedente o prestatore, «una persona diver- (45) In quanto X restituisce l’importo a Y e poi a sua volta lo reclama alle autorità tributarie dello Stato membro A. (46) V. punto 5 della sentenza. (47) Nella versione applicabile nel 1994. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 241 sa dal soggetto passivo sia tenuta in solido al versamento dell’imposta». L’art. 22, n. 8 (48), attribuisce agli Stati membri la facoltà di stabilire «altri obblighi che essi ritengano necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi». È pertanto compatibile con la sesta direttiva il fatto che il destinatario della cessione o della prestazione sia uno dei debitori dell’IVA. 74. D’altra parte, come osserva il governo italiano, sebbene il diritto comunitario permetta che il destinatario sia considerato solidalmente responsabile dell’imposta, il diritto italiano non conteneva una disposizione del genere nel 1994 (a differenza di quanto avviene oggi). 75. Inoltre, come correttamente rileva la Commissione, il primo comma dell’art. 21, n. 1, lett. a), della sesta direttiva sancisce la regola generale secondo la quale è in via di principio il prestatore ad essere responsabile del pagamento dell’IVA ed obbligato nei confronti delle autorità tributarie. Le uniche eccezioni sono quelle specificate nelle altre disposizioni dell’art. 21, n. 1 (in particolare, il meccanismo dell’autofatturazione nelle operazioni transfrontaliere) o autorizzate dal Consiglio sulla base dell’art. 27 della sesta direttiva (con previsione, in tali casi, di un meccanismo di autofatturazione in specifiche circostanze all’interno dello Stato membro (49)). 76. Concordo pertanto con il governo italiano e con la Commissione. Ha ragione la Reemtsma allorché sottolinea che, in determinate circostanze, gli Stati membri possono disporre che il destinatario sia solidalmente responsabile con il prestatore, e nelle situazioni in cui si applica il meccanismo dell’autofatturazione è sempre il destinatario ad essere debitore. Ciò nonostante, si tratta di eccezioni alla regola generale, secondo la quale è il prestatore ad essere tenuto, nei confronti delle autorità tributarie, a versare l’IVA su una determinata operazione. Di conseguenza, in via di principio, solo il prestatore può agire nei confronti di tali autorità per recuperare l’imposta versata erroneamente. 77. Vero è che, qualora, per qualunque ragione, si applichi un meccanismo di autofatturazione, è il destinatario ad essere debitore dell’IVA sull’operazione. Il destinatario sarà pertanto, in linea di principio, legittimato a pretendere la restituzione (50) nei confronti delle autorità tributarie di qualunque imposta versata erroneamente. Sembra peraltro che, nella fattispecie che ha dato luogo alla causa principale, abbia effettivamente trovato applicazione il meccanismo dell’autofatturazione ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. e), cosicché la Reemtsma dovrebbe essere sia tenuta al versamento dell’imposta sia legittimata a chiedere la restituzione di qualsiasi imposta versata erroneamente. Tuttavia, si ricordi che tale meccanismo dà luogo a un rapporto tra la Reemtsma e le autorità tributarie del suo Stato membro, vale a dire la Germania, e non quelle dello Stato membro in cui il prestatore ha erroneamente fatturato e versato l’IVA, vale a dire l’Italia. 78. Ritengo pertanto che la prima parte della seconda questione debba essere risolta nel senso che, in via di principio, solo il prestatore dev’essere considerato, nei confronti delle autorità tributarie, debitore dell’IVAsu una determinata operazione, e, di conseguenza, legit- (48) Attualmente rinvenibile nell’art. 28 nonies. (49) Come la norma nazionale in discussione nella causa Genius Holding. (50) Uso qui il termine «restituzione» in senso generico, per mantenerlo distinto dalla specifica procedura di «rimborso» di cui all’ottava direttiva. timato a pretendere la restituzione dell’imposta pagata per errore. Qualora, eccezionalmente, in forza di disposizioni comunitarie o nazionali autorizzate, il debitore sia un’altra persona, tale persona può domandare la restituzione, nei confronti delle autorità tributarie verso le quali era obbligata, di qualunque imposta erroneamente pagata. È ammissibile che il diritto nazionale non conferisca al destinatario della cessione o della prestazione un’azione nei confronti delle autorità tributarie nel caso in cui l’IVA, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata? 79. In Italia, in circostanze in cui non è percorribile né la via della deduzione in forza della sesta direttiva né quella del rimborso in forza dell’ottava direttiva, il prestatore che abbia erroneamente fatturato e riscosso l’IVA su un’operazione, versandola poi alle autorità tributarie, può, a quanto consta, domandare la restituzione del relativo importo alle stesse autorità, mentre il destinatario, nell’ambito della medesima operazione, può chiedere la restituzione di tale importo soltanto mediante un’azione civile di ripetizione nei confronti del prestatore. 80. I dubbi del giudice nazionale in merito a tale sistema processuale riguardano i principi di equivalenza (o non discriminazione) e di effettività in diritto comunitario. La più recente statuizione in merito a tali principi è rinvenibile nella sentenza MyTravel (51): «In mancanza di disciplina comunitaria in materia di domande di rimborso delle imposte, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tale diritto possa esercitarsi, purché essi rispettino i principi di equivalenza e di effettività, vale a dire, non siano meno favorevoli di quelli che riguardano casi analoghi di natura interna e non rendano praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario» 81. La Reemtsma ritiene che, in ossequio al principio di effettività, si debba riconoscere al destinatario un’azione diretta nei confronti delle autorità tributarie. In caso contrario, potrebbero configurarsi almeno due situazioni di potenziale conflitto con tale principio: da un lato, il prestatore potrebbe essere insolvente a fronte dell’azione avviata dal destinatario nei suoi confronti, d’altro lato, il prestatore potrebbe vedersi obbligato a rimborsare il destinatario dinanzi al giudice civile ma poi risultare soccombente nei confronti delle autorità tributarie dinanzi al giudice tributario. 82. La Commissione si richiama alle statuizioni della Corte, segnatamente nella sentenza Schmeink & Cofreth, secondo cui gli Stati membri devono prevedere le modalità per rimediare agli errori nella fatturazione dell’IVA, ivi incluse le modalità di rettifica della fattura e di restituzione dell’imposta pagata erroneamente. Tale dovere, essa afferma, deriva tanto dal principio di neutralità quanto dal divieto di arricchimento indebito (nella fattispecie, da parte delle autorità tributarie). Gli Stati membri possono scegliere la procedura che ritengono più opportuna, purché il principio di effettività sia rispettato. Una situazione in cui, di regola, soltanto il prestatore, in quanto debitore dell’imposta, può chiedere la restituzione da parte delle autorità tributarie, mentre il destinatario della prestazione può chiederla al prestatore nell’ambito di un’azione di diritto civile, appare in via di principio accettabile. Tuttavia, e sempre che sia escluso qualunque rischio di perdita del gettito fiscale, il principio di effettività può imporre che al destinatario sia attribuita la facoltà di agire nei confronti delle autorità tributarie ove 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (51) Sentenza 6 ottobre 2005, causa C-291/03 (Racc. pag. I-0000), punto 17. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 243 un recupero dell’importo attraverso la procedura ordinaria si riveli «praticamente impossibile o eccessivamente difficile» (ad esempio, nel caso della Reemtsma, qualora il suo prestatore di servizi italiano abbia cessato di esistere). Infine, il principio di non discriminazione imporrebbe allo Stato membro che abbia concesso un’azione nei confronti delle autorità tributarie al destinatario stabilito all’interno del suo territorio di conferire il medesimo diritto di azione al destinatario stabilito in un altro Stato membro. 83. Il governo italiano concorda con la Commissione nei limiti in cui questa riconosce la legittimità del sistema istituito in Italia. Esso è invece in disaccordo con l’ulteriore tesi della Commissione, secondo la quale il destinatario dev’essere legittimato ad agire per la restituzione direttamente nei confronti delle autorità tributarie qualora, per qualunque ragione, una sua azione civile nei confronti del prestatore non possa essere esperita. 84. Ciò nonostante, ritengo che l’analisi svolta dalla Commissione sia assolutamente convincente. 85. In primo luogo, il sistema di rimedi processuali applicabile in Italia, come innanzi descritto, appare in via di principio compatibile con la normativa e con la giurisprudenza in materia di sistema comunitario dell’IVA. Se il prestatore, che abbia erroneamente fatturato e riscosso l’IVA su una determinata operazione, versandola poi alle autorità tributarie, può domandare la restituzione del relativo importo da parte di tali autorità, e il destinatario nell’ambito della medesima operazione è legittimato a recuperare tale importo dal prestatore mediante un’azione civile, allora i principi di neutralità dell’IVA e di effettività della tutela giurisdizionale con riferimento al recupero dell’imposta pagata erroneamente sono rispettati. 86. In secondo luogo, un sistema del genere è, in via di principio, sufficiente. In tutte le situazioni in cui esso può produrre l’esito preconizzato – restituzione integrale alla persona sulla quale ha inciso l’onere dell’imposta pagata erroneamente – è superfluo prevedere qualunque altro rimedio aggiuntivo a favore del destinatario nei confronti delle autorità tributarie. Di conseguenza, non occorre prevedere un’azione diretta in favore del destinatario nei confronti delle autorità tributarie, del genere di quella che la Reemtsma sembra aver tentato di esperire, a meno che il sistema di rimedi di base sia stato messo in moto ma, a causa di circostanze di fatto indipendenti dal merito dell’azione (52), non abbia prodotto l’esito normale. 87. In terzo luogo, possono verificarsi casi in cui, appunto, tale esito non si produce. In queste ipotesi, affinché siano rispettati i principi di neutralità dell’IVA e di effettività è necessario che sia praticabile qualche altra soluzione. È difficile immaginare altra soluzione che non sia quella di permettere al destinatario, sul quale ha inciso l’intero onere dell’IVA fatturata erroneamente, di agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie, le quali, se dovessero trattenere l’IVA così riscossa, risulterebbero indebitamente arricchite. 88. Sotto questo profilo, all’udienza sono stati discussi due punti. 89. Da un lato, la Commissione ha affermato che tali casi sono estremamente rari, ed è improbabile che possano incidere in maniera rilevante sul sistema procedurale di base, laddove invece il governo italiano ha asserito che essi possono considerarsi molto meno rari. Ritengo tuttavia che la frequenza del manifestarsi di tali casi non debba assumere alcuna (52) Ad esempio, l’insolvenza del prestatore. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO rilevanza. Ciò che importa è che, ogniqualvolta situazioni del genere si verifichino, esse debbono essere trattate in ossequio ai principi di neutralità ed effettività. 90. D’altro lato, il governo italiano ha sostenuto che un rimedio per prevenire l’indebito arricchimento da parte delle autorità tributarie, nell’ipotesi di IVA pagata per errore, dovrebbe essere predisposto soltanto ove vi fosse anche un corrispondente rimedio per prevenire l’indebito impoverimento dell’erario nell’ipotesi di omesso pagamento di un’IVA effettivamente dovuta. Con ciò sembra volersi affermare che, altrimenti, vi sarebbe una qualche forma di indebito arricchimento a favore del destinatario. Tale argomento mi pare però frutto di un fraintendimento. Qualora il prestatore abbia fatturato l’IVA al destinatario e l’abbia da lui riscossa, ma abbia poi omesso di versarla alle autorità tributarie, non vi è alcun indebito arricchimento in capo al destinatario (pur potendovi essere effettivamente indebito arricchimento e/o frode in capo al prestatore). Se il prestatore non ha né fatturato l’IVA al destinatario su un’operazione imponibile, né l’ha dunque riscossa da lui, ove il destinatario sia a sua volta un soggetto imponibile, egli non avrà alcuna IVA da dedurre e non si sarà dunque indebitamente arricchito – e/o, indipendentemente dal fatto che sia un destinatario commerciale oppure un consumatore finale, egli può essere a sua volta implicato in una frode ai danni del fisco. In quest’ultima situazione, giustamente la normativa nazionale potrà prevedere l’applicazione di sanzioni penali e il pagamento coercitivo dell’importo di cui trattasi. 91. Infine, concordo con la Commissione sul fatto che il principio di equivalenza impone allo Stato membro, che conferisca al destinatario stabilito sul proprio territorio un’azione diretta di ripetizione nei confronti delle autorità tributarie, di riconoscere il medesimo diritto di azione al destinatario stabilito in un altro Stato membro. Dinanzi alla Corte, tuttavia, non è stato precisato se ciò sia quanto avviene in Italia. 92. Ritengo pertanto che, qualora l’IVA su una determinata operazione, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata alle autorità tributarie da un prestatore di servizi o fornitore di beni – che sarebbe stato il debitore se l’IVA fosse stata dovuta – è in via di principio sufficiente, in ossequio ai principi di neutralità dell’IVA e di effettività delle norme nazionali relative alla restituzione delle imposte riscosse in contrasto con il diritto comunitario, che vi siano procedimenti nazionali mediante i quali tale soggetto può domandare la restituzione del relativo importo alle dette autorità, e che il destinatario dell’operazione sia legittimato a recuperare l’importo nei confronti del prestatore mediante un’azione civile. Ove però l’esito favorevole di un’azione civile del genere sia precluso in ragione di circostanze di fatto indipendenti dal merito dell’azione, il diritto nazionale deve predisporre, in ossequio al principio di neutralità dell’IVA, al principio di effettività e al divieto di indebito arricchimento in capo alle autorità tributarie, procedure mediante le quali il destinatario sul quale ha inciso l’onere dell’importo erroneamente fatturato possa recuperare tale importo nei confronti delle autorità tributarie. In ogni caso, ove un’azione sia esperibile da parte del destinatario nell’ambito di una tale transazione che sia stabilito all’interno dello Stato membro di cui trattasi, essa deve essere esperibile anche da parte del destinatario che sia stabilito in un altro Stato membro. È rilevante ai fini della valutazione il fatto che altre norme nazionali nel settore della tassazione diretta consentano un’azione congiunta di entrambe le parti nei confronti delle autorità tributarie, in circostanze grosso modo analoghe? 93. A quanto consta, qualora l’imposta sui redditi sia stata erroneamente trattenuta alla fonte dal datore di lavoro e versata alle autorità tributarie, il diritto italiano consente tanto al datore di lavoro quanto al lavoratore dipendente di domandarne la restituzione alle autorità IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 245 tributarie. Il giudice del rinvio si chiede se la previsione di una tale legittimazione ad agire, individuale o congiunta, in quella situazione, a fronte di una sua mancata previsione a favore del prestatore e del destinatario della prestazione in una situazione IVA del tipo in discussione nella causa principale, non sia in contrasto con il principio di equivalenza o di non discriminazione sancito dal diritto comunitario. 94. La Commissione, pur sottolineando che la Corte non è stata edotta in modo esauriente sulle norme italiane in materia di tassazione diretta, ritiene in generale che una situazione in quel settore non sia equiparabile ad una situazione nell’ambito dell’IVA. In quest’ultimo settore, è in via di principio soltanto il prestatore ad avere un rapporto giuridico diretto con le autorità tributarie. In realtà, l’intero sistema della tassazione diretta è del tutto indipendente da quello dell’IVA. Poiché il principio di non discriminazione riguarda soltanto situazioni tra loro comparabili, esso non viene rilievo nel presente caso. 95. A tale proposito, sono del tutto d’accordo con la Commissione. Conclusione 96. Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, ritengo che le questioni sollevate dalla Corte Suprema di Cassazione debbano essere risolte nel modo seguente: (1) Gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 79/1072/CEE devono essere interpretati nel senso che l’IVA che sia dovuta soltanto in quanto indicata in fattura non dà diritto al rimborso ai sensi delle disposizioni di tale direttiva. (2) In via di principio, soltanto il prestatore di servizi o il fornitore di beni dev’essere considerato, nei confronti delle autorità tributarie, debitore dell’IVA su un’operazione, e, di conseguenza, legittimato a pretendere la restituzione dell’imposta pagata per errore. Qualora, eccezionalmente, in forza del diritto comunitario o di disposizioni nazionali autorizzate, il debitore sia un’altra persona, tale persona può domandare la restituzione, nei confronti delle autorità tributarie verso le quali era obbligata, di qualunque imposta erroneamente pagata. (3) Qualora l’IVA su una determinata operazione, pur non essendo dovuta, sia stata fatturata e pagata alle autorità tributarie da un prestatore di servizi o fornitore di beni – che sarebbe stato il debitore se l’IVAfosse stata dovuta – è in via di principio sufficiente, in ossequio ai principi di neutralità dell’IVA e di effettività delle norme nazionali relative alla restituzione delle imposte riscosse in contrasto con il diritto comunitario, che vi siano procedimenti nazionali mediante i quali tale soggetto può domandare la restituzione del relativo importo alle dette autorità, e che il destinatario dell’operazione sia legittimato a recuperare lo stesso importo nei confronti del prestatore mediante un’azione civile. Ove però l’esito favorevole di un’azione civile del genere sia precluso in ragione di circostanze di fatto indipendenti dal merito dell’azione, il diritto nazionale deve predisporre, in ossequio al principio di neutralità dell’IVA, al principio di effettività e al divieto di indebito arricchimento in capo alle autorità tributarie, procedure mediante le quali il destinatario sul quale ha inciso l’onere dell’importo erroneamente fatturato possa recuperare tale importo nei confronti delle autorità tributarie. In ogni caso, ove un’azione sia esperibile da parte del destinatario nell’ambito di una tale transazione che sia stabilito all’interno dello Stato membro di cui trattasi, essa deve essere esperibile anche da parte del destinatario che sia stabilito in un altro Stato membro. (4) Il fatto che la normativa nazionale attribuisca un’azione, nei confronti delle autorità tributarie, per la restituzione di un importo erroneamente trattenuto e pagato, a titolo di imposta diretta, in favore tanto della parte che ha effettuato la trattenuta quanto della parte 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sul cui reddito la trattenuta è stata effettuata, non rileva, in via di principio, in sede di valutazione della compatibilità con il principio di equivalenza di una situazione in cui soltanto il prestatore di servizi o fornitore di beni – e non il destinatario nell’ambito di un’operazione – può chiedere la restituzione alle autorità tributarie di un importo fatturato e pagato per errore a titolo di IVA. Corte di giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, Sentenza 15 marzo 2007 nel procedimento C-35/05 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Suprema di Cassazione, con ordinanza 23 giugno 2004, pervenuta in cancelleria il 31 gennaio 2005, nella causa tra Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH e Ministero delle Finanze – Pres. di sez. C.W.A. Timmermans – Rel. G. Arestis - Avv. gen. E. Sharpston (Avv. dello Stato G. De Bellis). «1.- La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione degli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese (G.U. L 331, pag. 11; in prosieguo: l’«ottava direttiva»). 2.- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra la società Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH (in prosieguo: la «Reemtsma») e il Ministero delle Finanze in merito al rifiuto di quest’ultimo di rimborsare parzialmente alla detta società l’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») applicata a prestazioni di promozione pubblicitaria e di marketing fornitele in Italia. CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 3.- L’art. 2 dell’ottava direttiva dispone quanto segue: «Ciascuno Stato membro rimborsa ad ogni soggetto passivo non residente all’interno del paese, ma residente in un altro Stato membro, alle condizioni stabilite in appresso, l’imposta sul valore aggiunto applicata a servizi che gli sono resi o beni mobili che gli sono ceduti all’interno del paese da altri soggetti passivi, o applicata all’importazione di beni nel paese, nella misura in cui questi beni e servizi sono impiegati ai fini delle operazioni di cui all’articolo 17, paragrafo 3, lettere a) e b), della direttiva 77/388/CEE o delle prestazioni di servizi di cui all’articolo 1, lettera b)». 4.- L’art. 5, primo comma, dell’ottava direttiva così prevede: «Ai fini della presente direttiva il diritto al rimborso dell’imposta è determinato conformemente all’articolo 17 della direttiva 77/388/CEE, quale si applica nello Stato membro del rimborso». 5 .- Ai sensi dell’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (G.U. L 145, pag. 1), come modificata dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/111/CEE (G.U. L 384, pag. 47; in prosieguo: la «sesta direttiva»): «[I]l luogo delle seguenti prestazioni di servizi, rese a (...) soggetti passivi stabiliti nella Comunità, ma fuori del paese del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 247 della sua attività economica o ha costituito un centro di attività stabile per il quale si è avuta la prestazione di servizi o, in mancanza di tale sede o di tale centro d’attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale: (…) – prestazioni pubblicitarie; (…)». 6.- L’art. 17 della sesta direttiva è così formulato: «1. Il diritto a deduzione nasce quando l’imposta deducibile diventa esigibile. 2. Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: a) l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per i beni che gli sono o gli saranno forniti e per i servizi che gli sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo; (…) 3. Gli Stati membri accordano altresì ad ogni soggetto passivo la deduzione o il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto di cui al paragrafo 2 nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati ai fini: a) di sue operazioni relative alle attività economiche di cui all’articolo 4, paragrafo 2, effettuate all’estero, che darebbero diritto a deduzione se fossero effettuate all’interno del paese; (…)». 7.- Ai sensi dell’art. 21, punto 1, della sesta direttiva: «L’imposta sul valore aggiunto è dovuta: 1) in regime interno: a) dai soggetti passivi che eseguono una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile, diversa dalle prestazioni di servizi di cui alla lettera b). Quando la cessione dei beni o la prestazione di servizi imponibile è effettuata da un soggetto passivo non residente all’interno del paese, gli Stati membri possono prendere disposizioni intese a stabilire che l’imposta sia dovuta da una persona diversa. A tale scopo possono in particolare essere designati un rappresentante fiscale o il destinatario della cessione dei beni o della prestazione di servizi (…) Gli Stati membri possono inoltre prevedere che una persona diversa dal soggetto passivo sia solidalmente tenuta ad assolvere l’imposta; b) dal destinatario di un servizio di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e) o dal destinatario, registrato ai fini dell’imposta sul valore aggiunto all’interno del paese, di un servizio di cui all’articolo 28 ter, parti C, D e E, quando il servizio è prestato da un soggetto passivo residente all’estero; tuttavia, gli Stati membri possono prevedere che il prestatore sia tenuto in solido a pagare l’imposta; c) da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci». La normativa nazionale 8.- Il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, recante istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto (Supplemento ordinario alla GURI n. 1 dell’11 novembre 1972, pag. 1; in prosieguo: il «d.P.R. n. 633/72»), adottato in attuazione dell’ottava direttiva, all’art. 17, primo comma, stabilisce quanto segue: «Soggetti passivi – L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario, cumulativamente per tutte le operazioni effettuate e al netto della detrazione prevista nell’art. 19, nei modi e nei termini stabiliti nel titolo secondo». 9.- L’art. 19, secondo comma, del medesimo decreto così prevede: «Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta (…)». 10.- L’art. 38 ter del d.P.R. n. 633/72 è così formulato: «I soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della Comunità economica europea, che non si siano identificati direttamente ai sensi dell’articolo 35 ter e che non abbiano nominato un rappresentante ai sensi del secondo comma dell’art. 17, assoggettati all’imposta nello Stato in cui hanno il domicilio o la residenza, che non hanno effettuato operazioni in Italia, ad eccezione delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie non imponibili ai sensi dell’art. 9, nonché delle prestazioni indicate all’art 7, quarto comma, lettera d), possono ottenere, in relazione a periodi inferiori all’anno, il rimborso dell’imposta, se detraibile a norma dell’art. 19, relativa ai beni mobili e ai servizi importati o acquistati, sempreché di importo complessivo non inferiore a duecento euro (…)». CAUSA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI 11.- I fatti quali risultano dall’ordinanza di rinvio sono riassumibili come segue. 12.- La Reemtsma è una società con sede in Germania e non ha alcun centro di attività stabile in Italia. Nel 1994 una società italiana ha fornito a detta impresa prestazioni di promozione pubblicitaria e marketing, fatturando a quest’ultima l’importo complessivo di ITL 175 022 025 a titolo di IVA. 13 .- L’IVA è stata posta a carico della Reemtsma e versata all’erario italiano. 14.- La Reemtsma ha quindi chiesto il rimborso parziale di due somme versate a titolo di IVA relative all’anno 1994, ritenendo di averle indebitamente corrisposte, poiché le prestazioni in questione erano state effettuate nei confronti di un soggetto passivo d’imposta stabilito in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana, nella fattispecie in Germania, cosicché l’IVA risultava dovuta in quest’ultimo Stato membro. 15.- Le autorità fiscali italiane hanno rifiutato tale rimborso e la Reemtsma ha contestato detto rifiuto dinanzi ai giudici italiani. Il suo ricorso è stato respinto sia in primo grado sia in appello, con la motivazione che le fatture emesse erano relative a prestazioni di promozione pubblicitaria e di marketing non soggette ad IVA per mancanza del presupposto territoriale in quanto effettuate nei confronti di soggetti passivi imponibili in altro Stato membro. 16.- La Reemtsma ha quindi adito la Corte Suprema di Cassazione che, ritenendo dipendere la soluzione della causa dall’interpretazione di norme e principi comunitari, ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli articoli 2 e 5 dell’ottava direttiva (…), nella parte in cui subordinano il rimborso a favore del cessionario o committente non residente all’utilizzazione dei beni e servizi per il compimento di operazioni soggette ad imposta, debbano essere interpretati nel senso che anche l’IVA non dovuta ed erroneamente addebitata in rivalsa e versata all’erario sia rimborsabile; in caso di risposta affermativa, se sia contraria alle citate disposizioni della [detta] direttiva una norma nazionale che escluda il rimborso del cessionario/committente non residente in considerazione della non detraibilità dell’imposta addebitata e versata benché non dovuta. 2) Se, in generale, possa ricavarsi dalla disciplina comunitaria uniforme la qualità di debitore di imposta, nei confronti dell’erario, del cessionario/committente; se sia compatibile con tale disciplina, e in particolare coi principi di neutralità dell’IVA, di effettività e di non discriminazione, la mancata attribuzione, nel diritto interno, al cessionario/committente che sia soggetto IVA, e che la legislazione nazionale considera come destinatario degli obblighi di fatturazione e di pagamento dell’imposta, di un diritto al rimborso nei confronti dell’erario nel caso di addebito e di versamento di imposta non dovuti; se sia contraria ai 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO principi di effettività e di non discriminazione, in tema di rimborso di IVA riscossa in violazione del diritto comunitario, una disciplina nazionale – ricavata dall’interpretazione datane dai giudici nazionali – che consente al cessionario/committente di agire solo nei confronti del cedente/prestatore del servizio, e non nei confronti dell’erario, pur nell’esistenza nell’ordinamento nazionale di un caso simile, costituito dalla sostituzione nel campo delle imposte dirette, nel quale entrambi i soggetti (sostituto e sostituito) sono legittimati a chiedere il rimborso all’erario». SULLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI Sulla prima questione 17.- Con la prima questione il giudice a quo chiede, in sostanza, se gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’IVAnon dovuta ed erroneamente fatturata al destinatario delle prestazioni, poi versata all’erario dello Stato membro del luogo di tali prestazioni, possa essere rimborsata. 18.- In via preliminare, occorre rilevare che il sistema comune dell’IVA non prevede espressamente il caso in cui tale imposta venga fatturata per errore. 19.- Le parti della causa principale non contestano che le prestazioni effettuate a favore della Reemtsma, consistenti in servizi di promozione pubblicitaria e di marketing, fossero esenti da IVA. Secondo l’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva, infatti, il luogo delle prestazioni di servizi pubblicitari, rese a destinatari stabiliti nella Comunità, ma fuori del paese del prestatore, è quello in cui il destinatario ha stabilito la sede della sua attività economica o ha costituito un centro di attività stabile per il quale si è avuta la prestazione di servizi. Nella causa principale, le prestazioni in questione si reputano effettuate in Germania. 20.- Quanto all’art. 2 dell’ottava direttiva, esso stabilisce che ogni soggetto passivo residente in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova il luogo delle prestazioni ha diritto al rimborso dell’IVA applicata a servizi che gli sono stati resi all’interno dello Stato membro ove detto luogo si trova ai fini delle operazioni di cui all’art. 17, n. 3, lett. a), della sesta direttiva. Ai sensi dell’art. 5, primo comma, dell’ottava direttiva, il rimborso è determinato conformemente all’art. 17 della sesta direttiva, quale si applica nello Stato membro del rimborso. 21.- La Reemtsma osserva che il fatto che il diritto al rimborso sia limitato unicamente all’IVA detraibile non significa che l’imposta indebitamente fatturata e versata all’erario non possa essere rimborsata. Infatti, l’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, come interpretato dalla Corte nella sentenza 17 settembre 1997, causa C-141/96, Langhorst (Racc. pag. I-5073), contrasterebbe con il principio secondo cui il diritto a detrazione si applica solamente alle imposte dovute. Detta società considera che il diritto di detrarre l’imposta è uno degli strumenti principali che permettono di garantire il principio della neutralità dell’IVA e, di conseguenza, non può subire limitazioni. 22.- Il governo italiano e la Commissione delle Comunità europee sostengono, invece, che non vi è ragione d’invocare gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva per chiedere il rimborso dell’IVA erroneamente fatturata, poiché manca il diritto di detrazione dell’imposta versata di cui all’art. 17, n. 2, della sesta direttiva. La sentenza 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding (Racc. pag. 4227), deporrebbe infatti in senso contrario al diritto di detrarre l’IVA indebitamente fatturata e versata all’erario. 23.- In via preliminare, occorre ricordare che, al punto 13 della citata sentenza Genius Holding, la Corte ha rilevato che l’esercizio del diritto a detrazione è limitato soltanto alle IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 249 imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’IVA o versate in quanto dovute. In tal senso, la Corte ha dichiarato che tale diritto a detrazione non si estende all’IVA dovuta, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. c), della sesta direttiva, esclusivamente per il fatto di essere indicata nella fattura (v., in particolare, sentenza Genius Holding, cit., punto 19). A tale riguardo, la Corte ha ulteriormente confermato detta giurisprudenza nelle sentenze 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmeink & Cofreth e Strobel (Racc. pag. I-6973, punto 53), e 6 novembre 2003, cause riunite da C-78/02 a C-80/02, Karageorgou e a. (Racc. pag. I-13295, punto 50). 24.- In tale contesto, occorre verificare se la giurisprudenza citata al punto precedente trovi applicazione nell’ambito dell’ottava direttiva. 25.- In proposito occorre ricordare che l’ottava direttiva non ha lo scopo di mettere in discussione il sistema attuato dalla sesta direttiva (v., in particolare, sentenza 26 settembre 1996, causa C-302/93, Debouche, Racc. pag. I-4495, punto 18). 26.- Inoltre, l’ottava direttiva è intesa a stabilire le modalità di rimborso dell’IVA versata in uno Stato membro ad opera di soggetti passivi stabiliti in un altro Stato membro. La sua finalità è quindi di armonizzare il diritto al rimborso qual è sancito dall’art. 17, n. 3, della sesta direttiva (v., in particolare, sentenza 13 luglio 2000, causa C-136/99, Monte dei Paschi di Siena, Racc. pag. I-6109, punto 20). Come risulta, infatti, dal punto 19 della presente sentenza, gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva rinviano esplicitamente all’art. 17 della sesta direttiva. 27.- Ciò posto, dal momento che il diritto a detrazione, ai sensi del citato art. 17, non può essere esteso anche all’IVA erroneamente addebitata e versata all’erario, occorre rilevare che questa stessa IVAnon può formare oggetto di rimborso in forza delle disposizioni dell’ottava direttiva. 28.- Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione dichiarando che gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva devono essere interpretati nel senso che l’IVA non dovuta ed erroneamente fatturata al destinatario delle prestazioni, poi versata all’erario dello Stato membro del luogo di tali prestazioni, non può formare oggetto di rimborso in forza delle dette disposizioni. Sulla seconda questione 29.- Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se, in una situazione quale quella della causa principale, è sufficiente che il destinatario di servizi abbia il diritto di chiedere il rimborso dell’IVA al prestatore che ha indebitamente fatturato detta imposta, il quale, a sua volta, potrebbe chiederne il rimborso all’autorità tributaria, o se tale destinatario debba poter rivolgere la sua richiesta direttamente a tale autorità. La presente questione si suddivide in tre parti. 30.- In primo luogo, il giudice a quo domanda se il destinatario di servizi possa essere considerato, in maniera generale, come il debitore dell’IVA nei confronti delle autorità tributarie dello Stato membro del luogo delle prestazioni. 31 .- In proposito occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 21, n. 1, lett. a), della sesta direttiva, «l’imposta sul valore aggiunto è dovuta (…) in regime interno (…) dai soggetti passivi che eseguono una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile, diversa dalle prestazioni di servizi di cui alla lettera b)». Detto art. 21 stabilisce, dunque, la regola di principio secondo la quale solo il prestatore è tenuto a versare l’IVA ed ha obbligazioni nei confronti delle autorità tributarie. Tuttavia, talune eccezioni a detta regola sono elencate tassativamente dalla stessa disposizione, mentre altre possono essere autorizzate dal Consiglio dell’Unione europea sulla base dell’art. 27 della sesta direttiva. In tal senso, quan- 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 251 do una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile viene effettuata da un soggetto passivo non residente all’interno del paese, gli Stati membri possono adottare disposizioni con le quali prevedono che l’imposta sia dovuta da un altro soggetto, che può essere il destinatario dei servizi imponibili. 32.- Ora, benché in una situazione come quella della causa principale, ove trova applicazione il meccanismo di trasferimento dell’obbligazione tributaria di cui all’art. 9, n. 2, lett. e), della sesta direttiva, la Reemtsma avrebbe potuto chiedere il rimborso dell’IVA in quanto debitrice dell’imposta, si ricordi che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 77 delle sue conclusioni, tale meccanismo dà luogo a un rapporto tra la Reemtsma e le autorità tributarie dello Stato membro di stabilimento, nel caso di specie la Repubblica federale di Germania, e non le autorità dello Stato membro in cui il prestatore ha indebitamente fatturato e versato l’IVA, vale a dire la Repubblica italiana. 33.- Occorre, pertanto, risolvere la prima parte della seconda questione dichiarando che, ad eccezione dei casi espressamente previsti dalle disposizioni di cui all’art. 21, punto 1, della sesta direttiva, solo il prestatore dev’essere considerato debitore dell’IVA nei confronti delle autorità tributarie dello Stato membro del luogo delle prestazioni. 34.- In secondo luogo, il giudice del rinvio chiede alla Corte se il sistema comune dell’IVA e i principi di neutralità, effettività e non discriminazione ostino a una legislazione nazionale, quale quella in esame nella causa principale, che non conferisce al destinatario di servizi un diritto al rimborso dell’IVA da parte dell’autorità tributaria nel caso in cui tale imposta, non dovuta, sia stata comunque versata dal detto destinatario all’autorità tributaria dello Stato membro del luogo delle prestazioni. 35.- La Reemtsma osserva che il principio di effettività implica che la legislazione nazionale non ostacoli l’esercizio del diritto al rimborso delle somme versate a titolo di IVA in violazione della relativa normativa vigente. Tale principio, infatti, potrebbe essere leso a causa dell’insolvenza del prestatore o di eventuali giudicati contraddittori fra giudice civile e giudice tributario. 36.- Al contrario, la Commissione ritiene accettabile un sistema fiscale quale quello realizzato in Italia, in cui, da un lato, solamente il prestatore può, in linea di principio, chiedere il rimborso dell’IVA alle autorità tributarie e, dall’altro, il destinatario dei servizi è legittimato a reclamare la somma indebitamente corrisposta al prestatore secondo le regole del diritto civile. In proposito, gli Stati membri sarebbero liberi di scegliere la procedura che ritengano idonea ad assicurare tale rimborso, purché il principio di effettività sia rispettato. L’attuazione di tale principio potrebbe, in tal senso, imporre che il destinatario della prestazione di servizi possa agire direttamente nei confronti di dette autorità qualora il rimborso dovesse rivelarsi praticamente impossibile o eccessivamente difficile. 37.- A tal proposito occorre rilevare che, in mancanza di disciplina comunitaria in materia di domande di rimborso delle imposte, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di effettività, vale a dire, non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (v., in particolare, sentenze 17 giugno 2004, causa C-30/02, Recheio – Cash & Carry, Racc. pag. I-6051, punto 17, e 6 ottobre 2005, causa C-291/03, MyTravel, Racc. pag. I-8477, punto 17). 38.- Si deve altresì ricordare che la sesta direttiva non contiene alcuna disposizione relativa alla regolarizzazione, da parte di chi emette la fattura, dell’IVA indebitamente fat252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO turata. La sesta direttiva definisce solo, all’art. 20, le condizioni che devono essere soddisfatte affinché la detrazione delle imposte a monte possa essere regolarizzata presso il destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi. Alla luce di queste considerazioni, spetta in via di principio agli Stati membri determinare le condizioni in cui l’IVA indebitamente fatturata può essere regolarizzata (v. sentenza Schmeink & Cofreth e Strobel, cit., punti 48 e 49). 39.- Alla luce della giurisprudenza citata nei due punti precedenti, si deve riconoscere che, in via di principio, un sistema come quello in discussione nella causa principale, in cui, da un lato, il prestatore che ha versato erroneamente l’IVA alle autorità tributarie è legittimato a chiederne il rimborso e, dall’altro, il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore, rispetta i principi di neutralità ed effettività. Tale sistema, infatti, consente a detto destinatario gravato dell’imposta erroneamente fatturata di ottenere il rimborso delle somme indebitamente versate. 40.- Giova inoltre ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, in forza del principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali per garantire la salvaguardia dei diritti di cui i soggetti godono ai sensi dell’ordinamento comunitario (v., in particolare, sentenze 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston e a., Racc. pag. I-3201, punto 31, nonché 19 settembre 2006, cause riunite C-392/04 e C-422/04, i-21 Germany e Arcor, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 57). 41.- In proposito, come correttamente fatto valere dalla Commissione, se il rimborso dell’IVA risulta impossibile o eccessivamente difficile, segnatamente in caso d’insolvenza del prestatore, detti principi possono imporre che il destinatario di servizi sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie. Gli Stati membri devono dunque prevedere gli strumenti e le modalità procedurali necessari per consentire a detto destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il principio di effettività. 42.- Pertanto, occorre risolvere la seconda parte della seconda questione dichiarando che i principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano ad una legislazione nazionale, quale quella in esame nella causa principale, secondo cui soltanto il prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle autorità tributarie a titolo di IVA, mentre il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore. Tuttavia, nel caso in cui il rimborso dell’IVAdivenga impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere, in ossequio al principio di effettività, gli strumenti necessari per consentire a tale destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata. 43.- In terzo luogo, il giudice remittente domanda alla Corte se i principi di equivalenza e non discriminazione ostino a una legislazione nazionale, come quella in esame nella causa principale, che consente al destinatario di servizi di agire solo nei confronti del prestatore, e non nei confronti delle autorità tributarie, pur esistendo nel sistema nazionale delle imposte dirette un caso in cui, nell’ipotesi di riscossione indebita, sia il soggetto incaricato della riscossione sia il soggetto inciso possono agire nei confronti di tali autorità. 44.- A tal proposito è sufficiente rilevare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, il divieto di discriminazione non è che un’espressione specifica del principio generale di uguaglianza nel diritto comunitario, il quale impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato (v., in particolare, sentenze 18 maggio 1994, causa C-309/89, Codorniu/Consiglio, Racc. pag. I-1853, punto 26, e 17 luglio 1997, causa C-354/95, National Farmers’ Union e a., Racc. pag. I-4559, punto 61). 45.- Nel caso di specie, il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’IVA. Di conseguenza, la soluzione relativa alla seconda parte della seconda questione non è inficiata dalla normativa nazionale in materia di imposizione diretta. SULLE SPESE 46.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: 1) Gli artt. 2 e 5 dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese, devono essere interpretati nel senso che l’imposta sul valore aggiunto non dovuta ed erroneamente fatturata al destinatario delle prestazioni, poi versata all’erario dello Stato membro del luogo di tali prestazioni, non può formare oggetto di rimborso ai sensi di tali disposizioni. 2) Ad eccezione dei casi espressamente previsti dalle disposizioni di cui all’art. 21, punto 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva del Consiglio 14 dicembre 1992, 92/111/CEE, solo il prestatore dev’essere considerato debitore dell’imposta sul valore aggiunto nei confronti delle autorità tributarie. 3) I principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano ad una legislazione nazionale, quale quella in esame nella causa principale, secondo cui soltanto il prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle autorità tributarie a titolo di imposta sul valore aggiunto, mentre il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore. Tuttavia, nel caso in cui il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto divenga impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere, in ossequio al principio di effettività, gli strumenti necessari per consentire a tale destinatario di recuperare l’imposta indebitamente fatturata. Tale soluzione non è inficiata dalla normativa nazionale in materia di imposizione diretta». IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 253 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Un significativo allargamento dell’in house providing (Corte di Giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, sentenza 19 aprile 2007) La Corte di Giustizia di Lussemburgo, con la sentenza del 19 aprile 2007, resa in causa pregiudiziale C-295/05 (Ademfo c/o Tragsa) ha stabilito che le direttive comunitarie sugli appalti pubblici “non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalla direttiva in parola, dal momento che, da un lato le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato su propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con amministrazioni di cui trattasi” La novità e l’importanza della decisione non è tanto nel fatto che la Corte abbia richiamato i noti principi degli appalti in house (a partire dalla sentenza Teckal del novembre 1999), quanto nella circostanza che li abbia applicati in relazione ad una società che opera nell’interesse di più amministrazioni pubbliche e presenta una struttura organizzativa tipica delle imprese. La Transformación Agraria SA è infatti una società statale spagnola, che presta servizi essenziali in materia di sviluppo rurale e conservazione dell’ambiente e al cui capitale partecipano enti locali. La Tragsa si occupa di realizzare ogni tipo di attività, lavori e prestazioni di servizi inerenti l’agricoltura, il settore zootecnico, lo sviluppo rurale, la conservazione dell’ambiente fisico e naturale, l’acquicoltura e la pesca nonché “le attività necessarie al miglioramento e all’utilizzo e della gestione di risorse naturali, segnatamente l’esecuzione di opere di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico spagnolo nelle campagne”. In quanto strumento esecutivo e servizio tecnico dell’amministrazione la Tragsa è tenuta ad effettuare in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle sue controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’Amministrazione generale dello Stato, nelle materie che costituiscono l’oggetto sociale della società e, segnatamente quelli che hanno carattere urgente o che sono stati ordinati in seguito alla constatazione di situazioni urgenti… Quale corrispettivo per i lavori, l’assistenza tecnica, le consulenze e le forniture e la prestazione di servizi ad essa affidati la Tragsa e le sue filiali ricevono (dalle amministrazioni che affidano i lavori) un importo corrispondente alle spese da loro sostenute, in applicazione di un sistema tariffario predeterminato. In altre parole la Corte di Giustizia ha ritenuto che non viola le direttive sugli appalti né crea distorsioni della concorrenza il fatto che le amministrazioni pubbliche si attrezzino per (auto)produrre attività e servizi che potrebbero in alternativa costituire prestazioni da richiedere al mercato degli appalti. La premessa dell’operazione è che l’amministrazione disponga di “fabbriIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 255 che,scorte, officine o servizi tecnici ed industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate”. In tale contesto l’attività di un’impresa pubblica costituisce strumento lecito di razionalizzazione degli interventi e utile paragone per la conoscenza dei costi effettivi del settore degli appalti. A questo punto vanno fatte alcune considerazioni su “casa nostra”. Sono note le difficoltà di mantenere in vita in Italia il sistema delle partecipazioni pubbliche e delle gestioni indirette, soprattutto nell’ambito delle realtà regionali e locali. Ma che cosa differenzia il sistema italiano, spesso oggetto di contestazioni in sede comunitaria, da quello francese o spagnolo? Probabilmente il fatto che spesso le imprese pubbliche italiane, nate sul modello delle partecipazioni statali, sono scatole vuote, meri momenti di intermediazione, mentre le realtà “in house” di altri Paesi sono strutture tecnicamente attrezzate di uomini e mezzi. A partire dagli anni ’80 si è assistito in Italia al progressivo svuotamento delle funzioni tecniche ed operative delle amministrazioni pubbliche, sostitute da improbabili affidamenti ad imprese esterne. Progettazioni, lavori, manutenzioni e tutto ciò che fa esperienza e capacità tecnica di gestione è stato progressivamente allocato al di fuori delle strutture amministrative, troppo ingessate nei loro regolamenti ed incapaci di operare con la duttilità e la rapidità delle imprese private. Oggi è arrivato forse il momento di invertire questa tendenza; i regolamenti sono stati aboliti, l’impiego pubblico è stato contrattualizzato e le amministrazioni potrebbero ricominciare ad assumere i tecnici e ad acquistare mezzi, per autoprodurre come “imprese pubbliche” attività e servizi concreti a vantaggio diretto delle collettività nazionali e locali. Il drenaggio di una piccola parte della spesa (quella che le amministrazioni statali e locali non riescono a spendere per i tanti appalti e lavori loro affidati) potrebbe garantire un’occupazione produttiva, oltretutto a costo zero. Avv. Giuseppe Fiengo Corte di Giustizia delle Comunità europee, seconda sezione, sentenza 19 aprile 2007(*) nel procedimento C-295/05 – Pres. di sez. C.W.A. Timmermans – Rel. G. Arestis – Avv. gen. L.A. Geelhoed – Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal Tribunal Supremo (Spagna), con ordinanza 1° aprile 2005, pervenuta in cancelleria il 21 luglio 2005, nel procedimento tra Asociación Nacional de Empresas Forestales (Asemfo) e Transformación Agraria SA (Tragsa), Administración del Estado. «1 .- La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda la questione di accertare se, alla luce dell’art. 86, n. 1, CE, uno Stato membro possa attribuire ad un’impresa pubblica uno (*) Lingua processuale: lo spagnolo. 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO status giuridico che le consenta di realizzare operazioni senza essere assoggettata alle direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (G.U. L 209, pag. 1), 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture (G.U. L 199, pag. 1) e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori (G.U. L 199, pag. 54), e se il regime in parola sia in contrasto con tali direttive. 2.- Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra l’Asociación Nacional de Empresas Forestales (in prosieguo: l’«Asemfo») e l’Administración del Estado relativamente ad una denuncia concernente il regime giuridico di cui gode la Transformación Agraria SA (in prosieguo: la «Tragsa»). CONTESTO NORMATIVO La normativa comunitaria 3.- L’art. 1 della direttiva 92/50 era così formulato: «Ai fini della presente direttiva s’intendono per: a) “appalti pubblici di servizi” i contratti a titolo oneroso stipulati in forma scritta tra un prestatore di servizi ed un’amministrazione aggiudicatrice (…) b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico. (…)». 4.- L’art. 1 della direttiva 93/36 prevedeva quanto segue: «Ai fini della presente direttiva si intendono per: a) “appalti pubblici di forniture”, i contratti a titolo oneroso, aventi per oggetto l’acquisto, il leasing, la locazione, l’acquisto a riscatto con o senza opzione per l’acquisto di prodotti, conclusi per iscritto fra un fornitore (persona fisica o giuridica) e una delle amministrazioni aggiudicatrici definite alla lettera b). La fornitura di tali prodotti può comportare, a titolo accessorio, lavori di posa e installazione; b) “amministrazioni aggiudicatrici”, lo Stato, gli enti locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti od organismi di diritto pubblico. (...)». 5.- L’art. 1 della direttiva 93/37 era così formulato: «Ai fini della presente direttiva: a) gli “appalti pubblici di lavori” sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta tra un imprenditore e un’amministrazione aggiudicatrice di cui alla lettera b), aventi per oggetto l’esecuzione o, congiuntamente, l’esecuzione e la progettazione di lavori relativi ad una delle attività di cui all’allegato II o di un’opera di cui alla lettera c) oppure l’esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle esigenze specificate dall’amministrazione aggiudicatrice; b) si considerano “amministrazioni aggiudicatrici” lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o di tali organismi di diritto pubblico. (…)». La normativa nazionale La legislazione sui pubblici appalti 6.- La legge 18 maggio 1995, n. 13, relativa ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni (BOE 19 maggio 1995, n. 119, pag. 14601), nella sua versione codificata dal IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 257 regio decreto legislativo 16 giugno 2000, n. 2 (BOE 21 giugno 2000, n. 148, pag. 21775; in prosieguo: la «legge 13/1995»), all’art. 152 recita quanto segue: «1. L’amministrazione può realizzare opere avvalendosi dei suoi servizi interni e delle sue risorse di personale o di materiali, ovvero della collaborazione con imprese private, in quest’ultimo caso purché il valore economico delle opere in questione sia inferiore a (…), ove ricorra una delle seguenti condizioni: a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve fare uso di siffatti strumenti. (…)». 7.- L’art. 194 della legge 13/1995 dispone che: «1. L’amministrazione può fabbricare beni mobili avvalendosi dei suoi servizi interni e delle sue risorse di personale e di materiali, oppure in collaborazione con imprese private, in quest’ultimo caso purché l’importo dei lavori sia inferiore agli importi massimi previsti dall’art. 177, n. 2, ove ricorra una delle seguenti condizioni: a) Quando l’amministrazione dispone di fabbriche, scorte, officine o servizi tecnici o industriali idonei alla realizzazione delle opere progettate, nel qual caso di norma si deve fare uso di siffatti strumenti. (…)». Il regime giuridico della Tragsa 8.- La costituzione della Tragsa è stata autorizzata dall’art. 1 del regio decreto 21 gennaio 1977, n. 379 (BOE 17 marzo 1977, n°65, pag. 6202). 9.- Il regime giuridico della Tragsa istituito da tale regio decreto ha subito successive modifiche, fino all’adozione della legge 30 dicembre 1997, n. 66, recante misure fiscali, amministrative e sociali (BOE 31 dicembre 1997, n. 313, pag. 38589), quale modificata dalle leggi 30 dicembre 2002, n. 53 (BOE 31 dicembre 2002, n. 313, pag. 46086), e 30 dicembre 2003, n. 62 (BOE 31 dicembre 2003, n. 313, pag. 46874 ; in prosieguo : la «legge 66/1997»). 10.- Ai sensi dell’art. 88 della legge 66/1997, intitolato «Regime giuridico»: «1. [La Tragsa] è una società statale (…) che presta servizi essenziali in materia di sviluppo rurale e conservazione dell’ambiente, conformemente alle disposizioni della presente legge. 2. Le comunità autonome possono partecipare al capitale sociale della Tragsa tramite l’acquisto di azioni, la cui vendita deve essere autorizzata dal Ministero delle Finanze, su proposta del Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione e del Ministero dell’Ambiente. 3. La Tragsa si occupa di: a) realizzazione di ogni tipo di attività, lavori e prestazioni di servizi inerenti all’agricoltura, al settore zootecnico, alle foreste, allo sviluppo rurale, alla conservazione e difesa dell’ambiente fisico e naturale, all’acquicoltura e alla pesca, nonché delle attività necessarie al miglioramento dell’utilizzo e della gestione delle risorse naturali, segnatamente l’esecuzione di opere di conservazione e di valorizzazione del patrimonio storico spagnolo nelle campagne (…); b) elaborazione di studi, piani, progetti e ogni genere di consulenza e assistenza tecnica e formazione in materia di agricoltura, foreste, sviluppo rurale, tutela e miglioramento dell’ambiente, acquicoltura e pesca, conservazione della natura, nonché in materia di utilizzo e gestione delle risorse naturali; c) attività agricola, del settore zootecnico, forestale e del settore dell’acquicoltura e commercializzazione dei prodotti derivanti da dette attività, amministrazione e gestione di 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO fattorie, montagne, centri agricoli, forestali, ambientali o di tutela della natura, nonché la gestione di spazi e risorse naturali; d) promozione, sviluppo e adattamento di nuove tecniche, nuove attrezzature e sistemi a carattere agricolo, forestale, ambientale, per l’acquicoltura o la pesca, per la tutela della natura e sistemi diretti ad un utilizzo ragionato delle risorse naturali; e) fabbricazione e commercializzazione di beni mobili che presentano tale carattere; f) prevenzione e lotta contro le calamità e le malattie vegetali e animali e contro gli incendi forestali, nonché realizzazione di lavori e compiti di sostegno tecnico a carattere urgente; g) finanziamento della costruzione o dell’uso di infrastrutture agricole, ambientali e delle attrezzature delle popolazioni rurali, nonché costituzione di società e partecipazione in società già costituite che hanno obiettivi in relazione con l’oggetto sociale dell’impresa; h) realizzazione, su richiesta di terzi, di azioni, lavori, assistenza tecnica, consulenza e prestazioni di servizi in ambito rurale, di agricoltura, foreste e ambiente, all’interno e al di fuori del territorio nazionale, direttamente o attraverso le sue controllate. 4. In quanto strumento esecutivo e servizio tecnico dell’amministrazione, la Tragsa è tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle sue controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’Amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti, nelle materie che costituiscono l’oggetto sociale della società e, segnatamente, quelli che hanno carattere urgente o che sono stati ordinati in seguito alla constatazione di situazioni urgenti. (…). 5. Né la Tragsa né le sue controllate possono partecipare alle procedure di aggiudicazione di appalti disposte dalle amministrazioni pubbliche di cui sono strumenti. Tuttavia, in mancanza di offerenti, alla Tragsa può essere affidata l’esecuzione dell’attività oggetto della gara di pubblico appalto. 6. L’importo delle opere di ampia portata, dei lavori, dei progetti, degli studi e delle forniture realizzati per mezzo della Tragsa è stabilito applicando alle parti eseguite le tariffe corrispondenti, le quali devono essere fissate dall’amministrazione competente. Le tariffe in parola sono calcolate in modo da riflettere i costi di realizzazione effettivi e la loro applicazione alle parti eseguite ha la funzione di giustificativo dell’investimento o dei servizi realizzati. 7. I contratti per lavori, forniture, consulenza e assistenza e servizi che la Tragsa e le sue controllate stipulano con terzi sono assoggettati alle disposizioni della [legge 13/1995], per quanto riguarda la pubblicità, le procedure di aggiudicazione e le relative modalità, a condizione che l’importo degli appalti sia uguale o superiore a quelli fissati agli artt. 135, n. 1, 177, n. 2, e 203, n. 2 della [detta legge]». 11.- Il regio decreto 5 marzo 1999, n. 371, che stabilisce il regime della Tragsa (BOE 16 marzo 1999, n. 64, pag. 10605), precisa il regime giuridico, economico e amministrativo di tale società e delle sue controllate nei rapporti con le amministrazioni pubbliche in materia di azione amministrativa sul territorio nazionale o al di fuori di esso, nella loro qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di tali amministrazioni. 12.- Secondo l’art. 2 del regio decreto 371/1999, il capitale sociale della Tragsa è detenuto totalmente da soggetti di diritto pubblico. 13.- L’art. 3 del detto regio decreto, intitolato «Regime giuridico», dispone quanto segue: «1. La Tragsa e le sue controllate rappresentano uno strumento esecutivo interno e un servizio tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna delle comunità autonome interessate. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 259 I vari dipartimenti o ministeri delle comunità autonome delle amministrazioni pubbliche in questione, così come gli organismi pubblici da esse dipendenti e gli enti di qualsiasi natura ad esse connessi ai fini della realizzazione dei loro piani d’intervento, possono incaricare la Tragsa o le sue controllate dei lavori e delle attività necessarie per l’esercizio delle loro competenze e missioni, nonché dei lavori e delle attività complementari o accessorie conformemente al regime stabilito dal presente regio decreto. 2. La Tragsa e le sue controllate devono realizzare i lavori e le attività loro affidati dall’amministrazione. Tale obbligo concerne, esclusivamente, gli incarichi loro affidati in quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico nelle materie rientranti nel suo oggetto sociale. 3. Gli interventi urgenti decisi nell’ambito di catastrofi o calamità di qualsiasi genere ad esse affidati dall’amministrazione competente hanno per la Tragsa e le sue controllate carattere, oltre che obbligatorio, prioritario. Nelle situazioni di urgenza, in cui le autorità pubbliche debbano agire immediatamente, queste ultime potranno disporre direttamente della Tragsa e delle sue controllate e ordinare gli interventi necessari ad assicurare la tutela più efficace possibile delle persone e dei beni, nonché il mantenimento dei servizi. A tal fine, la Tragsa e le sue controllate saranno integrate ai dispositivi esistenti di prevenzione dei rischi ed ai piani di intervento, e dovranno attenersi ai protocolli d’applicazione. In situazioni di tal genere, se richieste, dovranno mobilitare tutti i mezzi di cui dispongono. 4. Nell’ambito dei loro rapporti di collaborazione o cooperazione con altre amministrazioni o enti di diritto pubblico, le amministrazioni pubbliche possono proporre i servizi della Tragsa e delle sue controllate, considerate come loro strumento esecutivo interno, affinché le dette altre amministrazioni o enti di diritto pubblico le utilizzino quale loro strumento esecutivo interno (…). 5. (…) Le funzioni di organizzazione, sorveglianza e controllo della Tragsa e delle sue controllate sono esercitate dal Ministero dell’Agricoltura, della Pesca e dell’Alimentazione e dal Ministero dell’Ambiente. 6. I rapporti della Tragsa e delle sue filiali con le amministrazioni pubbliche, nella loro qualità di strumento interno e servizio tecnico, hanno natura strumentale e non contrattuale. Pertanto, a tutti gli effetti, essi hanno carattere interno, dipendente e subordinato». 14.- L’art. 4 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime economico», è formulato nel modo seguente: «1. Conformemente all’art. 3 del presente regio decreto, quale corrispettivo per i lavori, l’assistenza tecnica, le consulenze, le forniture e la prestazione di servizi ad essa affidati, la Tragsa e le sue filiali ricevono un importo corrispondente alle spese da loro sostenute, in applicazione del sistema tariffario stabilito nel presente articolo (…). 2. Le tariffe sono calcolate e applicate sulla base di parti di esecuzione ed in modo da riflettere i costi effettivi e complessivi di realizzazione di queste ultime, sia diretti, sia indiretti. (…). 7. Le nuove tariffe, la modificazione di quelle esistenti, così come le procedure, i meccanismi e le formule di revisione sono adottati da ogni amministrazione pubblica di cui la Tragsa e le sue controllate costituiscono strumento interno e servizio tecnico. (…)». 15.- Infine, l’art. 5 del regio decreto 371/1999, intitolato «Regime amministrativo d’intervento », prevede quanto segue: «1. Gli interventi obbligatori affidati alla Tragsa o alle sue controllate sono oggetto, a seconda dei casi, di progetti, relazioni o altri documenti tecnici (…) 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 2. Prima di definire l’incarico, gli organi competenti approvano tali documenti e seguono le procedure obbligatorie, gli adempimenti formali tecnici, giuridici, di bilancio e di controllo e approvazione della spesa. 3. L’incarico relativo ad ogni intervento obbligatorio è comunicato formalmente alla Tragsa o alle sue controllate dall’amministrazione, per mezzo di una richiesta contenente, oltre alle informazioni utili, la denominazione dell’amministrazione, il termine per la realizzazione, il suo importo, la voce di bilancio corrispondente e, se del caso, le annualità sulle quali il finanziamento è ripartito e il rispettivo importo afferente, nonché il direttore designato per l’intervento da realizzare. (…)». CAUSA PRINCIPALE E QUESTIONI PREGIUDIZIALI 16.- I fatti, come risultano dalla decisione di rinvio, possono essere riassunti nella maniera seguente. 17.- Il 23 febbraio 1996 la Asemfo ha presentato una denuncia nei confronti della Tragsa, diretta a far constatare l’abuso di quest’ultima della propria posizione dominante sul mercato spagnolo dei lavori, dei servizi e progetti forestali, a causa del mancato rispetto delle procedure di aggiudicazione previste dalla legge 13/1995. Secondo detta associazione, lo speciale regime della Tragsa le consentirebbe di effettuare un grande numero di operazioni su incarico diretto dell’amministrazione, in violazione dei principi relativi all’aggiudicazione degli appalti pubblici ed alla libera concorrenza, con la conseguenza di eliminare qualsiasi concorrenza sul mercato spagnolo. In quanto impresa pubblica ai sensi del diritto comunitario, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato relativamente alle disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il pretesto che si tratterebbe di un servizio tecnico dell’amministrazione. 18.- Con decisione dell’autorità competente del 16 ottobre 1997, la denuncia in questione è stata respinta, con la motivazione che la Tragsa sarebbe un servizio interno dell’amministrazione, privo di autonomia decisionale e obbligato a realizzare i lavori commissionati. Operando detta società fuori dal mercato, la sua attività non sarebbe soggetta al diritto della concorrenza. 19.- Tale decisione è stata oggetto di ricorso da parte dell’Asemfo dinanzi al Tribunal de Defensa de la Competencia (Tribunale spagnolo competente per le questioni di concorrenza). Con sentenza 30 marzo 1998 detto giudice ha respinto il ricorso in parola, considerando che le opere realizzate dalla Tragsa sono eseguite dall’amministrazione stessa e che, pertanto, si potrebbe configurare una violazione del diritto della concorrenza solo in caso di un operato autonomo di tale società. 20.- L’Asemfo ha proposto un ricorso avverso tale sentenza dinanzi all’Audiencia Nacional (Tribunale spagnolo competente per l’intero territorio in determinati ambiti penali amministrativi e della legislazione sociale), che, a sua volta, ha confermato la decisione di primo grado con sentenza 26 settembre 2001. 21.- L’Asemfo ha proposto ricorso per cassazione avverso detta decisione dinanzi al Tribunal Supremo (Corte di cassazione spagnola), sostenendo che la Tragsa, in qualità di impresa pubblica, non potrebbe essere qualificata come servizio interno dell’amministrazione, posizione che le consentirebbe di derogare alle disposizioni relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, e che il regime giuridico della società di cui trattasi, quale definito all’art. 88 della legge 66/1997, sarebbe incompatibile con la normativa comunitaria. 22.- Dopo aver constatato che la Tragsa costituisce un ente di cui dispone l’amministrazione e che detta società si limita ad eseguire gli ordini delle amministrazioni pubbliche, IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 261 senza poterli rifiutare né stabilire i prezzi e i costi dei suoi interventi, il Tribunal Supremo ha espresso dei dubbi sulla compatibilità del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario alla luce della giurisprudenza della Corte sull’applicabilità alle imprese pubbliche delle disposizioni di quest’ultimo in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici e libera concorrenza. 23.- Inoltre, ricordando che, nella sentenza 8 maggio 2003, causa C-349/97, Spagna/Commissione (Racc. pag. I-3851), la Corte, relativamente alla Tragsa, ha dichiarato che detta società va considerata come un modo diretto di agire da parte dell’amministrazione, il giudice del rinvio precisa che, nella controversia ad esso sottoposta, vi sono circostanze di fatto di cui la decisione in parola non ha tenuto conto, quali la considerevole partecipazione dell’impresa pubblica al mercato delle opere di natura agricola, che causa una distorsione rilevante dello stesso, per quanto l’operato di tale impresa sia de iure estraneo al mercato, poiché, dal punto di vista giuridico, sarebbe l’amministrazione medesima ad esercitare l’attività. 24.- In tale contesto, il Tribunal Supremo ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, ai sensi dell’art. 86, n. 1, del Trattato CE, sia ammissibile che uno Stato membro [dell’Unione europea] attribuisca con legge ad un’impresa pubblica uno status giuridico che le consenta di realizzare opere pubbliche senza essere assoggettata alla disciplina generale sugli appalti della pubblica amministrazione aggiudicati mediante gara quando non sussistano circostanze speciali di urgenza o interesse generale, indipendentemente se superino o meno la soglia economica prevista dalle direttive comunitarie a tal proposito. 2) Se un tale regime giuridico sia compatibile con quanto stabilito nelle direttive 93/36 (…) e 93/37(…), nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 1997, 97/52/CE [G.U. L 328, pag. 1] e nella direttiva della Commissione [13 settembre 2001,] 2001/78/CE, che modifica le direttive precedenti – normativa recentemente coordinata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/18/CE [relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (G.U. L 134, pag. 114)]. 3) Se le affermazioni della sentenza (…) Spagna/Commissione siano applicabili in ogni caso alla Tragsa e alle sue filiali, anche qualora si tenga in considerazione la restante giurisprudenza della Corte in materia di appalti pubblici, e si consideri che l’amministrazione affida alla Tragsa un elevato numero di opere, le quali sono sottratte al regime della libera concorrenza e che tale circostanza potrebbe comportare una distorsione significativa del mercato rilevante». SULLE QUESTIONI PREGIUDIZIALI Sulla ricevibilità 25.- La Tragsa, il governo spagnolo e la Commissione delle Comunità europee contestano la competenza della Corte a statuire sulla domanda di pronuncia pregiudiziale e avanzano dubbi sulla ricevibilità delle questioni sottoposte dal giudice del rinvio facendo appello a diversi argomenti. 26.- Innanzitutto, tali questioni verterebbero unicamente sulla valutazione di provvedimenti nazionali e, pertanto, non rientrerebbero nella sfera di competenza della Corte. 27.- In secondo luogo, dette questioni sarebbero ipotetiche in quanto dirette a dirimere problemi non pertinenti ed estranei alla soluzione della causa principale. Se il solo motivo 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO richiamato dall’Asemfo consiste nella violazione delle norme relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, tale violazione non consentirebbe di per sé di affermare che Tragsa abusi di una posizione dominante sul mercato. Inoltre, non parrebbe che la Corte possa essere indotta ad interpretare le direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici nell’ambito di un procedimento nazionale diretto ad accertare se la società in parola abbia abusato di un’asserita posizione dominante. 28.- Infine, l’ordinanza di rinvio non conterrebbe alcuna informazione relativa al mercato rilevante né alla pretesa posizione dominante della Trasga rispetto ad esso. La decisione in parola non riporterebbe neanche un’analisi dettagliata sulla questione dell’applicabilità dell’art. 86 CE e non menzionerebbe nulla circa l’applicazione combinata di quest’ultimo con l’art. 82 CE. 29.- Occorre in primo luogo ricordare che, secondo costante giurisprudenza, benché, nell’ambito di un procedimento ex art. 234 CE, non spetti alla Corte pronunciarsi sulla compatibilità di norme del diritto interno con disposizioni del diritto comunitario, posto che l’interpretazione delle norme nazionali incombe ai giudici nazionali, la Corte è comunque competente a fornire a questi ultimi tutti gli elementi d’interpretazione propri del diritto comunitario che consentano loro di valutare la compatibilità di norme di diritto interno con la normativa comunitaria (sentenza 19 settembre 2006, causa C-506/04, Wilson, Racc. pag. I- 0000, punti 34-35 e giurisprudenza ivi citata). 30.- In secondo luogo, secondo giurisprudenza altrettanto costante, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali stabilita dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Pertanto, dal momento che le questioni poste dei giudici nazionali riguardano l’interpretazione di una norma del diritto comunitario, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire (v., in particolare, sentenze 1º aprile, causa C-286/02, Bellio F.lli, Racc. pag. I-3465, punto 27, e 14 dicembre 2006, causa C-217/05, Confederación Española de Empresarios de Estaciones de Servicio, Racc. pag. I-0000, punti 16-17 e giurisprudenza ivi citata). 31.- In terzo luogo, secondo una giurisprudenza consolidata, il rigetto di una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario chiesta da tale giudice non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica o la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza 23 novembre 2006, causa C-238/05, Asnef-Equifax e Administración del Estado, Racc. pag. I-0000, punto 17 e giurisprudenza ivi citata). 32.- Inoltre, la Corte ha altresì dichiarato che l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno l’ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate (sentenze 9 novembre 2006, causa C-205/05, Nemec, Racc. pag. I-0000, punto 25, e Confederación Española de Empresarios de Estaciones de Servicio, cit., punto 26 e giurisprudenza ivi citata). 33.- A tal proposito, secondo la giurisprudenza della Corte, è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 263 ni e il diritto nazionale applicabile alla controversia (sentenze Nemec, cit., punto 26, e 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-0000, punto 38). 34.- Nella causa principale, se è pur vero che la Corte non può pronunciarsi sulla compatibilità, in quanto tale, del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario, nulla le impedisce di fornire gli elementi interpretativi tratti dal diritto comunitario che consentiranno al giudice a quo di decidere esso stesso sulla compatibilità del regime giuridico della Tragsa con il diritto comunitario. 35.- In tale contesto, occorre verificare se, alla luce della giurisprudenza citata ai precedenti punti 31-33 della presente sentenza, la Corte dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per di rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte. 36.- Riguardo alla seconda e terza questione, va osservato che la decisione di rinvio espone, sinteticamente ma con precisione, gli antefatti della causa principale e le disposizioni rilevanti del diritto nazionale applicabile. 37.- Da detta decisione, infatti, risulta chiaramente che la controversia di cui trattasi è sorta in seguito ad una denuncia dell’Asemfo relativa al regime giuridico della Tragsa, dal momento che quest’ultima, a giudizio della ricorrente nella causa principale, poteva eseguire un gran numero di lavori per diretto incarico da parte dell’amministrazione, e senza il rispetto delle previsioni in materia di pubblicità stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici. Nell’ambito di tale procedimento, l’Asemfo sostiene altresì che, in quanto impresa pubblica, la Tragsa non potrebbe godere di un trattamento privilegiato relativamente alle disposizioni sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, adducendo il pretesto che si tratterebbe di un servizio tecnico dell’amministrazione. 38.- Inoltre, nell’ambito della seconda e terza questione, la decisione di rinvio, con riferimento alla giurisprudenza della Corte, espone, da un lato, i motivi per cui il giudice a quo chiede l’interpretazione delle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, nonché, dall’altro, il nesso fra la normativa comunitaria pertinente e la legislazione nazionale applicabile in materia. 39.- Quanto alla prima questione, relativa alla circostanza di accertare se il regime della Tragsa sia in contrasto con l’art. 86, n. 1, CE, occorre ricordare che, secondo tale articolo, gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del trattato CE, specialmente a quelle contemplate dagli artt. 12 CE e da 81 CE a 89 CE incluso. 40.- Dalla chiara formulazione dell’art. 86, n. 1, CE risulta che detta disposizione non ha portata autonoma, nel senso che essa va letta in combinato con le previsioni rilevanti nel caso di specie del Trattato. 41.- Dalla decisione di rinvio discende che la disposizione pertinente considerata dal giudice del rinvio è l’art. 86, n. 1, CE, in combinato con l’art. 82 CE. 42.- A tale proposito va constatato che nella decisione di rinvio non vi sono indicazioni precise riguardo all’esistenza di una posizione dominante, al relativo sfruttamento abusivo di quest’ultima da parte della Tragsa e all’impatto di detta posizione sul commercio fra Stati membri. 43.- Inoltre, pare che, con la prima questione, il giudice del rinvio consideri, in sostanza, le operazioni idonee ad essere qualificate come appalti pubblici, presupposto sul quale, in ogni caso, la Corte è invitata a pronunciarsi nell’ambito della seconda questione. 44.- Da quanto precede risulta, quindi, che, contrariamente al caso della seconda e terza questione, la Corte non dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per di rispondere utilmente alla prima questione. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 45.- Ne consegue che, se la prima questione va dichiarata irricevibile, la domanda di pronuncia pregiudiziale è ricevibile per quanto riguarda le due altre questioni. Nel merito Sulla seconda questione 46.- Con la seconda questione, il giudice a quo chiede alla Corte se le direttive 93/36 e 93/37, come modificate dalle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, ostino ad un regime giuridico come quello di cui gode la Tragsa, che le consente di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola. 47.- In via preliminare, va constatato che, nonostante i richiami operati dal giudice del rinvio alle direttive 97/52, 2001/78 e 2004/18, tenuto conto sia del contesto e della data dei fatti della causa principale, sia della natura delle attività della Tragsa quale precisata all’art. 88, n. 3, della legge 66/1997, occorre esaminare detta seconda questione alla luce delle previsioni stabilite nelle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, vale dire, le direttive 92/50, 93/36 e 93/37, pertinenti nel caso di specie. 48.- A tale riguardo, giova ricordare che, secondo le definizioni di cui all’art. 1, lett. a), delle direttive citate al punto precedente, un appalto pubblico di servizi, di forniture o di lavori presuppone l’esistenza di un contratto a titolo oneroso, stipulato in forma scritta tra, da un lato, un prestatore di servizi, un fornitore o un imprenditore e, dall’altro, un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi dello stesso art. 1, lett. b), delle dette direttive. 49.- Nel caso di specie va constatato innanzitutto che, ai sensi dell’art. 88, nn. 1 e 2, della legge 66/1997, la Tragsa è una società statale al cui capitale sociale possono partecipare anche le comunità autonome. Il medesimo art. 88, n. 4, e l’art. 3, n. 1, primo comma, del regio decreto 371/1999 precisano che la Tragsa è strumento esecutivo interno e servizio tecnico dell’amministrazione generale dello Stato e delle amministrazioni di ognuna delle comunità autonome interessate. 50.- Inoltre, come risulta dagli artt. 3, nn. 2-5, e 4, nn. 1, 2 e 7, del regio decreto 371/1999, la Tragsa deve realizzare gli incarichi ad essa affidati dall’amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli enti pubblici da queste ultime dipendenti, nelle materie rientranti nel suo oggetto sociale, senza aver la possibilità di fissare liberamente il costo dei suoi interventi. 51.- Infine, secondo l’art. 3, n. 6, del detto regio decreto, i rapporti della Tragsa con gli enti pubblici in questione, rappresentando tale società uno strumento esecutivo interno e un servizio tecnico di queste ultime, non hanno natura contrattuale, bensì, sotto tutti gli aspetti, carattere interno, dipendente e subordinato. 52.- L’Asemfo sostiene che il rapporto giuridico che discende dagli ordini ricevuti dalla Tragsa, nonostante esso abbia formalmente carattere unilaterale, sarebbe nella realtà dei fatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, un legame contrattuale incontestabile con l’accomandatario. A tale proposito, l’Asemfo fa riferimento alla sentenza 12 luglio 2001, causa C-399/98, Ordine degli Architetti e a. (Racc. pag. I-5409). In siffatto contesto, benché la Tragsa sembri agire su ordine delle amministrazioni pubbliche, essa sarebbe in effetti contraente dell’amministrazione, così che dovrebbero essere applicate le norme relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici. 53.- A tale riguardo occorre ricordare che, al punto 205 della sentenza Spagna/ Commissione, cit., la Corte, in un contesto diverso da quello della causa principale, ha dichiarato che la Tragsa, nella sua veste di ente strumentale e di servizio tecnico dell’amministrazione spagnola, è tenuta ad effettuare, in via esclusiva, direttamente o per il tramite delle proprie controllate, i lavori ad essa attribuiti dall’amministrazione generale dello Stato, dalle comunità autonome e dagli organismi pubblici da esse dipendenti. 54.- Giova osservare che, se la Tragsa non dispone di alcun margine di libertà, né in merito al seguito da dare ad un incarico da parte delle amministrazioni competenti in parola, né quanto alle tariffe applicabili alle sue prestazioni, il che spetta al giudice del rinvio accertare, la condizione per applicare le direttive di cui trattasi relativa all’esistenza di un contratto non è soddisfatta. 55.- In ogni caso, va ricordato che, secondo costante giurisprudenza della Corte, il ricorso alla gara d’appalto, conformemente alle direttive relative all’aggiudicazione degli appalti pubblici, non è obbligatorio, anche quando il contraente è un ente giuridicamente distinto dall’amministrazione aggiudicatrice, qualora due condizioni siano soddisfatte. Da un lato, l’amministrazione pubblica, che è un’amministrazione aggiudicatrice, deve esercitare sull’ente distinto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e, dall’altro, l’ente di cui trattasi deve svolgere la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti pubblici che lo detengono (v. sentenze 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal, Racc. pag. I-8121, punto 50; 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, Racc. pag. I-1, punto 49; 13 gennaio 2005, causa C-84/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-139, punto 38; 10 novembre 2005, causa C-29/04, Commissione/Austria, Racc. pag. I-9705, punto 34, e 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo e Consorzio Alisei, Racc. pag. I-4137, punto 33). 56.- Di conseguenza, occorre verificare se le due condizioni richieste dalla giurisprudenza citata al punto precedente siano soddisfatte relativamente alla Tragsa. 57.- Per quanto riguarda la prima condizione, attinente al controllo dell’amministrazione pubblica, dalla giurisprudenza della Corte risulta che il fatto che l’amministrazione aggiudicatrice detenga, da sola o insieme ad altri enti pubblici, l’intero capitale di una società aggiudicataria potrebbe indicare, pur non essendo decisivo, che l’amministrazione aggiudicatrice in questione esercita su detta società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi (sentenza Carbotermo e Consorzio Alisei, cit., punto 37). 58.- Nella causa principale, dagli atti risulta, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che il 99% del capitale sociale della Tragsa è detenuto dallo Stato spagnolo stesso, per mezzo di un’impresa di partecipazione e di un fondo di garanzia, e che quattro comunità autonome, ognuna delle quali in possesso di un’azione, detengono l’1% di detto capitale. 59.- Atale riguardo, non può essere accolta la tesi secondo la quale la condizione di cui trattasi sarebbe soddisfatta solamente rispetto agli appalti effettuati su incarico dello Stato spagnolo, con esclusione di quelli oggetto di incarichi delle comunità autonome, rispetto alle quali la Tragsa dovrebbe essere considerata come un terzo. 60.- Pare, infatti, discendere dagli artt. 88, n. 4, della legge 66/1997 e 3, nn. 2-6, e 4, nn. 1 e 7, del regio decreto 371/1999 che la Tragsa è tenuta ad eseguire gli incarichi ad essa affidati dalle amministrazioni pubbliche, comunità autonome incluse. Sembra altresì evincersi da tale normativa nazionale che, come per ciò che concerne lo Stato spagnolo, nell’ambito delle sue attività con queste ultime in quanto strumento esecutivo interno e servizio tecnico, la Tragsa non ha la possibilità di stabilire liberamente il costo dei suoi interventi e che i suoi rapporti con le dette comunità non sono di natura contrattuale. 61.- Sembra quindi che la Tragsa non possa essere considerata come un terzo rispetto alla comunità autonome che detengono una parte del suo capitale sociale. 62.- Per quanto riguarda la seconda condizione, relativa alla circostanza che la parte essenziale dell’attività della Tragsa dev’essere realizzata con l’ente o gli enti pubblici che IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 265 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO controllano detta società, dalla giurisprudenza risulta che, nel caso in cui diversi enti locali detengano un’impresa, la condizione in parola può essere soddisfatta qualora l’impresa in questione svolga la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo o quell’ente locale ma con tali enti complessivamente considerati (sentenza Carbotermo e Consorzio Alisei, cit., punto 70). 63.- Come risulta dal fascicolo, nella causa principale la Tragsa realizza mediamente più del 55% della sua attività con le comunità autonome e circa il 35% con lo Stato. Appare dunque che la parte più importante dell’attività della società di cui trattasi è realizzato con gli enti e gli organismi pubblici che la controllano. 64.- Alla luce di quanto precede, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, va rilevato che le due condizioni richieste dalla giurisprudenza citata al punto 55 della presente sentenza ricorrono nel caso di specie. 65.- Dalle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la seconda questione dichiarando che le direttive 92/50, 93/36 e 93/37 non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Tragsa, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi. Sulla terza questione 66.- Alla luce della soluzione data alla seconda questione sottoposta dal giudice del rinvio, non occorre risolvere la terza questione. SULLE SPESE 67.- Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: Le direttive del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture, e 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode la Transformación Agraria SA, che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, dal momento che, da un lato, le amministrazioni pubbliche interessate esercitano su tale impresa un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi e che, dall’altro, la detta impresa realizza la parte più importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi». L’Italia e le sue seimila discariche abusive (Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, sentenza 26 aprile 2007, nella causa C-135/05) Una nuova condanna per inadempimento alla normativa comunitaria, inflitta all’Italia il 26 aprile 2007 dalla Corte di Giustizia europea, conferma l’attualità del “problema discariche” nel nostro Paese. La condanna dell’Unione europea interviene, infatti, in un momento in cui la cronaca ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica la condizione di emergenza, ormai “assunta a sistema”, della Regione Campania: i quasi venti anni di commissariamento governativo inducono ad escludere che si possa continuare a parlare di situazione emergenziale, trattandosi, al contrario, di una situazione permanente e patologica, causata da interventi compromissori e non effettivamente risolutivi. È chiaro, quindi, come la pronuncia della Corte di Giustizia di Lussemburgo si innesti in contesto nazionale dove la questione dei rifiuti è particolarmente sentita ed è vivo il dibattito sull’argomento, contribuendo a renderne rilevante l’analisi; del resto i diversi profili di interesse che si evincono dalla lettura della decisione si uniscono agli effetti pratici che nella realtà interna la sua attuazione è destinata a produrre. Con riferimento ai primi profili, di natura prevalentemente giuridico-istituzionale, la pronuncia della Corte di Giustizia si caratterizza per aver confermato la legittimità, nelle procedure di inadempimento, dell’approccio cosiddetto orizzontale, che permette alla Commissione di effettuare una contestazione generica, non circoscritta ad ipotesi specifiche, ma di procedere alla contestazione di un sistema di diritto interno nel suo complesso, così come elaborato ed attuato dallo Stato membro per il perseguimento degli obiettivi di una direttiva comunitaria. In tale contesto la Corte di Giustizia è stata conseguentemente indotta a ridefinire il concetto di onere della prova gravante sulla Commissione. Principi importarti del diritto comunitario, anche se le soluzioni non sempre appaiono condivisibili. Per quanto riguarda gli effetti è inevitabile, a fonte di una declaratoria di inadempimento che riguarda, nel suo complesso, l’esistenza (vera o presunta) nel nostro Paese di quasi seimila discariche abusive, fare riferimento a quegli interventi urgenti che nel periodo di due mesi, concesso dalla Commissione in una lettera inviata al Ministero degli Affari Esteri l’8 maggio 2007, dovranno essere attuati per scongiurare l’attivazione della procedura ex art. 228 Trattato (CE), che provocherebbe l’irrogazione di pesanti sanzioni a carico dello Stato membro reiteratamente inadempiente (1). IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 267 (1) Anche se va ricordato come recentemente la Corte di Giustizia nella sentenza del 18 luglio 2006, causa 119/04 (Commissione c/ Repubblica Italiana) abbia concluso, nonostante si trattasse di un procedimento avviato dalla Commissione ex art. 228 CE e sia stato Tuttavia prima di affrontare questi aspetti particolari è utile illustrare, attraverso un breve resoconto delle fasi precontenziosa e contenziosa, le diverse problematiche poste all’attenzione del giudice comunitario, per poi scendere nel merito delle soluzioni giuridiche ed amministrative dallo stesso adottate e/o proposte. La fase precontenziosa La vicenda giudiziaria scaturisce da una serie di articoli di stampa, reclami, interrogazioni parlamentari e soprattutto da un rapporto del Corpo Forestale dello Stato (di seguito indicato come CFS), in conseguenza del quale la Commissione dell’Unione Europea, nel 2003, decide di verificare l’effettivo rispetto da parte dello Stato italiano della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, della direttiva 91/689/CEE e della direttiva 1999/31/CE. Il coacervo dei dati, sia pure non sempre univoci, offre infatti alla Commissione un’immagine non confortante del sistema presente in Italia e ritiene pertanto, in data 11 luglio 2003, di dover inviare direttamente al Governo italiano una lettera di costituzione in mora. La fonte principale della Commissione nelle sue contestazioni risulta essere proprio il rapporto del CFS (2). Tale rapporto arriva a conclusione di un lavoro che ha visto lo svolgimento di tre censimenti effettuati a partire dal 1986 e che mostrano una situazione generale allarmante. Infatti il primo censimento evidenzia l’esistenza di 5.978 discariche abusive. Nel secondo, eseguito nel 1996, si scende a 5.422, ma a fronte di un numero inferiore di Comuni monitorati (6.802 contro i 6.890 del primo censimento). Infine il terzo censimento rileva la presenza di 4.866 (3) discariche abusive di cui 1.765 totalmente nuove, in quanto non risultanti dai precedenti rilievi. Più dettagliatamente dal rapporto (4) emerge che la situazione italiana è riassumibile così come è raffigurato a lato. Senza sminuire la gravità di tali dati, si possono fare alcune osservazioni. In primis, come si evince dai grafici riportati, l’indagine riguarda le sole Regioni a statuto ordinario a causa dell’assenza del CFS in quelle a statuto speciale; in secondo luogo, il censimento si riferisce quasi esclusivamente ad aree extraurbane e montane, con evidente carenza di completezza derivante dall’esclusione delle aree urbane; infine nel rapporto il concetto di abbandono di rifiuti viene spesso assimilato a quello di discarica abusiva. L’aspetto più particolare della vicenda riguarda, tuttavia, la posizione istituzionale della “Guardia Forestale”, intesa come corpo amministrativo 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO riconosciuto l’inadempimento dello Stato membro, per la non applicazione di sanzioni. Per alcune considerazioni al riguardo M. BORRACCETTI, La sentenza ex art. 228CE: il persistente inadempimento di uno Stato membro può non essere sanzionato, in Dir. comunitario, 2006, 3, 513 ss. (2) Pubblicato il 22 ottobre 2002. (3) Di cui 705 contenenti rifiuti pericolosi. (4) Il rapporto è reperibile al sito www.corpoforestale.it IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 269 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO incaricato a svolgere storicamente particolari compiti sul territorio, tra i quali anche quelli afferenti alla tutela dell’ambiente e alla polizia giudiziaria per i connessi reati. Venuta meno l’originaria allocazione del Corpo presso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, proprio nel periodo in cui viene redatto il rapporto amministrativo del quale si discute, la vocazione istituzionale del Corpo Forestale pende tra la tradizionale fedeltà all’istituzione statale e le vocazioni regionalistiche che derivano dal nuovo titolo V della Costituzione. Sta di fatto che il rapporto non riceve alcuna asseverazione né dalle Regioni (competenti nella gestione amministrativa in tema di rifiuti) né dal Ministero dell’Ambiente, individuato dalle direttive comunitarie e dai relativi atti di recepimento nel diritto interno come “autorità nazionale” in materia di disciplina dei rifiuti. Viene inviato per conoscenza alla commissione parlamentare sui rifiuti che in quel periodo operava in sede bicamerale e semplicemente “pubblicato su internet”. Relativamente alla portata limitata del rapporto del CFS alle sole Regioni a statuto ordinario, va ad ogni modo sottolineato come la Commissione dell’Unione Europea precisi di essere in possesso di informazioni altrettanto allarmanti riguardo alle Regioni a statuto speciale. In particolare per la Regione Sicilia si constata, sulla base del “Piano delle bonifiche delle aree inquinate” (5) presentato dalla stessa Regione, la presenza di 159 discariche abusive, di cui almeno 17 contenenti rifiuti pericolosi, 164 siti con rifiuti abbandonati, di cui 14 contenenti rifiuti pericolosi, e 24 depositi di rifiuti non autorizzati. Nella provincia di Bolzano preoccupa la presenza di tre discariche. Analoghe apprensioni emergono per la Sardegna dove si ricorda la discarica abusiva di Mores (SS), utilizzata illegalmente dal Comune, di decine di discariche nel Comune di Olbia, e infine di due siti nell’area di Portoscuso (CA) contenenti scorie di batterie esauste e un bacino di fanghi rossi derivanti dalla produzione di alluminio. Sulla base di questi dati la Commissione UE contesta, quindi, all’Italia una serie di violazioni delle norme comunitarie: gli artt. 4, 8, 9 della direttiva 75/442/CEE; l’art. 2, paragrafo 1 della direttiva 91/689/CEE; l’art. 14, lettere a), b), c) della direttiva 1999/31/CE. Il primo gruppo di disposizioni si riferisce all’adozione, da una parte, di misure adeguate per assicurare il corretto recupero e smaltimento dei rifiuti senza pericolo per la salute dell’uomo e per l’ambiente, e di misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti; e dall’altra di disposizioni che consentano la consegna dei rifiuti ad un raccoglitore pubblico o privato, munito all’uopo di idonea autorizzazione. La seconda violazione riguarda la necessità della predisposizione di misure per consentire l’esatta identificazione e catalogazione dei rifiuti pericolosi nei luoghi dove sono messi in discarica. (5) Reperibile al sito www. regione. sicilia. it/presidenza/ucomrifiuti/Piano/piano_index.htm IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 271 L’ultima disposizione citata dalla Commissione riguarda il funzionamento delle discariche già operative sul territorio nazionale al momento dell’entrata in vigore della direttiva comunitaria, con particolare riferimento alla presentazione di piani di riassetto per garantire la loro conformazione al sopravvenuto diritto comunitario. Il Ministero dell’Ambiente, nel rispondere alla lettera di messa in mora della Commissione, rileva che, tra le discariche identificate dal Corpo Forestale dello Stato, 3.212 non erano più attive e che nella maggior parte dei casi si trattava di mero abbandono di rifiuti e non discariche vere e proprie ed informa altresì la Commissione che avrebbe iniziato presso le Regioni e le Province un’attività di sensibilizzazione diretta a reperire i dati necessari (6). Non ritenendo sufficienti queste argomentazioni viene inviato dagli uffici comunitari, il 19 dicembre 2003, un parere motivato in cui vengono riproposti gli stessi addebiti della messa in mora. A tale parere non segue alcuna osservazione delle autorità italiane (Ministero dell’Ambiente) nel termine perentorio di due mesi indicato dalla Commissione, che decide quindi la proposizione del ricorso giurisdizionale. Fase contenziosa Nel ricorso giurisdizionale la Commissione argomenta in maniera puntuale le proprie contestazioni, per evidenziare l’intervenuta violazione del diritto comunitario da parte dello Stato italiano. In particolare per l’art. 4 direttiva 75/442/CEE si sottolinea come lo Stato italiano sia andato oltre il potere discrezionale riconosciuto agli Stati membri per la realizzazione degli obiettivi della direttiva. La presenza di innumerevoli discariche abusive (la Commissione non ritiene che sia un problema solo di numeri, di quantificazione, ma contesta l’esistenza stessa di discariche abusive) denota una persistente situazione di irregolarità che le Autorità italiane non provvedono a correggere. Nello specifico, alla Commissione appare insufficiente il fatto che ci si limiti ad un’attività di “sensibilizzazione” delle collettività regionali e locali per l’individuazione delle aree da bonificare, senza operare un’attività concreta e risolutiva della violazione. Inoltre viene ribadita la rilevanza del mero abbandono di rifiuti, perché in palese contrasto con il comma 2 dell’art. 4 che vieta l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti. A conferma della violazione dell’art. 8 si considerano insufficienti lo strumento del sequestro e l’avvio di un procedimento penale a carico del (6) In verità si faceva riferimento anche a specifiche realtà territoriali come il Piemonte che non aveva tra i siti da bonificare quelli identificati dal Corpo forestale dello Stato e all’impegno di questa Regione, della Puglia e dell’Umbria ad intraprendere iniziative di bonifica. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO gestore della discarica abusiva, poiché quest’ultimo non sarebbe costretto con tali misure all’immediato smaltimento nei modi conformi alla direttiva. La violazione dell’art. 9 è considerata in re ipsa, nella presenza, cioè, di discariche “abusive” che in quanto tali non sono munite della dovuta autorizzazione. Altresì per la violazione dell’art. 2, paragrafo 1, della direttiva sui rifiuti pericolosi rileva il carattere “abusivo” delle discariche, che, sottratte al controllo delle autorità per quanto concerne il flusso di rifiuti pericolosi in esse presenti, presuntivamente non assolverebbero agli specifici obblighi di catalogazione e identificazione previsti dalla normativa comunitaria. Infine relativamente all’art. 14, lettere a), b) e c), della direttiva sulle discariche, la Commissione UE deduce dall’assenza di informazioni, richieste con la messa in mora e il parere motivato, la mancanza dei piani di riassetto che i gestori delle discariche, già autorizzate alla data di entrata in vigore della direttiva (16 luglio 2001), avrebbero dovuto presentare entro il 16 luglio 2002 e dai quali sarebbe conseguita una decisione delle autorità sul proseguimento o meno della loro attività. La novità dell’approccio al tema delle discariche, effettuato dalla Commissione, sembra smuovere il Ministero dell’Ambiente, che sia pure inutilmente – essendo oramai scaduto il termine fissato nel parere motivato – attiva una serie di tavoli con le regioni e alcune ispezioni del Nucleo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri per accertare lo stato effettivo della situazione ambientale messa in luce dal rapporto del CFS. Questa massa di dati, sia pure incompleti, introdotti nel giudizio solo in sede di controreplica, non viene presa in esame dalla Corte di Giustizia, anche se è destinata a ridurre notevolmente l’impatto del fenomeno nel suo complesso. Diviene comunque rilevante nella fase di esecuzione della sentenza (vedi oltre). Sul piano strettamente giuridico, in risposta alle tesi svolte dalla Commissione il Governo italiano propone una serie di obiezioni, i cui cardini sono rappresentati dalla richiesta di inammissibilità del ricorso e dalla dimostrazione del mancato assolvimento dell’onere probandi in relazione a specifiche discariche gravante sulla Commissione. Nel fondare le proprie accuse principalmente sul rapporto del CFS, la Commissione avrebbe finito per formulare delle contestazioni generiche e indeterminate. L’assenza di puntuali contestazioni e il riferimento esclusivo a dati riassuntivi della situazione di ciascuna Regione, senza indicazione dei soggetti detentori, dei gestori delle discariche e dei proprietari dei siti d’abbandono, rendono concretamente arduo fornire una valida e soddisfacente risposta alle accuse mosse. Tra l’altro la presenza di cospicui errori, quali l’inclusione di situazioni di abbandono di rifiuti, in verità già rimossi o di aree per le quali erano stati disposti gli interventi necessari (sequestro, emissione delle ordinanze sindacali e avviamento di procedimenti di bonifica), palesano una sostanziale inattendibilità di questa fonte di prova, con la conseguenza di considerare non solo dubbia la legittimità, per impedimento al corretto esercizio del diritto di difesa, dell’approccio cosiddetto orizzontale prescelto nel caso di specie, ma del tutto infondato, perché non provato nel IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 273 suo insieme, il ricorso presentato avverso l’Italia. In via subordinata vengono espressamente messi in risalto i risultati soddisfacenti che l’attività di “sensibilizzazione” delle collettività locali ha prodotto, affinché se ne riconosca la giusta utilità; si ritorna ad insistere sulla distinzione tra “abbandono di rifiuti” e “discarica abusiva” per evidenziare come l’abbandono, sebbene rappresenti una violazione del diritto comunitario, non richieda necessariamente un’attività di bonifica, indispensabile, invece, in presenza di vere e proprie discariche. Infine si precisa che le discariche sottoposte a sequestro penale sarebbero state soggette a interventi di bonifica e messa in sicurezza solo al termine del processo penale. La decisione della Corte Le argomentazioni esposte dallo Stato italiano non sono sembrate sufficienti ad evitare la condanna. La Corte di Giustizia, soffermandosi sull’inammissibilità del ricorso e confermando un orientamento già espresso in passato (7), ritiene innanzi tutto legittima la tecnica impiegata dalla Commissione nella contestazione degli addebiti e consistente nell’approccio cosiddetto orizzontale. È possibile, a giudizio della Corte, contestare la violazione del diritto comunitario anche senza la necessità di riferirsi a situazioni puntuali e circoscritte, ma avendo di mira una “prassi amministrativa” generalizzata e consolidata che porti ad una persistente condizione di inadempimento. L’approvazione mostrata nei riguardi dell’approccio orizzontale viene giustificata ribadendo che nel Trattato (CE) non si rileverebbero ostacoli “ad un esame complessivo di un numero rilevante di situazioni in base alle quali la Commissione ritenga che uno Stato membro sia stato inadempiente, in modo ripetuto e prolungato, agli obblighi ad esso incombenti ai sensi del diritto comunitario” (8). In sostanza tale presa di posizione finisce per tradursi nell’idea che oggetto del giudizio sia una valutazione complessiva del sistema italiano di gestione e controllo dei rifiuti (9), per saggiarne l’adeguatezza e l’efficacia in termini di tutela della salute umana e dell’ambiente. Un’ulteriore argomentazione presentata, poi, per rafforzare la convinzione della validità di tale metodo è rappresentata dall’evidenziare i vantaggi che se ne possono trarre e consistenti in un controllo più efficace, perché volto all’individuazione e alla correzione di inefficienze strutturali presenti negli Stati membri, e meno gravoso… (7) Sentenza 6 ottobre 2005, causa C-502/03, Commissione c/ Grecia; Sentenza 29 marzo 2007, causa C-423/05, Commissione c/ Francia. (8) Punto 20 della sentenza. (9) M. ONIDA, Procedure d’infrazione concernenti il diritto comunitario ambientale: recenti sviluppi e considerazioni sulla situazione italiana, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2006, 6, 1137 ss., parla a questo proposito di violazione “strutturale” della disciplina comunitaria sui rifiuti. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La constatazione della ricevibilità del ricorso consente al giudice comunitario di affrontare il secondo problema sottoposto alla sua attenzione: l’assolvimento dell’onere della prova da parte della Commissione. La questione si pone poiché secondo un principio generale spetta a quest’ultima, che agisce per inadempimento contro uno Stato membro, provare l’esistenza di detto inadempimento. Nel caso di specie vengono considerati sufficienti a dimostrare il rispetto di tale principio i rapporti del CFS, i documenti provenienti dalle autorità regionali e le inchieste delle commissioni parlamentari, nonostante ne sia stata messa in dubbio più volte nell’iter procedurale l’attendibilità, spettando a quel punto allo Stato l’onere di confutare “in modo sostanziale e dettagliato” i dati forniti dalla Commissione. A giustificazione di questa conclusione si richiama altro principio, quello della leale cooperazione previsto dall’art. 10 del Trattato (CE), che dovrebbe indurre gli Stati membri ad effettuare i controlli in concreto necessari così da facilitare i compiti istituzionalmente spettanti alla Comunità. In verità il giudizio della Corte su questo punto non convince. Benché la scelta di condividere il modus operandi della Commissione risulti discutibile per la necessità di trasformare prima o poi l’approccio orizzontale in un approccio verticale, rimane, al contrario, indiscutibile che la Commissione non può essere dispensata dal provare la fondatezza degli addebiti formulati. Dalle motivazioni espresse in sentenza sembra emergere, invece, un’inversione dell’onere della prova a carico dello Stato membro, perché spetta a quest’ultimo confutare accuse che presentano un certo grado di incertezza. L’incertezza è la conseguenza dei dubbi sollevati sin dall’inizio della fase precontenziosa dal Ministero dell’Ambiente circa l’affidabilità delle fonti di prova impiegate. I diversi errori di censimento che hanno portato a conteggiare più volte lo stesso sito, la menzione di una serie di siti già bonificati, la ricomprensione di luoghi in cui non è presente alcuna discarica, risultano sufficienti a far dubitare della inequivocabile esistenza di un “numero rilevante di situazioni” di inadempimento, presupposto, tra l’altro, dello stesso approccio orizzontale. In realtà, quindi, la Corte considera provata un’accusa che muove da dati inesatti, finendo per riconoscere una posizione di privilegio alla Commissione nella dialettica processuale. Così decidendo, infatti, si convalida l’idea che sia sufficiente sollevare una contestazione generica e fondata su elementi imprecisi, per pretendere dalla controparte una accurata replica volta a mostrarne l’insussistenza. A suffragio di queste osservazioni vale rilevare ulteriormente che la Corte di Giustizia omette di affrontare il problema delle discariche abusive sottoposte a sequestro penale, inserite anch’esse nell’elenco fornito dal CFS. Poiché la funzionalizzazione di questa misura alle esigenze di accertamento dei reati impedisce l’adozione di qualunque intervento, di bonifica o di messa in sicurezza, fino al completamento del procedimento, non si ritiene esauriente una semplice constatazione della violazione degli obblighi comunitari a causa dell’immutabilità dei luoghi, necessaria nelle more del procedimento penale, ma sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione del giudice comunitario al problema, vista la necessità di contemperare esigenIL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 275 ze di accertamento penale con esigenze di tutela ambientale e di rispetto della disciplina comunitaria. Al contrario l’autorità giudicante preferisce bypassare il problema, evitando di addentrarsi in una questione che, forse, avrebbe richiesto una trattazione e una soluzione più flessibile. Nell’esaminare il merito della controversia, dopo aver escluso l’inammissibilità del ricorso e valutato positivamente l’assolvimento dell’onere della prova della Commissione con conseguente necessità per lo Stato italiano di confutare gli elementi probatori presentati a suo carico, la Corte di Giustizia giunge inevitabilmente ad affermare la fondatezza delle accuse mosse. In dettaglio viene sottolineato come la persistente situazione di degrado dell’ambiente, comprovata dalle stesse affermazioni dell’Italia sull’esistenza di siti di abbandono di rifiuti e di discariche non conformi alle direttive comunitarie, palesa un abuso di quel potere discrezionale conferito agli Stati membri nel recepimento delle direttive comunitarie, per cui non è apparso sufficiente evocare la libertà degli Stati membri nell’attuazione degli obiettivi previsti dall’art. 4 della direttiva rifiuti per escludere la non conformità alla stessa. La violazione delle altre disposizioni è l’espressione concreta della convinzione che la Commissione abbia assolto anche su tali punti il proprio onere probandi. Verso una nuova condanna in tema di “discariche esistenti” Per quanto concerne la direttiva rifiuti e la direttiva sui rifiuti pericolosi la condanna della Corte viene motivata sulla base della mancata confutazione, in primo luogo, dell’esistenza di alcune discariche abusive, prive della dovuta autorizzazione e incapaci di fornire le necessarie garanzie circa il corretto smaltimento e recupero dei rifiuti; in secondo luogo, sull’assenza di argomentazioni volte a contestare le affermazioni e i numeri forniti (700 discariche abusive contenenti rifiuti pericolosi) dalla Commissione per dimostrare che le autorità italiane conoscono il flusso dei rifiuti pericolosi in esse depositate. Tale censura serve anche per affermare l’avvenuta violazione dell’art. 14 direttiva 1999/31/CE. In merito a questa violazione, tuttavia, si può constatare un aspetto ulteriore. La Corte, dopo aver rilevato che i piani di riassetto per le discariche già attive all’epoca dell’entrata in vigore della direttiva non sono stati in tutti i casi necessari presentati, precisa come tra i piani presentati solo alcuni sono stati oggetto di approvazione. In proposito risulta interessante richiamare quanto statuisce la normativa nazionale. L’art. 17 D.Lgs. 36/2003 (10) prevede, conformemente all’art. 14 della direttiva 1999/31/CE, la presentazione di un piano di adeguamento entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto (27 marzo 2003) da parte degli operatori già attivi. Una lettura attenta di questa disposizione consente, però, (10) Si tratta del decreto che ha recepito la direttiva 1999/31/CE sulle discariche. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di rilevare l’assenza di un termine entro il quale il procedimento amministrativo, attivato con la presentazione del piano, debba concludersi. Ciò ha indotto le autorità regionali, competenti in materia, a sentirsi legittimate a rinviare le decisioni sull’approvazione o sul rigetto dei piani e, in tale caso, anche sull’immediata chiusura dei siti relativi, trascurando che la data del 16 luglio 2009, ai sensi dell’art. 17, 4° comma, rappresenta solo il termine entro il quale dovranno essere ultimati i lavori di adeguamento già autorizzati. Quindi, come rilevato dal giudice europeo ad un’inerzia degli operatori, che non hanno presentato nel termine dovuto i piani di adeguamento, si è sommata un’inerzia delle autorità competenti ad approvare i relativi piani. Tale inerzia è palesemente colpevole perché crea un immediato danno all’ambiente: discariche che si sarebbero dovute chiudere “subito” (per inadeguatezza e/o impossibilità del piano di risanamento) continuano a depositare rifiuti fino all’epoca in cui sarebbero dovuti finire lavori mai autorizzati e/o autorizzabili. Il richiamo all’art. 17 D.Lgs. 36/2003 tuttavia consente anche di ricordare l’esistenza di una ulteriore procedura d’infrazione ormai giunta alla fase contenziosa (11), volta a far dichiarare un nuovo inadempimento dell’Italia alla direttiva 1999/31/CE. La Commissione in questo caso rimprovera, da una parte, il tardivo recepimento della direttiva, recepimento intervenuto dopo due anni dalla scadenza prevista, e dall’altra la discordanza dell’art. 17 all’art. 14, lett. d, direttiva 1999/31/CE relativo alle discariche di rifiuti pericolosi. In merito alla prima accusa è inevitabile rilevare che la tardività sia un dato di fatto, inconfutabile, al quale non può porsi rimedio, genera, quindi, perplessità la scelta della Commissione di agire in un momento nel quale l’inadempimento è stato sanato e per il quale non sarebbe possibile andare oltre la mera dichiarazione. Ben diverso sarebbe il caso di contestazioni puntuali, legate al tenore letterale e contenutistico delle diverse disposizioni. Atal proposito non sembra, tuttavia, che la contestata violazione dell’art. 14, lett. d si possa vedere in questa ottica. La mancata applicazione di alcune disposizioni della direttiva sulle discariche, prevista per il 2002, ai titolari delle discariche di rifiuti pericolosi già operativi alla data di entrata in vigore della medesima direttiva, risulta essere una conseguenza del tardivo recepimento. Non solo questo ha impedito il rispetto di quella data, ma ha reso necessario prevedere all’interno del decreto una serie di disposizioni transitorie che consentissero agli interessati un adattamento graduale alla nuova normativa. Ciò nonostante a giudizio della Commissione il fatto che l’art. 17 del D.Lgs. 36/2003 preveda che entro il 27 settembre 2003 siano presentati piani di adeguamento, non garantisce l’applicazione delle disposizioni della direttiva comunitaria che, in verità, dovevano già risultare rispettate. Nell’ottica della Commissione, infatti, la presentazione di un piano manifesta semplice- (11) Causa C-442/06. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 277 mente l’intento futuro di conformarsi alla direttiva, ma non assicura che a partire da quel momento vengano di fatto adottate le misure necessarie per adattarsi ad essa. A prescindere dalle argomentazioni di parte e dall’esito di questa vicenda, rimane difficile pensare che essa non sia la diretta conseguenza del procedimento che ha portato alla sentenza in commento, seguendo la logica degli inadempimenti “a catena”. Da qui il riconoscimento di un ruolo non secondario rivestito dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia, che, tra l’altro, per gli aspetti trattati e le soluzioni proposte potrà influire considerevolmente sul futuro contenzioso comunitario. Gli sviluppi successivi alla decisione della Corte Nel tentativo di dare una panoramica completa è sembrato doveroso anche dar conto della fase successiva alla sentenza, quella della sua attuazione. Nei mesi immediatamente successivi alla condanna si sono susseguite una serie di riunioni tra i Ministeri competenti e le Regioni volte a definire le modalità di attuazione della stessa. Gli sforzi sono stati diretti a raccogliere dati da presentare a Bruxelles l’11 giugno 2007, dai quali emergesse la risoluzione, o la risoluzione in un futuro prossimo, di tutte quelle situazioni alle quali fa riferimento il rapporto del CFS e sul quale si basa fondamentalmente il giudizio della Corte di Giustizia. È importante sottolineare come la raccolta di semplici dati ha rappresentato un problema. La difficoltà principale è consistita nel reperire dati certi che mostrassero quante discariche risultavano bonificate, quante erano da bonificare, ma soprattutto i tempi per le bonifiche in itinere o per le rimozione di rifiuti in itinere. Le Regioni hanno precisato che gli ostacoli nello svolgimento dell’attività di monitoraggio derivavano dall’imprecisione caratterizzante il rapporto del CFS (12) e dal fatto che si trattava di un rapporto non recente. La difficoltà in questione è stata anche motivata da un’evidente differenza di problematiche, riscontrate nell’esecuzione delle attività di bonifica e dipendenti dalle diverse realtà regionali. Ogni Regione, non si tratta della semplicistica differenziazione tra Nord e Sud, ha mostrato la necessità di confrontarsi con problemi legati alla conformazione geografica del proprio territorio (la presenza di ghiacciai, di dirupi montani etc.), alla realtà economica (alcune Regioni hanno lamentato problemi di budget) e sociale (la gestione di alcune discariche da parte della malavita) interna. Inoltre le autorità regionali hanno mostrato l’adozione di diverse prassi interne, finalizzate all’individuazione di siti da bonificare. In alcuni casi si è pensato di procedere, contrariamente all’urgenza del momento, a ispezioni (12) Alcune Regioni hanno dichiarato di non aver trovato alcuna discarica nei luoghi indicati nel rapporto. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO per verificare lo stato di discariche chiuse da oltre vent’anni secondo la normativa vigente all’epoca. Le argomentazioni fornite al riguardo hanno fatto leva sulla necessità di eseguire accertamenti per verificare se si trattasse di siti inquinati, con la conseguente necessità, in caso positivo, di procedere alla relativa bonifica. In merito a quest’aspetto l’Amministrazione centrale ha fatto notare che l’avvenuta chiusura in conformità alla normativa allora vigente, tale da poter far parlare di una chiusura “a norma”, consente di escludere tali siti dal novero delle discariche attive, aventi bisogno di immediata bonifica. In senso contrario si rischierebbe di procedere ad accertamenti inutili e dispendiosi, in un momento in cui bisogna fornire rapidamente una risposta alla Comunità, eliminando tutte le situazioni che rappresentano, attualmente, una violazione del diritto comunitario. Proprio in considerazione della difformità delle misure adottate da ciascuna Regione è stata prospettata una soluzione: la convocazione della Conferenza Stato-Regioni. È , infatti, nella sede istituzionale opportuna che si potrà studiare e definire una procedura uniforme applicabile a tutti in futuro che sappia conciliare esigenze di uniformità con le esigenze autonomistiche delle Regioni. Durante la riunione svoltasi a Bruxelles l’11 giugno 2007 (13), diversi sono stati gli argomenti di discussione. La Commissione ha esordito ricordando il carattere orizzontale della procedura, caratterizzata dal fatto che, sebbene il punto di partenza sia stato rappresentato da una serie di casi specifici, il risultato al quale si arriva è consistito in una dichiarazione generale di mancato rispetto del diritto comunitario da parte dello Stato italiano, puntualizzando la necessità di predisporre un sistema generale di controllo del territorio e prospettando l’eventualità di un nuovo censimento. Dal canto suo il Governo italiano ha precisato che nell’attività di adempimento alla sentenza del giudice comunitario risulta necessario trasformare l’approccio orizzontale in un approccio verticale, procedendo alla risoluzione di tutti quei casi che erano stati inseriti nel rapporto del CFS. Le argomentazioni proposte a suffragio di questa tesi sono consistite nell’esigenza di garantire la certezza del diritto, ed evitare sia un’attività di monitoraggio sull’intero territorio nazionale impossibile, illimitata nel tempo e inutile, a fronte del monitoraggio già eseguito costantemente dalle autorità regionali. Dopo lunga discussione la Commissione è sembrata d’accordo nel procedere preliminarmente ad una ricognizione dei casi evidenziati nel rapporto e di quelli indicati nel corso della procedura, approvando lo schema di raccolta ed analisi predisposti dal Ministero dell’Ambiente. Quest’ultimo è stato designato per inviare formalmente alla Commissione alla fine di giugno lo schema esaminato, illustrando congiuntamente l’apparato normativo (13) Vedi verbale sommario della riunione redatto dal MAE – Direzione Generale per l’Integrazione Europea in data 14 giugno 2007. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 279 e organizzativo predisposto per reprimere e prevenire le violazioni accertate. Mentre per la trasmissione dei dati relativi alla condizione delle singole realtà regionali è stato dato tempo fino ad ottobre. A partire da quel momento saranno note le situazioni problematiche per le quali è stato proposto dalla Commissione un monitoraggio trimestrale che consenta un controllo costante sulle discariche ed i siti ancora da bonificare. In ultimo si è presentato un ulteriore schema di raccolta dati, concernente le discariche già autorizzate il 16 luglio 2001 o autorizzate tra il 16 luglio 2001 e il 27 marzo 2003, per mostrare quanti piani di adeguamento siano stati presentati, quanti approvati e quanti discariche siano state chiuse (per mancato rispetto del termine o per la non approvazione del piano). A tal proposito la Commissione ha manifestato l’opportunità di un intervento normativo che acceleri l’esecuzione dei piani di adeguamento, così da influire anche sulla procedura attualmente in corso per violazione della direttiva 1999/31/CE. Come si vede la sentenza della Corte di Giustizia emessa sui dati del Corpo Forestale dello Stato (un minino di prudenza sarebbe stato d’obbligo) ha posto l’Italia in una situazione di difficoltà e debolezza di fronte alle pretese (non tutte convincenti quanto a pertinenza e fondatezza) della Commissione UE. “Riusciranno i nostri eroi”– a ribaltare questa situazione? La questione è nelle mani del Ministero dell’Ambiente ma soprattutto nel coordinamento delle Regioni, vere autorità di gestione del settore. Dott. Valeria Santocchi (*) Corte di Giustizia delle Comunità europee, terza sezione, sentenza 26 aprile 2007, nella causa C-135/05 – Ricorso per inadempimento proposto il 22 marzo 2005 – Pres. A. Rosas – Rel. J. Klucka – Avv. gen. M. Poiares Maduro – Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana (Avv. dello Stato G. Fiengo), “1.- Con il suo ricorso la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di constatare che, non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari: – per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti; – affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti (G.U. L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (G.U. L 78, pag. 32; in prosieguo: la «direttiva 75/442»); (*) Università di Roma – Tor Vergata; ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – affinché tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano operazioni di smaltimento siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente; – affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati; e – affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano già in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per l’approvazione dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi (G.U. L 377, pag. 20), e dell’art. 14, lett. a),c), della direttiva del Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti (G.U. L 182, pag. 1). Contesto normativo – La direttiva 75/442 2.- L’art. 4 della direttiva 75/442 prevede quanto segue: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano ricuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente (…). Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti». 3.- L’art. 8 della direttiva 75/442 impone agli Stati membri di adottare le disposizioni necessarie affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni previste nell’allegato II A o II B di tale direttiva, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento, conformandosi alle disposizioni di detta direttiva. 4.- L’art. 9, n. 1, della direttiva 75/442 dispone che, ai fini dell’applicazione, in particolare, dell’art. 4 della stessa direttiva, tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano le operazioni di smaltimento di rifiuti debbono ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente incaricata di attuare le disposizioni di tale direttiva. L’art. 9, n. 2, precisa che dette autorizzazioni possono essere concesse per un periodo determinato, essere rinnovate, essere accompagnate da condizioni e obblighi, o essere rifiutate segnatamente quando il metodo di smaltimento previsto non è accettabile dal punto di vista della protezione dell’ambiente. – La direttiva 91/689 - L’art. 2 della direttiva 91/689 così dispone: «1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per esigere che in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati. (…)». – La direttiva 1999/31 6.- Ai sensi dell’art. 14, lett. a), c), della direttiva 1999/31: «Gli Stati membri adottano misure affinché le discariche che abbiano ottenuto un’autorizzazione o siano già in funzione al momento del recepimento della presente direttiva possano rimanere in funzione soltanto se (. . . ) a) entro un anno dalla data prevista nell’articolo 18, paragrafo 1 [vale a dire entro il 16 luglio 2002], il gestore della discarica elabora e presenta all’approvazione dell’autorità competente un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni menzionate nell’articolo 8 e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie al fine di soddisfare i requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti di cui all’allegato I, punto 1; b) in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottano una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni in base a detto piano e alla presente direttiva. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per far chiudere al più presto, a norma dell’articolo 7, lettera g), e dell’articolo 13, le discariche che, in forza dell’articolo 8, non ottengono l’autorizzazione a continuare a funzionare; c) sulla base del piano approvato, le autorità competenti autorizzano i necessari lavori e stabiliscono un periodo di transizione per l’attuazione del piano. Tutte le discariche preesistenti devono conformarsi ai requisiti previsti dalla presente direttiva, fatti salvi i requisiti di cui all’allegato I, punto 1, entro otto anni dalla data prevista nell’articolo 18, paragrafo 1 [ossia entro il 16 luglio 2009]». 7.- Ai sensi dell’art. 18, n. 1, della detta direttiva, gli Stati membri adottano le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla stessa entro due anni a decorrere dalla sua entrata in vigore [vale a dire, entro il 16 luglio 2001] e ne informano immediatamente la Commissione. Procedimento precontenzioso 8.- A seguito di varie denunce, di interrogazioni parlamentari, di articoli di stampa, nonché della pubblicazione, avvenuta il 22 ottobre 2002, di un rapporto del Corpo forestale dello Stato (in prosieguo: il «CFS»), che evidenziava l’esistenza di un gran numero di discariche illegali e non controllate in Italia, la Commissione ha deciso di controllare l’osservanza da parte di detto Stato membro degli obblighi ad esso incombenti ai sensi delle direttive 75/442, 91/689 e 1999/31. 9.- Tale rapporto completava la terza fase di un procedimento avviato nel 1986 dal CFS al fine di contabilizzare le discariche illegali nei territori boschivi e montagnosi delle Regioni a statuto ordinario in Italia (vale a dire la totalità delle regioni italiane, eccetto il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta). Un primo censimento, avvenuto nel 1986, aveva riguardato 6890 degli 8104 comuni italiani e aveva consentito al CFS di accertare l’esistenza di 5978 discariche illegali. Un secondo censimento, effettuato nel 1996, aveva riguardato 6802 comuni e aveva rivelato al CFS l’esistenza di 5422 discariche illegali. Dopo il censimento del 2002, il CFS ha ancora catalogato 4866 discariche illegali, 1765 delle quali non figuravano nei precedenti studi. Secondo il CFS, 705 tra le dette discariche abusive contenevano rifiuti pericolosi. Per contro, il numero delle discariche autorizzate era soltanto di 1 420. 10.- I risultati di quest’ultimo censimento sono riassunti dalla Commissione come segue: Regione - Numero di discariche abusive - Superficie delle discariche abusive (m²) - Discariche attive/non attive Discariche bonificate/non bonificate – Abruzzo 3611 016 139111 / 25070 / 291 – Basilicata 152222 83040 / 11243 / 109 – Calabria 4471 655 47981 / 36619 / 428 IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 281 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO – Campania 225445 22240 / 18537 / 188 – Emilia Romagna 380254 398189 / 19159 / 321 – Lazio 426663 535120 / 306110 / 316 – Liguria 305329 507145 / 16058 / 247 – Lombardia 5411 132 233124 / 417159 / 382 – Marche 244364 78170 / 17441 / 203 – Molise 84199 36014 / 7013 / 71 – Piemonte 335270 776114 / 221119 / 216 – Puglia 5993 861 622440 / 15937 / 562 – Toscana436545 005107 / 329154 / 282 – Umbria 15771 51033 / 12461 / 96 – Veneto 1745 482 52726 / 14850 / 124 – Totale 486616 519 7901 654 / 3 2121 030 / 3836 11.- Benché i dati forniti dal CFS riguardino soltanto le quindici regioni italiane a statuto ordinario, la Commissione dichiara di voler perseguire, nel procedimento in esame, la Repubblica italiana per la totalità delle discariche abusive esistenti sul suo territorio. Infatti, la Commissione disporrebbe di informazioni da cui risulterebbe che la situazione è analoga nelle regioni a statuto speciale. 12.- Detta istituzione rinvia, al riguardo, al piano di gestione dei rifiuti della Regione Siciliana, notificato alla Commissione il 4 marzo 2003 e al quale è allegato il piano di bonifica delle zone inquinate della regione in questione. Tale piano evidenzierebbe l’esistenza di numerose discariche abusive, di siti di rifiuti abbandonati, di depositi di rifiuti non autorizzati e di siti non specificati, di cui alcuni conterrebbero rifiuti pericolosi. 13.- Lo stesso varrebbe per le Regioni Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Sardegna, in relazione alle quali la Commissione completa la descrizione della situazione complessiva in Italia mediante documenti ufficiali provenienti dalle autorità di dette regioni e mediante rapporti delle commissioni parlamentari di inchiesta, nonché attraverso articoli di stampa. 14.- A titolo di esempio, la Commissione menziona una discarica situata nella località «Cascina Corradina» nel comune di San Fiorano, che inizialmente ha costituito oggetto di un procedimento distinto, successivamente riunito al procedimento in esame ai fini del ricorso dinanzi alla Corte. 15.- In base a tutte queste informazioni la Commissione, conformemente all’art. 226 CE, con lettera dell’11 luglio 2003, ha invitato il governo italiano a presentare le sue osservazioni a tale riguardo. 16.- Non avendo ottenuto dalle autorità italiane alcuna informazione che consentisse di concludere che era stato posto fine agli inadempimenti addebitati, la Commissione, con lettera del 19 dicembre 2003, ha emanato un parere motivato, invitando la Repubblica italiana ad adottare i provvedimenti necessari per conformarsi ad esso entro due mesi dalla sua notifica. 17.- La Commissione non ha ricevuto alcuna risposta al detto parere motivato. Di conseguenza, essa ha proposto il ricorso in esame. Sul ricorso Sulla ricevibilità 18.- Il governo italiano sostiene che il ricorso della Commissione dovrebbe essere dichiarato irricevibile a causa della genericità e dell’indeterminatezza dell’inadempimento IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 283 addebitato, che impedirebbe a detto governo di presentare una difesa precisa tanto in fatto quanto in diritto. In particolare, la Commissione non avrebbe individuato i detentori o i gestori delle discariche né i proprietari dei siti sui quali i rifiuti sono stati abbandonati. 19.- La Commissione ritiene, per contro, di poter esaminare, in un unico procedimento, la questione dello smaltimento dei rifiuti sulla totalità del territorio italiano. Siffatto approccio, da essa qualificato «orizzontale», consentirebbe, da un lato, di individuare e di correggere più efficacemente i problemi strutturali sottesi all’asserito inadempimento della Repubblica italiana e, dall’altro, di alleggerire i sistemi di controllo del rispetto del diritto comunitario in materia ambientale. A questo proposito, la Commissione rinvia alle conclusioni dell’avvocato generale Geelhoed, relative alla causa C-494/01, Commissione/Irlanda (sentenza 26 aprile 2005, Racc. pag. I-3331). 20.- Anzitutto, occorre evidenziare che, fatto salvo l’obbligo della Commissione di soddisfare l’onere della prova gravante su di essa nell’ambito della procedura prevista dall’art. 226 CE, il Trattato CE non contiene alcuna norma che si opponga all’esame complessivo di un numero rilevante di situazioni, in base alle quali la Commissione ritenga che uno Stato membro sia stato inadempiente, in modo ripetuto e prolungato, agli obblighi ad esso incombenti ai sensi del diritto comunitario. 21.- Si desume poi da costante giurisprudenza che una prassi amministrativa può costituire oggetto di un ricorso per inadempimento, qualora risulti in una certa misura costante e generale (v., specificamente, sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto 28 e giurisprudenza ivi citata). 22.- Infine, occorre ricordare che la Corte ha già dichiarato ricevibili ricorsi della Commissione proposti in contesti analoghi, in cui quest’ultima deduceva precisamente una violazione strutturale e generalizzata degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442 da parte di uno Stato membro (sentenza 6 ottobre 2005, causa C-502/03, Commissione/Grecia, non pubblicata nella Raccolta) e una violazione di tali medesimi articoli, nonché dell’art. 14 della direttiva 1999/31 (sentenza 29 marzo 2007, causa C-423/05, Commissione/Francia, non pubblicata nella Raccolta). 23.- Di conseguenza, il ricorso della Commissione è ricevibile. Nel merito Sull’onere della prova 24.- Il governo italiano sostiene che le fonti di informazione sulle quali la ricorrente fonda il suo ricorso sarebbero prive di credibilità in quanto, da un lato, i rapporti del CFS non sono stati elaborati in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio, che sarebbe l’unica autorità nazionale competente rispetto all’ordinamento giuridico comunitario, e, dall’altro, gli atti delle commissioni parlamentari di inchiesta o gli articoli di stampa costituirebbero non confessioni, ma soltanto fonti generiche di prova, la cui fondatezza dev’essere dimostrata da chi le invoca. 25.- La Commissione, al contrario, considera che i rapporti elaborati dal CFS costituiscono una fonte di informazioni affidabili e privilegiate in materia ambientale. Infatti, il CFS costituirebbe una forza di polizia dello Stato ad ordinamento civile che ha il compito, in particolare, di difendere il patrimonio forestale italiano, di tutelare l’ambiente, il paesaggio e l’ecosistema, nonché di esercitare attività di polizia giudiziaria al fine di vigilare sul rispetto delle normative nazionali e internazionali in materia. 26.- A tale riguardo si deve ricordare che, nell’ambito di un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, spetta alla Commissione provare la sussistenza dell’asserito inadempimento. Ad essa spetta fornire alla Corte gli elementi necessari affinché questa accerti l’esistenza di siffatto inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione (sentenza 25 maggio 1982, causa 96/81, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. 1791, punto 6). 27.- Tuttavia, gli Stati membri sono tenuti, a norma dell’art. 10 CE, ad agevolare la Commissione nello svolgimento del suo compito, che consiste, in particolare, ai sensi dell’art. 211 CE, nel vigilare sull’applicazione delle norme del Trattato, nonché delle disposizioni adottate dalle istituzioni in forza dello stesso Trattato (sentenza Commissione/Irlanda, cit., punto 42 e giurisprudenza ivi citata). 28.- In una simile prospettiva, si deve tener conto del fatto che, nel verificare la corretta applicazione pratica delle disposizioni nazionali destinate a garantire la concreta attuazione della direttiva, tra cui quelle adottate nel settore dell’ambiente, la Commissione, che non dispone di propri poteri di indagine in materia, dipende in ampia misura dagli elementi forniti da eventuali denuncianti, da organizzazioni private o pubbliche attive sul territorio dello Stato membro interessato, nonché da questo stesso Stato membro (v., in tal senso, sentenza Commissione/Irlanda, cit., punto 43 e giurisprudenza ivi citata). 29.- A tal riguardo, i rapporti elaborati dal CFS e da commissioni parlamentari d’inchiesta o documenti ufficiali provenienti, in particolare, da autorità regionali possono essere considerati, quindi, come valide fonti d’informazione per l’avvio, da parte della Commissione, del procedimento di cui all’art. 226 CE. 30.- Ne discende, in particolare, che, quando la Commissione ha fornito elementi sufficienti a far emergere determinati fatti verificatisi sul territorio dello Stato membro convenuto, spetta a quest’ultimo confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati forniti dalla Commissione e le conseguenze che ne derivano (sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto 44 e giurisprudenza ivi citata). 31.- In simili circostanze, infatti, spetta innanzi tutto alle autorità nazionali effettuare i controlli in loco necessari, in uno spirito di cooperazione leale, conformemente al dovere di ogni Stato membro, ricordato al punto 27 della presente sentenza, di facilitare l’adempimento del compito generale della Commissione (sentenza Commissione/Irlanda, cit. , punto 45 e giurisprudenza ivi citata). 32.- Pertanto, quando la Commissione si richiama a denunce circostanziate, dalle quali emergono ripetuti inadempimenti alle disposizioni della direttiva, spetta allo Stato membro interessato confutare in modo concreto i fatti affermati in tali denunce. Del pari, quando la Commissione ha fornito elementi sufficienti a far risultare che le autorità di uno Stato membro hanno posto in essere una prassi reiterata e persistente contraria alle disposizioni di una direttiva, spetta a tale Stato membro confutare in modo sostanziale e dettagliato i dati in tal modo forniti, nonché le conseguenze che ne derivano (sentenza Commissione/Irlanda, cit., punti 46 e 47, nonché giurisprudenza ivi citata). Tale obbligo incombe agli Stati membri in virtù del dovere di leale cooperazione, enunciato all’art. 10 CE, durante tutto il procedimento di cui all’art. 226 CE. Orbene, risulta dal fascicolo che le autorità italiane non hanno cooperato pienamente con la Commissione ai fini dell’istruzione della presente causa nella fase del procedimento precontenzioso. Sulla violazione degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva 91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva 1999/31 – Argomenti delle parti 33.- Per confutare le censure dedotte dalla Commissione, il governo italiano, fondandosi sulle informazioni che ha potuto ottenere presso le amministrazioni regionali, provinciali, 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 285 nonché presso il Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri, sostiene anzitutto che i dati forniti dalla Commissione sono inconsistenti e non corrispondono alla situazione reale in Italia. Esso contesta, in particolare, il numero di «discariche abusive» censite dalla Commissione in quanto quest’ultima, in primo luogo, avrebbe conteggiato talune discariche più volte, in secondo luogo, avrebbe qualificato come discariche abusive semplici depositi o siti con rifiuti in abbandono, di cui una parte starebbe per essere bonificata o in cui i rifiuti sarebbero già stati rimossi e, in terzo luogo, avrebbe travisato il loro grado di pericolosità, poiché la maggior parte di tali discariche sarebbe sotto controllo o sotto sequestro. 34.- Il governo italiano ricorda, poi, i progressi recenti che la Repubblica italiana ha realizzato nell’attuazione degli obblighi derivanti dalle direttive 75/442, 91/689 e 1999/31. 35.- La Commissione sostiene, in primo luogo, che il governo italiano non fornisce informazioni in senso contrario, provenienti da una fonte di livello paragonabile alle proprie. In secondo luogo, benché la Commissione prenda atto del fatto che i rifiuti sono stati rimossi da talune discariche, essa sostiene che le situazioni che stanno per essere regolarizzate sono in numero notevolmente minore di quelle per le quali le autorità nazionali non hanno avviato alcuna azione per rimediare al loro carattere abusivo. – Giudizio della Corte 36.- Anzitutto, risulta da giurisprudenza costante che l’esistenza di un inadempimento dev’essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che la Corte non può tenere conto dei mutamenti successivi, quand’anche essi costituiscano un’attuazione corretta delle norme di diritto comunitario che sono oggetto del ricorso per inadempimento (v. , in tal senso, sentenze 11 ottobre 2001, causa C-111/00, Commissione/Austria, Racc. pag. I-7555, punti 13 e 14; 30 gennaio 2002, causa C-103/00, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-1147, punto 23; 28 aprile 2005, causa C-157/04, Commissione/Spagna, non pubblicata nella Raccolta, punto 19; e 7 luglio 2005, causa C-214/04, Commissione/Italia, non pubblicata nella Raccolta, punto 14). 37.- Successivamente, per quanto riguarda più specificamente la valutazione della violazione da parte di uno Stato membro dell’art. 4 della direttiva 75/442, occorre ricordare che quest’ultimo prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente, senza peraltro precisare il contenuto concreto delle misure che devono essere adottate per assicurare tale obiettivo. Tuttavia, ciò non toglie che tale disposizione vincola gli Stati membri quanto all’obiettivo da raggiungere, pur lasciando agli stessi un potere discrezionale nella valutazione della necessità di tali misure (sentenza 9 novembre 1999, causa C-365/97, Commissione/Italia, detta «San Rocco», Racc. pag. I-7773, punto 67). Non è quindi possibile, in via di principio, dedurre direttamente dalla mancata conformità di una situazione di fatto agli obiettivi fissati all’art. 4 di tale direttiva che lo Stato membro interessato sia necessariamente venuto meno agli obblighi imposti da questa disposizione. Nondimeno, è pacifico che la persistenza di una tale situazione di fatto, in particolare quando comporta un degrado rilevante dell’ambiente per un periodo prolungato senza intervento delle autorità competenti, può rivelare che gli Stati membri hanno abusato del potere discrezionale che questa disposizione conferisce loro (sentenza San Rocco, cit. , punti 67 e 68). 38.- A tale riguardo, occorre constatare che la fondatezza delle censure addebitate alla Repubblica italiana risulta chiaramente dal fascicolo. Infatti, benché le informazioni fornite da tale governo abbiano permesso di constatare che il rispetto in Italia degli obiettivi previsti dalle disposizioni del diritto comunitario che costituiscono l’oggetto dell’inadempimento è migliorata nel corso del tempo, tali informazioni rivelano tuttavia che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, persisteva una generale mancanza di conformità delle discariche a siffatte disposizioni. 39.- Per quanto riguarda la censura relativa alla violazione dell’art. 4 della direttiva 75/442, è pacifico che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, vi era sul territorio italiano un considerevole numero di discariche in cui i gestori non avevano garantito il riciclaggio o lo smaltimento dei rifiuti in modo tale da non mettere in pericolo la salute dell’uomo e da non utilizzare procedimenti o metodi che potessero recare pregiudizio all’ambiente, nonché un considerevole numero di siti di smaltimento incontrollato di rifiuti. A titolo d’esempio, come risulta dall’allegato 1 alla controreplica del governo italiano, quest’ultimo ha ammesso l’esistenza, constatata durante un controllo a livello locale a seguito del censimento effettuato dal CFS, di 92 siti interessati da abbandono di rifiuti nella Regione Abruzzo. 40.- L’esistenza di una tale situazione per un periodo prolungato di tempo ha necessariamente per conseguenza un degrado rilevante dell’ambiente. 41.- Quanto alla censura relativa alla violazione dell’art. 8 della direttiva 75/442, è accertato che, alla scadenza del termine impartito, le autorità italiane non hanno garantito che i detentori di rifiuti procedessero essi stessi allo smaltimento o al recupero dei rifiuti o li consegnassero ad un raccoglitore o ad un’impresa incaricata di effettuare tali operazioni, conformemente alle disposizioni della direttiva 75/442. A tale riguardo, risulta dall’allegato 3 alla controreplica del governo italiano che le autorità italiane hanno recensito almeno 9 siti con tali caratteristiche nella Regione Umbria e 31 nella Regione Puglia, in provincia di Bari. 42.- Per quanto riguarda la censura relativa alla violazione dell’art. 9 della direttiva 75/442, non è contestato che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, numerose discariche erano in funzione senza aver ottenuto l’autorizzazione delle autorità competenti. Lo testimoniano, in particolare, così come risulta chiaramente dall’allegato 3 alla controreplica del governo italiano, i casi di abbandono di rifiuti già menzionati ai punti 39 e 41 della presente sentenza, ma anche la presenza di almeno 14 discariche abusive nella Regione Puglia, in provincia di Lecce. 43.- Per quanto riguarda la censura relativa al fatto che le autorità italiane non hanno garantito la catalogazione o l’identificazione dei rifiuti pericolosi in ogni discarica o luogo in cui questi ultimi fossero depositati, ossia quella relativa alla violazione dell’art. 2 della direttiva 91/689, è sufficiente rilevare che il governo di detto Stato membro non presenta argomenti e prove specifiche al fine di contraddire le affermazioni della Commissione. In particolare, esso non nega l’esistenza sul suo territorio, al momento della scadenza del termine fissato nel parere motivato, di almeno 700 discariche abusive contenenti rifiuti pericolosi, che non sono quindi sottoposti ad alcuna misura di controllo. Ne consegue che le autorità italiane non possono conoscere il flusso di rifiuti pericolosi depositati in tali discariche e che, pertanto, l’obbligo di catalogarli ed identificarli non è stata rispettato. 44.- Infine, ciò vale anche per la censura relativa alla violazione dell’art. 14 della direttiva 1999/31. Nella fattispecie, il governo italiano ha segnalato esso stesso che 747 discariche che si trovano sul proprio territorio nazionale avrebbero dovuto costituire oggetto di un piano di riassetto. Orbene, l’esame dell’insieme dei documenti forniti in allegato alla controreplica del governo italiano rivela che, alla scadenza del termine impartito, tali piani erano stati presentati solo per 551 discariche e che solo 131 piani erano stati approvati dalle competenti autorità. Peraltro, così come giustamente fa notare la Commissione, detto gover- 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 287 no non ha precisato quali fossero le azioni intraprese per quanto riguarda le discariche i cui piani di riassetto non erano stati approvati. 45.- Ne consegue che la Repubblica italiana è venuta meno, in modo generale e persistente, agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva 91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva 1999/31. Di conseguenza, il ricorso della Commissione è fondato. 46.- Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre dichiarare che, non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari: – per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti; – affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva 75/442; – affinché tutti gli stabilimenti o le imprese che effettuano operazioni di smaltimento siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente; – affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati; e – affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano già in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per l’approvazione dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, dell’art. 2, n. 1, della direttiva 91/689 e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva 1999/31. Sulle spese 47.- Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce: 1) Non avendo adottato tutti i provvedimenti necessari: – per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e per vietare l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti; – affinché ogni detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore privato o pubblico, o ad un’impresa che effettua le operazioni di smaltimento o di recupero, oppure provveda egli stesso al recupero o allo smaltimento conformandosi alle disposizioni della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE; – affinché tutti gli stabilimenti o imprese che effettuano operazioni di smaltimento siano soggetti ad autorizzazione dell’autorità competente; – affinché in ogni luogo in cui siano depositati (messi in discarica) rifiuti pericolosi, questi ultimi siano catalogati e identificati; e – affinché, in relazione alle discariche che hanno ottenuto un’autorizzazione o erano già in funzione alla data del 16 luglio 2001, il gestore della discarica elabori e presenti per l’approvazione dell’autorità competente, entro il 16 luglio 2002, un piano di riassetto della discarica comprendente le informazioni relative alle condizioni per l’autorizzazione e le misure correttive che ritenga eventualmente necessarie; e affinché, in seguito alla presentazione del piano di riassetto, le autorità competenti adottino una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 4, 8 e 9 della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, dell’art. 2, n. 1, della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e dell’art. 14, lett. a)-c), della direttiva del Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31/CE, relativa alle discariche di rifiuti. 2) La Repubblica italiana è condannata alle spese». 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La cosa giudicata nazionale nel diritto comunitario (Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 18 luglio 2007, nella causa C-119/05) “Se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente applicabile, costituito nella specie… dalla decisione … di intimazione del recupero dell’aiuto….sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero dell’aiuto da parte dell’amministrazione interna nei confronti di un privato beneficiario, nonostante la formazione di un giudicato civile affermativo dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo”. Era questo il quesito sottoposto dal Consiglio di Stato alla Corte di Giustizia. Il secondo quesito era solo una variante. La Corte, dopo una ricostruzione dettagliata della vicenda giudiziaria, ha risolto la questione con una motivazione piuttosto scarna: “Risulta inoltre da una giurisprudenza costante che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale” (n. 61). Sono richiamati diversi precedenti, nessuno dei quali, peraltro, riguarda il giudicato. La sentenza è coerente con i principi, da tempo fissati dalla Corte di Giustizia circa i rapporti tra ordinamenti (1). Negli spazi di competenza comunitaria sono venuti meno i poteri degli Stati, le cui norme non possono più trovarvi applicazione. Dal principio suddetto la Corte nel dispositivo ha tratto la conclusione che “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 289 (1) Per aver messo in rapporto non gli ordinamenti ma le norme per circa un ventennio la Corte costituzionale ha incontrato difficoltà a coordinarsi con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.. È solo ponendo la questione in termini di rapporto tra norme che la Corte costituzionale ha potuto ritenere che una norma nazionale successiva potesse abrogare una norma comunitaria precedente (v. sentenza 7 marzo 1964, n.14, Costa c. Enel, in Foro it. 1964, I 465). Il Trattato di Roma, come ormai nessuno più dubita, ha comportato limiti alla sovranità nazionale e per questo già nel redigere l’art. 11 Cost. era risultato chiaro che ne sarebbe derivata la nascita di un ordinamento. tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva”. Se una misura possa essere classificata come aiuto, se questo sia comunitariamente rilevante e non in contrasto con l’ordinamento comunitario sono tutti accertamenti di competenza della Comunità. Nessuna norma nazionale, nemmeno quella sul giudicato, può, di conseguenza, secondo la Corte di Giustizia neutralizzare gli effetti di una decisione presa in materia dalla Commissione. Questa conclusione non è del tutto coordinata con la premessa. La premessa, dalla quale la Corte è partita, è fondata sul rapporto tra norme, che corrisponde a quello tra gli ordinamenti in cui sono inserite. La conclusione investe, invece, il rapporto tra un atto comunitario (decisione della Commissione) ed un atto nazionale (sentenza passata in giudicato) (2). In questo caso non ha più rilievo la norma, applicata la decisione, ma l’atto comunitario di per sé, la cui legittimità non è stata contestata. La Corte non ha richiamato un suo precedente, che riguardava il giudicato. La Corte ha avuto occasione di affrontare la questione della efficacia di un giudicato nazionale in un caso di lodo arbitrale non più impugnabile secondo il diritto statale (3). Il lodo aveva accertato la validità di un contratto, di cui una parte voleva sostenere la invalidità per violazione dell’art. 85 CE (oggi art. 81), non dedotta davanti all’arbitro, dopo che il giudicato si era formato. “… si deve sottolineare che, allo spirare di tale termine, norme di procedura nazionali che limitano la possibilità di impugnare per nullità un lodo arbitrale successivo che sviluppa un lodo arbitrale interlocutorio avente natura di decisione definitiva per il motivo che quest’ultimo è rivestito dell’autorità di cosa giudicata si giustificano in virtù dei principi che stanno alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali il principio della certezza del diritto e quello del rispetto della cosa giudicata che ne costituisce l’espressione” (n. 46). 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (2) Per individuare quale dei due atti prevalga si deve fare ugualmente applicazione di due norme, una comunitaria ed una nazionale. Sennonché queste sono applicate in via mediata, dopo l’emissione degli atti per determinarne gli effetti che debbono prevalere, e non in via diretta, prima delle emissione di atti, per individuare quale delle due deve disciplinare la fattispecie sostanziale. La distinzione, anche se discutibile, viene fatta perché può riuscire utile successivamente. (3) Sentenza 1 giugno 1999, Eco Swiss China Tine Lmt c. Benetton International NV, C-126/97, in Foro it.1999, IV, 470. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 291 “ In tali condizioni, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare siffatte norme, anche se ciò è necessario per poter esaminare, nell’ambito del procedimento d’impugnazione per nullità diretto contro il lodo arbitrale successivo, se un contratto la cui validità giuridica è stata stabilita dal loro arbitrale interlocutorio sia tuttavia nullo poiché in contrasto con l’art. 85 del Trattato” (n. 47). La conclusione, tratta dalla Corte, è stata che “... in base al diritto comunitario non si devono disapplicare le norme di diritto processuale nazionale... anche se ciò è necessario per poter esaminare, nell’ambito del procedimento di impugnazione per nullità del lodo diretto contro il lodo arbitrale successivo, se un contratto la cui validità giuridica è stata stabilita dal lodo arbitrale interlocutorio sia tuttavia nullo poiché in contrasto con l’art. 85 del Trattato” (n. 48). Anche in questo caso la norma comunitaria riguardava la concorrenza. Non sembra che il coordinamento tra le due sentenze possa essere ricercato nel fatto che nella sentenza del 1999 il giudicato si era formato su di un lodo arbitrale e non su una sentenza dell’autorità giudiziaria. La Corte in quella sentenza aveva rilevato (n. 34) “... che un collegio arbitrale convenzionale non costituisce una ‘giurisdizione nazionale ’di uno Stato membro ai sensi dell’art. 177 del Trattato perché per le parti contraenti non vi è alcun obbligo, né di diritto né di fatto, di affidare la soluzione delle proprie liti a un arbitrato e perché le autorità pubbliche dello Stato membro interessato non sono implicate nella scelta della via dell’arbitrato né sono chiamate a intervenire d’ufficio nello svolgimento del procedimento dinanzi all’arbitro” (4). La ragione del mancato richiamo non sembra che possa essere trovata in questi caratteri dell’arbitrato, che, secondo quanto rilevato dalla Corte di Giustizia, lo renderebbe meno garantito delle sentenze dei giudici, almeno sotto alcuni profili. Se si fosse temuto il pericolo che, attraverso la via contenziosa, fossero aggirati i divieti comunitari, il rischio sarebbe stato maggiore per i lodi, piuttosto che per le sentenze di organi giurisdizionali, per i caratteri dell’arbitrato, rilevati dalla Corte di Giustizia. L’argomento, inoltre, non sarebbe coerente con i principi che la Corte ha sempre seguito nel delimitare i suoi poteri nei rapporti con gli ordinamenti nazionali. Il giudicato va riferito al sistema processuale in conformità al quale si forma. (4) Questa posizione, poi sempre confermata, è stata assunta dalla Corte di Giustizia con la sentenza 23 marzo 1982, Nordsee causa 102/81, in Racc. 1095 (n.10) con una motivazione non convincente. Per una critica v. NORI, La nuova disciplina dell’arbitrato nell’ordinamento comunitario, in Giust. Civ., 1996, 3076. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Se un ordinamento lo collega ai lodi arbitrali ed alle sentenze, la Corte non potrebbe fare distinzioni perché il giudicato è nozione di diritto interno che individua anche gli atti che lo producono. Può, invece, tenere conto degli effetti che, secondo la disciplina nazionale, sono in grado di produrre nell’ordinamento comunitario. La Corte ha ripetutamente insistito sulla mancanza di una sua competenza a risolvere questioni di solo diritto interno. Dalla sentenza non si ricava se la Corte abbia dato rilievo al fatto che gli aiuti di Stato vengono erogati in base a normative apposite, soggette ad applicazioni ripetute, mentre i singoli contratti sono lasciati alla iniziativa episodica delle parti. Le ragioni che hanno ispirato la sentenza, almeno per il momento, possono essere lasciate da parte. Interessa, invece, rilevare che la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza di principio, con la quale la sentenza si è allineata, ma non ha ritenuto utile richiamare un suo precedente nel quale, proprio in materia di giudicato, aveva dato una soluzione diversa. Le specificità del caso, sul quale la Corte si è pronunciata, suggerisce alcune osservazioni. L’aiuto è stato concesso ai sensi della legge n. 183/1976 che disciplinava interventi straordinari nel Mezzogiorno per il quinquennio 1976-1980. A seguito dell’entrata in vigore di questa legge nessun intervento era consentito alla Commissione ai sensi degli artt. 85 e ss. CE (secondo la numerazione in vigore all’epoca). Un suo intervento sarebbe stato possibile ai sensi dell’art. 226 CE (già art. 169), qualora se ne fossero verificate le condizioni. Poiché nessuna iniziativa in questo senso è stata assunta, la questione non merita di essere affrontata. La situazione non era mutata con la emissione dell’atto di concessione del beneficio (5). La sola costituzione del credito corrispondente, fino a che non ne fossero stati realizzati in concreto gli effetti economici, non consentiva l’applicazione dell’art. 87 (6). Perché costituisca aiuto, la misura deve essere tale da creare all’impresa una posizione di favore che incida sugli scambi tra Stati membri. Un credito, al quale non faccia seguito il pagamento o qualsiasi operazione finanziaria che consenta all’impresa di realizzarlo in tutto o in parte, (5) Non è necessario distinguere tra l’ipotesi di concessione senza comunicazione alla Commissione o senza attenderne la decisione. (6) La formulazione di alcune sentenze della Corte di Giustizia potrebbe orientare diversamente. Se, peraltro, si tengono presenti le situazioni di fatto, si verifica che, anche quando è richiamato l’atto di concessione, quello che ha avuto rilievo è stata la esecuzione della misura. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 293 eventualmente anche in via indiretta, non modifica la posizione concorrenziale dell’impresa. Dopo la concessione del beneficio tra l’Amministrazione e la Società è insorto un contenzioso che si è concluso con una sentenza, passata in giudicato, che ha riconosciuto alla Società il credito senza condizioni. La sentenza, in quanto atto di accertamento e titolo esecutivo non più contestabile, ha prodotto i suoi effetti tanto che è stata eseguita. L’aiuto, ai sensi dell’art. 87 CE, è diventato rilevabile quando la Società ha riscosso il suo credito, perché in quel momento ha potuto utilizzare la somma ricevuta per la sua attività imprenditoriale. La decisione della Commissione, nel disporre la restituzione, non ha toccato la sentenza nella sua struttura di atto, che è rimasta integra e produttiva di effetti tanto da dar luogo ad un aiuto a seguito della sua esecuzione (7). La decisione della Commissione è intervenuta solo dopo che la sentenza è stata eseguita disponendo la restituzione dell’aiuto. La decisione ha, dunque, inciso non sull’atto, ma solo sulla definitività dei suoi effetti (8), perché in contrasto con la normativa comunitaria che vuole che, quando un aiuto sia stato concesso illegittimamente, sia poi recuperato (9). (7) L’ipotesi che si fa nel testo è quella dell’aiuto per il quale non sia stato seguito il procedimento di cui all’art.87 CE. In caso di omissione la questione della restituzione non dovrebbe proporsi perché fino all’esito positivo del procedimento l’aiuto non andrebbe erogato. (8) Nella sentenza la deroga all’autorità della cosa giudicata, come si è visto, è stata disposta “nei limiti in cui l’applicazione…impedisce il recupero di un aiuto..”. (9) Nella sentenza 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler c.Republik Osterreich, in cui un giudicato è stato preso in esame come possibile atto, comunitariamente illecito, con il conseguente dovere di risarcimento a carico dello Stato nei confronti dei singoli danneggiati, si trova ribadito (n. 39) quanto desumibile dai principi da tempo enunciati dalla Corte: “Occorre considerare tuttavia che il riconoscimento del principio della responsabilità dello Stato per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado non ha di per sè come conseguenza di rimettere in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata di una tale decisione. Un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata. Infatti, il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l’autorità di cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno. In ogni caso il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La restituzione di quanto è stato già pagato presuppone che sia configurabile un indebito. Nel caso in esame, non essendo venuto meno il titolo giurisdizionale nazionale, in esecuzione del quale il pagamento era stata effettuato, un indebito non era configurabile per diritto interno. La somma pagata era soggetta a restituzione, in quanto in violazione di una decisione della Commissione. L’indebito, pertanto, era di diritto comunitario, come tale prevalente sul credito fondato sul diritto nazionale. La questione - vale la pena di ripeterlo - non investe il rapporto tra norme comunitarie e norme nazionali, ma tra un atto comunitario, non impugnato, ed un atto nazionale, costituito da una sentenza non più impugnabile. È un principio comunitario, anche esso consolidato, che gli effetti di un atto di una istituzione comunitaria non possono essere neutralizzati da un atto di un’autorità statale, qualunque questa sia. Secondo un altro principio, ugualmente acquisito da tempo, il giudice comunitario non ha giurisdizione diretta sugli atti nazionali (10). Può solo accertare la loro inefficacia per assicurare l’integrità dell’ordinamento comunitario (11). È quello che ha fatto la sentenza che si annota, che si è limitata a dichiarare la inefficacia di un giudicato nei limiti in cui neutralizzava gli effetti di una decisione della Commissione. La situazione sulla quale la Corte di Giustizia si è pronunciata nel suo precedente, già richiamato, era diversa. Era in discussione la validità di un contratto, non giudicata da un arbitro sotto il profilo comunitario, perché la questione non era stata sollevata dalle parti. Anche ad ammettere che la questione potesse essere affrontata d’ufficio, non averlo fatto non integrava una infrazione comunitaria. Prima di tutto perché, non costituendo l’arbitro giurisdizione nazionale secondo la giurisprudenza della Corte, la violazione dell’art. 234 CE restava esclusa per definizione. In secondo luogo perché l’arbitro avrebbe comunque costituito una giurisdizione non di ultima istanza, quindi non tenuta a rimettere la questione alla Corte di Giustizia. Se il contratto in contestazione violasse o no l’art. 85 CE non era stato accertato da nessuno. (10) Fa eccezione l’art.14 del protocollo SEBC che al terzo comma consente al Governatore di una banca centrale, sollevato dall’incarico, di impugnare il provvedimento davanti alla Corte di Giustizia “per violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa all’applicazione del medesimo”. Legittimato al ricorso è anche il Consiglio direttivo . (11) Tra le numerose sentenze è sufficiente richiamare Wilhelm, 13 febbraio 1969, causa 14/68, n. 8 e 9, in Racc. p.1. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 295 La questione verteva appunto sulla possibilità di superare un giudicato interno per rendere la questione ancora giudicabile, eventualmente anche dalla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234 CE. La intangibilità della cosa giudicata assicurava la coerenza dell’ordinamento interno, evitando che un giudice statale riesaminasse una questione già decisa, sempre da un giudice statale, con un provvedimento non impugnato. Poiché quella intangibilità realizzava un interesse tutelato da un principio dell’ordinamento comunitario, la Corte ha ritenuto che non potesse essere pregiudicata (12). Tanto meno c’era una decisione comunitaria, di qualsiasi natura, che avesse già deciso della illegittimità del contratto. Alla Corte era stato richiesto se il diritto comunitario consentisse di superare un giudicato nazionale per far decidere ad un giudice nazionale se ricorresse la nullità di un contratto, non sollevata nel giudizio concluso con un giudicato che, per le ragioni già viste, non aveva violato l’art. 234 CE. La situazione era, dunque, molto diversa da quella decisa con la sentenza che si annota. In primo luogo perché, se la norma comunitaria fosse stata violata, non era stato accertato da nessuno, tanto meno da una istituzione comunitaria. In secondo luogo perché il superamento del giudicato aveva come effetto non di impedire una decisione di merito della Corte di Giustizia, proposto direttamente davanti ad essa, ma solo di consentire ad un giudice nazionale di affrontare la questione, rimettendola eventualmente alla Corte di Giustizia ex art. 234. La questione si incrocia con un’altra, di carattere più generale, che qualche volta è affiorata davanti alla Corte, senza che questa, a quanto risulta, l’abbia affrontata nei suoi termini generali. Per brevità si può ridurre a queste tre domande: – se le parti non sollevano la questione comunitaria, può il giudice affrontarla d’ufficio? – se non se la propone, si ha infrazione comunitaria, in particolare se è giudice di ultima istanza? – una volta che non sia stata proposta e si sia formato il giudicato nei limiti delle contestazioni insorte, può la questione essere sollevata al di là del giudicato? – in quale forma, se il giudicato si è formato in ultima istanza? Se la risposta alle ultime due domande fosse positiva, i problemi che insorgerebbero non sarebbero di poco conto. (12) Diversa questione è se la formazione di un titolo nazionale definitivo, una volta che dalla Commissione fosse ritenuto in contrasto con l’ordinamento comunitario, costituisca infrazione, perseguibile ai sensi dell’art.226 CE. La questione non è sorta per cui non è il caso di affrontarla. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Con la sentenza del 1999 la Corte di Giustizia ha dato una risposta, sia pure in forma implicita. Il giudicato realizza il principio Comunitario della certezza del diritto. Non può, pertanto, essere superato quando l’interesse da perseguire non sia quello di assicurare l’adempimento di un concreto obbligo comunitario, ma solo di consentire ad un giudice nazionale di accertare se una violazione ci sia o non ci sia stata. Nel primo caso il giudicato entra in rapporto con un giudizio diretto davanti alla Corte di Giustizia. Nel secondo il superamento del giudicato si realizza all’interno dell’ordinamento nazionale per consentire al giudice statale di accertare se una violazione c’è stata, con la sola possibilità, e non con la certezza, che la Corte sia investita in via incidentale ai sensi dell’art. 234 CE. Può sorgere, peraltro, una questione connessa. La Corte non ha naturalmente affrontato la questione, di solo diritto interno, se l’aiuto fosse stato erogato in conformità alla legge, ma si è limitata a rilevare che era stato dichiarato comunitariamente illegittimo dalla Commissione per violazione del terzo codice degli aiuti di Stato alla siderurgia. La violazione del diritto comunitario poteva essere vista nella legge, perché non conforme alla disciplina comunitaria, o nel provvedimento di concessione, perché non conforme alla legge stessa. Per limitare l’indagine agli aspetti più interessanti, viene presa in considerazione l’ipotesi che sia la legge ad essere contraria alla normativa comunitaria. La Corte ha sempre ribadito che da una violazione comunitaria nasce la responsabilità di chi l’ha commessa per i danni prodotti. La sua giurisprudenza ha subito una evoluzione, condizionata dagli sviluppi dei rapporti tra la Comunità Economia e gli Stati membri. Il principio si trova enunciato per la prima volta nella sentenza Humblet (13), nella quale è stata accertata la responsabilità dello Stato per il trattamento tributario praticato ad un cittadino belga in violazione dell’art. 86 del Trattato CECA. Attraverso sentenze intermedie, che hanno sempre confermato il principio, si è arrivati alla ben nota sentenza Francovic (14), dove la responsabilità è stata accertata in un caso di mancata attuazione di una direttiva comunitaria. Secondo la Corte “... il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato” (n. 35). La particolarità della sentenza sta nel fatto che su di un illecito, visto nella mancata attuazione di una direttiva, si è fondata la responsabilità per danni verso i soggetti che con l’attuazione direttiva avrebbero acquistato dei diritti. (13) 16 dicembre 1960, causa 6/60 in Racc. 1960, 1093. (14) Sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, in Racc. 1991. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 297 La sentenza, come noto, ha suscitato una serie di commenti perché, esaminando la questione dal punto di vista del diritto costituzionale interno, si è visto un caso di responsabilità connessa all’attività legislativa, sia pure in quanto omessa (15). Come è stato subito rilevato, la Corte in questo modo ha voluto utilizzare tutti gli strumenti, disponibili secondo il diritto comunitario, per indurre gli Stati alla osservanza delle direttive (16). (15) I costituzionalisti hanno tradizionalmente ritenuto che dall’esercizio della potestà legislativa, in considerazione della sua natura, andasse esclusa qualsiasi forma di responsabilità che non fosse politica. V. in particolare MORTATI, Appunti per uno studi sui rimedi giurisdizionali contro comportamenti omissivi del legislatore, in Foro it., 1970, V, c. 153. (16) Come noto, è in vista di questo fine che è stata individuata la figura delle direttive dettagliate, distinte dalla figura generale per la possibilità di trovare applicazione diretta. Per la sua funzione sanzionatoria nei confronti dello Stato ne è stata prevista la efficacia verticale, che non consente l’applicazione nei confronti di quei soggetti estranei alla violazione del diritto comunitario. Per i limiti di applicabilità collegati alla efficacia solamente verticale delle direttive dettagliate, da più parti è stata prospetta la violazione del diritto di uguaglianza. Rapporti del tutto simili finivano con l’avere discipline notevolmente diverse per la qualità di uno dei soggetti cosicché chi aveva come controparte una pubblica amministrazione riceveva tutele maggiori da chi si trovava in rapporto con privati. Questione collegata era quella delle c.d. discriminazioni a rovescio. Le maggiori tutele previste dalla normativa comunitaria, in quanto applicate ai rapporti di rilievo comunitario, non erano applicate ai rapporti che si esaurivano nell’ambito dell’ordinamento statale. Era dubbio che vi si potesse vedere la violazione del principio di uguaglianza. Il principio di uguaglianza è enunciato nell’art.3 Cost., che è norma di diritto interno, rivolta al legislatore nazionale. La sua violazione può, di conseguenza, essere riscontrata solo quando è lo stesso ordinamento nazionale a provocare differenze di trattamento irragionevoli. L’art. 3 non potrebbe vedersi violato mettendo a raffronto una norma interna, di per sé costituzionalmente legittima, con una norma comunitaria che, in quanto inserita in un ordinamento diverso, non può essere valutata alla stregua dell’art. 3 Cost. Le norme, per il fatto di essere inserite in ordinamenti diversi, rispondono ad esigenze ed interessi anche essi diversi cosicché non potrebbero essere messe a raffronto in base al principio di ragionevolezza poiché i criteri seguiti dai due ordinamenti, nel disciplinare i rapporti, non sono necessariamente gli stessi. La Corte costituzionale (sentenza n. 443/1997) ha superato questa difficoltà riscontrando la illegittimità costituzionale non nella violazione dell’art.3 Cost., ma nella irragionevolezza della disciplina della concorrenza per il mancato adeguamento della normativa interna a quella comunitaria: “.. in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Il recupero di un aiuto già utilizzato, per esempio, per un certo investimento industriale, può provocare a chi lo ha ricevuto uno squilibrio finanziario rilevante. Ci si deve domandare se l’impresa possa chiedere di essere risarcita dei danni corrispondenti. L’illecito è sicuramente comunitario poiché è la normativa comunitaria che è stata violata. Per lo Stato, che ha emesso l’atto, la difesa non sarebbe facile perché è suo dovere vigilare sull’osservanza della normativa comunitaria da parte di tutti i suoi organi (17). Una volta accertato il rapporto causale tra atto e danni, la responsabilità non potrebbe, pertanto, essere evitata. Si potrebbe obiettare che l’attività legislativa non può essere fonte di responsabilità civile, ma solo politica, utilizzando le argomentazioni per le quali la dottrina costituzionale ha ritenuto che dall’attività legislativa non potrebbe nascere una responsabilità civile. Non è, peraltro, necessario richiamarle perché la questione è di diritto interno. La responsabilità, che si sta esaminando, è, invece, di diritto comunitario. La Corte di Giustizia già con la sentenza Humblet, dopo aver enunciato nella massima di non avere il potere “di ingerirsi direttamente nella legislazione e l’amministrazione degli Stati membri”, dichiarando nulli gli atti degli Stati, ha concluso che “ove in una sua sentenza… accerti che un atto legislativo od amministrativo degli organi di uno Stato membro contrasta col diritto comunitario, l’art. 86 del Trattato CECA impone a tale Stato tanto di revocare l’atto di cui trattasi quanto di riparare gli illeciti effetti che ne possono essere derivati. Tale obbligo deriva dal Trattato e dal Protocollo i quali, a seguito della loro ratifica, hanno forza di legge negli Stati membri e prevalgono sul diritto interno” (n. 2). Per l’ordinamento comunitario la responsabilità è dello Stato, nella sua struttura unitaria. Le sue articolazioni e la collocazione gerarchica dei suoi atti dipendono dal diritto interno sul quale la Comunità non può interferire. rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti dal trattato agli artt.30 e seguenti; opera, quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l’applicazione dei diritto comunitario è suscettibile di provocare”. (17) Secondo l’art.10 CE “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 299 Per questo nella sentenza Humblet l’atto legislativo viene posto sullo stesso piano di quello amministrativo, in quanto la distinzione, che è di diritto interno, anche se di livello costituzionale, non è rilevante per l’ordinamento comunitario (18). Nel caso in esame la legge, che ha trovato applicazione, è atto dello Stato per il quale il singolo interessato, in quanto estraneo al suo procedimento di formazione, non può incontrare nessuna responsabilità, nemmeno concorrente. Si può vedere una sua responsabilità nel fatto di avere richiesto il beneficio? Per rispondere in senso affermativo bisognerebbe attribuire ai singoli il dovere di verificare, prima di richiedere un beneficio, se la legge che lo prevede sia comunitariamente legittima. Questo dovere di diligenza non sembra desumibile dall’ordinamento comunitario. Non sarebbe facile desumerlo nemmeno dall’ordinamento interno, qualora quest’ultimo fosse ritenuto applicabile, eventualità da escludere perché, secondo le premesse dalle quali si è partiti, la responsabilità è di diritto comunitario, senza contaminazioni col diritto interno. Sarebbe proponibile, pertanto, un’azione per danni da parte di chi, dopo aver ricevuto, naturalmente in base ad una legge nazionale, un beneficio, definito poi come aiuto illecito da parte della Commissione CE, si veda costretto a restituirlo e per questa restituzione imprevista possa provare di aver ricevuto un danno (19). Il diritto risarcitorio non incontrerebbe ostacoli nel diritto interno. Questi non sarebbero configurabili già per il primato del diritto comunitario su quello interno. Secondo un principio, ormai riconosciuto anche dalla Corte costituzionale italiana dopo la sentenza Granital (20), nelle materie assegnate alla Comunità lo Stato ha perso in corrispondenza i suoi poteri sovrani. Di con- (18) Per l’ordinamento comunitario – la Corte di Giustizia lo ha ribadito ripetutamente, anche se non sempre in termini espressi – il diritto costituzionale è pur sempre diritto interno cosicché il suo rango, fissato dal diritto interno, non è rilevante sul piano comunitario dove ogni atto, in quanto riferibile allo Stato, è preso in considerazione come tale, senza considerare la sua collocazione gerarchica. Diverse Corte costituzionali, come noto, compresa quella italiana, hanno dimostrato in diverse occasioni di non concordare. (19) L’ipotesi non è improbabile. Si pensi al caso in cui un piano industriali, con tutti gli investimenti che comporta, sia stato varato proprio per la presenza dei benefici. La restituzione può comportare uno squilibrio nella situazione finanziaria di un’impresa fino a metterne in pericolo la sopravvivenza. (20) Sentenza n. 170/84. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO seguenza, gli effetti delle norme comunitarie non possono essere neutralizzati da atti di diritto interno (21). Non potrebbe opporsi che per la natura della potestà legislativa, come delineata nella Costituzione, una responsabilità per danni dall’esercizio di quella potestà non è configurabile. L’argomento non sarebbe rilevante perché la responsabilità, di cui si tratta, è fondata sul diritto comunitario e conseguente alla sua violazione. Come si è visto, l’attività amministrativa e quella legislativa è posta sullo stesso piano dalla giurisprudenza comunitaria ed ormai si può dire che questa equiparazione costituisca un principio ricorrente nelle sentenze della Corte di Giustizia. Le eventuali perplessità di diritto interno dovrebbero essere accantonate. Quelle che residuassero dovrebbe trovare risposta presso la Corte di Giustizia. Ostacoli non si desumono nemmeno dalla disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato. Potrebbe sorgere il dubbio che, attraverso il risarcimento del danno, le imprese ottengano, sia pure ad altro titolo ed eventualmente solo in parte, lo stesso beneficio economico portato dall’aiuto. Questa eventualità è da escludersi. L’aiuto pone l’impresa beneficiaria in un posizione privilegiata rispetto alle altre, che si trovano in concorrenza, e per questo è vietato. Il recupero ha come obiettivo di ripristinare la posizione iniziale di parità. Il risarcimento del danno rimetterebbe l’impresa nella stessa posizione di partenza, evitando che la sua capacità concorrenziale sia pregiudicata da una iniziativa dello Stato, comunitariamente illegittima. Attraverso il risarcimento si verrebbe a ricostituire il mercato concorrenziale tutelato dalla normativa comunitaria. Il risarcimento dovrebbe, naturalmente, non superare il danno subito. Solo se fosse superiore la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato verrebbe violata di nuovo. Ma questo effetto sarebbe dovuto al modo improprio nel quale la normativa rilevante viene applicata, ma non alla normativa stessa. Per prevenirlo andrebbe attivato un controllo sulle sentenza, o sugli eventuali atti di transazione. Nel caso in esame una responsabilità del genere, anche ad ammetterla in linea di principio, non sembra configurabile. Al momento della richiesta del contributo la Commissione non si era ancora pronunciata. La decisione di incompatibilità era, invece, già intervenuta quanto la Società ha proposto l’azione giudiziaria per avere il pagamento. (21) Il principio ha trovato la sua formulazione espressa nell’art.10 CE, già richiamato. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 301 Lo Stato ha resistito ed ha provveduto all’adempimento solo in base al giudicato. È stata la stessa Società a procurarsi il danno, sempre che un danno fosse rilevabile. Lo Stato da parte sua, resistendo in giudizio, ha cercato di evitarlo per cui nessun responsabilità gli può essere addossata. Da questo precedente le imprese interessate dovrebbero trarre come insegnamento, che, dopo aver richiesto un beneficio, utilizzarlo senza che la Commissione si sia pronunciata, può comportare difficoltà finanziarie se, a distanza di tempo, il beneficio dovesse essere neutralizzato. La prudenza dovrebbe essere maggiore quando il beneficio, che integra l’aiuto, si protrae nel tempo e, fidando su di esso, si siano fatti piani di investimento. Non si dovrebbe comunque insistere sulla domanda quando l’aiuto sia stato già dichiarato illecito dalla Commissione. Avv. Glauco Nori Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione, sentenza 18 luglio 2007, nella causa C-119/05 - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal Consiglio di Stato con ordinanza 22 ottobre 2004, pervenuta in cancelleria il 14 marzo 2005 - Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c/ Lucchini SpA, già Lucchini Siderurgica SpA – Pres. V. Skouris – Rel. K. Schiemann – Avv. Gen. L.A. Geelhoed (per il Governo italiano Avv. dello Stato P. Gentili). «1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sui principi di diritto comunitario applicabili alla revoca di un atto nazionale di concessione di aiuti di Stato incompatibili con il diritto comunitario, adottato in applicazione di una pronuncia giurisdizionale nazionale che ha acquistato autorità di cosa giudicata. 2. Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di un ricorso proposto dalla società di diritto italiano Lucchini SpA (già Siderpotenza SpA, successivamente Lucchini Siderurgica SpA, in prosieguo: la «Lucchini») contro la decisione del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (in prosieguo: il «MICA») che ha disposto il recupero di un aiuto di Stato. Il MICA è subentrato ad altri enti in precedenza incaricati della gestione degli aiuti di Stato nella regione del Mezzogiorno (in prosieguo, collettivamente: le «autorità competenti»). Contesto normativo La normativa comunitaria 3. L’art. 4, lett. c), del Trattato CECA vieta le sovvenzioni o gli aiuti concessi dagli Stati membri, in qualunque forma, nei settori industriali del carbone e dell’acciaio. 4. A partire dal 1980, a fronte di una crisi sempre più acuta e generalizzata del settore siderurgico in Europa, è stata adottata, in base all’art. 95, primo e secondo comma, del Trattato CECA, una serie di misure in deroga a tale divieto assoluto e incondizionato. 5. In particolare, la decisione della Commissione 7 agosto 1981, n. 2320/81/CECA, recante norme comunitarie per gli aiuti a favore dell’industria siderurgica (GU L 228, pag. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 14; in prosieguo: il «secondo codice»), ha adottato un secondo codice degli aiuti di Stato alla siderurgia. Scopo del detto codice era di permettere la concessione di aiuti per il risanamento delle imprese siderurgiche e la riduzione delle loro capacità produttive al livello della domanda prevedibile, disponendo nel contempo la soppressione graduale di tali aiuti entro scadenze prefissate, sia per quanto riguarda la loro notifica alla Commissione (30 settembre 1982) e loro autorizzazione (1° luglio 1983) che per la loro erogazione (31 dicembre 1984). Tali termini sono stati prorogati, per quanto riguarda la notifica, al 31 maggio 1985, per quanto riguarda l’autorizzazione, al 1º agosto 1985, e, per quanto riguarda il versamento, al 31 dicembre 1985, mediante la decisione della Commissione 19 aprile 1985, n. 1018/85/CECA, che modifica la decisione 2320/81 (GU L 110, pag. 5). 6. Il secondo codice prevedeva una procedura obbligatoria di approvazione da parte della Commissione di tutti gli aiuti progettati. In particolare, il suo art. 8, n. 1, così disponeva: «Alla Commissione sono comunicati in tempo utile perché presenti le sue osservazioni i progetti intesi ad istituire o modificare aiuti (…). Lo Stato membro interessato può dare attuazione alle misure prospettate soltanto previa autorizzazione della Commissione e conformandosi alle condizioni da essa stabilite». 7. La decisione della Commissione 27 novembre 1985, n. 3484/85/CECA, recante norme comunitarie per gli aiuti a favore della siderurgia (GU L 340, pag. 1; in prosieguo: il «terzo codice»), ha sostituito il secondo codice e ha istituito un terzo codice degli aiuti alla siderurgia per consentire una nuova deroga, più limitata, dal 1º gennaio 1986 al 31 dicembre 1988, al divieto previsto all’art. 4, lett. c), del Trattato CECA. 8. Ai sensi dell’art. 3 del terzo codice, la Commissione poteva, in particolare, autorizzare aiuti generali a favore dell’adattamento degli impianti alle nuove disposizioni di legge in materia di tutela dell’ambiente. L’ammontare degli aiuti concessi non poteva superare il 15% in equivalente sovvenzione netto delle spese d’investimento. 9. L’art. 1, n. 3, del terzo codice precisava che gli aiuti potevano essere concessi soltanto in conformità delle procedure dell’art. 6 e non potevano dar luogo a pagamenti posteriori al 31 dicembre 1988. 10. L’art. 6, nn. 1, 2 e 4, del terzo codice era formulato nei termini seguenti: «1. Alla Commissione sono comunicati, in tempo utile affinché possa pronunciarsi al riguardo, i progetti intesi ad istituire o a modificare aiuti (…). Essa è informata nello stesso modo dei progetti intesi ad applicare al settore siderurgico regimi di aiuti sui quali essa si è già pronunciata sulla base delle disposizioni del trattato CEE. Le notifiche dei progetti di aiuto di cui al presente articolo devono essere effettuate entro il 30 giugno 1988. 2. Alla Commissione sono comunicati in tempo utile affinché possa pronunciarsi al riguardo, e al più tardi entro il 30 giugno 1988, tutti i progetti di intervento finanziario (assunzioni di partecipazioni, conferimenti di capitale o misure simili) da parte di Stati membri, enti territoriali o organismi che utilizzano a tal fine risorse pubbliche, a favore di imprese siderurgiche. La Commissione accerta se questi interventi contengono elementi di aiuto (…) ed eventualmente ne valuta la compatibilità con le disposizioni degli articoli da 2 a 5 della presente decisione. (…) 4. Se, dopo aver invitato gli interessati a presentare le loro osservazioni, la Commissione rileva che un aiuto non è compatibile con le disposizioni della presente decisione, essa informa lo Stato membro interessato della propria decisione. La Commissione decide al più tardi entro tre mesi dal ricevimento delle informazioni necessarie per potersi pronunciare sull’aiuto in questione. Qualora uno Stato membro non si conformi a tale decisione, si applicano le disposizioni dell’articolo 88 del trattato CECA. Lo Stato membro interessato non può dar esecuzione alle misure progettate di cui ai paragrafi 1 e 2 se non previa approvazione della Commissione e conformandosi alle condizioni da essa stabilite». 11. Il terzo codice è stato sostituito, a partire dal 1º gennaio1989 e fino al 31 dicembre 1991, da un quarto codice, istituito con la decisione della Commissione 1º febbraio 1989, n. 322/89/CECA, recante norme comunitarie per gli aiuti a favore della siderurgia (GU L 38, pag. 8), che riproduceva segnatamente l’art. 3 del terzo codice. 12. Dopo la scadenza del Trattato CECA, il 23 luglio 2002, anche agli aiuti di Stato nel settore siderurgico si applica il regime previsto dal Trattato CE . La normativa nazionale 13. La legge 2 maggio 1976, n. 183, sulla disciplina dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (GURI n. 121 dell’8 maggio 1976; in prosieguo: la «legge n. 183/1976») prevedeva, in particolare, la possibilità di concedere agevolazioni finanziarie sia in conto capitale sino al 30% dell’importo degli investimenti, che in conto interessi, per la realizzazione di iniziative industriali nel Mezzogiorno. 14. L’art. 2909 del codice civile italiano, intitolato «Cosa giudicata», dispone quanto segue: «L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa». 15. Stando al giudice a quo, questa disposizione copre il dedotto e il deducibile. 16. A livello processuale, essa preclude nuovi processi relativamente a controversie sulle quali un altro organo giurisdizionale si sia già pronunciato in via definitiva. La causa principale e le questioni pregiudiziali La domanda di aiuti della Lucchini 17. Il 6 novembre 1985, la Lucchini presentava alle autorità competenti una domanda di agevolazioni finanziarie, ai sensi della legge n. 183/1976, per l’ammodernamento di taluni impianti siderurgici. A fronte di un investimento complessivo di ITL 2 550 milioni, la Lucchini chiedeva la concessione di un contributo in conto capitale di ITL 765 milioni (ovvero il 30% della spesa) e di un contributo in conto interessi su un finanziamento di ITL 1 020 milioni. L’istituto di credito incaricato di istruire la domanda di finanziamento prevedeva un prestito della somma richiesta per una durata di dieci anni al tasso d’interesse agevolato del 4,25%. 18. Con lettera del 20 aprile 1988, le autorità competenti notificavano alla Commissione il progetto di aiuto a favore della Lucchini, a norma dell’art. 6, n. l, del terzo codice. Secondo la notifica, tale aiuto riguardava un investimento volto al miglioramento della tutela ambientale. Il valore del contributo in conto interessi sul prestito di ITL 1 020 milioni veniva indicato in ITL 367 milioni. 19. Con lettera del 22 giugno 1988, la Commissione chiedeva informazioni integrative sulla natura dell’investimento sovvenzionato nonché le condizioni esatte (tasso, durata) del prestito richiesto. La lettera invitava inoltre le autorità competenti a indicare se gli aiuti erano concessi in applicazione di un regime generale a favore della tutela dell’ambiente per agevolare l’adattamento degli impianti a eventuali nuove norme in materia, specificando le norme di cui si trattava. A tale lettera le autorità competenti non davano risposta. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 303 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO 20. Il 16 novembre 1988, all’approssimarsi della scadenza del termine fissato al 31 dicembre di quello stesso anno dal terzo codice per l’erogazione degli aiuti, le autorità competenti decidevano di accordare provvisoriamente alla Lucchini un contributo in conto capitale di ITL 382,5 milioni, ovvero il 15% dell’importo degli investimenti (in luogo del 30% previsto dalla legge n. 183/76), da erogare entro il 31 dicembre 1988, come prescritto dal terzo codice. Il contributo in conto interessi veniva invece negato in quanto esso avrebbe portato l’importo totale degli aiuti accordati oltre la soglia del 15% prevista dal detto codice. Ai sensi dell’art. 6 del terzo codice, l’adozione del provvedimento definitivo di concessione dell’aiuto veniva subordinata all’approvazione della Commissione e non veniva effettuato alcun pagamento da parte delle autorità competenti. 21. La Commissione, non essendo in grado, in mancanza di chiarimenti da parte delle autorità competenti, di valutare immediatamente la compatibilità degli aiuti progettati con le norme del mercato comune, avviava nei confronti delle stesse il procedimento ex art. 6, n. 4, del terzo codice e le informava in proposito con lettera del 13 gennaio 1989. Al riguardo veniva pubblicata una comunicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 23 marzo 1990 (GU L 73, pag. 5). 22. Con telex del 9 agosto 1989 le autorità competenti fornivano informazioni supplementari riguardo agli aiuti di cui trattasi. Con lettera del 18 ottobre 1989 la Commissione comunicava a tali autorità che la loro risposta non era soddisfacente in quanto continuavano a mancare diverse informazioni. La Commissione segnalava inoltre che, in mancanza di una risposta adeguata entro il termine di quindici giorni lavorativi, essa avrebbe potuto legittimamente adottare una decisione definitiva in base alle sole informazioni in suo possesso. Quest’ultima lettera non riceveva risposta. La decisione della Commissione 90/555/CECA 23. Con decisione 20 giugno 1990, 90/555/CECA, riguardante taluni progetti di aiuti delle autorità italiane a favore delle Acciaierie del Tirreno e di Siderpotenza (N195/88 – N200/88) (GU L 314, pag. 17), la Commissione dichiarava incompatibili con il mercato comune tutti gli aiuti previsti a favore della Lucchini, ritenendo che non fosse stato dimostrato che ricorressero i presupposti necessari per la deroga di cui all’art. 3 del terzo codice. 24. La decisione veniva notificata alle autorità competenti il 20 luglio 1990 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee il 14 novembre 1990. La Lucchini non impugnava tale decisione entro il termine di un mese previsto dall’art. 33, terzo comma, del Trattato CECA. Il procedimento dinanzi al giudice civile 25. Prima dell’adozione della decisione 90/555, la Lucchini, preso atto del mancato versamento dell’aiuto, il 6 aprile 1989 citava in giudizio le autorità competenti dinanzi al Tribunale civile e penale di Roma affinché venisse dichiarato il suo diritto all’erogazione dell’intero aiuto originariamente richiesto (ovvero un contributo di ITL 765 milioni in conto capitale e di ITL 367 milioni in conto interessi). 26. Con sentenza 24 giugno 1991, dunque successivamente alla decisione 90/555, il Tribunale civile e penale di Roma dichiarava che la Lucchini aveva diritto all’erogazione dell’aiuto di cui trattasi e condannava le autorità competenti al pagamento delle somme reclamate. La sentenza si fondava interamente sulla legge n. 183/1976. Né il Trattato CECA, né il terzo o il quarto codice, né la decisione della Commissione 90/555 erano citati dalle parti dinanzi al Tribunale civile e penale di Roma e il giudice non vi faceva riferimento d’ufficio. Il IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 305 secondo codice era stato citato dalle autorità competenti, ma l’organo giurisdizionale di cui trattasi non ne aveva tenuto conto in quanto non più in vigore all’epoca dei fatti. 27. Le autorità competenti impugnavano la sentenza dinanzi alla Corte d’appello di Roma. Esse eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice civile, sostenevano che non incombeva loro alcun obbligo all’erogazione dell’aiuto e affermavano per la prima volta, in via subordinata, che tale obbligo sussisteva, in virtù dell’art. 3 del terzo codice, solo fino a concorrenza del limite del 15% dell’investimento. 28. Con sentenza 6 maggio 1994, la Corte d’appello di Roma respingeva l’appello e confermava la sentenza del Tribunale civile e penale di Roma. 29. Con nota del 19 gennaio 1995 l’Avvocatura Generale dello Stato analizzava la sentenza d’appello e concludeva per la sua correttezza tanto sotto il profilo della motivazione quanto dell’applicazione del diritto. Di conseguenza, le autorità competenti non la impugnavano in cassazione. La sentenza d’appello, non essendo stata impugnata, passava in giudicato il 28 febbraio 1995. 30. Poiché l’aiuto permaneva non versato, il 20 novembre 1995, su ricorso della Lucchini, il Presidente del Tribunale civile e penale di Roma ingiungeva alle autorità competenti di pagare gli importi dovuti alla Lucchini. Il decreto era dichiarato provvisoriamente esecutivo e nel febbraio 1996 la Lucchini, nel persistere dell’inadempimento, otteneva il pignoramento di alcuni beni del MICA, in particolare di autovetture di servizio. 31. L’8 marzo 1996, con decreto n. 17975 del direttore generale del MICA, venivano pertanto accordati alla Lucchini un contributo di ITL 765 milioni in conto capitale e di ITL 367 milioni in conto interessi, in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Roma. Il decreto precisava che tali aiuti avrebbero potuto essere revocati, in tutto in parte, tra l’altro, «in caso di decisioni comunitarie sfavorevoli in merito alla concedibilità ed erogabilità delle agevolazioni finanziarie». Il 22 marzo 1996 venivano versati tali aiuti, per un importo di ITL l 132 milioni, cui si aggiungeva la somma di ITL 601,375 milioni, corrisposta il 16 aprile 1996, a titolo di interessi legali. Lo scambio di corrispondenza tra la Commissione e le autorità italiane 32. Con nota del 15 luglio 1996 rivolta alle autorità italiane la Commissione osservava che, malgrado la decisione 90/555: «(...) a seguito di una sentenza della Corte d’Appello di Roma in data 6 maggio 1994, la quale, in spregio ai più elementari principi del diritto comunitario, avrebbe stabilito il diritto per [la Lucchini] di vedersi riconosciuta la concessione degli aiuti già dichiarati incompatibili dalla Commissione, [le autorità competenti], non avendo giudicato opportuno ricorrere in Cassazione, [hanno] concesso, nell’aprile di quest’anno, i predetti aiuti incompatibili con il mercato comune». 33. Le autorità competenti rispondevano con nota in data 26 luglio 1996 osservando che gli aiuti erano stati concessi «fatto salvo il diritto di ripetizione». 34. Con nota del 16 settembre 1996, n. 5259, la Commissione esprimeva il parere che le autorità competenti, versando alla Lucchini aiuti già dichiarati incompatibili con il mercato comune dalla decisione 90/555, avessero violato il diritto comunitario ed invitava le medesime autorità a recuperare gli aiuti di cui trattasi entro un termine di quindici giorni e a comunicarle, entro il termine di un mese, le concrete misure adottate per conformarsi a tale decisione. In caso contrario, la Commissione si proponeva di accertare l’inadempimento ai sensi dell’art. 88 del Trattato CECA ed invitava dunque le autorità competenti a presentare, entro dieci giorni lavorativi, eventuali nuove osservazioni ai sensi dell’art. 88, n. l, del Trattato CECA. La revoca dell’aiuto 35. Con decreto 20 settembre 1996, n. 20357, il MICA revocava il precedente decreto 8 marzo 1996, n. 17975, e ordinava alla Lucchini di restituire la somma di ITL 1 132 milioni, maggiorata di interessi nella misura del tasso di riferimento, nonché la somma di ITL 601,375 milioni, maggiorata della rivalutazione monetaria. Il procedimento dinanzi al giudice del rinvio 36. Con ricorso del 16 novembre 1996, la Lucchini impugnava il decreto n. 20357 dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Con sentenza 1º aprile 1999 quest’ultimo accoglieva il ricorso della Lucchini, ritenendo che la potestà della pubblica amministrazione di rimuovere i propri atti invalidi per vizi di legittimità o di merito incontrasse, nella specie, il limite costituito dal diritto all’erogazione dell’aiuto accertato dalla Corte d’appello di Roma con sentenza passata in giudicato. 37. L’Avvocatura Generale dello Stato, per conto del MICA, il 2 novembre 1999 proponeva appello dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo, in particolare, un motivo secondo il quale il diritto comunitario immediatamente applicabile, comprendente sia il terzo codice che la decisione 90/555, doveva prevalere sull’autorità di cosa giudicata della sentenza della Corte d’appello di Roma. 38. Il Consiglio di Stato constatava la sussistenza di un conflitto tra tale sentenza e la decisione 90/555. 39. Secondo il Consiglio di Stato, risulta evidente che le autorità competenti avrebbero potuto e dovuto tempestivamente eccepire l’esistenza della decisione 90/555 nel corso della controversia risolta dalla Corte d’appello di Roma, controversia nella quale, fra l’altro, si discuteva in ordine alla legittimità della mancata erogazione del contributo per la necessità di attendere l’approvazione della Commissione. In tali condizioni, avendo poi le autorità competenti rinunciato ad impugnare la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Roma, non vi sarebbe dubbio che la predetta sentenza sia passata in giudicato, e che l’area dei fatti coperta dal giudicato sia estesa alla compatibilità comunitaria della sovvenzione, quantomeno con riferimento alle decisioni comunitarie preesistenti al giudicato. Gli effetti del giudicato sarebbero quindi astrattamente invocabili anche con riguardo alla decisione 90/555, intervenuta prima della conclusione della controversia. 40. Alla luce di quanto sopra, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il processo e di sottoporre alla Corte le due questioni pregiudiziali seguenti: «1) Se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente applicabile, costituito nella specie [dal terzo codice], dalla decisione [90/555], nonché dalla [nota] n. 5259 (...), di intimazione del recupero dell’aiuto – atti tutti alla stregua dei quali è stato adottato l’atto di recupero impugnato nel presente processo (ossia il decreto n. 20357 [...]) – sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero dell’aiuto da parte dell’amministrazione interna nei confronti di un privato beneficiario, nonostante la formazione di un giudicato civile affermativo dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo. 2) Ovvero se, stante il pacifico principio secondo il quale la decisione sul recupero dell’aiuto è regolata dal diritto comunitario ma la sua attuazione ed il relativo procedimento di recupero, in assenza di disposizioni comunitarie in materia, è retta dal diritto nazionale (principio sul quale cfr. Corte di Giustizia 21 settembre 1983 in causa 205215/82 Deutsche Milchkontor [e a.], Racc. pag. 2633), il procedimento di recupero non divenga giuridicamente impossibile in forza di una concreta decisione giudiziaria, passata in cosa giudicata 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 307 (art. 2909 cod. civ.) che fa stato fra privato ed amministrazione ed obbliga l'amministrazione a conformarvisi". Sulla competenza della Corte 41. Va osservato preliminarmente che la Corte resta competente a pronunciarsi su questioni pregiudiziali relative all’interpretazione e all’applicazione del Trattato CECA, nonché degli atti emanati sulla scorta di quest’ultimo, anche qualora tali questioni le siano sottoposte dopo la scadenza del Trattato CECA. Benché, in tali circostanze, non venga più fatta applicazione dell’art. 41 del Trattato CECA per conferire una competenza alla Corte, sarebbe contrario allo scopo e alla coerenza sistematica dei Trattati nonché incompatibile con la continuità dell’ordinamento giuridico comunitario che la Corte non fosse abilitata a garantire l’uniforme interpretazione delle norme connesse al Trattato CECA che continuano a produrre effetti anche dopo la scadenza di quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza 22 febbraio 1990, causa C221/88, Busseni, Racc. pag. I495, punto 16). Del resto, la competenza della Corte a questo proposito non è stata contestata da nessuna delle parti che hanno presentato osservazioni. 42. Per altri motivi, la Lucchini contesta tuttavia la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale. Le eccezioni da essa sollevate in proposito vertono sull’insussistenza di una norma comunitaria da interpretare, sull’incompetenza della Corte ad interpretare una sentenza di un giudice nazionale o l’art. 2909 del codice civile italiano, nonché sull’ipoteticità delle questioni pregiudiziali. 43. A tale proposito, occorre ricordare che, nell’ambito di un procedimento ex art. 234 CE, basato sulla netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, ogni valutazione dei fatti di causa rientra nella competenza del giudice nazionale. Parimenti, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a pronunciarsi (v., in particolare, sentenze 25 febbraio 2003, causa C326/00, IKA, Racc. pag. I1703, punto 27, 12 aprile 2005, causa C145/03, Keller, Racc. pag. I2529, punto 33, e 22 giugno 2006, causa C419/04, Conseil général de la Vienne, Racc. pag. I5645, punto 19). 44. Tuttavia, la Corte ha altresì dichiarato che, in ipotesi eccezionali, essa può esaminare le condizioni in cui è adita dal giudice nazionale al fine di verificare la propria competenza (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 1981, causa 244/80, Foglia, Racc. pag. 3045, punto 21). Il rifiuto di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenze 13 marzo 2001, causa C379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I2099, punto 39; 22 gennaio 2002, causa C390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I607, punto 19, e Conseil général de la Vienne, cit., punto 20). 45. Occorre rilevare che così non è nel caso di specie. 46. È infatti manifesto che la presente domanda di pronuncia pregiudiziale verte su norme di diritto comunitario. Nel caso di specie si chiede alla Corte non di interpretare il diritto nazionale o una sentenza di un giudice nazionale, bensì di precisare i limiti entro i quali i giudici nazionali sono tenuti, in forza del diritto comunitario, a disapplicare il diritto nazionale. Ne risulta pertanto che le questioni sollevate sono in relazione con l’oggetto della controversia, come definito dal giudice a quo, e che la soluzione delle questioni sollevate può essere utile a quest’ultimo per consentirgli di disporre o meno l’annullamento dei provvedimenti adottati per il recupero degli aiuti di cui trattasi. 47. La Corte è pertanto competente a statuire sulla presente domanda di pronuncia pregiudiziale. Sulle questioni pregiudiziali 48. Con le questioni sollevate, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice a quo domanda in sostanza se il diritto comunitario osti all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva. 49. In tale contesto va ricordato anzitutto che, nell’ordinamento giuridico comunitario, le competenze dei giudici nazionali sono limitate sia per quanto riguarda il settore degli aiuti di Stato sia relativamente alla dichiarazione d’invalidità degli atti comunitari. Sulle competenze dei giudici nazionali in materia di aiuti di Stato 50. In materia di aiuti di Stato, ai giudici nazionali possono essere sottoposte controversie nelle quali essi siano tenuti ad interpretare e ad applicare la nozione di aiuto di cui all’art. 87, n. 1, CE, segnatamente al fine di valutare se un provvedimento statale, adottato senza seguire il procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 88, n. 3, CE, debba o meno esservi soggetto (sentenze 22 marzo 1977, causa 78/76, Steinike & Weinlig, Racc. pag. 595, punto 14, e 21 novembre 1991, causa C354/90, Fédération nationale du commerce extérieur des produits alimentaires et Syndicat national des négociants et transformateurs de saumon, Racc. pag. I5505, punto 10). Analogamente, al fine di poter determinare se una misura statale attuata senza tener conto della procedura di esame preliminare prevista dall’art. 6 del terzo codice dovesse esservi o meno assoggettata, un giudice nazionale può essere indotto a interpretare la nozione di aiuto di cui all’art. 4, lett. c), del Trattato CECA e all’art. 1 del terzo codice (v., per analogia, sentenza 20 settembre 2001, causa C390/98, Banks, Racc. pag. I6117, punto 71). 51. Per contro, i giudici nazionali non sono competenti a pronunciarsi sulla compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato comune. 52. Emerge infatti da una giurisprudenza costante che la valutazione della compatibilità con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva della Commissione, che opera sotto il controllo del giudice comunitario (v. sentenze Steinike & Weinlig, cit., punto 9; Fédération nationale du commerce extérieur des produits alimentaires et Syndicat national des négociants et transformateurs de saumon, cit., punto 14, nonché 11 luglio 1996, causa C39/94, SFEI e a., Racc. pag. I3547, punto 42). Sulle competenze dei giudici nazionali per quanto riguarda la dichiarazione d’invalidità degli atti comunitari 53. Sebbene in linea di principio i giudici nazionali possano trovarsi ad esaminare la validità di un atto comunitario, non sono però competenti a dichiarare essi stessi l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie (sentenza 22 ottobre 1987, causa 314/85, FotoFrost, Racc. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - LE DECISIONI 309 pag. 4199, punto 20). La Corte è quindi la sola competente a dichiarare l’invalidità di un atto comunitario (sentenze 21 febbraio 1991, cause riunite C143/88 e C92/89, Zuckerfabrik Süderdithmarschen e Zuckerfabrik Soest, Racc. pag. I415, punto 17, nonché 10 gennaio 2006, causa C344/04, IATAe ELFAA, Racc. pag. I403, punto 27). Del resto, tale competenza esclusiva risultava altresì esplicitamente dall’art. 41 del Trattato CECA. 54. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante, una decisione adottata dalle istituzioni comunitarie che non sia stata impugnata dal destinatario entro il termine stabilito dall’art. 230, quinto comma, CE diviene definitiva nei suoi confronti (v., in particolare, sentenze 9 marzo 1994, causa C188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, Racc. pag. I833, punto 13, e 22 ottobre 2002, causa C241/01, National Farmers’ Union, Racc. pag. I9079, punto 34). 55. La Corte ha altresì escluso la possibilità che il beneficiario di un aiuto di Stato oggetto di una decisione della Commissione direttamente indirizzata soltanto allo Stato membro in cui era residente questo beneficiario, che avrebbe potuto senza alcun dubbio impugnare tale decisione e che ha lasciato decorrere il termine perentorio all’uopo prescritto dall’art. 230, quinto comma, CE, possa utilmente contestare la legittimità della decisione dinanzi ai giudici nazionali nell’ambito di un ricorso proposto avverso i provvedimenti presi dalle autorità nazionali in esecuzione di tale decisione (citate sentenze TWD Textilwerke Deggendorf, punti 17 e 20, nonché National Farmers’ Union, punto 35). Gli stessi principi si applicano necessariamente, mutatis mutandis, nell’ambito d’applicazione del Trattato CECA. 56. Se ne deve pertanto concludere che correttamente il giudice a quo ha deciso di non sottoporre alla Corte una questione concernente la validità della decisione 90/555, decisione che la Lucchini avrebbe potuto impugnare nel termine di un mese dalla pubblicazione in forza dell’art. 33 del Trattato CECA, cosa che si è astenuta dal fare. Per gli stessi motivi non può essere accolto il suggerimento della Lucchini che chiede alla Corte, in subordine, di esaminare eventualmente d’ufficio la validità della medesima decisione. Sulla competenza dei giudici nazionali nella causa principale 57. Dalle considerazioni sin qui svolte emerge che né il Tribunale civile e penale di Roma né la Corte d’appello di Roma erano competenti a pronunciarsi sulla compatibilità degli aiuti di Stato richiesti dalla Lucchini con il mercato comune e che né l’uno né l’altro di questi organi giurisdizionali avrebbe potuto constatare l’invalidità della decisione 90/555, che aveva dichiarato tali aiuti incompatibili con il detto mercato. 58. A questo proposito, si può del resto rilevare che né la sentenza della Corte d’appello di Roma, di cui si fa valere l’autorità di cosa giudicata, né la sentenza del Tribunale civile e penale di Roma si pronunciano esplicitamente sulla compatibilità con il diritto comunitario degli aiuti di Stato richiesti dalla Lucchini e tanto meno sulla validità della decisione 90/555. Sull’applicazione dell’art. 2909 del codice civile italiano 59. Stando al giudice nazionale, l’art. 2909 del codice civile italiano osta non solo alla possibilità di dedurre nuovamente, in una seconda controversia, motivi sui quali un organo giurisdizionale si sia già pronunciato esplicitamente in via definitiva, ma anche alla disamina di questioni che avrebbero potuto essere sollevate nell’ambito di una controversia precedente senza che ciò sia però avvenuto. Da siffatta interpretazione della norma potrebbe conseguire, in particolare, che a una decisione di un giudice nazionale vengano attribuiti effetti che eccedono i limiti della competenza del giudice di cui trattasi, quali risultano dal diritto comunitario. Come ha osservato il giudice a quo, è chiaro che l’applicazione di tale norma, così interpretata, impedirebbe nel caso di specie l’applicazione del diritto comunitario in quanto renderebbe impossibile il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto comunitario. 60. In tale contesto va ricordato che spetta ai giudici nazionali interpretare le disposizioni del diritto nazionale quanto più possibile in modo da consentirne un’applicazione che contribuisca all’attuazione del diritto comunitario. 61. Risulta inoltre da una giurisprudenza costante che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (v., in particolare, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punti 2124; 8 marzo 1979, causa 130/78, Salumificio di Cornuda, Racc. pag. 867, punti 2327, e 19 giugno 1990, causa C213/89, Factortame e a., Racc. pag. I2433, punti 1921). 62. Come dichiarato al punto 52 della presente sentenza, la valutazione della compatibilità con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti è di competenza esclusiva della Commissione, che agisce sotto il controllo del giudice comunitario. Questo principio è vincolante nell’ordinamento giuridico nazionale in quanto corollario della preminenza del diritto comunitario. 63. Le questioni sollevate vanno pertanto risolte nel senso che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva. Sulle spese 64. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva». 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Causa C-462/06 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale – Art. 6, n. 1 e art. 1 del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/01 – Ordinanza del 7 novembre 2006, depositata in data 20 novembre 2006, notificata il 2 marzo 2007, della Cour de cassation, chambre sociale – Francia (cs. 12453/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO La questione pregiudiziale è sorta in una causa proposta da un lavoratore dipendente dinanzi al giudice di uno Stato membro (Francia) contro due società appartenenti al medesimo gruppo e di cui una – quella che ha assunto per prima il dipendente, rifiutando successivamente di reintegrarlo – è domiciliata in tale Stato membro e l’altra, per il quale l’interessato ha lavorato successivamente e che l’ha licenziato, è domiciliata in un altro Stato membro (Regno Unito). In particolare, l’attore ha chiesto di condannare in solido le due società che, in base ad una clausola del suo contratto di lavoro erano da considerarsi sue co-datrici di lavoro, al risarcimento danni a titolo di indennità per il licenziamento. IL QUESITO Se la norma sulla competenza speciale di cui all’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in forza del quale una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta, ‘in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni incompatibili’, sia applicabile alla causa intentata da un dipendente dinanzi al giudice di uno Stato membro contro due società appartenenti al medesimo gruppo e di cui una – quella che ha assunto il dipendente per il gruppo rifiutando successivamente di reintegrarlo – è domiciliata in tale Stato membro e l’altra, per il conto della quale l’interessato ha lavorato da ultimo in stati terzi e che l’ha licenziato, è domiciliata in un altro Stato membro, posto che l’attore invoca una clausola del contratto di lavoro per sostenere che le due convenute erano sue co-datrici di lavoro, alle quali egli chiede il risarcimento per il licenziamento, o se invece l’art. 18, n. 1, del regolamento, in forza del quale, in materia di contratti individuali di lavoro, la competenza è discipli- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA CE nata dalla sezione 5, capo II, escluda l’applicazione dell’art. 6, n. 1, cosicché ognuna delle due società dev’essere convenuta dinanzi al giudice dello Stato membro in cui è domiciliata. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «(…) Il giudice di primo grado (conseil des prud’hommes), su richiesta delle società convenute, si è dichiarato incompetente. Il giudice di secondo grado ha invece accolto il ricorso con il quale l’attore ha contestato la summenzionata decisione, rinviando le parti dinanzi al giudice di primo grado ritenuto dotato di competenza giurisdizionale. Il Giudice rimettente (Cassazione francese) ha ritenuto di non poter decidere la controversia, senza aver prima sottoposto alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la sopra esposta questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001. In particolare, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di chiarire se alla controversia in oggetto debba applicarsi l’art. 6, n. 1 del succitato regolamento o se invece l’art. 18, in forza del quale in materia di contratti di lavoro individuali la competenza è disciplinata dalla sezione 5, capo II, dello stesso regolamento, escluda l’applicazione dell’art. 6, n. 1, comportando che ognuna delle due società debba essere convenuta dinanzi ad un giudice dello Stato membro in cui è domiciliata. Ai sensi dell’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) n. 44/2001, una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta, “in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni incompatibili”. L’art. 18, n. 1, sezione 5, capo II dello stesso regolamento stabilisce invece che, “salva l’applicazione dell’art. 4 e l’art. 5, punto 5, la competenza in materia di contratti di lavoro individuali è disciplinata dalla presente sezione”. Ai sensi dell’art. 19, “il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno Stato membro può essere convenuto: davanti a giudici dello Stato membro in cui è domiciliato, o, in un altro Stato membro: a) davanti al giudice del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente, o, b) qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese, davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto”. Ciò premesso, il Governo italiano ritiene che l’art. 6 n. 1 del regolamento, che consente di convenire presso uno stesso giudice più convenuti domiciliati in Stati membri diversi in caso di connessione tra le domande proposte nei loro confronti, trovi applicazione anche in caso di contratto di lavoro benché questo sia autonomamente disciplinato dalla sezione 5 dello stesso regolamento. 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Infatti, benché l’art. 18 in materia di contratti individuali di lavoro stabilisca che la competenza è disciplinata dalla sezione 5, capo II, dello stesso regolamento, facendo salve solo le disposizioni contenute negli artt. 4 e 5, n. 5, va in ogni caso considerato che, la regola prevista dall’art. 6, n. 1, rappresenta un criterio di modificazione della competenza per ragioni di connessione che rendono “opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni incompatibili”. Si tratta di una norma che stabilisce un criterio di individuazione della competenza giurisdizionale eccezionale rispetto a quello generale del domicilio del convenuto di cui all’art. 2 dello stesso Regolamento, con un campo di applicazione “trasversale”, in quanto le ragioni ispiratrici (opportuna trattazione e decisione unica per evitare il rischio di giudicati incompatibili) possono riguardare tutti i tipi di controversie, non escluse quelle in materia di lavoro. Nella specie, l’art. 6, comma 1, del Regolamento citato giustifica l’eventualità che, in una controversia in cui siano presenti più convenuti, uno di essi possa essere distolto dal suo giudice naturale e citato dinanzi al giudice dello Stato in cui l’altro convenuto ha il domicilio, esclusivamente nell’ipotesi in cui tra le cause sussista un vincolo di connessione tale da rendere opportuna una trattazione e una decisione unica per evitare soluzioni che potrebbero essere tra loro contrastanti se le cause fossero decise separatamente (in questi termini sentenza 27 ottobre 1998, causa C-51/97, Réunion européenne e altri). A tal fine appare sufficiente rilevare che, stante l’identità del petitum tra le domande, qualora le due controversie fossero separatamente instaurate dinanzi a giudici diversi, l’attore potrebbe anche ottenere due diverse pronunce favorevoli e, pertanto, conseguire per ben due volte la medesima indennità di licenziamento. Alla luce di tali considerazioni, se è vero che, in base al dato meramente testuale, per le controversie relative ai contratti individuali di lavoro la competenza va individuata ai sensi delle norme della sezione 5, del Regolamento in questione, che fanno salva l’applicazione dei soli articoli 4 e 5 n. 5 e non anche dell’art. 6 n. 1, deve tuttavia ritenersi che tale ultima disposizione costituisca un principio generale applicabile a tutte le controversie con una pluralità di parti e riguardanti domande con un nesso così stretto da renderne opportuna una trattazione unica. Nella fattispecie in esame è pacifico che, in base all’art. 13 del contratto di lavoro, la società con sede nel Regno Unito, che ha assunto il dipendente a decorrere dal 1 aprile 1984 senza soluzione di continuità rispetto all’impiego alle dipendenze della società con sede in Francia appartenente al medesimo gruppo, ha riconosciuto i diritti di anzianità del dipendente sin dal 1977 come se il suo impiego presso quest’ultimo datore di lavoro non si fosse mai interrotto, precisando che i diritti attribuiti al dipendente stesso in forza del primo contratto di lavoro, ivi compresa l’indennità in caso di licenziamento, permangono anche ai sensi del secondo contratto. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 313 Appare evidente quindi la stretta correlazione delle domande proposte nei confronti dei due convenuti, domiciliati in due diversi Stati membri, che suggerisce di concludere per una loro trattazione unitaria innanzi ad uno stesso giudice in applicazione dell’art. 6, n. 1 del regolamento. Diversamente opinando, nelle controversie di lavoro i due giudici aditi potrebbero pervenire a soluzioni completamente incompatibili tra di loro, con conseguente pregiudizio della certezza del diritto. Non vi è, quindi, motivo per non ritenere che, anche le controversie con una pluralità di convenuti aventi ad oggetto un rapporto di lavoro dipendente debbano essere trattate da un unico giudice scelto sulla base del combinato disposto degli artt. 6 e 19 del summenzionato regolamento. Trattandosi di competenza derogatoria rispetto alla regola generale del domicilio del convenuto, in linea di principio la norma dovrebbe considerarsi di stretta interpretazione. L’estensione analogica della disposizione in questione si giustifica però in ragione della posizione debole del lavoratore rispetto a quella del datore di lavoro e quindi sulla base di altro principio affermato dalla giurisprudenza comunitaria in base al quale la funzione di tutela del contraente ritenuto economicamente più debole e giuridicamente meno esperto implica che le norme sulla competenza speciale possano essere estese a favore di quelle persone per le quali tale protezione appare giustificata (argomentando a contrario rispetto a quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza del 26 maggio 2005, causa C-77/04, che ha invece escluso l’estensione analogica di un criterio di competenza eccezionale nei rapporti tra due imprese di assicurazione). Appare incontestabile nel caso di specie, oltre all’interesse generale a scongiurare la possibilità di decisioni contrastanti su domande strettamente collegate, l’esigenza di favorire il lavoratore nel consentirgli di proporre analoghe domande nei confronti di più datori di lavoro appartenenti al medesimo gruppo innanzi allo stesso giudice anziché innanzi a più giudici diversi. In applicazione di tali principi, entrambe le domande andranno proposte e trattate da un solo giudice individuato ai sensi dell’articolo 6 n. 1 con possibilità di attrarre presso il giudice del luogo così individuato anche la domanda che, in base al criterio generale del domicilio del convenuto, avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice di un altro Stato membro. In subordine, deve ritenersi che anche volendo escludere, sulla base del mero dato letterale, l’applicazione dell’art. 6, n. 1 del regolamento anche le norme previste dalla sezione 5 conducono nella fattispecie alla medesima conclusione. In particolare, l’art. 19, n. 2 lett. b) prevede che il lavoratore che non abbia svolto la propria attività in un solo paese, come è il caso del ricorrente nella causa principale, possa convenire il datore di lavoro davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto. Anche tale norma risponde all’esigenza di favorire la parte del rapporto ritenuta più debole, consentendole di adire un unico giudice qualora l’attivi- 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO tà lavorativa sia stata svolta in più paesi ed indicando il luogo in cui il lavoratore è stato assunto che, nel caso di specie è da individuarsi in Francia. Anche in applicazione di tale norma quindi, legittimamente il lavoratore ha convenuto anche la seconda società appartenente al medesimo gruppo e domiciliata nel Regno Unito innanzi al giudice francese. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che la norma sulla competenza speciale di cui all’art. 6, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001, in forza della quale una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta, in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato, sempre che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni incompatibili, sia applicabile alla causa intentata da un dipendente dinanzi al giudice di uno Stato membro contro due società appartenenti al medesimo gruppo e di cui una – quella che ha assunto il dipendente per il gruppo rifiutando successivamente di reintegrarlo – è domiciliata in tale Stato membro e l’altra per conto della quale l’interessato ha lavorato da ultimo in stati terzi e che l’ha licenziato, è domiciliata in un altro Stato membro, posto che l’attore invoca una clausola del contratto di lavoro per sostenere che le due convenute erano sue co-datrici di lavoro, alle quali egli chiede il risarcimento per il licenziamento. In subordine, deve ritenersi che anche in applicazione dell’art. 19, n. 2 lett. b) il lavoratore che non abbia svolto la propria attività in un solo paese possa convenire il datore di lavoro davanti al giudice del luogo in cui è situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto. Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-463/06 (domanda pregiudiziale) – Competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale – Art. 9, n. 1 lett. b, del regolamento (CE) del Consiglio del 22 dicembre 2000, n. 44/2001 – Ordinanza del 26 settembre 2006, depositata il 20 novembre 2006, notificata il 2 marzo 2007, del Bundesgerichtshof – Germania (cs. 12788/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO Il ricorrente, domiciliato in Germania, ha agito nei confronti di una compagnia assicurativa con sede in Olanda, per chiedere il risarcimento dei danni conseguenti un incidente automobilistico avvenuto in Olanda, provocato da un assicurato della compagnia convenuta. Il giudice di primo grado, del luogo del domicilio del ricorrente, ha dichiarato l’azione irricevibile per difetto di giurisdizione in capo ai giudici tedeschi; la decisione è stata riformata dai giudici di appello che hanno affermato la giurisdizione del giudice del luogo di residenza del danneggiato. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 315 Proposto dalla compagnia assicurativa ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, è stata sollevata la questione pregiudiziale. IL QUESITO Se il rinvio effettuato nell’articolo 11, n. 2, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (in prosieguo il regolamento) all’articolo 9, n. 1, lett. b), del regolamento debba essere inteso nel senso che la persona lesa può proporre un’azione diretta contro l’assicurazione dinanzi al giudice del luogo dello Stato membro in cui è domiciliata, qualora una siffatta azione diretta sia consentita e l’assicuratore sia domiciliato nel territorio di uno Stato membro. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «(…) La disciplina regolamentare in materia assicurativa, quasi identica a quella contenuta nella Convenzione di Bruxelles, stabilisce, nei casi in cui sia l’assicurato ovvero il contraente o il beneficiario della polizza a promuovere l’azione nei confronti dell’assicuratore, la possibilità di convenire in giudizio l’assicuratore oltre che dinanzi ai giudici dello Stato in cui quest’ultimo è domiciliato (articolo 9, n. 1 lett. a)), anche davanti al giudice del luogo in cui è domiciliato l’attore, per i casi in cui l’assicuratore abbia il domicilio in uno Stato membro (articolo 9, n. 1, lett. b) del regolamento). A fronte di tali previsioni, che coprono tutti i settori assicurativi, il regolamento contempla alcuni fori supplementari, per quanto di interesse, con riferimento all’ipotesi di assicurazione della responsabilità civile, prevedendo che sia competente anche il giudice del luogo in cui si è verificato l’evento dannoso (articolo 10) nonché il giudice presso il quale è stata proposta l’azione esercitata dalla persona lesa contro l’assicurato (articolo 11, n. 1). L’articolo 11, n. 2 dispone che sono applicabili all’azione diretta proposta dalla persona lesa contro l’assicuratore gli articoli 8, 9 e 10. La Corte rimettente espone che in Germania vi sono due diverse interpretazioni dell’articolo 11 n. 2, nella parte in cui rinvia all’articolo 9, n. 1, lettera b) del regolamento che dispone testualmente: “L’assicuratore domiciliato nel territorio di uno Stato membro, può essere convenuto: ... b) in un altro Stato membro, davanti al giudice del luogo in cui è domiciliato l’attore qualora l’azione sia proposta dal contraente dell’assicurazione, dall’assicurato o da un beneficiario”. Secondo la tesi dominante le norme dovrebbero essere interpretate nel senso di negare la competenza giurisdizionale del foro del domicilio della persona lesa, in quanto l’azione diretta non rientrerebbe nella materia assicurativa, ai sensi dell’articolo 8 del regolamento, poiché nel diritto internazionale privato tedesco, l’azione diretta corrisponde ad un’azione per fatto illecito extracontrattuale ed è sottoposta al relativo statuto, mentre l’articolo 9, n. 1 lettera b) del regolamento sarebbe applicabile, secondo la sua formula- 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zione e la sua collocazione sistematica, soltanto alla materia assicurativa e dunque rientrerebbe nell’ambito contrattuale. Applicando tali presupposti, “il beneficiario” nell’ambito di un contratto di assicurazione sarebbe soltanto il soggetto che beneficia del contratto assicurativo e non la persona lesa dal sinistro stradale. Tale interpretazione, non sarebbe condivisa, da quella parte della dottrina tedesca che ritiene che il rinvio dell’articolo 11, n. 2, all’articolo 9, n. 1 lett. b) del regolamento dovrebbe far affermare la giurisdizione in capo al giudice del domicilio della persona lesa. I giudici rimettenti, dichiarandosi favorevoli a questa interpretazione affermano che la stessa sarebbe conforme alla volontà del legislatore e risulterebbe chiaramente espressa nel considerando 16 bis della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, 2005/14/CE, che integra la direttiva 16 maggio 2000, n. 2000/26/CE in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, nel quale si legge: “Ai sensi del combinato disposto dell’articolo 11, paragrafo 2, e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale ... la parte lesa può citare in giudizio l’assicuratore della responsabilità civile nello Stato membro in cui essa è domiciliata”. Alla luce di questa disposizione la persona lesa dovrebbe essere equiparata al “beneficiario”. Ciò premesso, il Governo italiano ritiene che al quesito posto alla Corte debba darsi risposta positiva alla luce dell’intera disciplina comunitaria. Nel regolamento in esame, le norme sulla competenza sono ispirate all’esigenza di proteggere la parte socialmente più debole e pertanto l’applicazione di queste disposizioni, come più volte ribadito dalla Corte di Giustizia, deve essere compiuta ispirandosi a tale canone ermeneutico (cfr. sentenza 14 luglio 1983, in causa 201/82, Gerling nella quale la Corte di giustizia, con riferimento alle norme sulla competenza in materia di assicurazione della Convenzione di Bruxelles, ha affermato la necessità di interpretarle nell’ottica di tutelare il soggetto più debole). Inoltre, per avvalorare questa posizione, deve richiamarsi il considerando n. 13 del regolamento, nel quale è espressamente indicato che nei contratti di assicurazione, come in quelli di consumo e di lavoro, è “opportuno tutelare la parte più debole con norme in materia di competenza più favorevoli ai suoi interessi rispetto alle regole generali”. Nel caso di specie, parte debole è il danneggiato e negli ordinamenti in cui è riconosciuta la possibilità di azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione del danneggiante, negare la possibilità per la parte lesa di agire in giudizio dinanzi al giudice del luogo del proprio domicilio significherebbe privare, in questo tipo di rapporto, la parte debole della particolare tutela riconosciuta del regolamento. Anche da punto di vista letterale, inoltre, l’articolo 11 n. 2 del regolamento dispone, come detto, che sia applicabile all’azione diretta proposta IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 317 dalla persona lesa contro l’assicuratore (negli ordinamenti che consentono tale azione) l’intero articolo 9. Al riguardo, come correttamente rilevato dall’ordinanza di rimessione, atteso che il rinvio contenuto nell’art. 11 n. 2 determina l’applicazione alla persona lesa della disciplina di cui all’art. 9 in ordine al luogo in cui l’assicuratore può essere convenuto in giudizio, non è necessario che detta parte lesa sia espressamente menzionata tra i soggetti che rivestono la qualità di “attore”. La finalità della norma è appunto quella distendere anche al danneggiato la disciplina prevista per “l’attore” che sia contraente, assicurato o beneficiario. Peraltro, l’interpretazione della dottrina dominante tedesca, secondo la quale nel diritto internazionale privato tedesco, l’azione diretta corrisponde ad un’azione per fatto illecito extracontrattuale ed è sottoposta al relativo statuto, mentre l’articolo 9, n. 1 lettera b) del regolamento sarebbe applicabile, secondo la sua formulazione e la sua collocazione sistematica, soltanto alla materia assicurativa e dunque rientrerebbe nell’ambito contrattuale, non è condivisibile poiché la disciplina contenuta nel regolamento concernente l’esigenza di tutelare la parte debole del rapporto, essendo collocata in una fonte sovraordinata, prevarrebbe comunque rispetto alle disposizioni non conformi contenute nella legge di diritto internazionale privato di uno Stato membro. Anche la legislazione italiana prevede la possibilità di esperire azione diretta da parte del danneggiato per sinistri causati dalla circolazione di veicoli o natanti, nei confronti dell’assicuratore per il risarcimento del danno (articolo 144 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, codice delle assicurazioni private). Il richiamato codice delle assicurazioni private però, pur contenendo un capo (capo V, articolo 151 e ss.) relativo al risarcimento del danno derivante da sinistri avvenuti all’estero, non detta norme sulla giurisdizione o sulla competenza. Nella giurisprudenza italiana non si rinvengono precedenti editi relativi alla fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia. Deve rilevarsi, tuttavia, come la dottrina sia unanimamente concorde nell’affermare che il criterio di collegamento che consente di convenire l’assicuratore che ha sede in un altro Stato membro, davanti al giudice del luogo in cui è domiciliato l’attore “può essere utilizzato anche dalla parte lesa che agisce in confronto dell’assicuratore con l’azione diretta” (cfr. P. VITTORIA, La competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, 2005, pag. 177 ss.; F.P. MANSI, Il giudice italiano e le controversie europee, 2004, pag. 184 e ss.; G. CAMPEIS, A. DE PAULI, La disciplina europea del processo civile italiano, 2005, pag. 118 e ss.). In conclusione, dall’esame complessivo della normativa comunitaria (formulazione degli articoli 9 e 11 del regolamento; considerando n. 13 del regolamento; sentenza della Corte di Giustizia Gerling; considerando n. 16 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO bis della direttiva 2005/14/CE che, nelle premesse di un atto normativo comunitario, successivo rispetto all’emanazione del regolamento, sembra ritenere pacifica l’interpretazione dell’art. 11, paragrafo 2, nel senso che la parte lesa possa citare in giudizio l’assicuratore nello Stato membro in cui essa è domiciliata), pare potersi concludere nel senso che il rinvio dell’art. 11 n. 2 all’art. 9 n. 1 lett. b) sia da intendersi anche al soggetto danneggiato. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito affermando che il rinvio effettuato nell’articolo 11, n. 2, del regolamento n. 44/2001/CE all’articolo 9, n. 1, lett. b) dello stesso regolamento debba essere inteso nel senso che la persona lesa può proporre un’azione diretta contro l’assicurazione dinanzi al giudice del luogo dello Stato membro in cui è domiciliata, qualora una siffatta azione diretta sia consentita e l’assicuratore sia domiciliato nel territorio di uno Stato membro. Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-14/07 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Notificazione e comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale – Art. 8, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 29 maggio 2000, n. 1348 – Ordinanza del 21 dicembre 2006, depositata il 22 gennaio e notificata il 2 marzo 2007, del Bundesgerichtshof – Germania (cs. 12789/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO L’attrice, una società tedesca, ha notificato un atto di citazione alla convenuta, una società inglese, per il risarcimento del danno derivante dall’esecuzione di un contratto avente ad oggetto un progetto edilizio che la convenuta avrebbe dovuto realizzare per la città di Berlino. Nel contratto era stato stabilito che il progetto sarebbe stato redatto in lingua tedesca e che la corrispondenza tra le parti e le istituzioni pubbliche sarebbe avvenuta in lingua tedesca. La convenuta si è rifiutata di ricevere la notifica dell’atto di citazione in quanto solo questo e non anche gli allegati erano stati tradotti in lingua inglese. L’articolo 8, par. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 29 maggio 2000, n. 1348 consente infatti al destinatario della notificazione di rifiutare di ricevere l’atto oggetto della notificazione qualora questo sia redatto in una lingua diversa da una delle seguenti: a) la lingua ufficiale dello Stato membro richiesto, oppure, qualora lo Stato membro richiesto abbia più lingue ufficiali, la lingua o una delle lingue del luogo in cui deve essere eseguita la notificazione; b) una lingua dello Stato membro mittente compresa dal destinatario. I QUESITI 1.- Se l’articolo 8, par. 1, del regolamento (CE) del Consiglio del 29 maggio 2000, n. 1348, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 319 Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, debba essere interpretato nel senso che il destinatario non può rifiutare di ricevere l’atto oggetto di una notificazione se i relativi allegati sono redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente compresa dal destinatario; 2.- In caso di soluzione negativa, se l’art. 8, par. 1, lett. b) del regolamento debba essere interpretato nel senso che il destinatario comprende la lingua dello Stato membro mittente allorquando abbia già convenuto con l’istante, nell’esercizio della propria attività commerciale, che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua; 3.- In caso di ulteriore soluzione negativa, se l’art. 8, par. 1, del regolamento debba essere interpretato nel senso che esso non legittima il rifiuto di ricevere documenti allegati all’atto notificato che siano redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto (ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente compresa dal destinatario), se nell’esercizio della sua attività commerciale egli ha convenuto e stipulato che la corrispondenza sia scambiata nella lingua dello Stato mittente e gli allegati notificati rientrino in questo scambio di corrispondenza e siano redatti in quella lingua. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «(…) Il Governo italiano ritiene, in ordine al primo quesito, che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che il destinatario può rifiutare di ricevere l’atto oggetto di una notificazione se i relativi allegati sono redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una lingua dello Stato mittente compresa dal destinatario. La predetta norma, che impone di tradurre l’atto da notificare in una lingua compresa dal destinatario della notificazione, è volta a tutelare gli interessi di quest’ultimo (considerando n. 10 del regolamento n. 1348/2000/CE), consentendogli di conoscere il contenuto della domanda e delle ragioni su cui essa si fonda e di predisporre le proprie eventuali difese nel modo che ritenga più opportuno. Se lo scopo della norma è quello di assicurare l’esercizio del diritto di difesa e di rendere effettiva la garanzia del contraddittorio tra le parti, al fine di darne piena attuazione occorrerà interpretarla nel senso che l’onere della traduzione non investe soltanto l’atto giudiziario o stragiudiziale che viene notificato, ma anche tutti i documenti ad esso allegati e contestualmente notificati. Un dato testuale sembra sorreggere questa interpretazione. L’articolo 8, par. 2, del regolamento stabilisce che, qualora il destinatario rifiuti di ricevere l’atto a norma del par. 1, l’organo che cura la notificazione restituisce al mittente “la domanda e i documenti di cui si chiede la traduzione”. L’uso del sostantivo plurale consente di ritenere che la traduzione richiesta nelle ipotesi contemplate dall’articolo 8, par. 1, deve essere completa, riguardando tutti i documenti di cui si chiede la notificazione, e cioè l’atto giudiziario o stragiudiziale con i relativi allegati. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Al destinatario della notificazione deve quindi essere riconosciuto il diritto di rifiutare l’atto anche quando i requisiti di traduzione previsti dall’art. 8, par. 1, del regolamento non siano soddisfatti limitatamente ad uno o più documenti allegati. Troveranno peraltro applicazione anche ai documenti allegati i principi espressi da Corte di giustizia, 8 novembre 2005, causa C-443, Leffler, secondo cui l’articolo 8, par. 1, del regolamento va interpretato nel senso che qualora il destinatario di un atto lo abbia rifiutato perché non redatto in una lingua ufficiale dello Stato membro richiesto o in una lingua dello Stato membro mittente che il destinatario comprende, il mittente ha la possibilità di rimediarvi inviando la traduzione dell’atto ovvero, come in questo caso, dei documenti ad esso allegati. È vero che nel formulario allegato al citato regolamento, da utilizzare per le istanze di notifica in altri Stati membri ex art. 4, n. 3, sono richieste indicazioni sul tipo di atto e sulla lingua da utilizzare solo con riferimento all’atto notificando e non anche in relazione ai suoi allegati, per i quali è sufficiente che ne sia indicato il numero. È anche vero però che, secondo il diritto tedesco, gli allegati cui l’attore si riferisce nell’atto di citazione fanno parte integrante dell’atto notificando e costituiscono un unicum tanto che se l’atto viene notificato senza gli allegati la notifica è da ritenersi nulla. Ne deriva che il pieno rispetto del principio del contraddittorio non può essere garantito che richiedendo la traduzione di tutti gli atti e documenti notificati al fine di rendere intelligibile al destinatario ogni elemento della domanda, ivi compresi i documenti allegati all’atto di citazione e solo parzialmente riprodotti in quest’ultimo, sui quali la domanda medesima si fonda e che non fossero previamente noti al convenuto, come è stato accertato nel caso di specie dal giudice del rinvio pregiudiziale. In ordine al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 8, n. 1 lett. b) del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che non si può presumere che il destinatario comprenda la lingua dello Stato membro mittente solo perché ha convenuto e stipulato con l’istante, nell’esercizio della sua attività commerciale, che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua. Il potere di rifiutare un atto redatto in una lingua diversa da quella conosciuta dal destinatario della notificazione non sembra possa venir meno per il solo fatto che le parti abbiano convenuto di utilizzare quella lingua nello scambio della loro corrispondenza. Va in primo luogo escluso che tale convenzione costituisca un elemento indiziario certo ed univoco su cui fondare una presunzione legale di conoscenza di quella lingua da parte del destinatario della notificazione. Questi infatti potrebbe semplicemente essersi assunto l’onere di far tradurre i documenti redatti nella lingua dell’altro contraente, a lui sconosciuta. Non può quindi ritenersi senz’altro soddisfatto il requisito di cui all’articolo 8. par. 1, lett b), che consente di notificare l’atto in una lingua dello Stato membro mittente che sia “compresa dal destinatario”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 321 Al riguardo è lecito dubitare del fatto che gli accordi sulla scelta convenzionale di una lingua possano vincolare il contraente all’uso della stessa anche nella fase patologica del rapporto contrattuale, soprattutto allorquando il conflitto tra le parti si trasferisca in sede giurisdizionale, facendo sorgere la necessità di attuare in modo pieno il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio cui è finalizzata la disposizione contenuta nell’articolo 8, par. 1 del regolamento. Sembra quindi difficile sostenere che la clausola contrattuale sull’uso di una lingua possa produrre gli effetti di una rinuncia preventiva del contraente ad avvalersi della garanzia prevista dall’articolo 8, par. 1 del regolamento che gli assicura di ricevere un atto giudiziario o stragiudiziale che sia tradotto, unitamente ai suoi allegati, in una lingua da lui compresa. L’esclusione di una presunzione legale di conoscenza della lingua da parte del destinatario della notificazione non preclude comunque al giudice nazionale di accertare caso per caso se, alla luce degli accordi negoziali intervenuti tra le parti e di altri elementi indizianti, possa essere affermato con una ragionevole certezza e nel rispetto del principio della buona fede che l’atto notificato deve ritenersi redatto in una lingua che il destinatario comprende. In ordine al terzo quesito, il Governo italiano ritiene che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che esso legittima, in ogni caso, il destinatario a rifiutare di ricevere allegati in lingua diversa da quella ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente da lui compresa anche se, nell’esercizio della sua attività commerciale, egli ha convenuto e stipulato che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua. Il giudice del rinvio si chiede se la tutela del destinatario, cui è deputata la norma di cui all’art. 8 n. 1 del regolamento, debba ritenersi prioritaria in ogni caso o solo in presenza di contratti transnazionali tra esercenti attività commerciali e consumatori finali nei quali sia stabilito che la corrispondenza sia scambiata nella lingua dell’imprenditore, in ragione della particolare posizione del consumatore che si configura come soggetto debole rispetto all’imprenditore e che necessita di speciale tutela. In realtà, sebbene il regolamento n. 1348/2000/CE sia finalizzato alla semplificazione ed accelerazione della procedura di notificazione degli atti in materia civile o commerciale per favorire il buon funzionamento del mercato interno (secondo considerando), le esigenze di garanzia del principio del contraddittorio e del diritto di difesa non possono comunque essere compresse nemmeno nei rapporti tra due esercenti attività commerciale, come nella fattispecie in esame. Il rifiuto di ricevere la notificazione potrebbe considerarsi “abusivo” solo nel caso in cui gli allegati siano integralmente trascritti nell’atto giudiziario tradotto nella lingua del destinatario o qualora i medesimi allegati siano già noti nel loro complesso al destinatario, a prescindere dalla notificazione, in quanto rientranti interamente nello scambio di corrispondenza avvenuta tra le parti, per loro volontà effettuata nella lingua dello Stato mittente. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Entrambe queste due condizioni non si sono però verificate nel caso di specie, come appurato dal giudice del rinvio e pertanto il rifiuto del destinatario di ricevere l’atto deve ritenersi legittimo. Sotto tale profilo, la seconda parte del terzo quesito, presupponendo circostanze di fatto che sono state escluse dal giudice del rinvio, deve ritenersi irricevibile perché irrilevante ai fini della decisione. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito affermando che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che il destinatario può rifiutare di ricevere l’atto oggetto di una notificazione se i relativi allegati sono redatti in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una lingua dello Stato mittente compresa dal destinatario. Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito affermando che l’art. 8, n. 1 lett. b) del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che non si può presumere che il destinatario comprenda la lingua dello Stato membro mittente solo perché ha convenuto e stipulato con l’istante, nell’esercizio della sua attività commerciale, che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua. Il Governo Italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il terzo quesito affermando che l’art. 8, n. 1 del regolamento n. 1348/2000/CE debba essere interpretato nel senso che esso legittima, in ogni caso, il destinatario a rifiutare di ricevere allegati in lingua diversa da quella ufficiale dello Stato membro richiesto ovvero da una delle lingue dello Stato membro mittente da lui compresa anche se, nell’esercizio della sua attività commerciale, egli ha convenuto e stipulato che la corrispondenza sia scambiata in quella lingua. Roma, 14 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-68/07 (domanda di pronuncia pregiudiziale) – Regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201 – Ordinanza del 7 febbraio 2007, depositata in data 12 febbraio 2007, notificata il 21 marzo 2007, del Högsta Domstolen – Svezia (cs. 14222/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO La vicenda riguarda il contenzioso sorto in merito alla sussistenza della giurisdizione del giudice svedese in ordine alla causa di divorzio intentata da una cittadina svedese residente in Francia, sposata con un cittadino cubano residente a Cuba, considerando che la vita matrimoniale si era svolta in Francia, dove la coppia, durante la convivenza coniugale, aveva avuto la residenza comune. IL QUESITO Nel caso in cui il convenuto in una causa di divorzio non abbia la sua residenza abituale nel territorio di uno Stato membro e non sia neppure cittadino di uno Stato membro, se l’istanza di divorzio possa essere esaminata IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 323 da un giudice di uno Stato membro che non è competente ai sensi dell’art. 3 del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, anche se un giudice di un altro Stato membro può essere competente in applicazione di una delle norme di competenza indicate dall’art. 3. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA « (...) Le norme che entrano in gioco (e in apparente conflitto) a proposito della determinazione del giudice competente sono: – gli artt. 3 (Competenza generale in materia di divorzio), 6 (Carattere esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli 3, 4 e 5), 7 (Competenza residua) del regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, che individua i criteri per la determinazione della competenza delle autorità giurisdizionali degli Stati membri sulle questioni inerenti al divorzio, alla separazione personale dei coniugi e all’annullamento del matrimonio, in base alle quali nella fattispecie in esame sussisterebbe la giurisdizione del giudice francese; – l’art. 2, n. 2 del capo 3 della legge svedese su determinati rapporti giuridici internazionali riguardanti il matrimonio e la tutela, in base al quale sarebbe competente il giudice svedese. Infatti, applicando l’articolo 3 del regolamento 2201/2003 la causa di divorzio potrebbe essere correttamente intentata solo avanti al giudice francese, atteso che l’attrice pur essendo svedese risiede in Francia da oltre un anno; si realizza pertanto l’ipotesi di cui al comma 1, lett. a, secondo alinea (ultima residenza abituale dei coniugi, in cui uno di essi risiede ancora), nonché l’ipotesi di cui al comma 1, lett. a, quinto alinea (residenza abituale dell’attore se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda). In base alla norma di conflitto svedese la causa potrebbe invece validamente incardinarsi avanti al giudice svedese, competente se il ricorrente è un cittadino svedese e ha la sua residenza abituale in Svezia o ha avuto in passato la sua residenza in Svezia a partire al compimento del diciottesimo anno di età. Ciò premesso, la Suprema Corte svedese chiede alla Corte di Giustizia se il complesso delle norme contenute nel regolamento 2201/2003/CE non consenta di incardinare la causa di divorzio davanti al giudice di uno Stato membro diverso da quello individuabile attraverso i criteri di cui all’articolo 3, allorché il convenuto non abbia la residenza abituale nel territorio di uno Stato membro e non sia neppure cittadino di uno Stato membro. Così inquadrato l’oggetto del rinvio pregiudiziale, si osserva che effettivamente l’attuale configurazione delle norme del regolamento 2201/2003/CE rende dubbia la soluzione in una vicenda quale quella segnalata dal giudice svedese. L’incertezza deriva dal tenore dell’articolo 6 del regolamento che, intitolato “Carattere esclusivo della competenza giurisdizionale di cui agli articoli 3, 4 e 5”, stabilisce che il coniuge che risiede abitualmente nel territorio di uno Stato membro, ovvero ha la cittadinanza di uno Stato membro, può 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO essere convenuto in giudizio davanti alle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro soltanto in forza degli articoli 3, 4 e 5. Orbene, da tale norma parrebbe di dover desumere, a contrario, la non esclusività della competenza giurisdizionale individuata ai sensi dell’articolo 3 del regolamento, allorché il coniuge convenuto non risieda abitualmente nel territorio di alcuno Stato membro ovvero non abbia la cittadinanza di alcuno Stato membro, come nel caso di specie, essendo il convenuto un cittadino cubano, ritornato a vivere a Cuba dopo la separazione. Tale ultima situazione è contemplata dall’art. 7, comma 2 del regolamento che però disciplina l’ipotesi del convenuto non cittadino UE e non residente nell’UE in combinazione con quella dell’attore cittadino di uno Stato membro ma residente in un altro Stato membro (e fin qui la norma sarebbe calzante) che intenda invocare le norme sulla competenza in vigore in quest’ultimo Stato membro (e cioè, nel caso di specie, la Francia mentre l’attrice cittadina svedese residente in Francia intende invece invocare le norme nazionali svedesi sulla competenza). Può concludersi quindi che la fattispecie in esame non è specificatamente disciplinata in via esclusiva dal regolamento 2201/2003/CE e che pertanto lo stesso non osta all’applicazione delle norme nazionali che conducano all’individuazione di un giudice di altro Stato membro rispetto a quello individuabile in base all’art. 3 del regolamento medesimo. Un ulteriore conforto a tale tesi si trae dal tenore dell’Allegato al Libro Verde sulla legge applicabile e sulla giurisdizione in materia di divorzio del 14 marzo 2005, in base al quale “L’articolo 6 specifica che il coniuge che sia abitualmente residente in uno Stato membro o abbia la nazionalità di uno Stato membro... può essere convenuto in giudizio in un altro Stato membro unicamente in forza delle regole sulla giurisdizione del Regolamento e non in base alle norme nazionali sulla giurisdizione”. Ciò sembra autorizzare il ricorso alle norme nazionali sulla giurisdizione in ogni altro caso in cui non si verifichino le condizioni previste dal medesimo articolo 6 (cioè che il convenuto sia cittadino di uno Stato membro o sia residente in uno Stato membro). Inoltre, in occasione dell’attuale negoziazione di una modifica al regolamento 2201/2003/CE, nella parte illustrativa delle modifiche proposte dalla Commissione, si legge che “L’articolo 6 è soppresso. La consultazione pubblica ha rivelato infatti che tale previsione può causare confusione. È inoltre superflua in quanto gli articoli 3, 4 e 5 descrivono in quali circostanze un tribunale ha competenza esclusiva...”. Nella vigenza del citato art. 6 può comunque escludersi che tale norma preveda una competenza esclusiva in relazione alla fattispecie in esame, restando ferma la possibilità di invocare le norme nazionali, che non si atteggiano come contrastanti con quelle comunitarie ma meramente complementari ad esse. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso di ritenere che, nel caso in cui il convenuto in una causa di divorzio non abbia la sua residen- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 325 za abituale nel territorio di uno Stato membro e non sia neppure cittadino di uno Stato membro, l’istanza di divorzio possa essere esaminata da un giudice di uno Stato membro che non è competente ai sensi dell’art. 3 del regolamento 2201/2003/CE, ma che è competente in base alle norme nazionali dello Stato membro dell’attore anche se un giudice di un altro Stato membro può essere competente in applicazione di uno dei criteri di collegamento indicati dall’art. 3. Roma, 30 maggio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Cause riunite C-128/07, C-129/07, C-130/07, C-131/07 (domande di pronuncia pregiudiziale) – M.A. ed altri c/ Agenzia delle Entrate di Latina – Ordinanze emesse il 26 gennaio 2007 dalla Commissione Tributaria Provinciale di Latina (ct. 21789/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL FATTO La questione trae origine da quattro ricorsi analoghi proposti avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Latina in ordine ad istanza di rimborso. A tale ufficio i ricorrenti avevano chiesto il rimborso della somma che asserivano esser loro stata illegittimamente trattenuta a titolo di IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) sulla somma ricevuta nel 2002 (nel 2003 per il Ciampi) dal proprio datore di lavoro nell’ambito di un piano aziendale diretto ad incentivare l’esodo anticipato dei lavoratori. I ricorrenti precisavano che in base all’articolo 19 comma 4 bis del d.P.R. 917/86 tale indennità era sottoposta ad una tassazione agevolata – il 50% di quella normalmente gravante sul TFR (Trattamento di fine rapporto) – per i soggetti che avevano superato i 50 anni di età, se donne , ed i 55 anni se uomini. Poiché i ricorrenti avevano all’epoca un’età compresa tra i 50 e 55 anni, lamentavano l’ingiustificata disparità di trattamento con le lavoratrici che, nella loro stessa situazione, avrebbero potuto usufruire dell’agevolazione fiscale. I QUESITI 1.- Se la sentenza C-207/04 debba essere interpretata nel senso che il legislatore italiano avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età vantaggioso previsto per le donne. 2.- Se nel caso in esame si deve statuire che agli uomini a partire dai 50 anni devono applicarsi sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R.. 3.- Se, considerato che gli importi versati dal contribuente per IRPEF non costituiscono elemento della retribuzione non essendo pagati dal datore di lavoro in ragione del rapporto di lavoro, e considerato che l’importo ver- 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO sato, per favorire l’incentivazione, dal datore di lavoro al lavoratore non ha natura retributiva, sia conforme al diritto comunitario statuire che la differenza di età , 50 anni per le donne e 55 per gli uomini, sia contraria al diritto comunitario ritenuto che la Direttiva n. 79/7 consente agli Stati membri di mantenere limiti di età diversi per il pensionamento. 4.- Se l’interpretazione del diritto comunitario (Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE che vieta la discriminazione fondata sul sesso) osta o non osta all’applicazione della norma nazionale da cui ha tratto spunto il caso portato all’esame della Corte, significando a questo giudice nazionale l’incompatibilità della norma interna (art. 17 ora 19 comma 4 bis d.P.R. 917/86) ovvero la compatibilità. LA POSIZIONE ASSUNTA DAL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA La sentenza C-207/04 La pretesa dei ricorrenti «risulterebbe avvalorata alla luce della sentenza della Corte di giustizia del 21 luglio 2005, causa 207/04, Vergani che ha ritenuto il citato articolo 19, comma 4 bis non conforme alla direttiva 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro. Con la predetta sentenza, la Corte ha preliminarmente escluso che la predetta disposizione possa essere ricondotta nell’ambito dell’art. 141 del Trattato, che afferma il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, richiamando la propria giurisprudenza che qualifica la retribuzione come l’insieme di “tutti i vantaggi, in contanti o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, in forza di un contratto di lavoro, di disposizioni di legge ovvero a titolo volontario” (sent. 6 febbraio 1996, causa C-457/93). Atteso che l’incentivo all’esodo proviene dallo Stato, con uno sgravio fiscale, e non dal datore di lavoro, la disposizione non rientra, secondo la Corte, nell’ambito di applicazione dell’art. 141 del Trattato bensì in quello della Direttiva 76/207/CEE, volta ad attuare negli Stati membri il principio della parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici, ed in particolare dell’art. 5 che impone la parità di trattamento anche con riguardo alle condizioni inerenti al licenziamento. Secondo la Corte, l’agevolazione fiscale costituisce infatti una condizione di licenziamento, dovendo il termine “licenziamento” ricomprendere anche la cessazione del rapporto di lavoro conseguente ad un’interruzione volontaria del rapporto medesimo (sentenza 16 febbraio 1982, causa 19/81, Burton). Rispetto alla predetta agevolazione, il divieto di trattamento non discriminatorio non può essere giustificato, secondo la Corte, invocando la deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a) della Direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, secondo cui la direttiva non pregiudica la IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 327 facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni. Secondo la citata sentenza C-207/04, infatti, la disciplina derogatoria in quanto eccezionale deve essere interpretata restrittivamente, riferendosi soltanto alla fissazione dell’età del pensionamento per la corresponsione delle pensioni di vecchiaia e di anzianità ed alle conseguenze che ne derivano per altre prestazioni previdenziali mentre non è applicabile ad un’agevolazione fiscale che non costituisce una prestazione previdenziale. La normativa nazionale. A norma dell’articolo 19, comma 4 bis, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (introdotto dal 1° gennaio 1998 dall’articolo 5 del Decreto Legislativo 2 settembre 1997, n. 314) “Per le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 anni se uomini, di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme indicate alla richiamata lettera a) del comma 1 dell’articolo 17”. Al riguardo si precisa che l’articolo 36, comma 23, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248) ha abrogato il comma 4 bis dell’articolo 19 del TUIR (Testo Unico delle imposte sui redditi), come si legge in relazione illustrativa, “anche al fine di eliminare i profili di incompatibilità con la normativa comunitaria, evidenziati dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza C-207/04”. La stessa norma, tuttavia, precisa che la disciplina di cui al predetto comma 4 bis continua ad applicarsi con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati prima della data di entrata in vigore del presente decreto (4 luglio 2006), nonché con riferimento alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati in attuazione di atti o accordi, aventi data certa, anteriori alla data di entrata in vigore dello stesso decreto. Al fine di eliminare i profili di incompatibilità della normativa nazionale con quella comunitaria, il legislatore italiano ha ritenuto opportuno abrogare il comma 4 bis dell’art. 19 del TUIR, facendo salvi però i diritti di coloro che avevano già contrattato un piano incentivato di esodo. Posto quindi che la norma ritenuta non conforme al diritto comunitario è stata definitivamente espunta dall’ordinamento giuridico italiano, in ossequio alla citata sentenza C-207/04, il giudice del rinvio pregiudiziale, chiede alla Corte di giustizia una “interpretazione autentica” della propria sentenza C-207/04 al fine di stabilire entro quali limiti la stessa possa avere effetti retroattivi in relazione alle situazioni sorte precedentemente. Non viene però denunciata espressamente l’eventuale non conformità ai principi comunitari della normativa transitoria prevista con la richiamata disposizione abrogatrice, che viene invece ritenuta “ininfluente”. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La normativa comunitaria. L’articolo 141 CE dispone: 1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. 2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura, b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro. 3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. 4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali. La direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, all’art. 5, paragrafo 1 dispone: L’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso. Per completezza, si fa presente che, a decorrere dal 15 agosto 2009, è stata disposta l’abrogazione della direttiva 76/207/CEE ad opera della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 n. 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. La direttiva 79/7/CEE recante “Direttiva del Consiglio relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale”, all’articolo 7 paragrafo 1 dispone: La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione: a) la fissazione dei limiti di età per la concessione della pensione di vec- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 329 chiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni; …. La risposta ai quesiti. Possono essere trattati congiuntamente i primi due quesiti, con i quali il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se dalla sentenza C-207/04 della Corte si possa far derivare un obbligo per il legislatore italiano di estendere anche agli uomini il limite di età più vantaggioso previsto per le donne (50 anni anziché 55), al fine di poter fruire del trattamento fiscale più favorevole per la tassazione dell’incentivo all’esodo anticipato, applicando l’aliquota pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R.. Il Governo italiano ritiene che ad entrambi i quesiti debba essere data risposta negativa. Con la sentenza n. 207/04, la Corte di Giustizia si è limitata ad affermare l’illegittimità di limiti differenti, tra uomini e donne, per poter fruire delle modalità di tassazione più favorevoli, senza affermare che il legislatore italiano avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età più vantaggioso previsto per le donne. In sostanza, dalla pronuncia dell’organo di giustizia comunitario non è desumibile alcun principio interpretativo che possa vincolare il legislatore nazionale. La sentenza, infatti, non definisce i termini e le modalità di applicazione dell’agevolazione fiscale. Peraltro, l’adeguamento alla statuizione della Corte potrebbe anche consistere nell’applicazione alle donne lavoratrici del limite di età più sfavorevole (55 anni) al fine di poter accedere al beneficio fiscale. Tale applicazione eliminerebbe egualmente la disparità di trattamento tra uomini e donne senza però attribuire ai lavoratori maschi l’agevolazione reclamata dai ricorrenti nelle cause principali. Proprio in considerazione del fatto che il principio enunciato dalla Corte potrebbe condurre a due soluzioni diverse (agevolazioni previste per tutti a 50 anni di età, ovvero spettanti solo a chi, uomo o donna, ha compiuto 55 anni di età), si ritiene che debba escludersi la possibilità che il giudice nazionale, chiamato a giudicare in relazione a situazioni sorte in epoca anteriore alla sentenza della Corte di Giustizia, possa applicare il trattamento più favorevole agli uomini che avessero compiuto i 50 anni al momento della percezione dell’incentivo all’esodo. In tal senso è stata adottata la Circolare n. 10/E del 16 febbraio 2007 che, nell’interpretare il regime transitorio introdotto dalla legge n. 248/2006 di conversione del decreto legge n. 223/2006, ha chiarito che le disposizioni più favorevoli di cui all’abrogato comma 4 bis dell’art. 19 del TUIR possono continuare ad essere applicate alle somme corrisposte in relazione a rapporti di lavoro cessati prima del 4 luglio 2006 oppure cessati successivamente purché in attuazione di atti o accordi aventi data certa anteriore al 4 luglio 2006, “fermi restando i requisiti di età previsti dall’abrogato comma 4 bis dell’art. 19 del TUIR”. 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Né può ritenersi che il giudice nazionale possa disapplicare la normativa transitoria interna applicando direttamente la direttiva 76/207/CEE. Com’è noto, perché possa ipotizzarsi una applicazione diretta delle direttive comunitarie è necessario che si tratti di direttiva “autoapplicativa”, che sia scaduto il termine per gli Stati membri per provvedere al recepimento della stessa e che la direttiva preveda veri e propri diritti in capo ai singoli individui e non mere norme programmatiche rivolte agli Stati membri. Ebbene, nel caso di specie può essere certamente escluso che la richiamata direttiva attribuisca direttamente ai lavoratori uomini di età compresa tra i 50 e i 55 anni il diritto all’agevolazione fiscale della riduzione alla metà dell’aliquota applicabile normalmente al TFR per incentivare l’esodo anticipato. La direttiva medesima si limita a fissare il principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la promozione, la formazione professionale, le condizioni di lavoro, la previdenza sociale (art. 1) e le condizioni inerenti al licenziamento (art. 5), lasciando ampi margini agli Stati membri per rendere effettivo tale principio. Peraltro, va sottolineato che il diverso trattamento fiscale di cui all’abrogato art. 19 comma 4 bis in realtà derivava direttamente dalla diversa età pensionabile, fissata – del tutto legittimamente alla luce dell’art. 7, paragrafo 1 lettera a) della direttiva 79/7/CEE – per gli uomini a 65 anni e per le donne a 60 (art. 1 e tabella 1 del Decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 503). L’agevolazione fiscale ora soppressa – il cui scopo era quello di incentivare la cessazione anticipata del rapporto di lavoro per quei lavoratori che hanno raggiunto un’età prossima a quella prevista per la pensione di vecchiaia – spettava in sostanza a tutti coloro, uomini o donne, che avessero un tempo residuo di lavoro, prima di ottenere la pensione di vecchiaia, pari o inferiore a dieci anni. Sebbene la Corte abbia interpretato restrittivamente la facoltà derogatoria degli Stati membri di cui al citato art. 7, paragrafo 1, lett. a), che consente di escludere dal campo di applicazione della direttiva la fissazione del limite dell’età pensionabile “e le conseguenze che possono derivare per altre prestazioni”, appare necessario circoscrivere l’efficacia della sentenza C- 207/04 – non avendo la stessa indicato una soluzione vincolante – nell’obbligo dello Stato di adeguare la propria legislazione al principio nella stessa enunciato. Cosa che è puntualmente accaduta con l’abrogazione della norma censurata, sebbene necessariamente accompagnata da un regime transitorio che rendesse intangibile la disciplina delle fattispecie già realizzate nel vigore della norma abrogata. Sarebbe stato invero irragionevole elevare per entrambi i sessi il limite di età a 55 anni, con conseguente obbligo per le donne di età compresa tra i 50 e i 55 anni, che avessero beneficiato dell’incentivo fiscale all’esodo, di restituire le somme percepite in eccesso per effetto dell’applicazione dell’aliquota pari alla metà rispetto a quella normalmente applicata, con evidente compromissione del loro affidamento nell’accettare la cessazione anticipata del rapporto di lavoro a quelle – e non ad altre – condizioni. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 331 All’opposto, abbassare per entrambi i sessi il limite di età a 50 anni comporterebbe il proliferare di istanze di rimborso di tutti gli uomini di età compresa tra i 50 e i 55 anni che avrebbero potuto usufruire dell’agevolazione fiscale, sebbene in questo caso non vi sarebbe da tutelare alcun affidamento, con oneri aggiuntivi per l’erario privi della necessaria copertura finanziaria che, in ossequio ai vincoli di bilancio, deve accompagnare tutte le leggi che comportino nuovi oneri per lo Stato. La via intermedia adottata dal legislatore italiano di far salvi i rapporti pregressi, con abrogazione ex nunc della disposizione censurata dalla Corte, appare quindi la più idonea a contemperare i contrapposti interessi. Quanto al terzo e al quarto quesito, pare che la Commissione Tributaria Provinciale di Latina riproponga alla Corte questioni già affrontate con la sentenza C-207/04, in relazione alle quali, ove ritenute ammissibili, non possono che richiamarsi le osservazioni già esposte in quella sede. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito affermando che la sentenza C-207/04 debba essere interpretata nel senso che il legislatore italiano non avrebbe dovuto estendere anche agli uomini il limite di età vantaggioso previsto per le donne. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che, nel caso in esame, agli uomini di età compresa tra i 50 e i 55 anni, non deve applicarsi sulle somme di incentivazione all’esodo l’aliquota pari alla metà di quella prevista per la tassazione del T.F.R.. Il Governo italiano ritiene che il terzo e il quarto quesito si sostanzino in una riproposizione di questioni già risolte dalla Corte con la sentenza C-207/04. Roma, 2 luglio 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». Causa C-504/07 (Commissione delle Comunità europee c/ Repubblica italiana) – Ricorso notificato il 20 febbraio 2007 – Art. 3, par. 1, direttiva 92/57/CEE del Consiglio del 24 giugno 1992 – Prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) (ct. 8231/07, avv. dello Stato W. Ferrante). IL RICORSO La Commissione delle Comunità Europee ha adito la Corte di Giustizia delle Comunità Europee allo scopo di far constatare che: “ non recependo correttamente in diritto italiano l’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 92/57/CEE del Consiglio del 24 giugno 1992, riguardante le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in virtù dell’articolo 3.1 della direttiva”. IL CONTRORICORSO DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA “(…) L’art. 3 della citata direttiva dispone: “1. Il committente o il responsabile dei lavori designa uno o più coordi- 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO natori in materia di sicurezza e di salute, quali sono definiti all’articolo 2, lettere e) ed f), per un cantiere in cui sono presenti più imprese. 2. Il committente o il responsabile dei lavori controlla che sia redatto, prima dell’apertura del cantiere, un piano di sicurezza e di salute conformemente all’articolo 5, lettera b). Previa consultazione delle parti sociali, gli Stati membri possono derogare al primo comma, tranne nel caso in cui si tratti di lavori che comportano rischi particolari quali sono enumerati all’allegato II”. Il Governo italiano precisa che la direttiva in questione è stata recepita nell’ordinamento nazionale con il decreto legislativo del 14 agosto 1996 n. 494 che, all’articolo 3, commi 3 e 4, dispone: “3. Nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese, anche non contemporanea, il committente o il responsabile dei lavori, contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione, designa il coordinatore per la progettazione in ognuno dei seguenti casi: a) nei cantieri la cui entità presunta del cantiere è pari o superiore ai 200 uomini-giorno; b) nei cantieri i cui lavori comportano rischi particolari elencati nell’allegato II. 4. Nei casi di cui al comma 3, il committente o il responsabile dei lavori, prima dell’affidamento dei lavori, designa il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, che deve essere in possesso dei requisiti di cui all’articolo 10”. Secondo la Commissione, la direttiva non prevede alcuna eccezione all’obbligo di designare i coordinatori, riguardando la possibilità di deroga solo la redazione, prima dell’apertura del cantiere, di un piano di sicurezza e salute. Nella legislazione italiana invece, l’obbligo di designare i coordinatori sarebbe limitato ai casi di cui al citato articolo 3, comma 3 lettere a) e b), ovvero ai cantieri la cui entità è pari o superiore a 200 uomini-giorno e a quelli i cui lavori comportano i rischi particolari elencati nell’allegato II. Peraltro, come dedotto dalle autorità italiane nella procedura precontenziosa, i cantieri non rientranti nelle due suddette categorie, sono comunque coperti dall’applicazione del decreto legislativo n. 626/1994, il cui art. 7 ha recepito l’obbligo generale di coordinamento posto in capo ai datori di lavoro, quando in un cantiere siano presenti più imprese, dall’art. 6, paragrafo 4, della direttiva 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989. Ciò premesso, il Governo italiano rileva, innanzitutto, che, da un punto di vista strettamente formale, la situazione di inadempienza rilevata dalla Commissione deriva – come la stessa Commissione riconosce – da un equivoco linguistico in quanto, nella versione italiana della direttiva, la parola “comma” è stata interpretata ed utilizzata secondo l’uso corrente in Italia e non secondo l’accezione comunitaria mentre al predetto termine “comma”, presente nella direttiva, si sarebbe dovuta associare l’accezione corrispondente al termine “periodo” ovvero “capoverso”. Infatti, secondo, la terminologia comunitaria, il “paragrafo” corrisponde al termine italiano “comma” mentre il “comma” corrisponde al termine italiano “periodo” o “capoverso”. IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 333 Pertanto, la possibilità di deroga al “comma” 1, secondo il legislatore comunitario si riferiva ad una certa parte della norma e secondo il legislatore italiano ad un’altra parte della norma. Al riguardo si può certamente concordare con la considerazione della Commissione secondo cui “differenze nella struttura della tecnica legislativa utilizzata dagli Stati membri non possono tradursi in differenze nel recepimento di una direttiva comunitaria”, ma va nel contempo sottolineato che le versioni della direttiva nelle singole lingue nazionali vengono elaborate a cura dei pertinenti servizi del Consiglio U.E. e dallo stesso convalidate all’esito di un processo di controllo che vede la partecipazione dei c.d. giuristi linguisti, che sono specialisti nella tecnica terminologico-giuridica. Ne consegue, da una parte, l’evidente buona fede del legislatore nazionale nel recepire la direttiva sulla base di un testo siffatto e dall’altra l’impossibilità di emendare il testo di recepimento, nello specifico il decreto legislativo n. 494/96, fino alla pubblicazione e alla notifica di una specifica ed ufficiale nota di rettifica che riallinei il testo della versione italiana della direttiva alle altre versioni linguistiche. In mancanza di siffatta rettifica, non si ritiene possibile iniziare una procedura di modifica del citato D.Lgs. n. 494/96. Sul piano sostanziale occorre, invece, rilevare che le considerazioni di merito della Commissione appaiono poco condivisibili. Infatti, la Commissione sostiene che intendimento della direttiva è quello di consentire agli Stati membri di derogare, a determinate condizioni, unicamente alla disposizione in base alla quale il committente deve controllare che sia redatto, da parte del coordinatore, prima dell’apertura del cantiere, un piano di sicurezza e coordinamento mentre, invece, il legislatore italiano ha derogato (come del resto la legittima lettura, secondo le accezioni nazionali, dei termini usati nel testo della direttiva autorizza a ritenere corretto) all’obbligo stesso di designare il coordinatore. Riguardo a ciò si osserva, in primo luogo, che la deroga prevista nel D.Lgs. n. 494/96 concerne, effettivamente, la designazione del coordinatore ma solo nel caso di cantieri di entità piuttosto ridotta (non superiore a 200 uomini-giorno) e sempreché i relativi lavori non comportino i rischi particolari elencati nell’allegato II, vale a dire, ad esempio, cantieri – peraltro frequenti – di semplice ristrutturazione di un appartamento di 100 mq. adibito a civile abitazione che necessiti di: adeguamento dell’impianto elettrico alla vigente normativa, esecuzione di un nuovo bagno di servizio con relative opere murarie e conseguente adeguamento dell’impianto idraulico, esecuzione di impianto termico, preparazione delle superfici e conseguente tinteggiatura di pareti e soffitti, revisione di infissi interni ed esterni ed arrotatura e lucidatura dei pavimenti. Nella fattispecie di cui sopra, la designazione dei coordinatori costituirebbe, solo ed esclusivamente, un ulteriore aggravio di adempimenti burocratici – contrario a quel principio che mira alla semplificazione delle disposizioni vigenti – nonché di costi, assolutamente non giustificati, che nulla aggiungerebbero alla sicurezza dei lavoratori, rispetto a quanto già previsto dal richiamato decreto legislativo n. 626/94. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In tali casi infatti, le concrete esigenze di sicurezza, rispetto al rischio – caratteristico dei cantieri – di interferenza o incompatibilità tra le operazioni condotte dalle singole imprese per mancato coordinamento “esterno”, hanno certamente entità ridotta, come riconosciuto anche dalle parti sociali che sul punto, come richiesto dalla direttiva, sono state consultate e si sono ritrovate d’accordo all’atto della trasposizione. In secondo luogo, c’è da chiedersi quale vantaggio per la tutela dei lavoratori, comporta – seguendo il pensiero della Commissione – l’obbligo di designare un coordinatore per un cantiere per il quale, pur in presenza di più imprese, si ritenga tuttavia non necessaria la redazione di un piano di sicurezza e coordinamento. In effetti, il vero valore aggiunto dell’intervento del coordinatore consiste proprio nel fatto che questi – mediante la redazione del piano di sicurezza e coordinamento – stabilisce le regole applicabili al cantiere interessato, tenendo conto, se del caso, delle attività che vengono effettuate sul luogo. Su questo punto, la Commissione obietta, osservando che, in aggiunta alla redazione del piano, al coordinatore incombono altre funzioni ed obblighi ritenuti rilevanti a fini della sicurezza dei lavoratori. A tale proposito, si deve osservare che i compiti “residui” del coordinatore non appaiono di importanza tale da giustificare sempre e necessariamente la nomina e la presenza di una figura professionale “esterna alle imprese esecutrici” operanti in cantieri di entità veramente modesta, quali quelli che beneficiano della deroga contestata dalla Commissione. Occorre, invece, prendere atto che in un siffatto contesto operativo, anche in assenza di un obbligo di nomina del coordinatore, non mancano strumenti di sicurezza adeguati. Infatti, non solo restano fermi gli obblighi del committente (o del responsabile operante in suo nome) di sorveglianza riguardo alle attività svolte dalle imprese per suo conto, ma, soprattutto, la corretta gestione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori risulta garantita dall’applicazione, da parte di ogni singolo datore di lavoro, delle disposizioni del Titolo 1 del D.Lgs. n. 626/94, che traspone in dettaglio gli obblighi individuati dalla direttiva “quadro” 89/391/CEE a carico di tale soggetto. Ciò vale, da un lato, per la predisposizione di eventuali misure di coordinamento la cui necessità può – e deve – essere rilevata in esito alla valutazione, cui ciascuna impresa è obbligata, dei rischi decorrenti dalle proprie attività – tra i quali vengono di norma messi in conto anche quelli dovuti alla compresenza, interferenza ed incompatibilità delle operazioni – rischi che saranno presenti con entità proporzionale alle corrispondenti dimensioni del cantiere, e, dall’altro, per la messa a punto delle corrispondenti procedure di sicurezza che ognuna delle imprese operanti è obbligata ad individuare, applicare e tenere sotto controllo. Si ribadisce, in definitiva, che nel quadro derogatorio considerato dal legislatore italiano (cantieri di entità inferiore a 200 uomini-giorno) l’obbligo di designazione dei coordinatori rappresenta un mero aggravio di costi per il committente e non comporta un concreto beneficio in termini di incre- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 335 mento dei livelli di sicurezza rispetto a quelli conseguibili dall’applicazione puntuale delle disposizioni del D.Lgs. n. 626/94 di recepimento della direttiva 89/391/CEE. Si evidenzia, comunque, che ai fini della tutela della sicurezza dei lavoratori, in piena aderenza agli inderogabili principi ispiratori della direttiva 92/57/CEE, il D.Lgs. n. 494/96 impone l’obbligo della designazione dei coordinatori oltre che nel caso di cantieri di entità pari o superiore ai 200 uomini-giorno anche a quelli i cui lavori comportano i rischi particolari di cui all’allegato II del citato D.Lgs. n. 494/96. Considerata infatti l’elevata frequenza con cui sono presenti sui cantieri – indipendentemente dalla loro entità – taluni dei lavori di che trattasi (si ponga ad esempio mente a quelli che comportano una esigenza legale di sorveglianza sanitaria, quali quelli che richiedono la movimentazione manuale di carichi pesanti, quelli che espongono sistematicamente ad elevati livelli di rumorosità, ecc.) di fatto risulta estremamente improbabile il concretizzarsi di situazioni che integrino le condizioni per la pratica applicazione della contestata deroga. Il Governo italiano conclude pertanto nel senso che l’art. 3, paragrafo 1 della direttiva 92/57/CEE è stato correttamente recepito nell’ordinamento nazionale dall’art. 3, commi 3 e 4 del decreto legislativo n. 494/1996, sia dal punto di vista formale che sostanziale, anche tenuto conto delle garanzie per la sicurezza e la salute dei lavoratori comunque assicurate dal decreto legislativo n. 626/1994 che ha recepito la direttiva 89/391/CEE. Roma, 28 marzo 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». LA MEMORIA DI CONTROREPLICA DEL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA «(…) Con la presente memoria, il Governo italiano intende controdedurre alle argomentazioni esposte dalla Commissione delle Comunità europee con la memoria di replica del 16 maggio 2007. Per quanto concerne la giustificazione formale alle modalità di recepimento dell’art. 3 della citata direttiva 92/57/CEE, si ribadisce che il riferimento della possibilità di deroga all’obbligo di nominare un coordinatore per la sicurezza anziché all’obbligo di redigere un piano di sicurezza e di salute è dovuto ad un equivoco linguistico e, segnatamente, al diverso significato che nel gergo comunitario riveste la parola “comma” rispetto a quello rivestito nella terminologia giuridica italiana. La stessa Commissione, al punto 5 della memoria di replica è costretta, per fugare ogni possibile confusione, a parlare di “sottoparagrafo” per indicare il concetto di “comma” proprio del diritto comunitario e il concetto di “periodo” o “capoverso” proprio del diritto italiano. Quanto alla mancata contestazione di quanto affermato dalla Commissione al punto 18 del ricorso, si osserva che il legislatore italiano, nel recepire una direttiva comunitaria, non ha l’onere di verificare la congruità della traduzione italiana con la versione linguistica degli altri Paesi – ed in particolare quella tedesca, quella danese, quella spagnola, quella francese, quella greca, quella olandese, quella portoghese o quella svedese – atteso che il 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO diritto di ogni Stato membro di esprimersi nella propria lingua e di essere destinatario di atti normativi o giurisdizionali provenienti dalle Istituzioni comunitarie tradotti nella propria lingua implica la non necessità di conoscere le due lingue ufficiali dell’U.E. e tanto meno le lingue degli altri Stati membri. Peraltro, proprio dall’esame comparato delle altre traduzioni, si evince che l’art. 3 della direttiva 92/57/CEE si prestava senz’altro ad una possibile erronea interpretazione, tanto è vero che la versione linguistica inglese è stata oggetto di rettifica che ha modificato l’espressione “paragraph” in quella di “subparagraph”, come ricordato dalla Commissione al punto 13 della memoria di replica e al punto 19 del ricorso. Quindi, partendo dalla premessa che nel diritto comunitario gli articoli si dividono i “paragrafi” e i paragrafi si dividono in “commi”, qualora un articolo non sia composto da un unico paragrafo, come è il caso dell’art. 3 della direttiva 92/57/CEE, esigenza di chiarezza vorrebbe che il riferimento fosse fatto sia al paragrafo, sia al comma onde evitare ogni possibile equivoco generato dalla diversa accezione attribuita ai suddetti termini nel diritto interno dei singoli Stati membri. La rettifica della versione italiana dell’art. 3 dovrebbe essere quindi nel senso che “gli Stati membri possono derogare al paragrafo 2, primo comma …” Non si può mettere in dubbio la buona fede del legislatore italiano nel recepire la direttiva 92/57/CEE secondo le regole ermeneutiche del diritto nazionale. Anche dal punto di vista sostanziale la procedura d’infrazione in atto non sembra giustificata. Quanto al primo e secondo ordine di argomenti addotti dal Governo italiano a sostegno del corretto recepimento della direttiva e contestati dalla Commissione, attinenti alla applicabilità della deroga ai soli cantieri di ridotte dimensioni e i cui lavori non comportino i rischi particolari di cui all’allegato II del D.Lgs. n. 494/1996 nonché all’intento di evitare ulteriori adempimenti amministrativi e costi non giustificati, si osserva che il primo e il secondo considerando della direttiva 92/57/CEE, richiamano l’art. 118A del Trattato (ora art. 137) che, in relazione all’obiettivo di cui al paragrafo 1, lettera a) di promuovere il miglioramento dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori, dispone che possono essere adottate, mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro (art. 137, paragrafo 2 lettera b). Tale disposizione prescrive inoltre che tali direttive c.d. “sociali” evitino di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese (testualmente ribadito nel secondo considerando della direttiva 92/57/CEE). Orbene, ritenere che vi sia un obbligo inderogabile di nominare un coordinatore esterno in tutti i cantieri in cui siano presenti più imprese a prescindere dalle dimensioni del cantiere medesimo e dall’esistenza di concreti pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori non può che comportare gravo- IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 337 si oneri amministrativi e finanziari tali da poter compromettere la costituzione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Si sottolinea inoltre che l’inderogabilità dell’obbligo è comunque prevista dalla normativa italiana per i lavori che espongano i lavoratori a rischi di seppellimento o di sprofondamento a profondità superiore a 1,5 metri o di caduta dall’alto da altezza superiore a 2 metri, nonché per i lavori che espongono i lavoratori a sostanze chimiche o biologiche pericolose per la salute o a radiazioni ionizzanti, per i lavori in prossimità di linee elettriche aeree, per i lavori che espongano ad un rischio di annegamento, per i lavori in pozzi, sterri sotterranei e gallerie, per i lavori subacquei con respiratori, per i lavori in cassoni ad aria compressa, per i lavori comportanti l’uso di esplosivi, per i lavori di montaggio o smontaggio di elementi prefabbricati pesanti (allegato II del D.Lgs. n. 494/1996 richiamato dall’art. 3, comma 3 lettera b) al fine di escludere per tali lavori l’applicabilità della deroga). Dal richiamato elenco, si evince chiaramente che i cantieri per i quali è consentito omettere la nomina del coordinatore per la sicurezza rivestono una natura assolutamente residuale, considerato altresì che è sufficiente la ricorrenza di una delle due condizioni elencate dall’art. 3, comma 3 per ritenere obbligatoria tale nomina: l’entità del cantiere pari o superiore a 200 uomini-giorno ovvero la sussistenza di rischi particolari elencati nell’allegato II. Quindi anche un piccolissimo cantiere i cui lavori rientrino nell’elenco di cui allegato II ovvero un cantiere di dimensione superiore a quella indicata nella citata norma in cui sia esclusa la ricorrenza dei rischi particolari per la sicurezza e la salute dei lavoratori soggiacciono comunque all’obbligo di nominare un coordinatore. Né può ritenersi che la definizione di coordinatore per la sicurezza, rispettivamente, durante la progettazione e la realizzazione dell’opera, come enunciata dall’art. 2, paragrafo 1, lettere e) e f) della direttiva 92/57/CEE, che indica “qualsiasi persona fisica o giuridica incaricata dal committente …” consenta di designare anche un dipendente dell’impresa (senza quindi ulteriori costi) salvaguardando realmente la sicurezza dei lavoratori. Appare evidente infatti la carenza di indipendenza ed autonomia del dipendente-coordinatore, il quale avrà concrete remore ad adottare provvedimenti particolarmente onerosi per il datore di lavoro o che addirittura sospendano i lavori in attesa dell’adeguamento delle misure di sicurezza, con conseguenti ingenti pregiudizi economici per il datore di lavoro che potrebbe con ogni probabilità assumere provvedimenti di ritorsione nei confronti del dipendente. La giurisprudenza italiana è infatti giunta ad escludere la concorrente responsabilità del coordinatore-dipendente, limitando la responsabilità al committente o al responsabile dei lavori, sul presupposto che la posizione di subordinazione del dipendente gli impedisce sostanzialmente di assumere provvedimenti a garanzia della sicurezza dei lavoratori ma pregiudizievoli per il datore di lavoro senza temere conseguenze sulla propria posizione lavorativa. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO È evidente quindi che la nomina di un coordinatore esterno all’impresa nei casi di cantieri di entità ridotta o i cui lavori escludano la sussistenza di rischi particolari per la sicurezza dei lavoratori si traduce in un vincolo amministrativo, finanziario e giuridico ingiustificato e tale da ostacolare la crescita e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Quanto al terzo e quarto ordine di argomenti invocati dal Governo italiano e confutati dalla Commissione, riguardanti la particolare pregnanza dell’obbligo di redigere il piano di sicurezza e salute rispetto agli altri compiti del coordinatore e l’esistenza di altra normativa, il D.Lgs. n. 626/1994, che già assicura ampiamente la sicurezza nei cantieri in cui sono compresenti più imprese, a prescindere dalla nomina di un coordinatore, si osserva che gran parte degli altri compiti del coordinatore sono enucleati mediante rinvio ai principi generali di prevenzione in materia di norme di sicurezza e di salute previsti dalla direttiva 89/391/CEE, recepita nell’ordinamento italiano con il richiamato D.Lgs. n. 626/1994. In tal senso, si veda l’art. 4, paragrafo 1 della direttiva 92/57/CEE, richiamato dall’art. 5, paragrafo 1, lettera a) per attribuire ai coordinatori, durante la progettazione dell’opera, il compito di coordinare l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 4 che, a loro volta, pongono a carico del responsabile dei lavori e, se del caso, del committente l’onere di prendere in considerazione i principi in materia di sicurezza di cui alla citata direttiva 89/391/CEE. Anche l’art. 6, paragrafo 1, lettera b), primo trattino della direttiva 92/57/CEE richiama, quali compiti dei coordinatori, la verifica circa la coerente applicazione, da parte dei datori di lavoro, dei principi di cui all’art. 8 che, a sua volta, concerne l’ “applicazione dell’articolo 6 della direttiva 89/391/CEE”. Analogamente, l’art. 6, paragrafo 1, lettera d) della direttiva 92/57/CEE prevede che i coordinatori organizzino tra i datori di lavoro la cooperazione e il coordinamento delle attività in vista della protezione dei lavoratori e della prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali nocivi alla salute nonché la loro reciproca informazione, come previsto all’art. 6, paragrafo 4 della direttiva 89/391/CEE. Non può quindi concordarsi con la Commissione laddove afferma, al punto 30 della memoria di replica e ai punti 25 e 27 del ricorso, che l’art. 7 del D.Lgs. n. 626/1994 non assicuri un grado di coordinamento dei lavori nei cantieri in cui non sono designati coordinatori tale da coprire anche le specifiche disposizioni di cui agli articoli 4, 5 e 6 della direttiva 92/57/CEE che, come si è visto, richiamano in gran parte le misure di prevenzione dei rischi dei lavoratori nei cantieri in cui siano compresenti più imprese già previste dalla direttiva 89/391/CEE, correttamente recepita nell’ordinamento italiano con il citato D.Lgs. n. 626/1994. In particolare, l’articolo 6, paragrafo 4 della direttiva 89/391/CEE prevede espressamente che, quando in uno stesso luogo di lavoro sono presenti i lavoratori di più imprese, i datori di lavoro devono cooperare all’attuazione delle disposizioni relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute e, tenuto IL CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE - I giudizi in corso alla Corte di Giustizia CE 339 conto della natura delle attività, coordinare i metodi di protezione e di prevenzione dei rischi professionali e informarsi reciprocamente circa tali rischi, informandone i propri lavoratori e i loro rappresentanti. Dal canto suo, l’art. 7 del D.Lgs. 626/1994, nel recepire la predetta direttiva, prevede in capo ai datori di lavoro tutta una serie di oneri di verifica, informazione e cooperazione all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro e, in modo specifico, al comma 2 lettera b) dispone che i datori di lavoro coordinino gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. Pertanto, nel ricordare, come si è già detto, che ai sensi dell’art. 137, paragrafo 2, lettera b) del Trattato, le direttive, nel dettare le prescrizioni minime applicabili, debbono tener conto delle condizioni e delle normative tecniche già esistenti in ciascuno Stato membro, non può non concludersi che il D.Lgs. 626/1994 già appresta una tutela compiuta per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori nei cantieri in cui siano presenti più imprese, ponendo a carico dei datori di lavoro oneri e responsabilità, a prescindere dalla nomina di un coordinatore esterno. Quanto al quinto ordine di argomenti avanzati dal Governo italiano e ritenuto non convincente dalla Commissione circa la frequenza di cantieri di “entità ridotta” con conseguente diffusa applicabilità della deroga all’obbligo di nominare un coordinatore, basti rilevare che se è vero che i piccoli cantieri costituiscono in Italia un fenomeno esteso è anche vero che la lettera dell’art. 3, comma 3 del D.Lgs. n. 494/1996 – “il committente o il responsabile dei lavori … designa il coordinatore per la progettazione in ognuno dei seguenti casi:” (richiamati dal comma 4 con riferimento al coordinatore per l’esecuzione dei lavori) – implica l’obbligo di nominare un coordinatore qualora ricorrano alternativamente una delle due condizioni: cantieri di rilevanti dimensioni ovvero cantieri i cui lavori comportano i rischi particolari elencati nell’allegato II. Pertanto, considerata l’enorme diffusione di cantieri i cui lavori comportino i predetti rischi, a prescindere dalla loro dimensione, appare evidente che la possibilità di derogare all’obbligo di nominare un coordinatore resta circoscritta in Italia ad un numero ristrettissimo di casi. Alla luce di quanto sopra esposto, si richiamano le conclusioni già rassegnate al punto 28 del controricorso. Roma, 28 giugno 2007 Avvocato dello Stato Wally Ferrante». 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO A.G.S.- Parere del 2 gennaio 2007, n. 4 (*). Validità della nomina a membro di commissione del concorso interno per titoli ed esami (per l’accesso alla qualifica di primo dirigente del Corpo Forestale dello Stato) di un consigliere comunale. Effetti sugli atti del procedimento (consultivo 45306/06, avvocato P. Marchini). «[Il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali – Corpo forestale dello Stato] chiede a questa avvocatura di esprimere un parere circa la regolarità della procedura concorsuale, sospesa prima delle prove orali, con riferimento alla nomina di un componente della commissione di esami che riveste lo status di consigliere comunale nel Comune di Perugia. Inquadramento normativo e qualificazione della fattispecie L’art. 8, lett. d) del D.Lgs. n. 29/93, sostituito dall’art. 6. D.Lgs. 23 dicembre 1993. n. 546 e abrogato dall’art. 43. comma 1, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80. (abrogazione riconfermata dall’art. 72, comma 1, lett. T) D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 che ha abrogato l’intero provvedimento) dispone che: “I procedimenti di selezione per l’accesso e per la progressione del personale nei pubblici uffici sono definiti nel rispetto dei seguenti criteri fondamentali... d) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”. L’art. 9, comma secondo, del d.P.R 9 maggio 1994, n. 487 stabilisce: “Le commissioni esaminatrici di concorso sono composte da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti tra funzionari delle ammi- I P A R E R I D E L C O M I T A T O C O N S U LT I V O (*) Parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato in via ordinaria. nistrazioni, docenti ed estranei alle medesime e non possono farne parte, ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546, i componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione interessata, coloro che ricoprano cariche politiche o che siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. Almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, salva motivata impossibilità, è riservato alle donne, in conformità all’art. 29 del sopra citato decreto legislativo. Nel rispetto ditali principi, esse, in particolare, sono cosi composte...” L’art. 35 del D.Lgs. n. 165 del 2001 dispone: “Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi:.., e) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali”. Non pare possa nutrirsi dubbio che si tratti di divieto di nomina (il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 4056/2002, si esprime in termini di “divieto di accesso ad un pubblico ufficio”) a membro di commissione di concorso, organo collegiale a natura perfetta e reale. Si può anche qualificare la fattispecie come divieto di accesso, ciò che rileva è che ne deriva un divieto di nomina da parte della p.a. ed un correlato obbligo di astensione. La questione si risolve nello stabilire se tale divieto sia superabile o meno a seconda dei casi concreti. Per risolvere il problema è necessario, quindi, analizzare la natura del divieto. Tale indagine deve muovere dalla natura della norma che detto divieto pone: se essa è imperativa il divieto sarà assoluto e non suscettibile di deroga se, viceversa, la norma è dispositiva o suppletiva essa potrà essere derogata in relazione al caso concreto. Afavore della prima opzione mutano tanto le espressioni usate dal legislatore, quanto le sue intenzioni. Innanzitutto, non può dubitarsi che il principio della “apoliticità” delle commissioni di concorso sia di natura fondamentale perché, secondo la Corte Costituzionale, di derivazione costituzionale (art. 97, primo e terzo comma ed art. 117, terzo comma del nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001) (1). 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Corte Cost. n. 453/1990: “Il principio d’imparzialità è destinato, pertanto, a riflettersi anche sulla composizione delle commissioni giudicatrici nei concorsi pubblici, in quanto organi dell’amministrazione destinati a garantire la realizzazione ditale principio nella L’originario art. 8 del D.Lgs. n. 29/1993 attribuiva al criterio di esclusione dei titolari di cariche politiche natura di “criterio fondamentale”. La norma è stata poi trasposta nell’art. 35, comma terzo, lett. e) del D.Lgs. n. 165 del 2001 senza, tuttavia, che venisse ribadita l’indole “fondamentale” del principio (e non più criterio). L’omissione, va detto, non pare significativa atteso che ai sensi del terzo comma dell’art. 1 del D.Lgs. n. 165/2001 “Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione” e che “Le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ... nel rispetto dell’articolo 97, comma primo, della Costituzione”. Che si tratti di principio inderogabile è ancora confermato dal fatto che il divieto in questione costituisce riflesso del principio informatore della riforma del pubblico impiego e della dirigenza, in particolare: si tratta del “principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall’altro” affermato dall’art. 4 del D.Lgs. , n. 165 del 2001 ed imposto dalla legge delega n. 421 del 23 ottobre 1992, art. 2 lett. g) la cui direttiva impone di “prevedere la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa”. La non interferenza della politica sull’amministrazione, quale attuazione di imparzialità, viene calata dallo stesso art. 97 Cost. nella fattispecie del concorso che deve essere pubblico (terzo comma). Non resta, dunque, che riconoscere la assolutezza del divieto e, quindi, la sua inderogabilità. Natura della carica politica Che il consigliere comunale rivesta una carica politica, è assunto che non merita di essere dimostrato tanto appare ovvio: sostenere il contrario significherebbe negare natura di organo politico al consiglio comunale. Si tratta di vedere, piuttosto, se il divieto consenta di distinguere tra cariche politiche. Tale indagine, sotto un profilo strettamente interpretativo, non sembrerebbe permessa se, come abbiamo detto, il divieto ha carattere assoluto; ciò perché attraverso una possibile distinzione verrebbe ad eludersi il limite stesso. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 343 provvista delle persone cui affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche. Ma questo non comporta anche – stante l’indissolubile collegamento esistente, pure nell’ambito degli enti locali, tra livello “amministrativo” e livello di “governo” – che le commissioni di concorso non possano essere formate attraverso una scelta operata dall’organo rappresentativo dell’ente ed eventualmente, anche con l’adozione di meccanismi (quali il voto limitato o la maggioranza qualificata) destinati a garantire la partecipazione alla decisione delle minoranze presenti nell’organo. Comporta, invece, che, nella formazione delle commissioni, il carattere esclusivamente tecnico del giudizio debba risultare salvaguardato da ogni rischio di deviazione verso interessi di parte o comunque diversi da quelli propri del concorso, il cui obbiettivo non può essere altro che la selezione dei candidati migliori”. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Invero, il legislatore, non distinguendo tra cariche politiche, intende riferirsi a qualsiasi soggetto portatore di interessi politici che, a causa di essi, ricopra incarichi politici. Tale interpretazione è stata condivisa dal TAR Sardegna con la seguente motivazione:“la definizione estremamente ampia, non può essere circoscritta ai soli componenti dell’organo di direzione politica della medesima amministrazione che indice il concorso, stante la seconda specificazione della norma; né ai soli soggetti che ricoprano cariche “elettive” avendo il legislatore preferito utilizzare una formula volutamente più estesa di “carica politica” e ciò al fine di evitare che siano deputati alla scelta, in sede di pubblico concorso, soggetti che, in qualsiasi modo, potrebbero non garantire una posizione di terzietà ed imparzialità”. Come si dirà oltre, il Consiglio di Stato (n. 6526/2003) ha riformato tale sentenza con una motivazione che non sembra persuasiva. Merita consenso, quindi, la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 7181 del 9 ottobre 1996 che inscrive nell’alveo delle cariche politiche anche quella elettiva di consigliere comunale. Non è condivisibile, invece, anche la tesi del Consiglio di Stato, espressa con altra sentenza (n. 4056/2002), tesa a relativizzare la definizione di “carica politica” e a limitarla, ai fini che qui interessano, alla sola carica direttiva “all’interno dei partiti”. Tale interpretazione oltreché arbitraria perché ultra legem, appare anche contra legem e sorretta da motivazione contraddittoria. La sentenza n. 4056 del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato ha sostenuto che: “seguendo la tesi proposta dall’originario ricorrente, ed accolta dal T.A.R., la previsione relativa agli amministratori dell’Ente che ha bandito il concorso rimarrebbe priva di ogni significato, risultando pleonastica in quanto assorbita da quella relativa ai soggetti che ricoprono cariche politiche. Sotto il concorrente profilo dell’indagine della volontà del legislatore, si osserva che se questi avesse inteso riferire il divieto sancito con la previsione relativa ai soggetti che ricoprono cariche politiche agli amministratori di tutti gli Enti territoriali non avrebbe certamente stabilito, in aggiunta a tale precetto, anche l’ulteriore, ma superflua, limitazione riferita ai componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione che ha indetto il concorso”. In disparte l’obiezione che il legislatore ben potrebbe rafforzare il divieto posto per ciascun componente dell’organo di direzione politica dell’amministrazione (categoria ristretta) estendendolo ai titolari di cariche politiche in genere, anche elettive, (categoria più ampia), non è affatto vero che la prima categoria è sempre ricompresa nella seconda: basti pensare, ad esempio, alla nomina giudiziale (quindi non politica) di un commissario straordinario alla guida di un ente locale. La contraddittorietà della motivazione del Consiglio di Stato è lampante allorché, dopo aver affermato la sostanziale coincidenza delle due categorie, ne riconosce la profonda differenza sia sul piano ontologico, sia su quello degli “interessi sottesi ai due precetti”: “Che alle due previsioni considerate debba riconoscersi un distinto, ed autonomo, ambito applicativo risulta, inoltre, imposto, oltre che dalle segnalate ragioni logiche, anche dal rilievo che i diversi interessi sottesi ai due precetti postulano l’individuazione di due differenti categorie quali destinatarie dei relativi divieti”. La sezione ha poi cura anche di precisare quali siano le due differenti rationes che presidiano i due divieti: “il divieto risulta sancito sia nei riguardi delle persone che compongono l’organo di direzione politica dell’amministrazione, delle quali si teme un’ingerenza nel reclutamento del personale amministrativo nei confronti del quale vengono, in concreto, esercitate le funzioni di indirizzo, sia nei riguardi dei soggetti che ricoprono cariche politiche, delle quali si intende evitare un’attività di condizionamento dell’imparziale gestione del concorso direttamente riferibile alla loro appartenenza partitica”. Ma se è vero che si tratta di due distinte ed autonome categorie di soggetti, la contraddizione non consente di farle coincidere. La indubbia “appartenenza partitica” del consigliere comunale è sufficiente a porre in pericolo la imparzialità del concorso sia nei confronti degli altri commissari (aspetto non considerato dal g.a.), sia nei confronti dei candidati. Tale pericolo viene eliminato dal legislatore ex ante in astratto e non ex post in concreto, volendosi evitare che venga rimessa all’Amministrazione o al giudice la singola soluzione. La sentenza del Consiglio di Stato n. 6526 del 2003. Con tale pronuncia il Consiglio di Stato sembra adottare una tesi meno restrittiva del proprio precedente del 2002: “Occorre, per l’operatività della disposizione che vieta la nomina a componenti delle commissioni esaminatrici di soggetti che rientrano nella categoria di coloro che ricoprono cariche politiche, che vi sia comunque un qualche elemento di possibile incidenza tra l’attività esercitabile da colui che ricopre tali cariche (politiche, sindacali o professionali) e l’attività dell’ente che indice il concorso, altrimenti la disposizione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto di imparzialità anche nei confronti di soggetti che non gestiscono alcun potere rilevante e perciò inidonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita dell’ente che indice la selezione. Detto elemento di collegamento, in mancanza di criteri legali, può essere rinvenuto nella sfera di influenza dell’attività svolta dal soggetto ricoprente cariche politiche, sindacali o professionali, per cui se questa in astratto è idonea a riverberare i suoi effetti anche sull’ente che indice la selezione, l’incompatibilità deve ritenersi sussistente, altrimenti deve escludersi”. Viene disattesa la tesi che limita la carica politica a quella direttiva in un partito politico, ma il consesso introduce quell’indagine sulla sfera di influenza che, a nostro avviso, la norma non consente. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 345 Vizio di costituzione dell’organo collegiale ed effetti sul procedimento. L’atto di nomina è da ritenersi illegittimo per violazione di norma imperativa. Quale collegio perfetto e reale, la commissione risulta di conseguenza illegittimamente costituita e sfornita delle relative attribuzioni in concreto, con derivata invalidità di tutte le operazioni da essa compiute. Come la mancanza di regolare costituzione del collegio (ad es. per difetto di quorum strutturale) vizia e pone nel nulla tutta la attività svolta, così a non minore effetto soggiace l’attività di un organo collegiale illegittimamente costituito (che è vizio più grave del difetto di quorum strutturale). L’atto di autotutela, oltrechè doveroso per i motivi esposti, si mostra anche opportuno atteso che l’eventuale nomina dei vincitori potrebbe essere impugnata dai candidati esclusi esponendo l’Amministrazione all’alea di un annullamento giudiziale non improbabile alla stregua della non persuasiva giurisprudenza, peraltro non consolidata, del Consiglio di Stato. Giurisprudenza nemmeno condivisa dai TAR le cui sentenze sono state annullate. Per tali ragioni, si è del parere che tutte le operazioni della commissione di concorso vengano rinnovate, previo annullamento dell’atto di nomina della commissione di concorso, e previo, naturalmente, nuovo decreto di nomina di altra commissione secondo i dettami della legge». A.G.S. – Parere del 5 gennaio 2007, n. 1466. Ravvedimento operoso in materia di imposta di consumo sull’energia elettrica (consultivo 64227/05, avvocato G. Mandò). «1. Codesta Direzione chiede il parere della Scrivente in ordine al trattamento sanzionatorio applicabile con riferimento ad ipotesi in cui il contribuente non abbia provveduto al tempestivo versamento a conguaglio dell’imposta erariale di consumo sull’energia elettrica in effetti dovuta in relazione al precedente anno (nella specie segnalata di quella relativa all’anno 2003, con dichiarazione presentata nel 2004), a seconda che : a) la prescritta dichiarazione, successivamente (e tempestivamente) presentata, sia inesatta (e cioè, infedele) in coerenza con il minor versamento già effettuato; b) ovvero la stessa dichiarazione sia stata “regolarizzata”(e quindi sia fedele nel suo contenuto) e in coerenza con la stessa, il contribuente provveda entro il termine per la dichiarazione anche al versamento della differenza di tributo dovuto e non corrisposto nel termine prescritto per il pagamento. 2. Si premette che ai sensi dell’art. 55 co. 1 del T.U. n. 504/1995, l’accertamento e la liquidazione di imposta di consumo e.e. sono fatti dal competente ufficio, sulla base della dichiarazione di consumo annuale da presentarsi dal fabbricante entro il giorno 20 del mese di febbraio dell’anno successivo a quello cui si riferisce e che, ex successivo art. 56, i fabbricanti versano l’imposta in rate di acconto entro il 16 di ciascun mese sulla base 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dei consumi dell’anno precedente e sono tenuti al versamento del conguaglio entro il 16 del mese di febbraio dell’anno successivo a quello cui si riferisce e sulla base dei dati consuntivi sono rideterminate le rate di acconto. Il successivo art. 59 prevede la sanzione pecuniaria tra il doppio ed il decuplo dell’imposta evasa o che si è tentato di evadere, a carico del fabbricante che (in particolare) “omette o redige in modo incompleto o inesatto le dichiarazioni di cui all’art. 55,co. 1 e 3). Ciò premesso e con riferimento all’ipotesi di cui al punto 1.a) – ossia omesso, totalmente o parzialmente, pagamento (entro il 16 febbraio dell’anno successivo) del tributo in effetti dovuto, in coerenza con infedele dichiarazione del fabbricante rettificata dall’amministrazione – ritiene questa Avvocatura generale che la pur opinabile questione debba essere risolta nel senso della applicazione soltanto dalla sanzione pecuniaria rapportata al tributo evaso o di cui si è tentata la evasione di cui al predetto art. 59. In tal caso (prescindendo dalla non decisiva circostanza dell’anteriorità del pagamento del conguaglio di imposta rispetto alla dichiarazione), l’insufficiente versamento dell’imposta è, giuridicamente e logicamente, soltanto la “conseguenza” normale della infedeltà della dichiarazione. Detta infedeltà trova la sua punizione nella sanzione pecuniaria ex art. 59 citato, rapportata all’imposta evasa o che si è tentato di evadere e perciò anche al tributo che non si è pagato o si è tentato di non pagare mediante la non veritiera dichiarazione. Una autonoma e concorrente sanzionabilità del mancato (totalmente o parzialmente) pagamento, non può fondatamente farsi discendere dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997; tale disposizione colpisce con la sanzione del 30% di ogni importo non versato colui che non esegue, in tutto o in parte, i versamenti diretti (periodici, di conguaglio o a saldo) dell’imposta risultante dalla dichiarazione e non può riferirsi al caso di omesso o tardivo pagamento di tributo dovuto (anziché sulla base della dichiarazione presentata dal contribuente, emendata degli eventuali errori materiali o di calcolo rilevati in sede di suo controllo) in base all’accertamento ed alla conseguente liquidazione operati dall’ufficio in sede di rettifica della dichiarazione infedele. Con riferimento all’ipotesi di cui sub 1.b) che precede – e cioè nel caso in cui il contribuente, dopo l’insufficiente versamento operato entro il 16 febbraio, provveda a presentare entro il successivo giorno 20 la dichiarazione ritenuta “fedele” e contestualmente o successivamente provveda al pagamento dell’imposta dovuta in base alla stessa – si ritiene, per le medesime ragioni esposte al precedente punto 3 – che vada applicata (unicamente) la sanzione del 30% di cui al citato art. 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997, salve – qualora ne ricorrano i presupposti - le riduzioni previste nell’art. 13, in particolare lett. a) e b) del D.Lgs. n. 472 del 1997. Giova precisare che la riduzione prevista nella richiamata lett. b), è applicabile se regolarizzazione avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale la violazione stessa è stata commessa (…)». I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 347 A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3243. Sicurezza sul lavoro. Potere di accesso all’alloggio di rappresentanza del Prefetto. Decreto legislativo n. 626/1994 (consultivo 24198/05, avvocato Giovagnoli – interim avvocato M. Borgo). «Codesta Amministrazione ha chiesto alla Scrivente un parere in merito alla possibilità per i rappresentanti dei lavoratori di accedere, nell’ambito delle competenze loro attribuite dalla legge, agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti, al fine di verificarne la rispondenza alle prescrizioni di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994. Al proposito, questo Generale Ufficio ritiene che, ferma restando l’esigenza del rispetto della normativa in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro anche con riferimento agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti, allo specifico quesito, sopra sintetizzato, debba darsi risposta negativa alla luce delle considerazioni che seguono. Giova rilevare, al riguardo, che la norma che definisce i poteri dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza è l’art. 19 del decreto legislativo n. 626 del 1994. Tale norma attribuisce al rappresentante per la sicurezza il potere di “accedere ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni” (art. 19, comma 1°, lett. a). Il legislatore, quindi, ha attribuito il diritto di accesso al rappresentante dei lavoratori non rispetto a qualsiasi luogo di lavoro ma solo rispetto a quei luoghi “in cui si svolgono le lavorazioni”. Ne discende che, per delimitare l’oggetto del diritto di accesso del rappresentante per la sicurezza, non basta accertare che l’alloggio di rappresentanza del Prefetto costituisca “luogo di lavoro” per alcuni lavoratori (in particolare, come evidenzia codesta Amministrazione, per quelli che procedono all’inventario degli arredi o che verificano lo stato di conservazione degli stessi), ma è necessario effettuare una seconda verifica finalizzata ad accertare se in tale luogo di lavoro si svolgano le “lavorazioni”. È il concetto di “lavorazione”, pertanto, che assume rilievo determinante per circoscrivere il campo di applicazione dell’art. 19, comma 1°, lett. a) del D.Lgs. n. 626 del 1994. Orbene, ad avviso della Scrivente, per “lavorazione” deve intendersi un processo produttivo che sia stabile e duraturo: altrimenti opinando, infatti, si arriverebbe al risultato, tanto paradossale quanto inaccettabile, di considerare “accessibile” dal rappresentante per la sicurezza qualsiasi locale in cui si svolga, anche se in maniera del tutto occasionale e limitata, un “frammento” della prestazione lavorativa di un qualsiasi lavoratore. Già sotto il profilo letterale, quindi, gli alloggi di rappresentanza dei Prefetti non possono essere ricondotti nell’ambito dell’art. 19, comma 1° lett. a) del D.Lgs. n. 626/94, perché, pure ad ammettere che essi saltuariamente costituiscano luogo di lavoro per alcuni dipendenti, deve, tuttavia, escludersi che si tratti di locali in cui si svolge una “lavorazione” nel senso sopra precisato. 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ciò non vuole certo dire che i lavoratori che accedono agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti non abbiano diritto a lavorare in condizioni di sicurezza; a tutela di questo loro diritto, tuttavia, non è attivabile lo strumento di protezione previsto dall’art. 19, comma 1, lett. a), costituito dalla possibilità di accesso dei rappresentanti per la sicurezza. Oltre al citato argomento letterale, la risposta negativa al quesito si impone alla luce di considerazioni di carattere sistematico. Preme rilevare, sotto tale profilo, che con il D.Lgs. n. 626 del 1994 il legislatore ha inteso tutelare la sicurezza dei lavoratori limitando, a tal fine, la libertà di impresa e di iniziativa economica del datore di lavoro. Si tratta di un intervento normativo che trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 41 Cost.: tale norma, dopo aver proclamato che l’iniziativa economica privata è libera (comma 1°), aggiunge, al comma 2°, che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. In tal modo, la norma costituzionale rende possibili interventi legislativi, quale quello che si è attuato con il decreto legislativo n. 626 del 1994, volti a comprimere la libertà di iniziativa economica al fine di tutelare la sicurezza dei lavoratori. Gli alloggi di rappresentanza dei Prefetti costituiscono, tuttavia, non solo e non tanto luoghi in cui si esplica la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro, quanto, e soprattutto, luoghi destinati a soddisfare le esigenze abitative dei Prefetti che in essi dimorino. In altri termini, prima di essere locali in cui si esplicano, occasionalmente, frammenti di attività lavorativa di alcuni dipendenti, essi costituiscono luoghi di privata dimora, riconducibili alla nozione costituzionale di domicilio. La norma costituzionale che protegge tali locali dagli accessi esterni non è, quindi, il citato art. 41 Cost, ma l’art. 14 Cost. che tutela il domicilio. Giova sottolineare, sotto questo profilo, che la nozione costituzionale di domicilio, secondo la tesi prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si identifica con la nozione penalistica di domicilio, quale risulta descritta dall’art. 614 c.p. Tale norma, in relazione al delitto di violazione di domicilio, comprende tre diverse realtà spaziali e cioè: a) l’abitazione; b) gli altri luoghi di privata dimora; c) le appartenenze di questi. Alla luce della predetta nozione di “domicilio”, non pare, quindi, esservi dubbio sul fatto che in esso rientri anche l’alloggio di rappresentanza del Prefetto, trattandosi di un luogo di privata dimora che svolge, per chi vi soggiorna, le stesse funzioni dell’abitazione. Ai sensi dell’art. 14 Cost., il domicilio è inviolabile e in esso “non si possono eseguire ispezioni e perquisizioni se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”. Una previsione, questa ultima, il cui tenore, unitamente alle argomentazioni, più sopra illustrate, induce ad escludere la possibilità per i rappresentanti dei lavoratori di accedere, nell’ambito delle competenze loro attribuite dalla legge, agli alloggi di rappresentanza dei Prefetti. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 349 Il che non significa, preme ribadirlo, che i lavoratori che svolgono occasionalmente la loro prestazione negli alloggi di rappresentanza, non abbiano diritto a condizioni di lavoro sicure; tale diritto certamente sussiste ma ad esso non corrisponde la possibilità per i rappresentati dei lavoratori di esercitare il potere di accesso riconosciuto dall’art. 19, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 626/1994. Alla luce di quanto esposto, la richiesta di accesso dei rappresentati dei lavoratori per la sicurezza non può essere accolta in quanto gli alloggi di rappresentanza dei Prefetti non costituiscono luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni ai sensi dell’art. 19 D.Lgs n. 626 del 1994, ma locali riconducibili alla nozione costituzionale di domicilio, come tali inviolabili se non nei casi previsti dalla legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria (....)». A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3245. Applicazione delle disposizioni di cui all’art. 20, comma 1, della legge n. 241 del 1990 ai procedimenti di competenza dell’Ufficio nazionale per il servizio civile (consultivo 48161/06, avvocato F. Varrone). «1. Codesto Ufficio nazionale ha chiesto parere circa l’applicabilità o meno della disciplina del silenzio assenso ex art. 20 della legge n. 241 del 1990 (come successivamente modificata) a due procedimenti di sua competenza, e precisamente: 1) al procedimento disciplinato mediante circolare 2 febbraio 2006 di accreditamento ed iscrizione in albo degli enti di servizio civile nazionale; e 2) del procedimento, ora regolato dagli allegati al decreto 3 agosto 2006 del Ministro della solidarietà sociale, per la valutazione e la selezione dei singoli progetti presentati dagli enti accreditati ed iscritti. Preliminarmente si rileva che il citato art. 20, al comma 4, prevede la possibilità di escludere l’applicazione delle “disposizioni del presente articolo” mediante un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti; ciò a prescindere dalla interpretazione più o meno estensiva (e quindi suscettibile di divergenti letture) — delle espressioni “difesa nazionale” e “pubblica sicurezza”, pure utilizzate in quel comma 4. Un d.P.C.M. potrebbe essere emanato e pubblicato nell’arco di poche settimane, anche perché non pare che il citato comma 4 preveda atti aventi natura di regolamento. D’altro canto, l’art. 2 della legge n. 241 del 1990 (come sostituito nel 2005) al comma 2 consente di stabilire mediante regolamento termini più ampi di quello di novanta giorni previsto dal successivo comma 3; tra i molti, cfr. il recente d.P.R. 23 dicembre 2005 n. 303 relativo al Segretariato generale della Presidenza del Consiglio. Ancora giova segnalare la decisione Cons. Stato, V, 22 giugno 2004 n. 4355 che riconosce all’autorità amministrativa il potere di annullare l’assenso silenzioso, e però qualora sussistano “i presupposti per emanare un atto di autotutela”…Tale orientamento giurisprudenziale è confermato dall’art. 20 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO comma 3 della legge n. 241 del 1990 (come sostituito nel 2005). Sicché in linea di massima la preoccupazione di codesto ufficio appare giustificata. Nel frattempo, codesto Ufficio potrebbe ricorrere all’espediente empirico di comunicare ai soggetti che hanno presentato istanze di accreditamento o progetti non ancora esaminati un atto negativo “allo stato attuale della istruttoria in corso”; tale atto potrebbe contenere una riserva di più completo esame dell’istanza o del progetto. Altra osservazione preliminare concerne il procedimento di valutazione e selezione dei singoli progetti. Esso presenta, come ritenuto in ordinanza cautelare n. 3956/06 del Consiglio di Stato, i connotati di una procedura concorsuale preceduta da una “prima fase” di delibazione —sulla base della documentazione esibita (“scheda — progetto”, etc.) — della ammissibilità del progetto alla valutazione e selezione; la “seconda fase” infatti si sostanzia in una comparazione tra i progetti reputati ammissibili e si conclude con la formazione ed approvazione di una graduatoria. Appare pertanto opportuno rendere il punto 4.6 del “prontuario” allegato al citato D.M. 3 agosto 2006 coerente con gli anzidetti connotati, prevedendo una modalità di pubblicità della graduatoria e riservando le comunicazioni individuali alle determinazioni di inammissibilità / esclusione del progetto presentato. In particolare, in esito alla “seconda fase” non dovrebbero più adottarsi singoli provvedimenti per comunicare a ciascun soggetto presentatore di progetto il punteggio ad esso attribuito, essendo esaustiva la comunicazione della graduatoria. 2. Per quanto concerne il procedimento di iscrizione in albo degli enti del servizio civile, codesto Ufficio ha riferito che l’accertamento della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 3 della legge n. 64 del 2001 in taluni casi risulta particolarmente complesso, con notevole difficoltà a concludere il procedimento entro il termine di novanta giorni. In proposito, questa Avvocatura generale sarebbe orientata a ritenere che l’espressione “istanza per il rilascio di provvedimenti amministrativi” non comprenda anche l’iscrizione in albi; non sarebbe infatti appropriato raffigurare il “rilascio” di una iscrizione. Peraltro, sul punto non constano precedenti giurisprudenziali specifici. Inoltre, l’art. 5 comma I del D.Lgs. n. 77 del 2002 reca una formulazione non precisa: anziché disporre “l’Ufficio nazionale per il servizio civile cura la tenuta dell’albo nazionale” (cfr. anche l’art. 2 di detto D.Lgs. ), la norma individua negli “enti” e nelle “organizzazioni” il soggetto che logicamente precede il verbo “possono”. Comunque, l’art. I del citato D.Lgs. n. 77 del 2002 definisce il servizio civile nazionale modalità operativa concorrente e alternativa di difesa dello Stato, con mezzi ed attività non militari”. Tale definizione non può ritenersi superata per effetto della soppressione del servizio militare “di leva”, e trova radice istituzionale nel dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 Cost. Sicché, con buone probabilità del sito favorevole può valorizzarsi l’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui “la previsione contenuta nel primo comma dell’art. 52 della costituzione, che raffigura la difesa della Patria come dovere del cittadino ha un’estensione più ampia dell’obbligo di presta- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 351 re il servizio militare potendo essere adempiuta anche attraverso attività di impegno sociale non armato; in questo contesto il servizio civile tende a porsi come forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della Patria”. Del resto, il procedimento in questione è volto a selezionare soggetti i cui fini istituzionali debbono essere corrispondenti a quelli di cui all’art. i della legge 6 marzo 2001 n. 64, quali la difesa della Patria con mezzi ed attività non militari, realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale, salvaguardia e tutela del patrimonio della Nazione. formazione dei giovani. etc. Un discorso a parte deve essere fatto per l’iscrizione nell’albo di singole amministrazione (anche dotate di autonomia). Premesso che tra codesto ufficio e la singola amministrazione non è ravvisabile rapporto intersoggettivo, e che la valutazione di accreditamento sarebbe circoscritta ai dati organizzativi, detta iscrizione potrebbe essere superflua e comunque sarebbe quasi automatica. 3. Le considerazioni esposte nel par. 2 possono in prima approssimazione, valere anche per il procedimento di valutazione e selezione dei singoli progetti; occorre tuttavia evidenziare alcune rilevanti peculiarità. Anzitutto, il rilevato carattere concorsuale del procedimento condurrebbe a ritenere che silenzio assenso non possa formarsi sulla singola istanza alias candidatura, dovendo prodursi un atto amministrativo “plurimo” (graduatoria). D’altro canto, però, la prequalificazione dei soggetti iscritti nell’albo nazionale potrebbe ingenerare, qualora insorgesse controversia, qualche difficoltà: è infatti prevedibile che il soggetto presentatore di progetto non positivamente classificato (o addirittura valutato negativamente o escluso) tenda a far valere l’anzidetta prequalificazione come affidamento rafforzato dal silenzio sullo specifico progetto. Parrebbe pertanto prudente ricorrere — ove ve ne sia necessità — all’espediente empirico cui si è accennato nel par. I, per i progetti aggiungendo “per l’insieme dei progetti presentati sarà emesso atto amministrativo plurimo». A.G.S. - Parere del 13 febbraio 2007, n. 18543. Inapplicabilità dell’art. 4 comma 2 bis l. 168/05 al concorso notarile e alle altre procedure concorsuali a numero chiuso (consultivo 43036/06, avvocato W. Ferrante). “Con riferimento all’avviso manifestato da codesto Ministero della Giustizia con la nota del 30 ottobre 2006, circa l’applicabilità della norma in oggetto al concorso notarile, richiamando il parere dell’Ufficio Legislativo dello stesso Ministero del 10 ottobre 2005, acquisito con la nota del 22 dicembre 2006, si rappresenta quanto segue. Nel ricordare quanto già evidenziato con la Circolare dell’Avvocato Generale n. 48/2006, trasmessa sia al Ministero della Giustizia che alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con nota del 31 luglio 2006 n. 88759- 88760-88764 P, si osserva che il citato parere dell’Ufficio Legislativo non fa 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO alcun riferimento all’applicabilità al concorso notarile dell’art. 4 comma 2 bis comma 2 bis, d.l. 30 giugno 2005 n. 115 convertito nella legge 17 agosto 2005 n. 168 - recante “elezioni degli organi degli ordini professionali e disposizioni in materia di abilitazioni professionali”, in base al quale “conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”. Come è noto, il Consiglio di Stato ha affermato l’inapplicabilità della predetta norma alle procedure concorsuali a numero chiuso, ed in particolare al concorso notarile, nonostante i ricorrenti, in virtù di provvedimenti cautelari, avessero superato sia le prove scritte, sia le prove orali e fossero già stati nominati notai (Consiglio di Stato, sez. IV, decisioni nn. 4582, 4583, 4584 e 4585 del 18 luglio 2006, nn. 5743, 5744 del 2 ottobre 2006 e 6170 del 16 ottobre 2006, n. 6807 del 21 novembre 2006). Il Consiglio di Stato ha precisato che sia sul piano letterale, sia su quello sistematico “risulta evidente la necessità di applicare la normativa in rassegna in modo costituzionalmente orientato e quindi rifiutandone interpretazioni estensive che ne minerebbero irrimediabilmente la ragionevolezza. In questa ottica è infatti da rilevare che tra le procedure di stampo idoneativo e quelle concorsuali o selettive propriamente dette sussiste una radicale ed ontologica differenziazione”. Nelle citate decisioni, il Consiglio di Stato ha inoltre precisato che “l’applicazione del comma 2 bis anche ai concorsi (come quello notarile) per il conferimento di posti a numero limitato è impraticabile perché lede – oltre alle garanzie di difesa dell’Amministrazione – la posizione degli altri concorrenti, i quali hanno diritto ad ottenere dal giudice una pronuncia di merito che accerti definitivamente se l’ammissione (o la rinnovata valutazione delle prove) del loro antagonista fosse o meno legittima”. È stato inoltre confermato il definitivo abbandono dell’orientamento fondato sul c.d. principio dell’assorbimento, per effetto del superamento delle prove scritte ed orali, risalente all’isolata pronuncia dello stesso Consiglio di Stato n. 2191/2001, già superata dalla decisione della medesima sezione n. 2794/2004. Con riferimento all’esame di abilitazione forense, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1791 del 6 aprile 2006, nel ricordare i principi consolidati della strumentalità e provvisorietà della misura cautelare, la cui doverosa esecuzione non comporta acquiescenza, ha dovuto ammettere che gli stessi “sono completamente ribaltati per volontà e per effetto dell’art. 4 comma 3 della legge 168/2005” e che “l’art. 4 comma 2 bis legge 168/05 sovverte, per legge, inoltre, il su ricordato principio della continenza del rimedio cautelare, che non può, di regola, comportare effetti ulteriori (che eventualmente sono determinati solo dalla successiva fase di esecuzione) rispetto a quelli determinati dall’esito positivo del giudizio di merito …”. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 353 Pertanto, il Consiglio di Stato, pur prendendo atto delle conseguenze derivanti dalla predetta norma in relazione agli esami di abilitazione professionale, dichiarando l’improcedibilità dell’appello dell’amministrazione in presenza delle circostanze previste dalla predetta disposizione, ne ha arginato gli effetti, escludendone l’applicazione ai concorsi ed alle procedure selettive a numero chiuso. Com’è noto, il Consiglio di Stato ha emesso numerosi decreti cautelari provvisori ex art. 3 legge 205/2000 per tentare di contenere il fenomeno scatenato dalla norma in questione che, come prevedibile, ha fatto crescere a dismisura il contenzioso, atteso che la possibilità di poter beneficiare velocemente di una “seconda chance” di valutazione, sovente in assenza di anonimato, si è accompagnata alla speranza di omettere sia il processo di merito, sia, soprattutto, il giudizio di impugnazione che costituiva precedentemente il principale ostacolo per i ricorrenti, stante il consolidato orientamento del Consiglio di Stato contrario alle aperture di alcuni TAR in tema di insufficienza del voto numerico, di sindacabilità del giudizio tecnico discrezionale della commissione esaminatrice, di infungibilità dei membri della commissione, di incongruità dei tempi di correzione ed in relazione ad altre censure ricorrenti e costantemente disattese dal Giudice di secondo grado. Va ricordato inoltre che, anche in relazione all’applicazione dell’art. 4, comma 2 bis della legge n. 168/05 all’esame di abilitazione alla professione forense, con l’ordinanza n. 479/06 del 28 luglio 2006, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale della predetta norma per violazione degli artt. 3, 24, 25, 101, comma 2, 104 comma 1, 111 comma 2 e 113 Cost. Secondo l’ordinanza di rimessione del C.G.A.R.S., la norma in questione si traduce in un’inammissibile compromissione del diritto di difesa dell’amministrazione e degli eventuali controinteressati, non garantendo l’effettività del contraddittorio (art. 24 Cost.) e comportando la preclusione del giudizio di merito e del giudizio di impugnazione. La predetta norma si pone inoltre in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), venendo in rilievo il pari interesse delle parti ad evitare che, ove il provvedimento sia in concreto adottato in difformità dallo schema legale, “si abbia una ingiustificata, e non altrimenti rimediabile, violazione dell’iter processuale: la misura cautelare, strumentale ad un’azione di merito avente un mero contenuto nella norma, avulsa dal giudizio di merito, comporta la violazione del principio di eguaglianza e del principio di ragionevolezza”. In base alla predetta norma, trova infatti applicazione, per una certa categoria di controversie e senza alcuna giustificazione, un rito diverso da quello applicabile nella generalità dei casi, che potrebbe esaurirsi – in alcune ipotesi ed in altre no, solo per ragioni temporali, come tali del tutto contingenti - nella fase cautelare e per giunta in unico grado. La predetta disposizione finisce infatti per privilegiare chi riesce ad ottenere più velocemente l’esecuzione dei provvedimenti cautelari, per ragioni del tutto casuali, pur in presenza delle medesime censure. Ne deriva quindi l’evidente disparità di trattamento in situazioni del tutto identiche ed il totale svilimento del corretto ed 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO equanime procedimento di accesso alla professione forense, con evidente danno, in definitiva, all’interesse pubblico che il delicato esercizio della professione forense sia conferito a soggetti selezionati con una procedura idonea ad accertarne le qualità richieste, in modo trasparente ed imparziale. Inoltre, secondo il C.G.A.R.S., la norma, in base alla quale il fatto storico dell’avvenuto superamento delle prove scritte e orali impedisce la proposizione del gravame, o ne vanifica gli effetti se già proposto e non ancora deciso, viola sia l’art. 113 Cost., in base al quale la “tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”, sia l’art. 25 Cost. che prevede il giudice naturale precostituito per legge, atteso che il ricorso innanzi ad un T.A.R. incompetente e scelto per la sua giurisprudenza favorevole - sebbene contrastante con quella del giudice d’appello - rende inoperante ogni rimedio, ivi compreso il regolamento di competenza. Va inoltre osservato che la ricostituzione di una sorta di anonimato nella ricorrezione delle prove (che talvolta i T.A.R. nemmeno impongono) e l’intento di garantire la par condicio rispetto a tutti coloro che superano esami di abilitazione e concorsi per le vie ordinarie, appaiono nella sostanza impraticabili, considerato che tutti gli elaborati sono contrassegnati da un numero identificativo, recano il voto riportato e sono nella piena disponibilità dei componenti della Commissione oltre che degli stessi ricorrenti che possono agevolmente ottenerne copia con una semplice istanza di accesso. Si veda in proposito la sentenza del Consiglio di Stato del 14 ottobre 2005 n. 5709, in base alla quale la ricorrezione delle prove scritte e l’ammissione alle prove orali in esecuzione prima di un’ordinanza cautelare e poi di una sentenza di primo grado non esprimono acquiescenza alla decisione del T.A.R. ma costituiscono per il Ministero e la Commissione d’esame comportamenti necessitati dall’obbligo di dare esecuzione dapprima all’ordinanza cautelare del Tribunale territoriale e poi alla sentenza di primo grado. Nella predetta pronuncia, emessa in relazione all’esame di avvocato, viene chiarito che “l’Amministrazione ha poi il dovere di tutelare la par condicio degli esaminandi che verrebbe compromessa quando taluni candidati vengono sottoposti a non previste prove di appello, vengono sottratti alla propria commissione naturale e si avvantaggiano in quanto la ripetizione di talune attività comporta una dilatazione di tempi che si traduce in maggior tempo di preparazione. La improcedibilità per cessazione della materia del contendere o per sopravvenuta carenza di interesse , ove non ne siano evidenti i presupposti …, si traduce in una palese violazione del diritto di difesa di una delle parti nel giudizio”. Alla luce di quanto sopra, si ritiene quanto mai opportuno, sulla scorta del consolidato orientamento del Consiglio di Stato, escludere l’applicazione della norma in questione al concorso notarile ed alle altre procedure concorsuali a numero chiuso, considerate le delicate funzioni pubbliche svolte dal notaio e la necessità che l’accesso ai pubblici impieghi venga assicurato nel rispetto del principio costituzionale della selezione dei migliori in modo trasparente ed imparziale. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 355 Pertanto, qualora il Ministero della Giustizia intenda discostarsi dal suesteso parere, sarà necessario attivare la procedura di cui all’art. 12 legge 103/79, in base al quale le divergenze che insorgono tra l’Avvocatura dello Stato e l’amministrazione, circa l’instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, sono risolte dal Ministro con determinazione non delegabile. Considerati i possibili risvolti del presente parere in ordine ai concorsi pubblici banditi da altre amministrazioni, lo stesso viene trasmesso anche alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per il Coordinamento Amministrativo, cui era stata già inviata, con nota n. 31 luglio 2006 – 88759 P, la Circolare dell’Avvocato Generale n. 48/06, per la sua eventuale diffusione a tutte le amministrazioni pubbliche interessate ... (1)». A.G.S. – Parere del 20 febbraio 2007, n. 21716 Decreti liquidazione compensi per attività di assistenza e difesa di soggetti ammessi al gratuito patrocinio (consultivo 3822/07, avvocato C. Colelli). «Sono stati notificati presso la Scrivente numerosi decreti ingiuntivi contenenti la condanna di codeste Amministrazioni alla corresponsione dell’importo liquidato ad avvocati per l’attività di assistenza e difesa di soggetti ammessi al gratuito patrocinio. Il ricorso alla via giurisdizionale ai fini del soddisfacimento del credito, secondo quanto appreso dalle comunicazioni scritte fatte pervenire dalle controparti, sarebbe stato determinato dall’eccessiva dilatazione dei tempi di pagamento dei suddetti decreti, causata dai recenti tagli cui sono stati sottoposti i fondi destinati alle c.d. “spese di giustizia”. A tale proposito la Scrivente non può non richiamare l’attenzione di codesti Dipartimenti sull’innegabile aggravio economico che deriva all’erario dall’emissione dei menzionati decreti ingiuntivi, che, oltre all’importo corrispondente alla somma liquidata ex art. 82 del testo unico approvato con d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recano la condanna di codeste Amministrazioni al pagamento degli interessi legali e delle spese della procedura monitoria. Posto che alcun dubbio, in punto di diritto, può essere sollevato sulla sussistenza del credito azionato, atteso che la richiesta trova fondamento nei decreti di liquidazione dei compensi emessi dall’autorità giudiziaria, si invitano codeste Amministrazioni all’adozione di ogni utile provvedimento al fine di prevenire l’insorgenza di ulteriori contenziosi in materia. Quanto alla gestione del contenzioso già in corso, si rappresenta che quest’Avvocatura – che, in prima battuta, ha cautelativamente proposto opposizione ai detti decreti – a seguito di più approfondito esame della que- 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) Sull’argomento si segnala l’articolo di STEFANO VARONE, Il contenzioso in materia di procedure di abilitazione professionale dopo l’entrata in vigore dell’art. 4, co. 2bis, legge 17 agosto 2005, n. 168, pubblicato in questa Rassegna, 2006, n. 2, 402. stione, ritiene non conforme all’interesse pubblico coltivare tali giudizi e proporre nuove opposizioni. Come osservato, non sono individuabili ragioni sostanziali di contestazione del credito attivato in sede monitoria, posto, come detto, che la richiesta trova fondamento nei decreti di liquidazione dei compensi emessi dall’autorità giudiziaria. Tuttavia, proprio la sussistenza di un provvedimento giudiziale contenente la liquidazione del credito e l’individuazione del soggetto tenuto all’adempimento dello stesso (sulla base delle indicazioni contenute nell’art. 185 del citato testo unico) potrebbe far sorgere delle perplessità sulla legittimità del ricorso da parte del creditore alla procedura monitoria e sulla conseguente acquisizione di un nuovo titolo giudiziale, contenente la condanna al pagamento delle medesime somme. Al fine di chiarire la problematica appena accennata e necessario rispondere ad un duplice ordine di quesiti: 1) Se il decreto di liquidazione dei compensi ex art. 82 del testo unico n. 115 del 2002 possa essere qualificato come titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. 2) In caso positivo, se possa ritenersi sussistente un interesse giuridicamente apprezzabile all’acquisizione di un nuovo titolo. Nel sistema antecedente all’entrata in vigore del testo unico del 2002 sulle spese di giustizia i provvedimenti oggetto del presente esame erano disciplinati dall’art. 12 della legge 217 del 1990 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), a norma del quale il giudice titolare del procedimento nel quale gli stessi avevano prestato la loro opera provvedeva alla liquidazione dei compensi spettanti ai difensori con decreto motivato, avverso il quale era possibile proporre ricorso secondo le modalità stabilite dall’art. 29 della legge n. 794 del 1942. Sulla natura di tale provvedimento la giurisprudenza non risulta che abbia mai preso esplicitamente posizione. Il medesimo rimedio di cui all’art. 29 citato era, tuttavia, previsto anche per i decreti (motivati) di liquidazione dei compensi spettanti ai soggetti disciplinati dalla legge 319 del 1980, ossia periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per l’opera eseguita a richiesta dell’autorità giudiziaria, a cui la Suprema Corte aveva esplicitamente attribuito natura di titolo esecutivo. L’analoga formulazione delle norme contenenti la disciplina dei due tipi di provvedimenti e l’identità del rimedio esperibile avverso gli stessi, avrebbe potuto far ritenere che gli stessi avessero anche la medesima natura e che, dunque, anche il decreto ex art. 12 citato fosse qualificabile come titolo esecutivo. A tale conclusione non consegue, tuttavia, necessariamente una risposta negativa al quesito di cui al punto 2). La Suprema Corte, affrontando una questione analoga a quella oggetto del presente parere (legittimità del ricorso alla procedura monitoria) con riferimento ai decreti di cui all’art. 11 della legge 319/80, ha, infatti, evidenziato che “… il generale principio secondo cui il creditore il quale abbia ottenuto pronuncia di condanna del debitore ha esaurito il diritto di azione e non può per difetto di I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 357 interesse … ulteriormente richiedere un decreto ingiuntivo contro il medesimo debitore per lo stesso titolo e lo stesso oggetto, …, soffre deroga quante volte, pur in presenza di una domanda rivolta al giudice per la condanna del convenuto al pagamento di una somma di denaro sulla base di un titolo giudiziale esistente, tale domanda, lungi dal risultare diretta ad ottenere una duplicazione del titolo già conseguito, si palesi ammissibile, in presenza del relativo interesse, per essere la situazione giuridica fatta valere, la quale non abbia già trovato esaustiva tutela, suscettibile di permettere il conseguimento di un ulteriore utile risultato rispetto alla lesione denunziata” (v. Cass. n. 135/2001, in cui, in applicazione dell’enunciato principio, è stato ritenuto ammissibile il ricorso alla procedura monitoria in relazione al fatto che il decreto ingiuntivo, contrariamente al decreto ex art. 11 legge 319 del 1980, costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale; nello stesso senso Cass. n. 7354/2004). Sulla scorta della citata giurisprudenza – sicuramente estensibile al caso in esame – non può, quindi, in linea di principio, essere escluso il diritto del creditore, pur in possesso di un titolo esecutivo, di procurarsi un titolo ulteriore, qualora ciò sia finalizzato a rafforzare gli strumenti di tutela del diritto azionato. A tale conclusione pare alla Scrivente che debba a maggior ragione pervenirsi nell’attuale sistema normativo, delineato dal Testo Unico sulle spese di giustizia, dall’esame del quale emergono elementi che parrebbero escludere la stessa qualificabilità dei decreti di cui infra come titoli esecutivi. L’art. 82 del testo unico del 2002 stabilisce che l’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento, che il successivo art. 171 – rubricato “Effetti del decreto di pagamento” – definisce “titolo di pagamento della spesa in tutte le fattispecie previste dal presente testo unico”. La portata di tale definizione può essere colta tenendo conto del fatto che gli artt. 173 e ss. disciplinano in modo analitico le modalità di pagamento delle spese in conto dell’erario, tra cui rientrano ovviamente le spese per il patrocinio dei non abbienti, e parrebbe dover essere intesa nel senso che il decreto di liquidazione costituisca titolo per ottenere il pagamento secondo le modalità disciplinate dal T.U., con esclusione dell’efficacia di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. Né a diversa conclusione può indurre il dettato dell’art. 170 del T.U. Tale articolo disciplina il procedimento di opposizione al decreto di liquidazione e, al terzo comma, contempla la possibilità per il giudice di “sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto”, dovendo presumibilmente tale esecutività essere riferita all’idoneità del decreto di essere eseguito secondo le modalità di cui agli artt. 173 e ss. Tale è, peraltro, l’opzione interpretativa adottata dall’Amministrazione della Giustizia (v. nota prot. 5356 INT del 18 luglio 2007 della Dirigenza delle Cancellerie del Tribunale Ordinario di Roma), che ha esplicitamente escluso che i decreti di liquidazione dei compensi dei difensori di soggetti ammessi al patrocinio statale (così come quelli degli ausiliari del magistrato, 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dei custodi giudiziari, etc.) possano essere portati ad esecuzione forzata secondo le modalità di cui al codice di procedura civile. Sulla base di quanto esposto, quindi, non pare opportuno proporre opposizione ai decreti ingiuntivi di cui si discute al solo fine di contestare la sussistenza del relativo interesse. La Scrivente si asterrà, quindi, per il futuro, dall’assumere tale iniziativa, al fine di evitare un inutile aggravio di spese ed oneri, salvo che sussistano ulteriori motivi di opposizione che codeste Amministrazioni vorranno di volta in volta comunicare. Pare opportuno in conclusione richiamare l’attenzione sull’individuazione del soggetto tenuto al pagamento. Come già accennato la disciplina di tale aspetto è contenuta nell’art. 185 del T.U. del 2002, il quale stabilisce che le aperture di credito per i pagamenti dei decreti di liquidazione dei compensi spetti al Ministero della Giustizia per le attività prestate nei giudizi penali e civili, al Ministero della Difesa per quelle relative ai processi davanti alla Magistratura Militare e al Ministero dell’Economia e delle Finanze per gli oneri relativi ai giudizi dinnanzi alle Commissioni Tributarie. Può tuttavia accadere che i giudici emettano il decreto ingiuntivo ponendone l’ammontare a carico solidale di più Amministrazioni, delle quali una soltanto è dotata di legittimazione passiva. In particolare, nei casi di cui al presente parere, i decreti ingiuntivi sono stati più volte emessi congiuntamente nei confronti del Ministero della Giustizia (effettivamente tenuto alla corresponsione) e contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze. In tale ipotesi, in via di principio, occorrerebbe proporre opposizione al fine di far valere il solo difetto di legittimazione passiva di quest’ultimo (potrebbero, ovviamente, verificarsi ipotesi in senso inverso). Al fine, tuttavia, di evitare un inutile proliferazione di contenziosi, pare opportuno e conforme al pubblico interesse che il Ministero individuato quale competente dal citato art. 185 provveda all’integrale pagamento di quanto ingiunto in un’ottica di leale collaborazione tra Amministrazioni statali. La presente nota è inviata agli Uffici legislativi anche per segnalare che il testo unico del 2002, mentre all’art. 98, comma 3, all’art. 112, comma 1 e all’art. 127, comma 3, consente una iniziativa del’“ufficio finanziario” volta ad ottenere la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (in precedenza, art. 10, comma 2, della legge n. 217 del 1990), non prevede all’art. 170 la possibilità di una opposizione dell’amministrazione destinataria del “decreto di pagamento” (o dello stesso “ufficio finanziario”). Considerata la consistenza complessiva dei pagamenti ordinati e il principio del contraddittorio (art. 111 Cost.), una siffatta mera possibilità – da esercitarsi peraltro solo in casi eccezionali – potrebbe essere esplicitamente riconosciuta e disciplinata (…)». I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 359 A.G.S. - Parere del 26 febbraio 2007, n. 24832. Accademia dei Georgofili. Uso gratuito o agevolato della sede di proprietà demaniale (consultivo 40863/06, avvocato A. Palatiello) (*). «(…) L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Firenze ha domandato il parere della Scrivente in merito alla richiesta di pagamento di canoni avanzata dall’Agenzia del Demanio (...) all’Accademia dei Georgofili per l’uso dell’immobile demaniale “ex Torre de Pulci” nel compendio della Galleria degli Uffizi, in Firenze. La nota anzidetta illustra la questione, richiama i precedenti pareri in argomento, sottolinea la natura sostanzialmente statale dell’Ente, esprime l’avviso della gratuità dell’uso, riconosciuta da nota del 12 novembre 1933 n. 113759 del Ministero delle Finanze – P.G.S., sul presupposto della natura statale dell’Accademia affermata dal R.D. 21 agosto 1897, n. 304 e non contraddetta dalla successiva qualificazione di “ente morale”, di cui al R.D. 6 giugno 1932, n. 767. Di contrario avviso si è mostrata l’Agenzia del Demanio, Filiale della Toscana, che alla luce della normativa sopravvenuta, ed in particolare di quella degli anni Ottanta e seguenti, sostiene la debenza del canone, sia pure nella misura ridotta di cui, oggi, all’art. 11 del d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296 (10% del valore locativo di mercato). È stato acquisito il punto di vista della Direzione di Coordinamento Staff-Normativa dell’Agenzia del Demanio, che, con nota 7 dicembre 2006, n. 36889, ha ribadito il convincimento della “necessaria onerosità del godimento dell’immobile sia pure a canone agevolato, in coerenza con il comportamento assunto nei riguardi degli “enti morali”, ma non esclude la propria disponibilità ad una “possibile soluzione transattiva della controversia”. Da ultimo, con la nota del 20 dicembre 2006, n. 24308, in conclusiva sintesi, l’Avvocatura Distrettuale richiama la “singolare peculiarità sia della natura ed evoluzione storica dell’Accademia, sia del rapporto d’uso, assentito a suo tempo a titolo gratuito e perpetuo con formale provvedimento amministrativo mai revocato” in forza del quale la posizione dell’Accademia sarebbe del tutto diversa da quella degli altri “enti morali” fruitori di immobili demaniali (in specie, di quelli calendati, insieme con l’Accademia dei Georgofili, nel d.P.R. 6 novembre 1984, n. 834). La questione è stata portata all’esame del Comitato Consultivo di cui all’art. 25 legge 3 aprile 1979, n. 103, per la delicatezza che essa presenta coinvolgendo due Enti (Agenzia e Accademia) entrambi affidati al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato ex art. 43 T.U. n. 1611/1933, come modificato dalla legge n. 103/79 ed entrambi portatori, ciascuno nel proprio ambito, di interessi anche statali; in particolare, l’Accademia, che fruisce di finan- 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) L’Accademia dei Georgofili ha proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato, che è stato istruito dall’Agenzia del Demanio ed è all’esame del Consiglio di Stato per l’acquisizione del parere prescritto ai sensi dell’art. 11, d.P.R. n. 1199/71. ziamenti statali, non si presenta, nei rapporti di dare-avere, come un soggetto del tutto “estraneo” allo Stato, così come di certo tale non si presenta l’Agenzia, che dello Stato, nell’ambito delle sue attribuzioni, cura gli interessi. In buona sostanza, né ai debiti dell’Accademia né ai crediti dell’Agenzia è estraneo lo Stato, che può trovarsi a dover fornire la provvista per l’adempimento dei primi e cioè per il recupero dei secondi, in una sorta di partita di giro che tale resta pur nel diaframma apparentemente (ma non economicamente) costituito dall’intervento di diverse soggettività formali. Il rilievo rende particolarmente doverosa l’indicazione della migliore via iuris per il superamento del contrasto, cui occorre pervenire, in caso di res dubia, attraverso reciproche concessioni. Si tratta dunque di stabilire se l’Accademia dei Georgofili abbia diritto all’uso gratuito dell’immobile demaniale nel quale ha la propria sede, in Firenze, “Torre de Pulci”, o se invece debba pagare il canone di concessione sia pure nella misura ridotta pari a non meno del 10% del valore locativo di mercato. Ritiene il Comitato Consultivo che l’Accademia dei Georgofili non è ente-organo dello Stato: in tali sensi negativi è anche l’interpretazione corrente, posto che il D.P.C.M. 25 agosto 1995 di attribuzione del patrocinio dell’Avvocatura ex art. 43 cit. non avrebbe senso se l’ente fosse un’amministrazione (autonoma) statale perché in tal caso fruirebbe del patrocinio necessario ex art. 1 R.D. cit.. L’Accademia è dunque un ente non economico che certamente svolge attività di rilevante interesse pubblico nel campo degli studi, delle ricerche, del progresso scientifico, etc. (artt. 1 e 2 dello Statuto, di cui al d.m. 15 ottobre 1999), ma che è collocato tra le istituzioni culturali, private e pubbliche, distinte dello Stato, elencate nella tabella di cui al d.P.R. 6 novembre 1984, n. 834, e ammesse al contributo annuale dello Stato. L’inquadramento dell’ente tra le istituzioni culturali comportò, all’epoca della vigenza della legge 11 luglio 1986, n. 390, una posizione preferenziale nell’assegnazione di immobili del demanio statale (art. 1, comma 1°, lett. A) della legge citata), al “canone ricognitivo annuo non inferiore a lire centomila e non superiore al 10 per cento di quello determinato … sulla base dei valori in comune commercio” (art. 1, comma 1°, penultimo periodo). La gratuità era però confermata solo ove prevista da disposizioni di legge (art. 2, c. 2). Con legge 23 dicembre 1998, n. 448, vennero dettate norme organiche per l’utilizzo di beni immobili appartenenti a qualsiasi titolo allo Stato; in particolare, l’art. 19, c. 10 bis, ha disposto la possibilità di assegnare in concessione “anche gratuitamente” i beni statali nel rispetto di alcuni principi, tra cui “l’utilizzo dei beni ai fini di interesse pubblico o di particolare rilevanza sociale”, secondo quanto stabilito con regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Il regolamento è stato adottato con d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296. In esso si distinguono i “beneficiari a titolo gratuito”, elencati nell’art. 10, dai “soggetti beneficiari a canone agevolato”, calendati nell’art. 11, intendendosi per canone agevolato minimo il dieci per cento del valore di mercato (art. 12), che oggi è, appunto, rivendicato provvisoriamente dall’Agenzia. E dunque il problema si riduce al quesito “se l’Accademia dei Georgofili sia ricompresa tra gli enti di cui I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 361 all’art. 10 ovvero dell’art. 11 del d.P.R. 13 settembre 2005, n. 296”; l’altra possibilità, che cioè essa non rientri in nessuno dei due elenchi, non è considerato dell’Agenzia, ma è radicalmente sostenuta dall’Ente con l’unico argomento della propria natura statale. Ma l’argomento non è condivisibile, stante l’elencazione dell’Accademia tra le istituzioni culturali ammesse al contributo ordinario dello Stato (art. 1 legge 2 aprile 1980, n. 123) accanto, peraltro, ad una serie di enti che certo non possono considerarsi organi statali. Né può farsi rientrare l’Accademia tra gli enti di cui all’art. 10 regolamento citato: l’elencazione dell’art. 10 è evidentemente tassativa e di stretta interpretazione, perché comporta eccezione alla regola generale della corrispettività. Né l’Accademia è assimilabile alle Università statali il cui fine primario è l’insegnamento per il perseguimento dei titoli di studio; ben si addice invece all’Accademia la collocazione tra le “istituzioni … non aventi scopo di lucro … che perseguono in ambito nazionale fini di rilevante interesse nel campo della cultura … e della ricerca” di cui alla lett. g) dell’art. 11. Allo stato della normativa risulta pertanto dovuto dall’Accademia il canone agevolato di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 296 del 2005. Ciò detto in astratto, va tuttavia considerata la realtà del rapporto per come si è evoluto nella sua lunga esistenza (dal 1897 ad oggi). Certamente sulla gratuità l’Accademia ha legittimamente fatto affidamento: la “concessione gratuita”, di cui all’atto ministeriale 12 novembre 1933, non è stata mai revocata; certo, vi è stata richiesta di canoni dagli anni Ottanta in poi, ma al rifiuto dell’Accademia non vi fu coerente revoca del titolo di “concessione gratuita”: istituto sostanziale ed unitario, nel quale non è possibile distinguere la “concessione” dalla “gratuità”, quasi si trattasse di due provvedimenti distinti. Può, è vero, dubitarsi dell’esigenza del “contraris actus”, ma è altresì vero che le revoche di atti formali non possono consistere in meri comportamenti concludenti, né la richiesta di canone è sufficiente a determinare il provvedimento formale, così come, nel diritto comune, la richiesta di pigione ad un comodatario gratuito non fa venir meno il comodato se questo è retto da formale contratto, né a novarlo in locazione. La dubbiezza oggettiva della questione è vieppiù appesantita dal comportamento tenuto dall’Accademia in tutto il periodo della sua fruizione del bene: l’Accademia ha sempre provveduto alla manutenzione, ed in particolare dichiara, nella nota 16 marzo 2006 diretta all’Avvocatura Distrettuale dello Stato in indirizzo, di aver provveduto a proprie spese “a restaurare e ristrutturare l’intero immobile … (di cui ha) poi sempre sostenuto i costi della manutenzione, anche straordinaria, compresi quelli relativi ai danni causati dall’ultimo conflitto mondiale e dalla alluvione del 1966”; risulta poi che l’Accademia ha ottenuto il versamento di L. 3.550 milioni in favore dell’Erario da parte della Compagnia di Assicurazione Fondiaria per i danni subiti dall’immobile a seguito dell’attentato dinamitardo del 27 maggio 1993, in virtù di polizza accesa a spese esclusive dell’Ente. Tutto ciò parrebbe in contrasto con la logica dell’ordinaria onerosità dell’uso, in presenza della quale non tutte le spese di manutenzione sono a carico dell’usuario. In conclusione, tenute presenti le cennate peculiarità del caso di specie, 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO il Comitato Consultivo di questa Avvocatura ha ritenuto di auspicare una soluzione transattiva delle reciproche pretese che, per il passato e cioè fino all’entrata in vigore del regolamento del 2005, tenga conto delle evidenziate ragioni di dubbio e di legittimo affidamento, nonché delle spese sostenute dall’Accademia, così drasticamente rideterminandosi a saldo e stralcio il “quantum” dovuto e che, per il futuro conduca alla determinazione del corrispettivo tenendosi conto anche degli oneri di manutenzione a carico esclusivo dell’Accademia e della contabilizzazione del valore aggiunto che l’immobile ha ricevuto per effetto degli interventi straordinari fatti dall’Ente e del rimborso delle somme ottenute dall’Erario per la ricordata polizza di assicurazione: e ciò in un quadro di leale collaborazione, nel perseguimento dei diversi ma non contrapposti interessi pubblici a ciascuno dei due Enti affidati. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel cui “patrimonio” in definitiva ridondano gli effetti economici della auspicata transazione, vorrà dare un cenno di condivisione». A.G.S. – Parere del 6 marzo 2007, n. 29057. Contributi universitari per gli studenti stranieri dell’Accademia di belle Arti di Brera (consultivo 43149/06, avvocato G. Aiello). «(…) è stato chiesto l’avviso della Scrivente in merito alla compatibilità, con la vigente normativa, della diversificazione dei contributi posti a carico degli studenti per l’iscrizione all’Accademia di Brera in ragione del possesso o meno dello “status” di cittadino comunitario. Pur in assenza di specifiche disposizioni regolanti il caso di specie, si concorda nel ritenere che l’applicazione del differenziato regime di tasse universitarie per gli studenti extracomunitari incontra il limite dei principi affermati dall’art. 39 del D.Lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, recante il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Ai sensi della richiamata disposizione è stabilito, infatti, che “in materia di accesso all’istruzione universitaria e dei relativi interventi per il diritto allo studio è assicurata la parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino italiano, nei limiti e con le modalità di cui al presente articolo”. In particolare, il terzo comma prevede che sono disciplinati con il regolamento di attuazione “c) l’erogazione di borse di studio, sussidi e premi agli studenti stranieri, anche a partire da anni di corso successivi al primo, in coordinamento con la concessione delle provvidenze prevista dalla normativa vigente in materia di diritto allo studio universitario e senza obbligo di reciprocità; d) i criteri per la valutazione della condizione economica dello straniero ai fini dell’uniformità di trattamento in ordine alla concessione delle provvidenze di cui alla lettera c)”. Inoltre, atteso che, ai sensi dell’art. 43 del testo citato, integra la fattispecie di discriminazione qualunque comportamento implicante l’imposizione I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 363 di “condizioni più svantaggiose” allo straniero soggiornante in Italia soltanto “in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”, deve concludersi che la suddetta diversificazione del regime contributivo universitario a carico degli extracomunitari potrebbe venire a configurarsi quale atto di portata discriminatoria e di disparità di trattamento nell’accesso all’istruzione universitaria quand’anche si consideri che il diverso onere contributivo non elide in toto il diritto all’accesso alla formazione universitaria, essendo sufficiente che lo renda più gravoso». A.G.S. – Parere del 14 marzo 2007, n. 32868(*) Proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area di Tuvixeddu – Tuvumannu in Cagliari ex art. 138 D.Lgs. n. 42 del 2004 (consultivo 10475/07, avvocato M. Borgo). «Con nota del 2 marzo 2007, prot. n. 4222 P (…), l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari ha chiesto alla Scrivente di esprimersi in ordine alla legittimità della composizione della Commissione regionale di cui all’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, così come istituita e costituita con deliberazione della Giunta Regionale della Sardegna n. 51/12 del 12 novembre 2006. Al proposito, si rappresenta quanto segue. In via preliminare, questo Generale Ufficio rileva come la Corte Costituzionale si sia pronunciata, di recente, sulla natura e sulla portata delle attribuzioni spettanti alla Regione Sardegna in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Con la sentenza 10 febbraio 2006, n. 51, la Consulta ha, infatti, dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, dalla legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, agli articoli 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché alla «disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio». Nella predetta pronuncia, si legge che “il ricorrente (N.d.E.: il Presidente del Consiglio dei Ministri) non ha in alcun modo dato conto né della presenza, in tema di tutela paesaggistica, di apposite norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Sardegna, né della stessa esistenza di una risalente legislazione della medesima Regione in questo specifico ambito (legge della Regione Sardegna 22 dicembre 1989, n. 45, recante 364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (*) Parere reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria. “Norme per l’uso e la tutela del territorio regionale”) e di cui le disposizioni impugnate nel presente giudizio rappresentano una parziale modificazione ed integrazione; le ripetute affermazioni contenute nel ricorso, secondo le quali le disposizioni impugnate sarebbero illegittime perché «eccedono dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d’autonomia, ponendosi in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali», anzitutto non prendono in considerazione che il Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), intitolato “Edilizia ed urbanistica”, concerne non solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche le funzioni relative ai beni culturali e ai beni ambientali; infatti, l’art. 6 dispone espressamente, al comma 1, che «sono trasferite alla Regione autonoma della Sardegna le attribuzioni già esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765 ed attribuite al Ministero dei beni culturali ed ambientali con decreto-legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5, nonché da organi centrali e periferici di altri ministeri». Al tempo stesso, il comma 2 del medesimo art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 prevede puntualmente che il trasferimento di cui al primo comma «riguarda altresì la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici, di cui all’art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497». Tenendo presente che le norme di attuazione degli statuti speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle Regioni ad autonomia speciale e non possono essere modificate che mediante atti adottati con il procedimento appositamente previsto negli statuti, prevalendo in tal modo sugli atti legislativi ordinari (secondo quanto ha più volte affermato questa Corte: si vedano, fra le molte, le sentenze n. 341 del 2001, n. 213 e n. 137 del 1998), è evidente che la Regione Sardegna dispone, nell’esercizio delle proprie competenze statutarie in tema di edilizia ed urbanistica, anche del potere di intervenire in relazione ai profili di tutela paesisticoambientale. Ciò sia sul piano amministrativo che sul piano legislativo (in forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all’art. 6 dello statuto speciale), fatto salvo, in questo secondo caso, il rispetto dei limiti espressamente individuati nell’art. 3 del medesimo statuto in riferimento alle materie affidate alla potestà legislativa primaria della Regione (l’armonia con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica). A tale ultimo riguardo, va osservato che il legislatore statale conserva quindi il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l’emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”: e ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, di cui all’art. 117, secondo I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 365 comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia “edilizia ed urbanistica” (v. sentenza n. 536 del 2002). Invece, come questa Corte ha più volte affermato, il riparto delle competenze legislative individuato nell’art. 117 della Costituzione deve essere riferito ai soli rapporti tra lo Stato e le Regioni ad autonomia ordinaria, salva l’applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, peraltro possibile solo per le parti in cui le Regioni ad autonomia ordinaria disponessero, sulla base del nuovo Titolo V, di maggiori poteri rispetto alle Regioni ad autonomia speciale. In questo quadro costituzionale di distribuzione delle competenze, il legislatore nazionale è intervenuto con il recente codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”), il cui art. 8 è esplicito nel dichiarare che «restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione»”. Alla luce delle superiori affermazioni dei giudici costituzionali, non può che affermarsi che la Regione Sardegna ben avrebbe potuto istituire la Commissione regionale di cui all’art. 137 del Codice dei beni culturali, anziché con atto amministrativo, con un atto legislativo, non potendosi, all’evidenza, attribuire al prefato articolo 137 il carattere di norma di riforma economico- sociale. A quanto sopra, si aggiunga che la disciplina delle Commissioni regionali previste dall’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04 compete, in via generale, alla potestà legislativa delle Regioni, vertendo in materia di autonomia organizzativa regionale; tale competenza è stata espressamente riconosciuta dallo stesso Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nel parere, reso dall’Ufficio Legislativo con nota del 25 gennaio 06, prot. n. UDC 2042 in sede di esame, da parte della Conferenza Unificata Stato-Regioni, dello schema di decreto legislativo correttivo del Codice dei beni culturali (schema che sarebbe poi diventato il D.Lgs. n. 157/06), ha espressamente affermato che “la previsione sulla formazione delle commissioni regionali di cui all’art. 137 mirava ad una migliore qualificazione di tali organi, ma si riconosce sin d’ora la spettanza regionale della disciplina di tali organismi”. Aconferma di quanto sopra, si evidenzia che una Regione a statuto ordinario, la Regione Toscana, ha, di recente, promulgato la legge regionale 29 giugno 2006, n. 26 con la quale ha provveduto, per legge, alla istituzione delle commissioni regionali ex art. 137 del Codice dei beni culturali, come modificato dal D.Lgs. n. 157/06, dettando una propria disciplina in proposito; legge che, per quanto consta a questo Generale Ufficio, non risulta essere stata impugnata davanti alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 127, comma 1, Cost. 366 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Ciò premesso in ordine alla natura ed alla portata delle attribuzioni spettanti alla Regione Sardegna in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali nonché in ordine alla competenza, in via generale, delle Regioni a dettare una disciplina legislativa con riferimento alle Commissioni regionali di cui all’art. 137 del Codice dei beni culturali, è possibile passare alla valutazione della legittimità, o meno, della composizione della Commissione regionale di cui all’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, così come istituita e costituita con deliberazione della Giunta Regionale della Sardegna n. 51/12 del 12 novembre 2006. La Regione Sardegna, che ben avrebbe potuto, per le ragioni più sopra illustrate, dettare, come fatto dalla Regione Toscana, una propria disciplina legislativa in ordine alla Commissione regionale di cui all’art. 137 del Codice dei beni culturali, ha preferito procedere alla istituzione della predetta commissione secondo le previsioni della norma statale. L’art. 137 del D.Lgs. n. 42/04, come riformulato dal D.Lgs. n. 157/06, dispone che: “1. Ciascuna regione istituisce una o più commissioni con il compito di formulare proposte per la dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 136 e delle aree indicate alle lettere c) e d) del comma 1 del medesimo articolo 136. 2. Di ciascuna commissione fanno parte di diritto il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per territorio, nonché due dirigenti preposti agli uffici regionali competenti in materia di paesaggio. I restanti membri, in numero non superiore a quattro, sono nominati dalla regione tra soggetti con qualificata, pluriennale e documentata professionalità ed esperienza nella tutela del paesaggio, eventualmente scelti nell’ambito di terne designate, rispettivamente, dalle università aventi sede nella regione, dalle fondazioni aventi per statuto finalità di promozione e tutela del patrimonio culturale e dalle associazioni portatrici di interessi diffusi individuate ai sensi dell’articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349. Decorsi infruttuosamente sessanta giorni dalla richiesta di designazione, la regione procede comunque alle nomine. 3. Fino all’istituzione delle commissioni di cui ai commi 1 e 2, le relative funzioni sono esercitate dalle commissioni istituite ai sensi della normativa previgente per l’esercizio di competenze analoghe”. Orbene, esaminando la Deliberazione della Giunta Regionale della Sardegna n. 51/12 del 12 novembre 2006 alla luce delle disposizioni, contenute nell’art. 137 del Codice dei beni culturali, sembra potersi pervenire ad un’affermazione di piena legittimità del predetto atto deliberativo. Con riferimento alla composizione della Commissione regionale, la predetta Delibera ha previsto, in ossequio alla previsione contenuta nella prima parte del secondo comma dell’art. 137, che ne facciano parte, quali membri di diritto, il direttore regionale, il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il soprintendente per i beni archeologici competenti per territorio, nonché due dirigenti preposti agli uffici regionali competenti in I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 367 materia di paesaggio (nel caso di specie, il Direttore Generale dell’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport o un dirigente dello stesso Assessorato suo delegato ed il Direttore del Servizio Tutela del Paesaggio competente per territorio o un suo delegato). Quanto ai restanti quattro componenti della Commissione, gli stessi sono stati autonomamente nominati dalla Giunta Regionale senza la previa designazione delle terne da parte dei soggetti, menzionati nel secondo comma dell’art. 137. Aquesto ultimo proposito, si osserva che, contrariamente a quanto affermato dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, la formulazione letterale dell’art. 137 del Codice (come modificato dal D.Lgs. n. 157/06) risulta perfettamente congruente all’intenzione del legislatore (espressa nella relazione di accompagnamento del D.Lgs., da ultimo menzionato) di rimettere alla valutazione discrezionale della Regione la decisione se richiedere le terne ovvero procedere alla nomina prescindendo da tale adempimento; ed invero, l’espressione “eventualmente scelti nell’ambito di terne designate”, utilizzata dalla norma statale, sta a significare che la richiesta di designazione di terne, nell’ambito delle quali scegliere i quattro componenti della Commissione, costituisce una facoltà attribuita alla Regione che potrà decidere liberamente se avvalersene o meno. Né la predetta interpretazione risulta sconfessata dal fatto che la norma di cui sopra prosegua affermando che “Decorsi infruttuosamente sessanta giorni dalla richiesta di designazione, la regione procede comunque alle nomine”. Quest’ultima previsione deve essere interpretata nel senso che, ove la Regione abbia deciso di esercitare, in senso positivo, la facoltà di richiedere, ai soggetti menzionati dal comma 2 dell’art. 137, la designazione delle terne, dovrà, poi, attendere lo spirare infruttuoso del termine di sessanta giorni al fine di procedere autonomamente alle predette nomine; e ciò si spiega con il fatto che, essendosi, la Regione, autolimitata nel proprio operare, con la scelta di avvalersi della facoltà, sopra menzionata, non può, poi, procedere alle nomine medesime prescindendo dalla predetta designazione, se non nel caso in cui i soggetti, cui è attribuita la predetta designazione, non vi abbiano provveduto nel termine previsto dalla legge. Quanto agli ulteriori profili, oggetto dei pareri, resi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari in ordine alla pratica in argomento, questo Generale Ufficio si riserva ogni valutazione in ordine all’opportunità di procedere ad un riesame degli stessi non appena perverrà la documentazione di corredo alle note degli Uffici periferici dell’Amministrazione dei Beni Culturali, cui l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari ha dato riscontro con le predette consultazioni». A.G. S. – Parere del 15 marzo 2007, n. 33252. Assistenza tecnica dell’Agenzia del Demanio nel processo dinanzi alle Commissioni tributarie (consultivo 40972/06, avvocato F. Favara). 368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO «Come noto, l’art. 12 del D.Lgs 31 dicembre 1992 n. 546, al comma 1 prevede che l’“ufficio del Ministero delle Finanze” e l’“ente locale” impositore stiano in giudizio di persona, senza necessità di essere patrocinati da un “difensore abilitato” (non riguarda lo “ius postulandi” l’art. 11 comma 2 del medesimo D.Lgs. ), e al comma 4 dispone che soltanto nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie regionali l’anzidetto “ufficio” può essere assistito dall’Avvocatura dello Stato. La nota a riferimento pone due quesiti, e precisamente: 1) se l’Agenzia del Demanio possa, dopo la trasformazione in ente pubblico economico, continuare a stare in giudizio di persona senza assistenza di un difensore abilitato; 2) se la predetta Agenzia possa essere patrocinata dall’Avvocatura dello Stato anche dinanzi alle Commissioni tributarie provinciali. In ordine al primo quesito si osserva preliminarmente che l’Agenzia del Demanio non è ente impositore di tributi o contributi (art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, come modificato nel 2001). Cionondimeno, non di rado essa è destinataria di ricorsi proposti alle commissioni tributarie avverso atti recanti richieste di pagamento di canoni; ricorsi per i quali il Giudice tributario è carente di giurisdizione. Peraltro, anche in controversie siffatte sussiste l’esigenza di una attività defensionale dell’Agenzia. Tale attività può essere validamente svolta, ad avviso di questa Avvocatura generale, da “funzionari” (così art. 15 comma 3 del citato D.Lgs.) dell’Agenzia; e ciò non soltanto quando il valore della lite è inferiore all’equivalente di lire 5 milioni (art. 12 comma 5 del citato D.Lgs. ). Giova premettere che le disposizioni – anche di portata generale (quale l’art. 82 comma terzo c.p.c.) – che impongono nell’interesse del funzionamento della Giustizia l’onere di avvalersi dei “servizi legali” di un patrocinatore abilitato sono, ancorché giustificate da detto interesse, di stretta interpretazione in quanto limitano una capacità delle persone (non rileva se fisiche o giuridiche). L’art. 57 del D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300 ha istituito le agenzie fiscali “per la gestione delle funzioni esercitate” da dipartimenti o uffici del Ministro delle Finanze, e ad esse ha trasferito “ i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze”. Tra questi il potere – dovere di difendere a mezzo di propri “funzionari” gli interessi della “parte” Stato (cfr. Corte cost., 1 febbraio 2006 n. 31, par. 2) nei giudizi dinanzi alle Commissioni tributarie. Tale compito è così svolto da anni dalle Agenzie, senza che siano insorti dubbi interpretativi. Occorre aggiungere che alle Agenzie non è consentito farsi assistere nei predetti giudizi da professionisti privati “abilitati” ai sensi del comma 2 del menzionato art. 12; esse possono solo optare per il patrocinio della Avvocatura dello Stato. La non – necessità, anzi la non – possibilità, dell’affidamento a professionisti privati della cosiddetta “assistenza tecnica” nei giudizi in questione è stata prevista per tutti gli uffici del già Ministero delle Finanze, quindi anche per quelli devoluti all’Agenzia del Demanio. Tale assunto è del resto condiviso da tale Agenzia, la quale ora solleva qualche dubbio soltanto con riguardo alla sopravvenuta sua trasformazione in ente pubblico economico. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 369 Sennonché, non pare che detta trasformazione, incidente sul versante della organizzazione, si sia riverberata – nel silenzio della legge sul punto – anche sulla “gestione delle funzioni esercitate” e, per quanto qui interessa, abbia fatto venir meno l’anzidetto potere – dovere. Occorre aggiungere, per quanto attiene ai giudizi dianzi alle Commissioni tributarie provinciali, che sin qui si è considerato il caso “normale” che vede l’Agenzia nella veste di resistente a ricorso proposto da un soggetto reputato debitore. Qualora invece l’Agenzia del Demanio intenda proporre ricorso avverso atto di ente locale impositore, appare opportuno – per prudenza – che essa si avvalga, per le liti di valore superiore all’equivalente di lire 5 milioni, del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Nel caso insorgesse una vertenza tra Agenzia del demanio ed altra Agenzia fiscale, questa Avvocatura generale sarebbe a disposizione per la ricerca di una composizione, In assenza della quale emergerebbe una situazione di conflitto di interessi. Un atteggiamento prudenziale è consigliabile anche quanto agli appelli alla Commissione tributaria regionale che l’Agenzia intendesse proporre, in via principale o incidentale. Per prevenire ogni questione relativa al patrocinio è bene che nel secondo grado l’Agenzia del Demanio ( almeno di norma) si avvalga dell’Avvocatura dello Stato. Risposta affermativa deve darsi anche al secondo quesito. L inciso “nel giudizio di secondo grado” contenuto nell’art. 12 comma 4 del citato D.Lgs. n. 546 del 1992 appare incompatibile con – e perciò implicitamente abrogato dal – sopravvenuto art. 72 del D.Lgs. n. 300 del 1999; tale art. 72 non pone alcun limite alla possibilità di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. Peraltro poiché l’Agenzia del Demanio dispone di uffici decentrati in sedi nelle quali non v’è ufficio dell’Avvocatura dello Stato, considerazioni di carattere pratico dovrebbero consigliare di preferire, quanto meno per i giudizi svolgentesi in dette sedi, la difesa a mezzo di “funzionario” dell’Agenzia». A.G.S. – Parere del 30 marzo 2007 n. 41082. Cartolarizzazione alloggi di servizio (consultivo 8711/07, avvocato P. Gallo). «(…) codesta Direzione Generale ha richiesto la corretta interpretazione dell’art. 26, comma 11 quater, 1egge n. 326/2003, nella parte in cui esclude dall’alienazione – secondo le modalità e le condizioni previste al capo I del decreto legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410 –, gli alloggi che “sono occupati da soggetti ai quali sia stato notificato, anche eventualmente a mezzo ufficiale giudiziario, il provvedimento amministrativo di recupero forzoso”. Secondo codesta Direzione Generale, infatti, il tenore della disposizione in esame sarebbe tale da escludere l’alienabilità di 140 unità abitative, i cui 370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO utenti sono stati raggiunti dalla notifica di un provvedimento di recupero forzoso, anteriormente all’entrata in vigore della 1egge n. 326/2003. Contrariamente a quanto precede, invece, l’Ufficio Legislativo del Ministero della Difesa ha ritenuto, con nota del 20 luglio 2006 prot. 8/31288, che il suddetto limite non possa considerarsi più sussistente, in considerazione del tenore dell’art. 4 quater, del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, che nell’interpretare le parole “non ubicati nelle infrastrutture militari” dell’art. 26, comma 11 quater, primo periodo, d.l. n. 269/2003, avrebbe chiarito che il criterio di riferimento dell’alienabilità o meno degli alloggi sarebbe esclusivamente costituito dalla loro destinazione o meno al diretto e funzionale servizio di basi, impianti ed installazioni militari; in una tale prospettiva, pertanto, le specifiche ipotesi di esclusione dalla vendita di cui all’art. 26, comma 11 quater cit., sarebbero state in sostanza dirette a chiarire, prima della stessa norma interpretativa, gli alloggi che erano da considerare necessari in base ai criteri oggettivi segnatamente indicati. In questo senso lo stesso Ufficio legislativo ha rilevato, inoltre, che una interpretazione diversa porterebbe alla situazione difficilmente sostenibile per cui un alloggio che non costituisce infrastruttura militare e che non è ad essa ritenuto funzionale risulterebbe comunque inalienabile per il solo fatto di essere stato interessato da un provvedimento di recupero forzoso, anche se adottato molti anni addietro e mai portato ad esecuzione dalla stessa Amministrazione, in contrasto con i principi di efficienza ed economicità cui deve sempre ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione. Un tale avviso è stato poi ribadito e confermato dall’Ufficio Legislativo con successiva nota del 9 novembre 2006 prot. 8/46177, con cui si è comunque invitata codesta Direzione Generale a formulare una eventuale richiesta di parere alla Scrivente Avvocatura Generale dello Stato. Ciò premesso, si ritiene che l’avviso espresso dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Difesa non possa essere condiviso, stante l’attuale tenore delle vigenti disposizioni. In particolare, secondo la tesi sopra esposta, l’incidenza dell’art. 4 quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 (aggiunto dalla legge di conversione 23 febbraio 2006, n. 51) non sarebbe solo limitato all’interpretazione delle parole “non ubicati nelle infrastrutture militari” contenute nell’art. 26, comma 11 quater alinea, cit., bensì varrebbe ad abrogare anche il periodo successivo contenuto nel medesimo comma e recante la triplice indicazione di immobili sottratti alle operazioni di cartolarizzazione, segnatamente indicati con le lettere a), b) e c). Una tale conclusione non pare tuttavia essere autorizzata atteso che: – il secondo periodo dell’art. 26, comma 11 quater, cit. appare autonomo e non una mera specificazione esemplificativa del dettato di cui al primo periodo. Esso infatti intende escludere dalle operazioni di cartolarizzazione, sulla base di valutazioni espressione di discrezionalità legislativa, determinate categorie di immobili che già non rientrano nel novero di quelli “posti al diretto e funzionale servizio di basi, impianti o installazioni militari, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, della legge 18 agosto 1978, n. 497” (art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit.). Posto quindi che la disposizione in esame, nella sua tri- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 371 plice articolazione, non è una mera esemplificazione o specificazione della disposizione di cui al periodo che precede, essa continua a sopravvivere all’interpretazione autentica dell’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. e, stante il suo tenore letterale, continua ad escludere dalle procedure di alienazione in parola le unità abitative i cui utenti sono stati raggiunti dalla notifica di un provvedimento di recupero forzoso, anteriormente all’entrata in vigore della 1egge n. 326/2003; – l’interpretazione suggerita dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Difesa appare anche andare oltre i confini dell’interpretazione autentica operata dall’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. Secondo tale avviso, infatti, l’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. avrebbe invero interpretato autenticamente l’intero art. 26, comma 11 quater, cit., mentre è lo stesso art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. a restringere la propria interpretazione solo alle parole “non ubicati nelle infrastrutture militari” contenute nell’art. 26, comma 11 quater alinea, cit., lasciando per il resto inalterata (e non interpretata) le restante parte dell’art. 26, comma 11 quater cit. Per quanto concerne infine l’osservazione secondo la quale la diversa interpretazione condurrebbe all’incoerenza di ritenere inalienabile un immobile che si trovi nelle situazioni indicate nell’art. 26, comma 11 quater, secondo periodo, cit., sebbene espressamente non posto al diretto e funzionale servizio dell’Amministrazione militare, è da rilevare che una tale conclusione appare incoerente solo se si muove dal presupposto, non condiviso dalla Scrivente, che unico ed esclusivo presupposto per l’alienabilità degli immobili sia allo stato offerto dalla disposizione di interpretazione autentica di cui all’art. 4 quater d.l. n. 273/2005 cit. Al contrario, se non si condivide il suddetto presupposto, dovrà invece rilevarsi che l’esclusione dall’alienazione in parola degli immobili di cui alle categorie indicate dall’art. 26, comma 11 quater, lett. a), b) e c), cit., risponde a scelte discrezionali del legislatore, di cui non resta che prendere atto e la cui congruenza non è in ogni caso sindacabile a livello amministrativo ». A.G.S. – Parere del 14 aprile 2007, n. 46456. S. s.p.a. – Ordine del giorno dell’assemblea ordinaria degli azionisti - Individuazione dell’organo competente per la redazione del progetto di bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria (consultivo 16024/07, avvocato G. D’Amato). «Nel perdurare della mancata nomina del commissario straordinario e del subcommissario previsti dal comma 504 dell’art. 1 della legge 296/06, il collegio sindacale di S. ha convocato (per il 12 aprile in prima convocazione e per il 17 aprile in seconda convocazione ) l’assemblea della S. s.p.a. (unico azionista codesto Ministero) con il seguente ordine del giorno: “individuazione dell’organo competente per la redazione del progetto di bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria”. 372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Per il che viene chiesto di conoscere “l’orientamento” della Scrivente circa la possibilità per l’assemblea di deliberare su tale ordine del giorno. La citata legge 296/06 (finanziaria 2007), entrata in vigore il 1 gennaio 2007, testualmente prevede ai commi 503 e 504 dell’art. l: “Il Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela “del territorio e del mare, sentito il Ministero delle infrastrutture, é autorizzato a procedere entro “centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge alla trasformazione della “S. s.p.a., al fine di renderla strumentale alle esigenze e finalità del Ministero dell’ambiente e “della tutela del territorio e del mare, anche procedendo a tale scopo alla fusione per incorporazione “con altri soggetti, società e organismi di diritto pubblico” che svolgono attività nel medesimo settore della S. “Per la realizzazione delle finalità di cui al comma 503, alla data di entrata in vigore della presente legge, gli organismi di amministrazione della S. sono sciolti e sono nominati un “Commissario straordinario e un subcommissario, con decreto del Ministero dell’economia e delle “finanze, su proposta del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il “Ministero delle infrastrutture”. Lo scioglimento degli organismi di amministrazione della S. è stato disposto quindi non per motivi di sfiducia, inerzia o malfunzionamento di questi come avviene in via di controllo sostitutivo in sede amministrativa, ma a livello legislativo, per la realizzazione delle finalità di cui al comma 503, cioè in vista della trasformazione della società, per adeguarla alla nuova missione strumentale assegnatale, anche attraverso fusione per incorporazione con altri soggetti. Non è prevista, di conseguenza, la ricostituzione dell’organo ed il ripristino della gestione ordinaria entro una data prefissata o al termine dei compiti specificamente assegnati al commissario straordinario; si è inteso invece sopprimere l’organo come tale, sul presupposto che le operazioni implicate dalla prevista trasformazione (da attuare, secondo la previsione di legge, entro il 1 luglio p. v.), che potrebbero portare anche all’estinzione della società in forza di fusione per incorporazione con altri soggetti, più agevolmente e snellamente sarebbero state poste in essere da un organo straordinario monocratico specificamente deputato. Si è disposta, pertanto, una modifica statutaria, non dissimile, in un certo senso, alla messa in liquidazione della società. In riscontro alla nota del 12 gennaio del Collegio sindacale di S., che comunicava la sua presa d’atto dell’avvenuto scioglimento del consiglio di amministrazione e di volersi conformare alle disposizioni degli artt. 2385 e 2386 C.C., codesto Ministero raccomandava allo stesso Consiglio, nelle more dell’emanazione del provvedimento di nomina del commissario straordinario e del subcommissario, “di voler salvaguardare l’integrità patrimoniale della società attenendosi a quanto previsto dall’art. 2386 C.C. nel caso di cessazione degli amministratori compiendo nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione ritenuti necessari”. La linea in tal modo seguita in sede applicativa da codesto Ministero intende quindi escludere che il permanere del preesistente organo ammini- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 373 strativo (di cui si ignora quale sarebbe stata l’ordinaria scadenza) sino alla nomina dell’organo straordinario sia compatibile con la disposizione del sopra riportato comma 504. Non si è ritenuta, in altri termini, una subordinazione dell’operatività della stessa disposizione all’emanazione del provvedimento amministrativo di nomina dell’organo straordinario, né si è ipotizzata un’applicazione analogica della disposizione del comma secondo dell’art. 2385 C.C. (che pure era stato richiamato dal Collegio sindacale) concernente il caso di cessazione degli amministratori per scadenza del termine. Può tuttavia ritenersi che nell’art. 2385, comma 2, trovi espressione un principio generale dell’ordinamento in materia societaria: quello della contestualità tra cessazione dell’organo amministrativo e sostituzione del medesimo, per evitare vuoti di potere suscettibili di pregiudicare la funzione gestionale. Per tale verso la norma provvedimento dettata con il comma 504, a volerla intendere nel senso che abbia disposto il commissariamento della società con effetto immediato rinviando ad un successivo provvedimento amministrativo la nomina del Commissario straordinario, troverebbe per certo un’irragionevole applicazione nel momento in cui venga ritardata oltre misura la nomina del Commissario con esclusione, nel contempo, di una procrastinazione della cessazione dei precedenti amministratori (ciò a non voler dubitare, nell’accennata ipotesi interpretativa, della legittimità della norma stessa, in quanto consenta un ritardo indefinito di tale nomina). Non può comunque sottacersi che un recupero in sede applicativa del principio espresso dal comma secondo dell’art. 2385 c.c. porrebbe, allo stato, sul piano pratico, un problema di legittimità degli atti medio tempore (tre mesi e mezzo) compiuti dal collegio sindacale (di cui si ignora il rilievo) oltre a creare, in ipotesi, problemi di rapporto con i precedenti amministratori esclusi ex abrupto dalla gestione. In ogni caso, per quanto concerne lo specifico problema della redazione del bilancio dell’esercizio chiuso il 31 dicembre 2006, è da considerare che al collegio sindacale è istituzionalmente affidato il controllo della società (nella specie anche il controllo contabile ex art. 2409 bis, comma terzo, c.c.) e quando la legge eccezionalmente ed in via transitoria gli affida compiti di gestione (art. 2386 u.c.) ne limita i poteri al compimento degli atti di ordinaria amministrazione. Tale ultima disposizione codicistica, di carattere eccezionale e di stretta interpretazione, non sembra che, per ragioni di compatibilità, possa intendersi estesa a ricomprendere il potere di redazione del bilancio, atto che assolve alla finalità di trasparenza e di leale informazione dei soci (nella specie solo codesto Ministero) e dei terzi circa le vicende patrimoniali ed economiche della società, oggetto specifico dell’attività di controllo dello stesso collegio sindacale. Non è dato rinvenire precedenti giurisprudenziali al riguardo (tale non potrebbe ritenersi quello, comunque negativo, della Corte d’Appello di Catanzaro n. 440/02, che ha annullato la delibera assembleare di approvazione di un bilancio redatto dal collegio sindacale sul presupposto dell’insussistenza in tale materia di un potere sostitutivo ex art. 2406 c.c. in caso di inerzia degli amministratori; non v’è pronun- 374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO zia della Corte di Cassazione sul punto, essendo stata dichiarata assorbita la relativa impugnazione in ragione dell’accoglimento di pregiudiziali motivi di censura; v. Cass. 1034/07). Ne consegue che legittimamente, anche al fine di sottrarre a personali responsabilità i suoi componenti, il collegio sindacale ha convocato l’assemblea per rendere edotto formalmente l’azionista della situazione di stallo. Ciò in linea, del resto, con quanto previsto dall’ultimo comma del più volte richiamato art. 2386. Né il collegio sindacale avrebbe potuto mettere direttamente all’ordine del giorno la nomina degli amministratori, tenuto conto delle ineludibili previsioni della legge 296/07 in ordine alla natura ed alle modalità di nomina dell’organo amministrativo. Alla stregua di quanto sopra considerato e pur nella consapevolezza delle accennate difficoltà pratiche e di principio, ritiene comunque la Scrivente che, ove non si ritenga di disertare l’Assemblea nella previsione di poter effettivamente addivenire in tempi ristretti alla nomina del commissario straordinario, l’indicazione richiesta dall’ordine del giorno non potrebbe che essere riferita al consiglio di amministrazione già in carica. Ciò in base ad un principio di coerenza dell’ordinamento e ad una lettura della norma del comma 504 costituzionalmente orientata, nel senso che essa postuli una necessaria contestualità tra l’efficacia dello scioglimento degli organismi amministrativi della società direttamente da essa disposto e la nomina del commissario in via amministrativa, di tal ché tale ultimo provvedimento amministrativo si ponga come presupposto condizionante la piena operatività del provvedimento da essa stessa norma recato». A.G.S. – Parere del 17 aprile 2007 n. 47332. Art. 15 e seguenti del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Estinzione anticipata del finanziamento agevolato da parte del soggetto finanziato – (consultivo 1952/07, avvocato G. Albenzio) «1. Codesta Agenzia sottopone all’esame di questa Avvocatura generale la circolare n. 6 del 2006 emanata in seguito a parere reso in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione n. 11165 del 2005, sulla inapplicabilità del trattamento previsto dagli artt. 15 e seguenti del d.P.R. n. 601 del 1973 nei casi in cui nel contratto stipulato tra l’istituto creditizio ed il soggetto finanziato sia apposta una clausola che a quest’ultimo riconosce la facoltà di estinguere il debito anche prima del decorso di diciotto mesi. Codesta Agenzia riferisce, facendole proprie, perplessità manifestate dal Consiglio notarile sulla estensione dell’ambito operativo della citata circolare anche ai casi di finanziamenti regolati dal Testo unico bancario (D.Lgs. n. 385 del 1993), caratterizzati dalla inderogabilità delle clausole che consentono al soggetto finanziato di restituire anticipatamente la somma mutuata. I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 375 Premesso che al par. 2, lett. e, del precedente parere della Scrivente (cs. 26777/06) era stata fatta riserva di approfondire il profilo oggetto delle osservazioni del Consiglio Notarile “in occasione di specifica vicenda” e considerato che il detto parere si era mosso nell’ambito segnato dall’oggetto della decisione della Suprema Corte [“nei limiti indicati nella motivazione (“il beneficio non è applicabile a quelle convenzioni che, pur prevedendo una durata del finanziamento superiore a diciotto mesi, contengono una clausola che consenta al soggetto finanziato di risolvere anticipatamente il rapporto attraverso l’estinzione del debito prima che decorra la durata minima stabilita dalla norma”), il disposto della sentenza non pare possa essere disatteso dagli uffici di codesta Agenzia; ciò allo stato della giurisprudenza, in attesa di ulteriori pronunce da parte della Suprema Corte”], appare opportuno ritornare sull’argomento per fornire a codesta Agenzia elementi utili per l’esercizio dei propri poteri istituzionali. 2. Riesaminata l’intera problematica relativa all’oggetto, ritiene la Scrivente di poter svolgere alcune considerazioni di principio. A) Profilo civilistico: la facoltà di estinzione anticipata dei mutui bancari. Secondo principio generale espresso nell’art. 1184 cod. civ., il termine per l’adempimento dell’obbligazione si presume stabilito a favore del debitore. Ciò significa che (in difetto di diverse pattuizioni) è sempre in facoltà del debitore l’adempimento anticipato. Per quanto invece concerne specificamente il contratto di mutuo, l’art. 1816 cod. civ. – norma essa pure non cogente, essendo consentite diverse pattuizioni – dispone che il termine per la restituzione é stabilito a favore di entrambe le parti, con la precisazione (significativa dell’interesse del creditore al rispetto del termine nel caso di mutuo oneroso) che torna invece applicabile il principio espresso nell’art. 1184 se il mutuo è a titolo gratuito. Quanto alla normativa di settore per gli enti creditizi, il T.U. D.Lgs. n. 385 del 1993 (che ha superato le precedenti distinzioni e limitazioni soggettive per l’esercizio dell’attività bancaria), nell’art. 40 relativo al credito fondiario – richiamato nell’art. 42 e nell’art. 44 per quanto rispettivamente concerne il credito alle opere pubbliche, il credito agrario, nonché il credito peschereccio, ove i relativi finanziamenti siano garantiti da ipoteca su immobili – stabilisce che i debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il proprio debito, solo corrispondendo alla banca un compenso onnicomprensivo “contrattualmente stabilito...” per l’anticipata estinzione. L’art. 125 dello stesso T.U., per il credito al consumo (cioè a favore di consumatore, tale ritenendo la “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”) prevede che la facoltà di adempiere in via anticipata (come quella di recedere dal contratto) senza penalità spetta unicamente al consumatore – senza possibilità di patto contrario – il quale ha inoltre diritto a un’equa riduzione del costo complessivo del credito nel caso di esercizio di detta facoltà. Ciò alle condizioni di cui al comma 4 del citato art. 125 [tra le altre: che il finanziamento sia ricompreso nei limiti di importo inferiore e superiore stabiliti dal CICR (lett. 376 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO a); non sia rimborsabile in unica soluzione entro diciotto mesi con il solo eventuale addebito di oneri non calcolati in forma di interessi (lett. c); non sia destinato all’acquisto, conservazione, restauro o miglioramento di un immobile (lett. e)]. Non interessa qui il credito al consumo. Ai fini del presente parere, occorre soffermarsi sui finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca su immobili, che rientrano nell’ampia nozione di credito fondiario (art. 38 T.U. citato), nonché sui finanziamenti a medio e lungo termine per credito alle opere pubbliche, credito agrario e credito peschereccio se garantiti da ipoteca su immobili. Operazioni che, da un lato, per la presenza della garanzia, interessano l’ambito operativo di codesta Agenzia (servizi di pubblicità immobiliare), e, d’altro lato, per la “durata contrattuale” dell’operazione di finanziamento, possono in astratto rientrare nell’ambito previsionale dell’art. 15 del d.P.R. 601 del 1973. Come accennato, la normativa bancaria attribuisce al debitore la facoltà di adempiere anticipatamente, senza stabilire alcun limite temporale, l’esercizio di tale facoltà, salva la previsione di un compenso contrattualmente stabilito, in ragione dell’interesse del creditore al termine contrattualmente fissato per l’adempimento (compenso che, con la parziale novellazione dell’art. 40 citato ad opera dell’art. 6 D.Lgs. n. 342 del 1999, il legislatore si preoccupa di contenere). Di qui l’esigenza dell’inserimento nel contratto di una clausola disciplinatrice dell’ipotesi di estinzione anticipata del mutuo, in funzione non già dell’attribuzione convenzionale al debitore di una tale facoltà di adempimento anticipato, ma della definizione delle conseguenze economiche dell’esercizio dell’anzidetta facoltà (derivante dalla legge). Nella linea legislativa di riconoscimento, nei contratti bancari, di un diritto potestativo del debitore ad estinguere il mutuo anticipandone l’adempimento, si iscrive anche l’art. 7 del recente D.L. 31 gennaio 2007 n. 7 convertito nella legge 2 aprile 2007 n. 40. Con riguardo ai contratti di mutuo per l’acquisto della prima casa, in deroga all’art. 40 (ed in analogia all’art. 125) del T.U.L.B., questo art. 7 vieta la stipulazione anche successiva (sancendone la nullità) di clausole che comunque stabiliscano penali o prestazioni a carico del mutuatario che richieda l’estinzione anticipata. Sicché non è più necessario considerare la facoltà di adempimento anticipato nel testo contrattuale. I commi 5 e seguenti dello stesso art. 7, oltre che le disposizioni degli artt. 6 e 8, esse pure espressive di un favor debitoris, rendono chiaro che la nuova disciplina è riferita a mutui erogati da soggetto esercente attività bancaria. Dei mutui bancari non finalizzati all’acquisizione della prima casa, in ordine ai quali fosse stato pattuito un termine in favore del creditore, l’art. 8 stabilisce la portabilità, con esclusione di qualsiasi preclusione all’esercizio della facoltà di surrogazione; e con riguardo a tutti i tipi di mutuo bancario l’art. 6 allevia il regime delle spese inerenti alla cancellazione dell’ipoteca. Da un punto di vista civilistico, il concetto di durata contrattuale, riferito ad un’operazione di finanziamento, può definirsi – quando è concordato un piano di ammortamento o è stabilita una restituzione a rate – in relazione I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 377 a detto piano ovvero alla scadenza dell’ultima rata di restituzione. Tale durata non rimane alterata né relativizzata dalla previsione nel contratto delle condizioni economiche dell’eventuale esercizio della facoltà di estinzione anticipata spettante al debitore, che non a caso possono anche rapportarsi al “tempo residuo di ammortamento” (cfr. delibera CICR 9 febbraio 2000 in G.U. 22 febbraio 2000 n. 43). La (eventuale) considerazione contrattuale di una facoltà di un adempimento anticipato, con effetto estintivo del rapporto, non rende il contratto privo di termine (per la cui essenzialità nel mutuo v. art. 1817) ma riguarda l’adempimento delle obbligazioni che dal contratto derivano e che possono esaurire il rapporto ante tempus (cioè prima del “tempo contrattuale” convenuto). Concettualmente un’estinzione anticipata può definirsi tale proprio perché si realizza prima del termine finale contrattualmente stabilito di durata dell’operazione, termine la cui rilevanza non viene meno, come emerge dalla eventuale previsione di un onere ad essa estinzione correlato. L’adempimento anticipato, che estingue il rapporto per esaurimento del suo contenuto legale (nel caso del mutuo, l’obbligo di integrale restituzione) è ben diverso dal recesso da un contratto di durata; questo non postula un’anticipazione di adempimento ma fa cessare il rapporto senza esaurirne i previsti contenuti, semplicemente anticipandone il termine di scadenza e riducendone i contenuti stessi. Da quanto sinora esposto discende, conclusivamente, che devono riconoscersi: a) la titolarità, in capo a chi sia debitore in base a contratto di finanziamento posto in essere con soggetto esercente attività bancaria, di una facoltà di adempimento anticipato (il cui esercizio può essere oneroso o meno a seconda del tipo e dello scopo del finanziamento) che deriva direttamente dalla legge e non dal contratto; b) l’irrilevanza della considerazione negoziale di tale facoltà (non soggetta a limiti temporali di esercizio) ai fini dell’individuazione della durata contrattuale di un’operazione di finanziamento, la quale prescinde dalla possibilità di un adempimento anticipato. B) Profilo fiscale: il beneficio di cui agli artt. 15-18 del d.P.R. n. 601 del 1973. È necessario, ora, verificare il contenuto specifico della norma di agevolazione di cui al citato art. 15 e lo spazio applicativo della medesima in relazione all’attuale disciplina delle attività bancarie, che ha radicalmente innovata rispetto a quella previgente sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo. Prima di soffermarsi sul tema, occorre aver presente che l’art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 prevede trattamenti differenziati per gli interessi ed altri proventi in relazione alla “scadenza non inferiore a diciotto mesi” (od invece inferiore). È notorio che nel corso dell’ultimo anno si è discusso della convenienza o meno di eliminare o almeno ridurre l’anzidetta differenza di trattamento. Poiché il crinale attinente alla durata è al presente utilizzato da più norme tributarie, un eventuale intervento del legislatore dovrebbe essere portato congiuntamente sulle disposizioni che quel crinale utilizzano. 378 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO All’epoca dell’introduzione dell’agevolazione poi trasfusa negli artt. 15 e seguenti del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 601, le operazioni relative a “finanziamenti a medio e lungo termine” potevano essere effettuate soltanto da alcuni istituti di credito o da separate sezioni o gestioni; ed infatti l’art. 15 in esame si limita a considerare solo tali enti tra i destinatari della norma. Chiarì la Corte di Cassazione che le agevolazioni tributarie per il credito a medio e lungo termine previste dall’art. 15 “sono condizionate al concorso di due presupposti: l’uno di carattere oggettivo, costituito dalla natura delle operazioni (finanziamenti a medio e lungo termine ed altri ad essi strumentalmente collegati); l’altro, di carattere soggettivo, consistente nella provenienza del finanziamento o da aziende o istituti di credito o loro sezioni o gestioni speciali, da enti cioè istituzionalmente finalizzati all’esercizio del credito e quindi da imprese bancarie alle quali nell’ordinamento vigente della funzione è esclusivamente attribuita” (Cass. 28 novembre 1984, n. 6183; Commiss. trib. centrale 13 luglio 1989 n. 4997). L’agevolazione era dunque ricondotta nel novero di quelle c.d. miste, accordate con riguardo ad operazioni definite sia per il loro oggetto sia in quanto provenienti da determinati soggetti (che all’epoca, appunto, erano tuttavia i soli legittimati a compierle). Con l’evoluzione della normativa di settore, l’art. 15 mostra tutto il peso degli anni; ed invero, una volta aperta la possibilità di compiere operazioni di finanziamento a medio e lungo termine (D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385: ad es., art. 106) e meno il legame tra la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito che, vigente il R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, costituiva l’essenza dell’azienda di credito (Cass. SS.UU. 9 dicembre 1985, n. 6178, sicché la qualità di banca o istituto di credito andava negata ai soggetti che non svolgevano entrambe le attività: Cass. SS.UU. 10 gennaio 1986, n. 62), l’art. 15 in esame, per come la norma è strutturata, nel sistema vigente del credito, se interpretato secondo la originaria finalità di collegamento con l’istituto finanziatore, finirebbe alternativamente o con l’accordare l’agevolazione ad alcuni soltanto dei soggetti operanti nel settore (mentre la disposizione all’epoca, voleva che tutti i soggetti operanti fruissero dell’agevolazione), con conseguente grave sospetto di incoerenza costituzionale; oppure, con il riconoscere, attraverso una lettura conformativa (peraltro piuttosto ardita), il beneficio a tutti i finanziamenti di medio e lungo termine, così trasformandosi l’agevolazione da “mista” (come il legislatore l’ha voluta) ad “oggettiva”. In ambedue i casi la norma acquista un significato ed una portata diversi dal precetto originariamente formulato. La terza opzione ermeneutica, coerente con l’evoluzione del sistema, porterebbe alla negazione della sopravvivenza della stessa agevolazione, da considerarsi implicitamente abrogata con la fine di quell’esclusiva, ovvero “confermata” solo nei casi espressamente previsti (come quello di cui all’art. 2 D.L. 3 agosto 2004, n. 220, conv. in legge 19 ottobre 2004, n. 257). È allora evidente la necessità di un intervento legislativo, in occasione del quale potrà adeguatamente chiarirsi anche il problema oggi all’esame. 3. In attesa dell’auspicato intervento del legislatore, ferma restando la potestà di codesta Agenzia di scegliere fra le opzioni ermeneutiche sopra evi- I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 379 denziate quella che sia valutata più rispondente al corretto esercizio dei compiti istituzionali affidati, ritiene questa Avvocatura di poter soltanto segnalare che, seguendo la seconda delle opzioni ermeneutiche sopra delineate (e che appare rispondere alle esigenze segnalate dal Consiglio Notarile), verrebbe dato rilievo alla durata effettiva del rapporto negoziale e non a quella stabilita astrattamente dall’accordo contrattuale, così che le clausole generali dianzi passate in rassegna (in particolare, quella che consente al debitore in ogni momento di restituire l’importo finanziato) non avrebbero effetti al fine dell’attribuzione del beneficio ex art. 15 citato se non nel momento in cui ricevessero concreta applicazione (in particolare, quando il debitore si avvalesse effettivamente della facoltà di estinzione anticipata, nel rispetto della ratio degli art. 40 e 125 del T.U.B., caratterizzata dal favor debitoris). In quest’ultima eventualità, il beneficio già concesso dovrebbe essere revocato, con obbligo di pagamento della maggiore imposta, al momento della annotazione della formalità di estinzione, atteso che in questo caso verrebbe meno la finalità dell’agevolazione che tende ad alleviare, sul piano fiscale, il peso economico del vincolo di durata di un rapporto di finanziamento a medio e lungo termine (questo in via generale riferito, anche dall’art. 26 citato, ad un tempo superiore ai diciotto mesi, cfr. Cass. N. 11240 del 1994). La rilevanza della durata effettiva del rapporto è, però, contrastante con la prassi applicativa delle disposizioni agevolative in materia, in riferimento sia al precedente regime di abbonamento ex legge n. 1228 del 1962 sia all’attuale, come espresso dalle circolari e risoluzioni degli uffici finanziari competenti (Min. Finanze, Dir. Gen. Tasse e II. II., ris. 13 agosto 1968, n. 211544 e 2 giugno 1980, n. 250220, Circ. 15 gennaio 1963, n. 4; Ag. Territorio, Circ. 27 aprile 2001, n. 3, e 24 settembre 2002, n. 8), ove si è ritenuto che “per quanto attiene alla durata delle operazioni, che agli effetti fiscali deve essere presa in considerazione soltanto la durata risultante dalle clausole contrattuali e non anche quella, minore o maggiore, che l’operazione può effettivamente avere in difformità dalle clausole stesse” (in tal senso, anche, implicitamente, Cass. 28 dicembre 1994 n. 11240). Pertanto, qualora codesta Agenzia si determinasse a seguire questa strada, dovrebbe modificare, d’intesa con l’Agenzia delle Entrate, le disposizioni amministrative in precedenza emanate, monitorando attentamente l’orientamento della giurisprudenza che dovesse intervenire nella materia, per un eventuale ulteriore intervento correttivo. In alternativa, non resterebbe che confermare la posizione restrittiva espressa nella precedente consultazione di questa Avvocatura, in attesa di nuove pronunzie della Suprema Corte o dell’auspicato intervento normativo (...) L’Avvocato Generale Aggiunto Avv. Franco Favara». 380 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Agenzia del Territorio e Agenzia delle Entrate – Circolare del 14 giugno 2007, n. 6, prot. 47218. Art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Facoltà di adempimento anticipato da parte del soggetto finanziato – Compatibilità con il regime sostitutivo (Destinatari: Direzioni Centrali, Direzioni Regionali, Uffici Provinciali dell’Agenzia del Territorio e Uffici Locali dell’Agenzia delle Entrate). «1.- Ricognizione degli indirizzi interpretativi intervenuti in tema di estinzione anticipata del rapporto di finanziamento e art. 15 del d.P.R. 601/73. Con circolare n. 3 del 27 aprile 2001, l’Agenzia del Territorio, richiamandosi a precedenti indirizzi interpretativi resi sull’argomento dalla Direzione Generale delle Tasse e II.II. sugli Affari (cfr., in particolare, la Risoluzione ministeriale n. 250220 del 2 giugno 1980) – e confermati, peraltro, dal costante orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione – ha ribadito che la richiesta di estinzione anticipata dei finanziamento, avanzata dal mutuatario, in quanto circostanza riconducibile nell’ambito dello svolgimento ordinario del rapporto obbligatorio, non determina il venir meno delle condizioni fissate dall’art. 15 del d.P.R. n. 601/1973 per usufruire del particolare regime tributario ivi previsto. Il richiamato orientamento interpretativo è stato confermato tenendo conto non tanto dell’immutato assetto del quadro normativo di riferimento, quanto, soprattutto, degli univoci indirizzi giurisprudenziali adottati sul tema dalla Corte di Cassazione (cfr. Sez. I, 4 luglio 1983, n. 4470 e 18 febbraio 1994, n. 1585). Peraltro, le peculiari problematiche connesse alla compatibilità con il predetto regime sostitutivo delle clausole che prevedono la possibilità di risolvere anticipatamente il rapporto di finanziamento, non da parte del soggetto finanziato, ma dall’Istituto mutuante, sono state diffusamente affrontate dall’Agenzia del Territorio con Circolare n. 8 del 24 settembre 2002 e con Risoluzione n. 1 del 24 febbraio 2003. Nella prima occasione si è ritenuto opportuno chiarire che le clausole che subordinano la facoltà di recesso dell’istituto di credito al verificarsi di circostanze o fatti obiettivi riconducibili, in via generale, ad esigenze di tutela del credito non possono ritenersi ex se incompatibili con la disciplina delineata dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 (tale orientamento è stato in larga parte supportato dal parere n. 91039 del 13 settembre 2002 reso sull’argomento dall’Avvocatura Generale dello Stato). Con la successiva Risoluzione n. 1/2003, la persistenza del suddetto indirizzo interpretativo è stata, peraltro, ribadita sulla base di altro parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con cui sono stati sostanzialmente confermati i contenuti del precedente intervento consultivo. In tale articolato contesto interpretativo si è inserita la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11165 del 26 maggio 2005. La Suprema Corte, seppure con una motivazione abbastanza sintetica, ha sostanzialmente posto sullo stesso piano — ai fini della valutazione della compatibilità o meno di una operazione dì finanziamento con il requisito oggettivo della durata minima contrattuale — le clausole che prevedono il recesso ad nutum dell’istituto finanziatore e quelle che attribuiscono al soggetto finanziato la facoltà di estinzione anticipata del rapporto. In seguito a tale mutamento di indirizzo giurisprudenziale, l’Agenzia del Territorio, con Circolare n. 6 del 5 dicembre 2006, emanata su conforme parere dell’Avvocatura Generale I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 381 (cs. 26777/06, Sez. III, del 3 novembre 2006), ha chiarito che la presenza di clausole nei contratti di finanziamento a medio e lungo termine che consentono espressamente al soggetto finanziato di risolvere anticipatamente il rapporto attraverso l’estinzione del debito prima che decorra la durata minima stabilita dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 determina l’incompatibilità di tali convenzioni con il particolare regime tributario ivi disciplinato. A seguito della emanazione della richiamata Circolare, sono state segnalate difficoltà applicative e difformità comportamentali tra i vari Uffici provinciali. In particolare, a seguito di specifica segnalazione di un Consiglio Notarile, l’Agenzia del Territorio, con lettera diramata a tutte le strutture regionali e provinciali, ha ritenuto opportuno reintervenire sull’argomento, al fine di chiarire che non appare, comunque, in linea con i contenuti della Circolare n. 6/2006, la tesi sostenuta da alcuni Uffici secondo cui le agevolazioni previste dal d.P.R. 601/73 non sarebbero applicabili agli atti in cui non sia espressamente previsto – con apposita clausola – che l’estinzione anticipata del finanziamento non possa avvenire se non trascorsi diciotto mesi e un giorno. Tuttavia, anche in considerazione delle perplessità manifestate dal Consiglio Nazionale del Notariato, è stato ritenuto opportuno sottoporre nuovamente la questione all’attenzione dell’Avvocatura Generale dello Stato, soprattutto al fine di verificare la compatibilità della soluzione interpretativa adottata con la Circolare n. 6/2006 – problematica, quest’ultima, non affrontata dall’Organo Legale in occasione della consultazione propedeutica alla emanazione della stessa Circolare – con le tipologie contrattuali relative ad operazioni di finanziamento per le quali la facoltà di estinzione anticipata è civilisticamente disciplinata da norme imperative (così come avviene ad esempio nel settore del credito fondiario disciplinato dal D.Lgs. 385/93). 2.- Il nuovo intervento consultivo dell’Avvocatura Generale dello Stato Profilo civilistico - L’Avvocatura Generale dello Stato, con consultiva trasmessa con prot. n. 47332 del 17 aprile 2007, ha riesaminato la problematica in questione affrontando innanzitutto il profilo civilistico, soffermandosi, ai finì del parere richiesto, sui finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca su immobile, rientranti nell’ampia nozione di credito fondiario (di cui all’art. 38 del D.Lgs. 385/93); operazioni che per la “durata contrattuale” del finanziamento possono in astratto rientrare nell’ambito previsionale dell’art. 15 del d.P.R. 601/73. Proprio con specifico riferimento alla normativa di settore per gli enti creditizi (appunto il D.Lgs. 385/93), il predetto Organo Legale ha osservato che l’art. 40, relativo al credito fondiario, stabilisce, tra l’altro, che i debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il proprio debito, solo corrispondendo alla banca un compenso omnicomprensivo “contrattualmente stabilito” per la anticipata estinzione. Lo stesso Organo consultivo ha, quindi, evidenziato che la normativa bancaria attribuisce al debitore la facoltà di adempiere anticipatamente, senza stabilire alcun limite temporale per l’esercizio di tale facoltà. Tanto che, in linea generale, l’esigenza di inserire nei contratti di mutuo una clausola espressa disciplinante la facoltà di estinzione anticipata del rapporto era normalmente finalizzata non tanta all’attribuzione convenzionale al debitore della facoltà medesima (da ricondurre comunque alla legge e non al contratto), quanto alla individuazione delle eventuali conseguenze economiche connesse all’esercizio effettivo di tale facoltà da parte del debitore. Il citato Organo Legale, peraltro, ha sottolineato altresì come, in materia di contratti bancari, nella linea legislativa di riconoscimento di un dirittopotestativo del debitore ad 382 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO estinguere il mutuo anticipandone l’adempimento, si innesta anche l’art. 7 del recente D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, convertito nella legge 2 aprile 2007, n. 40 (c.d. decreto Bersani-bis). Tale specifica disposizione, infatti, con riguardo ai contratti di mutuo immobiliare indicati nella stessa disposizione, in deroga all’art. 40 del D.Lgs. 385/93, vieta la stipula, anche posteriore alla conclusione del contratto, di patti e clausole che comunque stabiliscano penali o prestazioni a carico del mutuatario che richieda l’estinzione anticipata, rendendo non più necessaria (e, quindi, per certi versi, ultronea), l’espressa considerazione (rectius: riconoscimento) nel testo contrattuale di una facoltà di adempimento anticipato. Nello stesso parere, dopo aver evidenziato che la durata in una operazione di finanziamento non rimane alterata, né relativizzata, dalla previsione in contratto delle condizioni economiche dell’eventuale esercizio della facoltà di estinzione anticipata spettante al debitore, è stato precisato che l’eventuale riconoscimento nel contratto di una facoltà di adempimento anticipato, con effetto estintivo del rapporto, riguardando l’adempimento delle obbligazioni che dal contratto derivano e che possono esaurire il rapporto ante tempus (cioè prima del “tempo contrattuale” convenuto), “…non rende il contratto privo di termine…”. Sulla base di tali valutazioni, l’Avvocatura Generale dello Stato ha concluso che devono riconoscersi: a) la titolarità, in capo a chi rivesta la qualifica di “debitore” in base a contratto di finanziamento posto in essere con soggetto esercente attività bancaria, di una facoltà di adempimento anticipato derivante direttamente dalla legge e non dal contratto; b) l’irrilevanza della eventuale considerazione negoziale di tale facoltà (non soggetta a limiti temporali di esercizio) ai finì della individuazione della durata contrattuale di un’operazione di finanziamento, la quale prescinde dalla possibilità riconosciuta al debitore di un adempimento anticipato. Profilo tributario - Sulla base della ricostruzione civilistica appena esaminata, l’Avvocatura Generale dello Stato, dopo aver rimarcato una certa obsolescenza dell’art. 15 del d.P.R. 601/73, rispetto alla evoluzione della normativa di settore – peraltro ancora oggi in atto – ha ipotizzato un ampio quadro di possibili opzioni ermeneutiche invitando l’Agenzia del Territorio a valutarle congiuntamente all’Agenzia delle Entrate, anche tenendo conto della rispondenza delle stesse al corretto esercizio dei compiti istituzionali affidati alle Agenzie fiscali. Tra le alternative indicate dal citato Organo Legale, quella che, in astratta, potrebbe ritenersi più coerente con la ricostruzione civilistica operata in tema di facoltà di estinzione anticipata del rapporto di finanziamento da parte del debitore – sebbene, come verrà appresso chiarito, in netta controtendenza con le indicazioni ricavabili dalla normativa dì settore più recente – è l’opzione che tenderebbe ad attribuire rilevanza alla durata effettiva del rapporto negoziale e non a quella stabilita dall’accordo contrattuale. Seguendo tale prospettazione, le clausole espresse che consentono al debitore di restituire in ogni momento l’importo finanziato e di risolvere anticipatamente il rapporto, non inciderebbero negativamente sull’applicabilità del regime agevolato di cui all’art. 15 del d.P.R. 601/73, se non nel momento in cui dovessero ricevere concreta attuazione; cioè, quando il debitore dovesse effettivamente richiedere l’adempimento anticipato e la conseguente estinzione del rapporto (facoltà, quest’ultima, la cui titolarità, come è stato chiarito, deve ritenersi normativamente riconosciuta al debitore indipendentemente da una sua espressa previsione contrattuale). I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 383 La stessa Avvocatura dello Stato, peraltro, ha evidenziato come tale possibile opzione interpretativa si porrebbe in contrasto con la prassi applicativa sin qui consolidata ed espressa in numerosi interventi interpretativi dell’Amministrazione Finanziaria, con cui è stata ripetutamente affermata l’irrilevanza della durata effettiva del rapporto ai fini del mantenimento delle agevolazioni fiscali di cui trattasi (cfr. Circolare Ministeriale n. 250220 del 2 giugno 1980, Circolari dell’Agenzia del Territorio nn. 3 del 27 aprile 2001 e 8 del 24 settembre 2002). 3.-L’individuazione di possibili soluzioni sul piano fiscale coerenti con il quadro normativo emergente Secondo la ricostruzione civilistica elaborata dall’Avvocatura Generale della Stato, dunque, la facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore trova fondamento nella legge, indipendentemente da una sua espressa previsione contrattuale che, pertanto, è da ritenere irrilevante (rectius: ininfluente), ai fini della individuazione della durata contrattuale dell’operazione di finanziamento. Da ciò discende, come naturale corollario, che detta facoltà di adempimento anticipato si configura come facoltà irrinunciabile del debitore, il cui riconoscimento non può ritenersi subordinato ad una espressa e specifica disciplina pattizia tra soggetto finanziatore e soggetto finanziato. Non a caso, alle disposizioni del Testo Unico bancario disciplinanti l’estinzione anticipata del mutuo fondiario è stata attribuita natura di norme imperative e, quindi, inderogabili (cfr. art. 40 del D.Lgs. 385/93). In coerenza con tali principi, può, dunque, affermarsi che il riconoscimento di tale, irrinunciabile, facoltà in capo al debitore, non può ritenersi condizionato, sotto il profilo civilistico, dal mancato inserimento nel contratto di una clausola espressa che consenta l’estinzione anticipata, oppure dall’eventuale inserimento nel testo contrattuale di una clausola non del tutto conforme alla disciplina prevista dalle richiamate disposizioni inderogabili (si pensi, ad esempio, ad una clausola che escluda espressamente la possibilità per il debitore di adempiere prima del termine convenuto, ovvero prima del decorso di un periodo “minimo” di tempo). Nella individuazione della soluzione più coerente con il quadro complessivo delineato, non può non tenersi conto della consolidata tendenza, riscontrabile anche nella più recente normativa di settore, verso un sempre più accentuato favor debitoris nell’ambito dei rapporti scaturenti da operazioni di finanziamento. Gli articoli nn. 7, 8 e 13, da comma 8-sexies a comma 8-quaterdecies, del decreto legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007 n. 40 (c.d. decreto Bersani-bis) hanno interessato i temi della estinzione anticipata dei mutui immobiliari, prevedendo, rispettivamente, il divieto di clausole penali, la “portabilità” del mutuo con relativa surrogazione, nonché la semplificazione del procedimento di cancellazione dell’ipoteca per i mutui immobiliari. Il chiaro intento del legislatore nella subiecta materia è quello di tutelare il contraente debole (debitore), semplificandone gli adempimenti ed eliminando gli oneri a suo carico, anche di natura fiscale. In tal senso, sono state eliminate le clausole penali in caso di estinzione anticipata o parziale di mutuo contratto per l’acquisto o per la ristrutturazione di unità immobiliari adibite ad abitazione ovvero alla svolgimento della propria attività economica o professionale 384 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO da parte di persone fisiche (art. 7, comma 1); è stata esentata da imposte ordinarie e sostitutive la surrogazione per volontà del debitore, con espressa esclusione della decadenza da benefici fiscali eventualmente riconosciuti in sede di iscrizione dell’ipoteca a garanzia del credito surrogato (art. 8, commi 4 e 4-bis); è stato escluso qualsiasi onere per il debitore nell’ambito del “peculiare” procedimento di cancellazione dell’ipoteca a garanzia di mutui (art. 13, comma 8-septies). Analoghe finalità espressive di un ampio favor debitoris, sono contenute anche nell’art. 7 che vieta a regime la stipulazione anche successiva (sancendone la nullità) di clausole che comunque stabiliscono penali o prestazioni a carico del mutuatario che richieda l’estinzione anticipata, con apposita disciplina transitoria per i mutui contratti prima del 2 febbraio 2007 (data di entrata in vigore del c.d. decreto Bersani-bis), regolamentati da un accordo sottoscritta tra Associazione Bancaria Italiana e le Associazioni dei consumatori. Circostanza quest’ultima che ha indotto l’Avvocatura Generale, come in precedenza accennato, a ritenere non più necessaria la previsione espressa, nel testo contrattuale, della facoltà di adempimento anticipata. 4.-Conclusioni Alla luce delle complessive valutazioni che precedono, dunque, si ritiene che, per quanto riguarda il riconoscimento della facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore e il relativo, concreto, esercizio, le disposizioni contenute nell’art. 15 del d.P.R. 601/73, debbano ricevere una rilettura aggiornata e coerente anche con le univoche indicazioni ricavabili dalla corretta qualificazione civilistica di tale facoltà, oltre che – e soprattutto – con la ratio sottesa alle nuove disposizioni in materia di liberalizzazione. Attraverso tale rivisitazione, l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia del Territorio ritengono che possa procedersi ad un recupero e ad una conseguente attualizzazione dell’indirizzo interpretativo consolidatosi prima della emanazione della Circolare n. 6/2006, secondo cui l’adempimento anticipato del debitore, in quanto circostanza riconducibile nell’ambito dello svolgimento ordinario del rapporto obbligatorio, non determina il venir meno delle condizioni fissate dall’art. 15 del d.P.R. n. 601/1973, per usufruire del particolare regime tributario. D’altra parte, detto orientamento si inserisce in modo coerente con l’ottica orientata ad assicurare ampia tutela al soggetto debitore (mutuatario) – in quanto contraente debole” potenzialmente esposto a disequilibri ed asimmetrie contrattuali – decisamente valorizzata dalle disposizioni contenute nei richiamati provvedimenti normativi in tema di “liberalizzazioni”. Tali complessive valutazioni inducono, quindi, a non ritenere percorribili, in relazione all’art. 15 del d.P.R. 601/73, soluzioni interpretative orientate ad ipotizzare conseguenze negative sul piano fiscale (in termini di perdita di benefici fiscali), correlate alla previsione espressa nel contratto della facoltà di adempimento anticipato da parte del debitore o all’esercizio in concreto di detta facoltà. Va, peraltro, posto in evidenza che una eventuale conferma, alla luce delle sopravvenute disposizioni del c.d. decreto Bersani-bis, dell’incompatibilità con il regime sostituivo, previsto dall’art. 15 del d.P.R. 601/73, delle clausole che prevedono l’adempimento anticipato del debitore in qualsiasi momento, si tradurrebbe, sul piano pratico, in una evidente, quanto inammissibile, disparità di trattamento, ai fini fiscali, dello stesso adempimento anticipato” a seconda che lo stesso sia o meno finalizzato alla surrogazione ex art. 1202 c.c. (in relazione alla quale il legislatore, come accennato, ha escluso espressamente sia il venir I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 385 meno dei benefici fiscali, sia l’applicabilità delle imposte sostitutivo ovvero di registro, ipotecaria e di bollo). Tanto premesso, le conclusioni sostenute nella circolare n. 6 del 5 dicembre 2006 secondo cui «...la presenza nei contratti di finanziamento a medio e lungo termine di clausole che consentano espressamente al soggetto finanziato di risolvere anticipatamente il rapporto attraverso l’estinzione del debito prima che decorra la durata minima stabilita dall’art. 15 del d.P.R. 601/73 determina l’incompatibilità di tali convenzioni con il particolare regime tributario ivi disciplinato” devono, pertanto, ritenersi superate. Le Direzioni Regionali vigileranno sulla corretta applicazione della presente circolare; la Direzione Centrale “Audit e Sicurezza” dell’Agenzia delle Entrate e la Direzione Centrale “Audit” dell’Agenzia del Territorio vorranno tener conto dei nuovi indirizzi interpretativi nello svolgimento dei rispettivi compiti istituzionali. Roma, 14 giugno 2007 Firmato: Mario Picardi e Massimo Romano». A.G.S. - Parere del 21 aprile 2007, n. 49616. Prog. 20/PC/7 – Opere di captazione e adduzione della falda basale del massiccio del Matese – Ministero delle Infrastrutture – transazione – compensi dei consulenti tecnici di parte ministeriale (consultivo 27902/05, avvocato M. Corsini). «(…) codesta amministrazione chiede parere in merito alla richiesta formulata da un proprio dipendente che – incaricato di svolgere le funzioni di consulente tecnico di parte in giudizio in cui la stessa amministrazione è stata convenuta – reclama il pagamento di un compenso determinato secondo i parametri della tariffa professionale. Secondo i consolidati principi vigenti in materia di incarichi affidati ed espletati da personale pubblico, il dipendente può vantare il diritto a percepire un compenso aggiuntivo rispetto alla normale retribuzione solo se l’attività svolta si configura come oggetto di un incarico extraistituzionale legittimamente conferito. Pertanto, occorre in primo luogo esaminare la natura dell’attività di consulente tecnico di parte, per verificare se possa costituire oggetto di un incarico extraistituzionale. In proposito, va subito rilevato che mentre è pacifica l’inerenza dell’attività del consulente tecnico d’ufficio (CTU) alla funzione giurisdizionale – in quanto pacificamente ritenuto ausiliare del giudice – la diversa funzione del consulente tecnico di parte (CTP) è comunemente ritenuta essere di mero supporto tecnico della difesa della parte che lo designa, e quindi è svolta nell’esclusivo interesse di quest’ultima. Non possono quindi essere d’ausilio ai fini della specifica questione sottoposta a parere, se non in modo molto indiretto, le affermazioni della giurisprudenza intervenute a proposito delle attività espletate dal dipendente pubblico – nella fattispecie comunale – in qualità di CTU, laddove esse sono state considerate sostitutive della ordinaria prestazione di servizio in ragione della obbligatorietà dell’incarico normativamente sancita (art. 63 c.p.c.) e della natura di munus publicum della relativa funzione (TAR Lombardia, 9 386 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO giugno 2004 n. 389). In quella occasione, peraltro, l’attività di CTU, comunque nei fatti espletata all’interno dell’orario di servizio, è stata ritenuta non suscettibile di compenso aggiuntivo rispetto alla normale retribuzione e, ovviamente, rispetto all’eventuale compenso liquidato dal giudice. Tenuto quindi conto della diversità oggettiva delle diverse funzioni di CTU e di CTP, si esprime l’avviso che l’attività prestata dal CTP a favore dell’amministrazione di appartenenza – anche se non usuale e non frequente nella comune esperienza del dipendente pubblico – debba di norma essere ricondotta nell’ambito dei compiti di servizio del dipendente stesso. Ciò in quanto si deve ritenere che tra le competenze istituzionali dell’amministrazione è compreso ogni adempimento connesso all’eventuale contenzioso in cui essa risulti coinvolta per fatti inerenti alla sua missione (istruttoria, redazione della relazione per la difesa, assistenza e collaborazione con il difensore, supporto tecnico amministrativo nella gestione del processo). Se, dunque, un’amministrazione ritiene di affidare il compito di consulente di parte ad un proprio dipendente, la relativa attività rientra inevitabilmente nell’ambito delle mansioni di servizio; naturalmente, anche per motivi di evidente interesse pubblico alla migliore utilizzazione del supporto tecnico oggetto dell’incarico e di riflesso alla migliore difesa dell’amministrazione in giudizio, l’attività di consulenza processuale affidata al dipendente deve essere coerente con il suo profilo professionale e con le sue effettive competenze. In presenza di tali presupposti, si ha l’ulteriore conseguenza che detto incarico si atteggia a vero e proprio incarico di servizio, e come tale esso viene ad essere obbligatorio per il dipendente. Motivi di evidente opportunità inducono a suggerire che le caratteristiche di obbligatorietà dell’incarico e la sua pertinenza alle mansioni di servizio, con tutte le conseguenza che ne derivano anche sotto il profilo economico, siano formalmente esplicitate nei confronti del dipendente sin dal momento del conferimento, fermo restando che il dipendente stesso non può sottrarsi al dovere di espletarlo se non motivatamente rappresentando con l’estraneità della materia rispetto alle proprie competenze e cognizioni professionali. Diversa questione è quella relativa al tempo dell’espletamento dell’incarico di CTP, anche in ordine ai riflessi che essa può assumere sul piano economico. Se infatti l’attività di CTP risulta svolta all’interno del normale orario di lavoro, non spetta ovviamente alcun compenso aggiuntivo oltre alla normale retribuzione, mentre si può ritenere possa essere compensata con lo straordinario la attività prestata oltre l’orario di lavoro. Nell’uno e nell’altro caso potrebbe comunque essere riconosciuto il rimborso delle spese vive sostenute dal dipendente, qualora debitamente documentate. Come affermato dalla giurisprudenza (TAR Lazio 26 marzo 2004 n. 2892), quando l’attività professionale è stata svolta nell’esclusivo interesse dell’amministrazione di appartenenza è necessario distinguere tra la parte di tale attività svolta durante il normale orario di lavoro, che va considerata a I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 387 tutti gli effetti mansione inerente alla prestazione di lavoro subordinato, dalle prestazioni svolte al di fuori di tale orario; queste ultime danno titolo ad un’apposita remunerazione secondo i parametri previsti per il lavoro straordinario e non, quindi, secondo le tariffe professionali. Discorso a parte merita la diversa ipotesi dell’incarico conferito dalla amministrazione a proprio dirigente; in questo caso infatti, la “flessibilità” del tempo di lavoro propria della qualifica dirigenziale potrebbe indurre a conclusioni in parte difformi da quelle ora assunte (ma si fa riserva di specifico esame della questione qualora si presenti concreta fattispecie). Qualora nell’organico della amministrazione non esistessero altre competenze e qualora l’organico stesso fosse incapace, anche per ragioni di carico di lavoro, di soddisfare le esigenze in questione, l’incarico di consulente tecnico di parte può essere affidato anche all’esterno, tanto a libero professionista (ed in questa evenienza si tratterebbe di incarico professionale a tutti gli effetti) quanto a dipendente pubblico di altra amministrazione, come incarico necessariamente da svolgersi fuori dal normale orario di lavoro e sempre a condizione che sia compatibile con quest’ultimo. L’assegnazione di tale tipologia di incarichi comporta per il dipendente pubblico di altra amministrazione il diritto ad ottenere un compenso aggiuntivo rispetto al normale stipendio. Nella determinazione di tale compenso, la giurisprudenza ritiene applicabile – perché considerato principio di carattere generale – la regola stabilita dall’art. 62 del r.d. n. 2537 del 1925 “regolamento delle professioni di ingegnere e di architetto” secondo la quale il dipendente di una amministrazione statale che ha esercitato attività professionale a favore della stessa o di diversa amministrazione ha diritto ad un corrispettivo pari ad una percentuale non inferiore ad un terzo e non superiore alla metà delle tariffe libero-professionali (Cass. 22 ottobre 1999, n. 11859; TAR Sardegna, 23 dicembre 1998, n. 1397 ). Lo specifico caso sottoposto a parere, peraltro, presenta la particolarità costituita dall’essere il rapporto di lavoro svolto da dipendente “part time”. Tale circostanza tuttavia non incide in senso favorevole all’accoglimento della pretesa avanzata, dal momento che per i dipendenti “part-time” vigono specifici divieti di legge in relazione al conferimento e alla conseguente assunzione di incarichi professionali: come noto, l’art. 1, comma 56-bis, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 fa divieto a tutte le amministrazioni pubbliche – dunque sia all’amministrazione di appartenenza sia alle altre amministrazioni – di conferire a tali soggetti incarichi professionali (divieto mitigato nel settore dei lavori pubblici – nel quale tuttavia non rientra la presente fattispecie – dall’art. 18 della legge 109 del 1994 all’ambito territoriale dell’ufficio di appartenenza del dipendente). Sulla base delle considerazioni che precedono, dunque, potrebbero addirittura sussistere consistenti dubbi in ordine alla legittimità dell’affidamento dell’incarico – dubbi che ovviamente si riverberano anche sulla fondatezza della conseguente pretesa a compenso aggiuntivo – qualora si insistesse nel ritenere che l’incarico in questione abbia avuto natura di incarico professionale o comunque extra istituzionale». 388 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Responsabilità amministrativa, azione di responsabilità sociale e principio di parità(*) di Michele Dipace SOMMARIO: 1.- Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità degli amministratori delle società pubbliche: premesse. 2.- La c.d. teoria del doppio binario. 3.- Le ragioni del nuovo indirizzo giurisprudenziale: la tutela della gestione delle risorse pubbliche. 4.- L’influenza sul nuovo indirizzo giurisprudenziale della riforma della Corte dei conti del 1994 e dell’art. 7 della legge 97/2001. 5.- Ambito soggettivo ed oggettivo del giudizio dinanzi alla Corte dei conti. 6.- Rapporto tra le azioni societarie di responsabilità degli amministratori di società pubbliche e l’azione di responsabilità amministrativa. 7.- Compatibilità tra le azioni di responsabilità societarie e quella di responsabilità amministrativa: esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei conti. 1) Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità degli amministratori delle società pubbliche: premesse. La materia delle azioni di responsabilità che possono essere esperite nei confronti degli amministratori delle società a partecipazione pubblica è quanto mai attuale ed è foriera più di spunti di riflessioni che di certezze giuridiche. È ben noto che il sistema delle responsabilità degli amministratori e dipendenti delle società a partecipazione pubblica per il danno cagionato all’ente per la scorretta gestione delle risorse pubbliche e del conseguente ri- D O T T R I N A (*) Intervento del Vice Avvocato Generale dello Stato Michele Dipace al Convegno di studi su La responsabilità nella gestione di società a capitale pubblico, Università degli Studi Tor Vergata ed Università degli Studi “La Sapienza”, Villa Mondragone, 15 dicembre 2006. parto di giurisdizione è stato rimeditato a fondo dalle sezione unite della Corte di cassazione, che con ordinanza 22 dicembre 2003 n. 19667 (1), hanno rivisto una decennale giurisprudenza. Il precedente filone giurisprudenziale prevedeva, il più delle volte, una sostanziale impunità degli amministratori per le loro scelte di gestione relative ad imprese a capitale pubblico con riguardo a fatti e comportamenti dannosi, tenuti dagli stessi soggetti, derivante in sostanza dall’inerzia dei soggetti legittimati a promuovere le azioni sociali dinanzi al giudice ordinario. Il ripensamento della giurisprudenza del 2003, era nell’aria ove si legga la sentenza della Corte di cassazione 2 ottobre 1998, n. 9780 sull’acquisto da parte dell’ENI delle azioni Enimont di pertinenza di Montedison, ad un prezzo prestabilito e molto più elevato rispetto alle quotazioni di borsa con un comportamento degli amministratori di sostanziale adesione alle richieste del mondo politico. Tale decisione confermava la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla responsabilità degli amministratori di un ente pubblico economico, quale era all’epoca l’ENI, per il danno eventualmente da essi arrecato all’ente mediante decisioni assunte nell’esercizio di attività di impresa, ovvero di mansioni ad essa inerenti. Al tempo stesso però la Cassazione sentiva la necessità di giustificare tale decisione riconoscendo al procuratore generale della Corte dei conti la serietà e gravità della preoccupazione manifestata che “la timida attività giudiziaria dell’ente danneggiato nei confronti dei pretesi responsabili potesse risolversi in un sostanziale esonero da responsabilità degli stessi (colpo di spugna)” e, aggiungeva, che tale timore serio e reale non poteva essere risolto dal giudice di legittimità ma dalla scelta politica del legislatore e dalle autonome iniziative dei soggetti interessati (2). La gran parte dei commentatori di tale decisione affermavano che il timore di impunità degli amministratori degli enti pubblici economici per i danni arrecati alle finanze pubbliche derivava non da previsioni normative, ma proprio dalla giurisprudenza che la suprema corte aveva elaborato 390 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (1) L’ord. della Cass. 22 dicembre 2003 n. 19667 è pubblicata: in Foro it.. 2005, I, 2676 con nota di D’Auria; nonché in Foro amm. C.d.S., 2004, 685, con nota di URSI, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice contabile: la responsabilità erariale degli amministratori delle imprese pubbliche; infine in Giur. It. 2004, 1, 1830 con nota di ARTIGIANO, Gli illeciti degli amministratori dei dipendenti degli enti pubblici economici: dal giudice ordinario al giudice contabile. (2) Cass. 2 ottobre 1998, n. 9780 in Foro it. 1999, I, 575, con nota critica di D’AURIA, Brevissime in tema di giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori di enti pubblici economici. La Cassazione affermava che spettava al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla responsabilità degli amministratori di un ente pubblico economico (ENI) per il preteso danno da essi recato all’ente mediante decisioni assunte nell’esercizio di attività d’impresa. All’epoca della decisione in questione tale orientamento della suprema Corte era consolidato. Tra le più significative: Cass. S.U. 2 marzo 1982 n. 1282 in Foro it. 1982, 1, 1592 (IRFIS) Cass. S.U. 21 ottobre 1983 n. 6178 in Foro it. 1983, 1, 2688 (ISVEI MER) Cass. S.U. 15 novembre 1989 n. 4860 in Foro it. 1989, I, 3402 sui fondi neri dell’IRI. Cass., S.U., 22 maggio 1991 n. 5792 in Giust. Civ. 1991, 1, 1987 sulle Ferrovie dello Stato. escludendo la giurisdizione della Corte dei conti in materia e, data tale pacifica giurisprudenza, si prospettava la possibilità di consentire al pubblico ministero presso la Corte dei conti come “organo di giustizia” di esercitare, dinanzi al giudice ordinario, l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori degli enti pubblici economici, o, almeno, le azioni a difesa dei soci previsti dall’articolo 2409 del codice civile (denuncia al tribunale per gravi irregolarità nella gestione); con il che il procuratore della Corte dei conti avrebbe assunto le vesti di un pubblico ministero specializzato rispetto a quello civile (3). Soluzione questa tendente a risolvere un problema pratico, ma che non era in linea né con la natura tipicamente sanzionatoria del sistema della responsabilità amministrativa-contabile azionata da un organo pubblico né con il sistema delle responsabilità pubbliche né con quello delle responsabilità societarie, ma che in ogni caso necessitava di intervento legislativo che prevedesse nuove ed anomale competenze per il procuratore della Corte dei conti. La responsabilità amministrativa-contabile degli amministratori degli enti pubblici economici era del tutto pacifica quando, dato il consistente intervento pubblico nell’economia (c.d. Stato-imprenditore), vi erano le imprese organo senza personalità giuridica, assoggettate alla disciplina della contabilità pubblica ed il sistema delle partecipazioni statali caratterizzato dagli enti di gestione, enti pubblici economici (IRI, ENI, EFIM), e dalle società finanziarie ed operative, che utilizzavano il diritto privato quanto ai rapporti di lavoro, al regime dei beni, alla contabilità e bilanci, mentre erano soggetti alla disciplina di diritto pubblico nei rapporti con lo Stato, il quale aveva la possibilità di costituirli ed estinguerli quasi sempre con disposizione di legge (basti pensare alla lunga vicenda dei numerosi decreti legge sulla liquidazione dell’EFIM). Lo Stato aveva il potere di indirizzo attraverso le direttive ministeriali e dei Comitati interministeriali (CIPE e CIPI) sull’attività imprenditoriale dell’ente e, attraverso questo, su quella delle società operative, e soprattutto aveva un potere di controllo sulla corretta gestione delle risorse pubbliche sia attraverso i sindaci, quasi sempre espressione del ministero vigilante e del Ministero del Tesoro, sia attraverso il magistrato della Corte dei conti delegato al controllo che partecipava alle sedute degli organi di gestione dell’ente a norma dell’articolo 12 della legge 259 del 1958, il quale poteva denunciare al procuratore della Corte dei conti eventuali irregolarità nella gestione imprenditoriale che comportasse un danno erariale. DOTTRINA 391 (3) D’AURIA, op.cit. in nota 3. Tra l’altro l’Autore osservava che con tale giurisprudenza, dal momento che era esclusa la giurisdizione della Corte dei conti e l’azione pubblica del suo pubblico Ministero sugli amministratori degli enti pubblici economici, si finiva per rimettere agli stessi enti la decisine di far valere, davanti al giudice ordinario, la responsabilità civile degli amministratori. La giurisdizione della Corte dei conti trovava fondamento giuridico nella disposizione del secondo comma dell’art. 103 della Costituzione secondo un’interpretazione ampia della materia della “contabilità pubblica” che veniva riconosciuta quando vi era l’elemento soggettivo della natura pubblica dell’ente e quello oggettivo della natura pubblica del denaro impiegato nell’attività di gestione (4). Naturalmente l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti della responsabilità degli amministratori per l’attività di gestione degli enti pubblici attuata in modo così ampio destava non poche perplessità legate essenzialmente alla natura imprenditoriale dell’attività svolta che comportava decisioni gestionali altamente discrezionali e perciò soggette a rischio economico i cui risultati erano condizionati dalla concorrenza, dall’andamento del mercato, o da fasi congiunturali negative. In altri termini, l’azione di responsabilità amministrativa, fondata sull’art. 103 c. 2 Cost., non poteva essere estesa fino a comprendere quegli eventi derivanti dal rischio imprenditoriale connesso ad ogni scelta economica (5). 2) La c.d. teoria del doppio binario. Come è noto tale indirizzo fu modificato sostanzialmente quando, in sede di regolamento di giurisdizione, le sezioni unite della Corte di cassazione sono state ferme, a partire dalla sentenza 2 marzo 1982 n. 1282, poi con la sentenza 18 dicembre 1985, n. 6338 (sull’attività gestionale dell’Egam), nel sostenere che la Corte dei conti era priva di giurisdizione in ordine all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori degli enti pubblici economici per gli atti di natura imprenditoriale. La Cassazione al riguardo affermava che “l’articolo 103 comma 2 della Costituzione aveva l’attitudine a fondare una competenza tendenzialmente generale ma non assoluta ed esclusiva della Corte dei conti nelle materie della contabilità pubblica, di modo che apposite norme possono derogare a tale giurisdizione”; metteva in evidenza il carattere largamente discrezionale dell’attività dell’imprenditore pubblico e affermava il principio che la giurisdizione della Corte dei conti, quanto all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori degli 392 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (4) Cass. 20 luglio 1968 n. 2616 in Foro it., 1968, I, 2074 secondo la quale la portata immediatamente precettiva dell’art. 103 Cost. comportava che la materia della contabilità pubblica si estendesse a tutti i rapporti, compresi quelli connessi alla responsabilità amministrativa derivanti dalla gestione finanziaria svolta dall’ente pubblico. Cass. 5 febbraio 1969 n. 363 in Foro amm., 1969, II, 124 e in Foro it. 1969, I, 2962; contra Cass. 30 novembre 1966, n. 2811 in Foro it. 1967, I, 38. (5) VOCI, La responsabilità patrimoniale degli amministratori degli enti pubblici, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1968, 1112 ss; v. Cass. S.U. 14 dicembre 1985 n. 6329 in Foro it., 1985, I, 3091 sugli amministratori dell’ente cinema. enti pubblici economici, sussisteva per quegli atti o fatti dannosi che esorbitassero dall’esercizio imprenditoriale propria degli enti medesimi e si ricollegassero a poteri autoritativi, di auto organizzazione, ovvero a funzioni pubbliche svolte in sostituzione dello Stato o di enti pubblici non economici (6). Trattasi della c.d. teoria del doppio binario secondo la quale la giurisdizione del giudice ordinario per la responsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici era fondata sul fatto che l’attività imprenditoriale non poteva rientrare nell’ambito dell’attività amministrativa e, perciò, era sottratta alla giurisdizione della Corte dei conti, per essere identica a quella dell’impresa privata. Si riteneva irrilevante la natura pubblica dell’ente ed il fatto che le risorse fossero pubbliche, al riguardo sostenendosi che il denaro pubblico una volta pervenuto nella disponibilità dell’ente pubblico economico diverrebbe privato. Sulla base di tali principi, la Cassazione affermò la giurisdizione del giudice ordinario perché afferente ad attività imprenditoriale anche per l’erogazione di somme per tangenti, e sulla costituzione dei c.d. fondi neri (7). La ragione sostanziale, questa volta era il timore che, considerando possibile l’azione di danno erariale ogni qual volta l’ente pubblico economico avesse il bilancio in perdita, o effettuasse un atto imprenditoriale con risultato negativo, si sarebbe potuto profilare un vero e proprio blocco dell’attività dell’ente essendo l’azione di responsabilità amministrativa di natura obbligatoria. Tale indirizzo giurisprudenziale rimase fermo anche quando il sistema delle partecipazioni statali fu superato, essendo gli enti di gestione stati trasformati per legge (d.l. 11 luglio 1992 n. 333 conv. in legge 8 agosto 1992 n. 359) in società per azioni e quando andava sempre più diffondendosi la tendenza da parte dello Stato e soprattutto degli enti locali ad utilizzare soggetti sottoposti a regole privatistiche per il conseguimento di fini pubblici, aventi personalità giuridica di diritto privato e autonomia gestionale e imprenditoriale (aziende speciali, società interamente pubbliche che gestiscono direttamente servizi pubblici, società miste, fondazioni private). Anzi, non è infondato pensare che proprio tale indirizzo giurisprudenziale insieme all’affermarsi di nuovi principi legislativi in materia di efficacia, efficienza, eco- DOTTRINA 393 (6) Oltre alle sentenze in nota 2, v. anche Cass. 2 ottobre 1998 n. 9780 (Enimont) in Foro it., 1999, 1, 575 con nota di D’Auria. Cass. S.U. 21 novembre 2000 n. 1193 in Cons. di Stato 2001, II, 745, con nota di Palombi . Cass. 17 luglio 2001 n. 9649, in. Foro it. 2001,1, 2790 con nota di D’Auria. (7) Cass. S.U. 18 ottobre 1991 n. 11037 in Foro it., in cui si afferma che le risorse economiche dell’ente ferrovie dello Stato sono soggette al regime civilistico; idem Cass. 22 ottobre 1992 n. 11569. Cass. S.U. 11 febbraio 2002 n. 1945 in Foro it. 2002, I, 1408 sulle tangenti agli amministratori dell’Acea per fatti anteriori all’entrata in vigore della L. 142/90 (art. 22. 23). nomicità e trasparenza dell’azione delle amministrazioni pubbliche anche locali, hanno spinto la pubblica amministrazione ad organizzarsi sempre più con strumenti privatistici (8). Non si deve invero dimenticare che nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale promosso dalla Corte dei conti in seguito alla trasformazione degli enti pubblici economici IRI, ENI, ENEL ed INA in società per azioni, il Governo escludeva l’esercizio del controllo su tali società da parte della Corte dei conti affermando di non avere più su di esse poteri di autorizzazione e direttiva, bensì i diritti dell’azionista quali previsti dal diritto societario e che “le nuove società fuoriescono dal rapporto con lo Stato che fa da presupposto al controllo della Corte dei conti” (9). Come noto tale tesi non fu accolta dalla Corte costituzionale che con sentenza del 28 dicembre 1993, n. 466 affermava che la semplice trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni non poteva essere motivo sufficiente ad escludere il controllo della Corte dei conti sulle stesse fino a quando rimaneva inalterato l’apporto finanziario dello Stato nei nuovi soggetti e, cioè, fino a quando lo Stato conservava la gestione economica delle nuove società nella propria disponibilità mediante una partecipazione esclusiva o prevalente al capitale azionario delle stesse. Sosteneva la Corte che “il controllo della Corte dei conti verrà a perdere la propria ragione nel momento in cui l’effettiva dismissione delle quote azionarie in mano pubblica avrà assunto connotati sostanziali, tali da predeterminare l’uscita della società dalla sfera della finanza pubblica”. Queste e altre considerazioni contenute nella sentenza citata, come il richiamo agli indirizzi emersi in sede di normazione comunitaria favorevoli alla adozione di una nozione sostanziale dell’impresa pubblica, non produssero il risultato aspettato di un ripensamento dell’indirizzo giurisprudenziale prima indicato e fu del tutto ignorata la questione dell’interferenza fra la 394 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (8) Il fenomeno dell’enorme aumento delle società a partecipazione pubblica è ben noto. Secondo fonti del Ministero degli affari regionali, all’attualità le società pubbliche sono diventate 3.211 con 17.445 consiglieri di amministrazione. Quelle che si occupano di servizi pubblici locali (artt. 112 ss. del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267) sono raddoppiate negli ultimi cinque anni raggiungendo il numero di 889 società a totale, prevalente partecipazione pubblica e società miste. Si noti che vi sono società pubbliche come la biennale di Venezia che è qualificata dalla legge istitutiva: società senza fine di lucro. (9) Come riportato nella decisone della Corte Costituzionale n. 446/93, così si esprimeva il presidente del consiglio dell’epoca. Inoltre il Ministro del Tesoro, azionista dell’Enel, comunicava all’Enel di ritenere ormai superata la disposizione dell’art. 12 della legge 259 del 1958 sul controllo della Corte dei conti attraverso il proprio delegato in quanto le modalità di nomina e la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle società erano state per legge devolute agli statuti societari e che lo Stato non aveva più poteri di autorizzazione e direttiva ma i diritti dell’azionista (nota 14 settembre 1992 al presidente dell’Enel). giurisdizione della Corte dei conti sulla responsabilità per danni degli amministratori delle S.p.a. pubbliche e l’attività di controllo della stessa corte sulla gestione di enti e società pubbliche (10). 3) Le ragioni del nuovo indirizzo giurisprudenziale: la tutela della gestione delle risorse pubbliche. Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale sulla responsabilità degli amministratori delle società in mano pubblica iniziato con l’ordinanza 19667 del 2003 delle sezioni unite della Cassazione, ormai definitivamente consolidato (11), fu sollecitato dalla dottrina molto spesso critica nei confronti del precedente orientamento, la quale aveva messo in evidenza la sostanziale irresponsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici per i danni cagionati alle risorse pubbliche dalle loro scelte gestionali essendo rimessa l’azione di responsabilità agli stessi enti e amministrazioni che hanno nominato gli amministratori (12). Inoltre forti sollecitazioni vennero dai numerosi giudizi promossi dai procuratori della Corte dei conti nei confronti degli amministratori degli enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica. Si osservava che l’azione di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti è più incisiva rispetto a quella proposta dinanzi al giudice civile poiché innanzi al giudice contabile è promossa e condotta da un organo pubblico, il pubblico ministero contabile, mentre quella dinanzi al giudice civile è lasciata alla disponibilità dell’ente stesso, per cui tale tipo di responsabilità difficilmente viene fatta valere in quanto l’ente che ha il capitale sociale non è di solito interessato a chiamare in causa gli amministratori che ha nominato (13). Inoltre, il DOTTRINA 395 (10) Corte Costituzionale 28 novembre 1993 n. 446 in Giust. Cost., 1993, p. 3829 dove sono pubblicati il ricorso per conflitto di attribuzioni, le difese dello Stato e la nota di CERRI, La mano pubblica e la gestione privata di attività economica: problemi processuali e sostanziali di un interessante conflitto. V. anche Corte Costituzionale n. 363 del 2003 che ha dichiarato la natura sostanzialmente pubblicista della s.p.a. “Italia lavoro” per essere le azioni possedute dal Ministero del lavoro. Si deve peraltro rilevare che l’attività di controllo da parte della Corte dei conti non fa discendere automaticamente che il soggetto sia sottoposto alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa in quanto come si è osservato la Corte dei conti svolge attività di controllo anche su soggetti privati. CASSESE, Gli enti privatizzati come società di diritto speciale in Giornale di diritto amministrativo 1995, p. 1134. (11) Cass. SS.UU. 14 febbraio 2004, n. 3351. Cass. 26 febbraio 2004, n. 3899. Cass. 9 giugno 2004, n. 10979. Cass. 12 ottobre 2004, n. 20132. Cass. 26 maggio 2005, n. 10973. Cass. 1 marzo 2006, n. 4511. V. la nota critica di D’AURIA, in Foro it. 2006, I, Amministratori e dipendenti di enti pubblici economici e società pubbliche: quale revirement della cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa? (12) D’AURIA in Foro it. 1991, 1, 575. (13) SCHIAVELLO, La nuova conformazione della responsabilità amministrativa, Milano 2001. RISTUCCIA, La giurisdizione in materia di responsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici in Riv. Corte dei conti, 1995, 1, 406; D’AURIA in Foro it. 1999, 1, 575. progressivo fenomeno della privatizzazione degli enti pubblici che ha assunto proporzioni considerevoli e, recentemente, l’esplosione della costituzione di società per azioni per la gestione dei servizi locali, hanno indotto la Cassazione ad affermare la irrilevanza della utilizzazione dei soggetti privatistici sulla giurisdizione della Corte dei conti quanto alla giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori delle s.p.a. pubbliche, in quanto la Corte dei conti è giudice esclusivo in materia di contabilità pubblica a norma dell’articolo 103, comma 2, della Costituzione, qualificando sostanzialmente come attività amministrativa non solo quella che si esercitava in attuazione di funzioni pubbliche e poteri autoritativi, ma anche quella con la quale il soggetto pubblico persegue le proprie finalità istituzionali mediante una attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato (14). Invero, la natura di istituzione pubblica è configurabile allorquando una società, le cui azioni sono possedute integralmente o prevalentemente da un ente pubblico, costituisca lo strumento per la gestione di un servizio pubblico ed operi come longa manus dell’ente proprietario, equivalendo l’attività della società a quella di esercizio diretto da parte dell’ente.In queste ipotesi la società è parte dell’amministrazione in senso lato. Ovviamente si deve procedere ad una valutazione caso per caso, per singoli soggetti giuridici, con esame dell’organizzazione, dell’appartenenza del capitale sociale, delle modalità di affidamento dell’attività sociale, del rapporto con l’ente pubblico che l’ha costituito o che partecipa al capitale sociale, specie con riguardo delle società miste. Sulla questione è stato puntualizzato che il danno erariale in materia di società per azioni a partecipazione pubblica riguarda esclusivamente le società a partecipazione pubblica totalitaria o maggioritaria, nelle quali il perseguimento delle finalità pubbliche costituisce un dato essenziale e non riguarda le ipotesi di partecipazione pubblica meramente “finanziaria” che è difficile far rientrare nell’ambito delle scelte di tipo economico volte a realizzare il soddisfacimento di specifici bisogni ed interessi pubblici (15). In ogni caso, quel che preme evidenziare è che ai fini del riparto di giurisdizione per l’azione dei danni nei confronti degli amministratori e agenti di tali soggetti, si va delineando il principio fondato sul criterio oggettivo dell’attività funzionale al comparto pubblico pur con l’utilizzo di strumenti privati, con riguardo all’utilizzo corretto del denaro pubblico, alla natura pubblica delle risorse e, perciò, alla deviazione del loro uso dalla destinazione pubblica cui 396 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (14) Cass. S.U. ord. 22 dicembre 2003 n. 19667 in Foro it. 2005, I, 2676 che dichiara enti pubblici economici i consorzi fra enti pubblici locali per la gestione di servizi pubblici. (15) RISTUCCIA, La responsabilità sociale erariale nelle società pubbliche, in Riv. Corte dei conti, novembre 2004, p. 1 ss.; GALGANO, Il nuovo diritto societario, Padova 2003, 439, il quale afferma che per società per azioni in mano pubblica debbono intendersi le società di cui un ente pubblico possegga la totalità o la maggioranza del capitale azionario. dovevano essere utilizzate. Tale nuovo orientamento giurisprudenziale, la cui ratio sostanziale è nel controllo della trasparenza e legittimità dell’uso delle risorse pubbliche quanto alla loro effettiva destinazione alla realizzazione del fine pubblico cui sono indirizzate, rischia però di frenare quel processo di liberalizzazione dei servizi pubblici che si sta faticosamente attuando e che ha come fondamento il principio di concorrenza e competizione nel mercato, che dovrebbe assicurare, oltre che una migliore qualità ed efficienza del servizio anche il razionale utilizzo delle risorse pubbliche sicuramente con una riduzione dei costi del servizio stesso a tutela del cittadino-consumatore. Tale fenomeno della liberalizzazione nel campo dei servizi pubblici, specie quelli degli enti locali, sta avendo un cammino complesso e contrastato incontrando obiettive difficoltà, dovendosi coniugare l’interesse dei cittadini, quello dell’ente al quale è attribuito l’interesse della comunità e l’interesse del mercato e dei soggetti imprenditoriali che in esso agiscono. Il tema è all’ordine del giorno, ed è stato efficacemente affermato, che non è tanto “liberalizzazione si, liberalizzazione no”, bensì quello di stabilire all’interno di una politica di privatizzazione e liberalizzazione, quale spazio debba essere lasciato alla libertà d’impresa e quale alla cura dell’interesse collettivo (16). 4) L’influenza sul nuovo indirizzo giurisprudenziale della riforma della Corte dei conti del 1994 e dell’art. 7 della legge 97/2001. Il cambiamento dell’indirizzo giurisprudenziale della Cassazione, prima indicato, è stato propiziato anche da alcune disposizioni di legge nel frattempo intervenute. Tra queste le più importanti sono l’ampliamento delle competenze e dell’organizzazione della Corte dei conti contenuta nelle leggi 19 e 20 del 1994 e l’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 in materia di rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (17). L’articolo 1, ultimo comma, della legge 20 del 1994 e successive modificazioni, ha disposto che la Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza, limitatamente ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della citata legge; lo stesso articolo 1, comma 1, prevede l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali dei dipendenti pubblici nelle quali, come DOTTRINA 397 (16) Si fa riferimento al disegno di legge A.S. n. 772 (d.d.l. Lanzillota) di delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali, presentato il 7 luglio 2006 sul quale le interessanti osservazioni di CINTIOLI, Quale potere pubblico nei servizi pubblici locali? Il rischio di statalismo, in Magna carta paper 2007. (17) In tal senso v. le osservazioni contenute in Cass. SS.UU. 22 dicembre 2003 n. 19667, cit. vedremo, non vi è dubbio che, per quanto riguarda gli amministratori degli enti economici delle società partecipate, può rientrare l’attività di impresa. L’aver introdotto la giurisdizione della Corte dei conti anche sulla responsabilità (extracontrattuale) di amministratori e dipendenti pubblici in danno di soggetti diversi dalle amministrazioni o dagli enti di appartenenza è stata intesa nel senso che il discrimine tra le due giurisdizioni (giurisdizione ordinaria ex articolo 2043 del codice civile e giurisdizione della Corte dei conti) risiede unicamente nella natura pubblica o privata delle risorse finanziarie di cui il soggetto passivo si avvale, avendo il legislatore inteso tutelare il patrimonio di amministrazioni ed enti pubblici diversi da quelli cui appartiene il soggetto agente abilitando il procuratore regionale della Corte dei conti a promuovere i relativi giudizi nell’interesse generale dell’ordinamento giuridico. Tale norma innovativa ha un’evidente ricaduta anche in tema di responsabilità contrattuale quale è quella degli amministratori di società in mano pubblica per i danni alla società stessa, in quanto non è immaginabile che ci sia un trattamento giurisdizionale diverso e meno incisivo allorquando il danno sia stato cagionato alla stessa amministrazione di appartenenza. L’articolo 7 della legge 97 del 2001 è stato ritenuto un punto fermo ai fini della sussistenza della giurisdizione amministrativa contabile in questione senza che possa distinguersi tra atti di imperio e atti di gestione imprenditoriale nei confronti dei comportamenti delittuosi “dei dipendenti di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”. La norma prevede che in caso di condanna penale per i delitti contro la pubblica amministrazione (peculato, corruzione, malversazione, abuso d’ufficio) la sentenza venga comunicata al procuratore regionale della Corte dei conti per la promozione dell’eventuale procedimento per danno erariale nei confronti del condannato. Ove si tenga conto che la nozione di amministrazione pubblica sta assumendo un significato più articolato ed ampio di quello tradizionale di amministrazione tipizzata ad atti amministrativi per ricomprendere anche soggetti di diritto privato che perseguono interessi pubblici della collettività, in cui prevale la logica del risultato, la norma citata è stata interpretata da alcuni nel senso che il legislatore abbia voluto compiere un’attribuzione ampliativa dell’ambito soggettivo della responsabilità amministrativa in materia di contabilità pubblica, mentre da altri che la norma mostra come il legislatore in realtà non abbia mai dubitato della piena conoscibilità da parte del giudice contabile delle situazioni di danno arrecato, oltre che nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione anche di quelli degli enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica (18). 398 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (18) Sulla portata della legge 97 del 2001 ai fini della attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione in materia di responsabilità per mala gestio degli amministratori delle società a partecipazione pubblica, si rimanda alle condivisibili osservazioni di VENTURINI in Quale che sia l’esatta soluzione sulla portata della norma indicata, preme rilevare che tale norma pur dettando una disposizione di carattere procedurale, ha stabilito un principio di attribuzione giurisdizionale dal quale l’interprete non può prescindere. In ogni caso, quel che più conta è che il nuovo indirizzo giurisprudenziale sulla giurisdizione in materia di responsabilità degli amministratori di società partecipate in modo prevalente dallo Stato e da enti pubblici è da ritenersi ormai stabilizzato ed ha trovato una puntuale sistemazione sia nell’affermazione dell’esistenza di un rapporto di servizio tra la società e l’ente proprietario, ravvisabile ogni qual volta si instauri una relazione non organica ma funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto esterno nell’iter procedimentale dell’ente pubblico, come partecipe della attività a fini pubblici di quest’ultimo, e costituisce il presupposto della responsabilità per danno erariale (Cassazione 3899 del 2004) sia, a prescindere da tale rapporto, nella affermazione che “ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti è del tutto irrilevante il titolo in base al quale il pubblico denaro è utilizzato, potendo consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio ma anche in uno di concessione amministrativa o in un contratto privato”. Il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile, si è, quindi, spostato dalla qualità del soggetto che ben può essere un privato o un ente pubblico economico, alla natura del danno e degli scopi perseguiti in modo che si ha danno erariale qualora il soggetto, anche privato, con le sue scelte ha determinato uno sviamento dalle finalità perseguite (19). Ora si è passati da un criterio di riparto fondato sulla tipicità delle regole proprie delle responsabilità di diritto civile societario e di quella amministrativa contabile (il cosiddetto doppio binario) a quello fondato sul collegamento funzionale tra pubblico potere e società in vista del perseguimento del fine pubblico, nonché sulla natura delle risorse e del soggetto danneggiato. 5) Ambito soggettivo ed oggettivo del giudizio dinanzi alla Corte dei conti. L’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori delle società pubbliche pone numerosi problemi circa l’ambito soggettivo e oggettivo di tale giudizio che, dato il breve tempo trascorso dal mutamento di indirizzo giurisprudenziale, non sono stati affrontati in modo risolutivo dalla giurisprudenza che, come già è successo per il DOTTRINA 399 Giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori e dei dipendenti delle Amministrazioni enti e enti a prevalente partecipazione pubblica, in Riv. Corte conti, 2001 n. 6, IV p., 294 ss. (19) MADDALENA, La sistemazione dogmatica della responsabilità amm.va nell’evoluzione attuale del diritto amministrativo, in Cons. Stato, 2001, II, 1559; VENTURINI, op. cit., p. 294. revirement sul riparto di giurisdizione, avrà anche il compito di risolverli con funzione pretoria, mentre sono stati trattati in modo dubitativo dalla numerosa dottrina sia nelle annotazioni delle decisioni della Cassazione in materia sia in quelle della Corte dei conti. Innanzi tutto, le stesse sentenze della Cassazione citate non hanno fornito alcun elemento, oltre al criterio sul riparto di giurisdizione, sulla portata e sui limiti dell’azione dinanzi al giudice contabile che, pertanto, saranno da individuare progressivamente, tenuto conto delle diverse caratteristiche e modalità delle due azioni. Inoltre, occorre precisare che proprio in base al criterio discriminante la giurisdizione indicato dalla Cassazione, e cioè il perseguimento di interessi della collettività con l’uso di risorse pubbliche, è evidente che l’azione di responsabilità per danno dinanzi alla Corte dei conti può esperirsi nei confronti di amministratori o dipendenti di società a totale o a maggioritaria partecipazione pubblica o qualora l’ente pubblico sia il socio di riferimento o di controllo (20). Qualora vi sia nel capitale sociale la partecipazione di soci privati e la partecipazione dello Stato o di un ente pubblico abbia soltanto una funzione finanziaria, la responsabilità degli amministratori non può non essere valutata secondo le regole sui diritti e doveri degli organi societari ove non siano espressamente derogate da norme speciali. Come si è detto, la cosiddetta privatizzazione di attività e servizi pubblici si è sviluppata con criteri non univoci, ed i relativi strumenti sono spesso previsti da specifiche norme di legge ove venivano dettate anche le regole di organizzazione e le regole di gestione (21). La dottrina distingue fra privatizzazioni formali o finte e sostanziali o autentiche: con le prime si pone in essere una mera trasformazione soggettiva quasi sempre di enti pubblici e organi pubblici della amministrazione in società private che continuano a svolgere compiti istituzionali delle pubbliche amministrazioni non in regime di mercato e di competitività; con le seconde si trasferisce ai privati il controllo sui nuovi soggetti in quanto si trasformano interi settori della pubblica amministrazione da pubblici a privati che operano in regime di concorrenza (energia, trasporti, banche, ecc.). Si tratta di verificare di volta in volta se la figura soggettiva privata costituisca uno strumento della pubblica amministrazione in modo che essa sia 400 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (20) Oltre agli autori indicati in nota 14, nello stesso senso ASTIGIANO, Gli illeciti degli amministratori e dei dipendenti degli enti pubblici economici: dal giudice ordinario al giudice contabile, in Giur.it. 2004, I, 1838; v. anche Corte dei conti, Sez. Lombardia, 9 febbraio 2005 n. 32 in Foro Amm.vo C.d.S., 2005, p. 622 con nota di Lombardo; C. dei conti, Sez. I appello, 3 novembre n. 356 in Foro amm. C.d.S. 2005, 3428 con nota di Venturini, contra ATELLI in Diritto e giustizia 2004 n. 5. (21) FRANCHINI, L’organizzazione in (a cura di) CASSESE, Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, I, 271; LA CAVA, L’impresa pubblica in (a cura di) CASSESE, Trattato di diritto amministrativo, cit. p. 3947; NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano 2003. legata da un rapporto di servizio per lo svolgimento di compiti istituzionali, oppure se la società operi al di fuori della pubblica amministrazione anche se sottoposta a regole dettate da poteri pubblici o sottoposta a controlli pubblici. Nel primo caso, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa degli amministratori è indubbia, nel secondo caso ove la figura soggettiva privata assolvesse anche a compiti pubblici soltanto a tale corrispondente parte di attività, andrebbe riferita la responsabilità degli amministratori e la giurisdizione della Corte dei conti. Sotto questo profilo non dovrebbero essere considerati pubblici i soggetti privati per il solo fatto che, ad esempio, usufruiscono di contributi pubblici o che vi sia una partecipazione pubblica al capitale della società ove manchi il c.d. rapporto di servizio fra le società e l’ente finanziatore e la società non persegua le finalità pubbliche dello stesso ente (22). Come può notarsi l’individuazione dell’ambito soggettivo della responsabilità amministrativa degli amministratori delle società partecipate azionabile dinanzi alla Corte dei conti è molto complesso, anche se si va affermando un criterio più empirico di quelli sopra indicati nel senso di ritenere la giurisdizione della Corte dei conti su tutte le società partecipate dalla pubblica amministrazione in quanto soggetti pubblici e che tale giurisdizione ha fondamento nel mero utilizzo da parte di società ed altri soggetti privati (es. le fondazioni) di beni o denaro pubblico per il perseguimento di pubblici interessi) (23). In altri termini sembra doversi ipotizzare che la finalizzazione della cura degli interessi pubblici non deriva tanto dall’attività ma dalle risorse impiegate per il suo svolgimento . L’assunzione del rischio d’impresa in capo alla collettività determina la finalizzazione pubblicistica della prestazione. Il regime delle responsabilità degli amministratori dipende in definitiva dal capitale impiegato in ragione dell’interesse pubblico che si vuole perseguire. Il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è spostato dalla qualità del soggetto (che può essere anche un privato) alla natura del danno e degli scopi perseguiti sicché anche il privato può recare danno all’amministrazione ove, avuta la concessione del contributo, non abbia realizzato le finalità perseguite (sul punto sono cospicue le recenti sentenze delle Corti dei conti regionali)(24). Dalla tesi estensiva prima indicata della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità degli amministratori delle società pubbliche, si DOTTRINA 401 (22) Sul punto sono da condividersi la considerazione di D’AURIA in Amministratori e dipendenti di enti pubblici economici e società pubbliche, in Foro it., 2005, I, 2675 e giurisprudenza ivi richiamata. (23) Cass., S.U. 1 marzo 2006 n. 4511. (24) Corte dei conti, Sez. giur. Molise 7 ottobre 2002 n. 234. Corte di conti, Sez. giur. Lombardia, 22 febbraio 2006 in Gior. Dir. Amm. 2006, 1127 con nota adesiva di VENTURINI, La giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori e dipendenti delle società pubbliche. rende necessario definire con precisione l’oggetto del giudizio di responsabilità amministrativa, osservando che il giudice contabile non può sindacare nel merito le scelte di gestione degli amministratori, in quanto una valutazione a posteriori di merito potrebbe paralizzare qualsiasi attività innovativa. Applicando i principi, validi anche per il diritto societario, è stato esattamente affermato che l’attività gestionale degli amministratori delle Società pubbliche è sindacabile quando, contravvenendo a criteri di efficienza ed economicità, essa si concreti in abusi, arbitri ed omissioni produttivi di danno patrimoniale alla società, e di conseguenza all’ente proprietaria delle partecipazioni oppure qualora contrasti o sia comunque estranea a fini pubblici che la società, per sua caratura pubblicistica, deve perseguire (25). Il rischio d’impresa dovrebbe essere conferito dal carattere discrezionale dell’attività imprenditoriale che esclude l’azione di responsabilità amministrativa ai sensi dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20 che appunto ne prevede l’insindacabilità (26). Le scelte degli amministratori delle società a partecipazione pubblica potranno essere sindacate soltanto sotto il profilo della razionalità e non della ragionevolezza e della congruità dei comportamenti, oppure qualora contrastino o siano estranei a fini pubblici che l’ente deve perseguire, con valutazione ex ante e non ex post e cioè al momento della decisione presa (27). 6) Rapporto tra le azioni societarie di responsabilità degli amministratori di società pubbliche e l’azione di responsabilità amministrativa. Ancora più incerte sono le soluzioni al problema del rapporto tra le azioni previste dal diritto societario, ora riformato, sulla responsabilità degli amministratori e i direttori delle società, di competenza del giudice ordinario, e quella sulla responsabilità amministrativa di competenza della Corte dei conti in caso di società in mano pubblica. Invero, il revirement giurisprudenziale in materia di giurisdizione contabile avviene in un momento delicato perchè ha coinciso sostanzialmente con la riforma organica del diritto societario che ha definito con chiarezza i compiti e le responsabilità degli organi societari (D.Lgs. 28 dicembre 2004, n. 310). 402 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (25) Corte dei conti, Sez. 1 appello, 3 novembre 2005 n. 356 in Foro Amm. C.d.S., 2005, 342. (26) Corte dei conti, Sez. giur. Molise, 4 ottobre 2001, n. 33 prevede che l’attività d’impresa discrezionale per non essere sindacabile non deve avere carattere di irrazionalità, incongruità o manifesta illogicità. Cass. S.U. 29 gennaio 2001 n. 33 in Foro it., 2001, 1, 1171; Cass. S.U. 6 maggio 2003 n. 6851. (27) Molto interessanti e da condividere le osservazioni in materia di URSI, Verso la giurisdizione del giudice contabile, la responsabilità erariale degli amministratori delle imprese pubbliche, in Foro amm. C.d.S., 2004, 701; Corte dei conti, Sez. 1 appello, 3 novembre 2005 n. 356 cit. Sulla materia dei rapporti ed interferenze tra l’azione pubblica di responsabilità degli amministratori delle società pubbliche e le azioni previste dal diretto societario siamo ancora nel campo delle ipotesi, che diventeranno principi attraverso futuri sviluppi legislativi o giurisprudenziali. Ciò dovrà comportare la soluzione di alcune questioni fondamentali quali: – l’influenza dell’interesse pubblico sulla finalità di lucro essenziale per una società di diritto privato; – il rapporto tra l’attuazione della finalità pubblica che ha portato alla costituzione del soggetto privato e l’oggetto sociale, cioè l’interesse sociale da perseguire; – la rilevanza delle direttive del socio pubblico sull’attività sociale; – il bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello dei soci privati, dei creditori, dei terzi. In definitiva, bisogna definire la stessa natura della società a prevalente partecipazione pubblica e la sua compatibilità con le regole del diritto societario, nazionale e dell’ordinamento comunitario sia in relazione al vincolo della parità tra imprese pubbliche e private sia in relazione alle possibili violazioni del principio di non discriminazione, libera circolazione dei capitali e divieto di aiuti di Stato (28). La questione è molto complessa; basti ricordare che le società sono strumenti del mercato, che il mercato è retto dal principio di parità tra gli attori e dalla competizione tra gli stessi ai fini di realizzare l’utile per il sostentamento della società. Al riguardo si deve osservare che quasi nessuna delle società di gestione dei servizi pubblici si trova in queste condizioni giacché i servizi pubblici per la cura di interessi della collettività sono disciplinati per legge e attribuiti o direttamente o attraverso procedure di evidenza pubblica per la scelta del socio, a soggetti che sono sostanzialmente pubblici anche se, come si è visto, formalmente utilizzano strumenti privatistici. La società in mano pubblica, anche se dotata di personalità giuridica, di autonomia di bilancio e di autonomia decisionale è soggetta ad un rapporto derivante dal contratto di servizio che disciplina diritti e doveri delle parti e anche i limiti di redditività delle risorse pubbliche impiegate e prevede pareggio tra costo e ricavi (29). Si pensi alle società che gestiscono servizi compensati con le tariffe dove normalmente i ricavi non possono superare la copertura dei costi e gli investimenti relativi senza che la gestione sia finalizzata a produrre utili se non a vantaggio dell’utente attraverso l’abbassamento delle tariffe stesse. DOTTRINA 403 (28) Sui rapporti tra azioni societarie e azione di responsabilità amministrativa degli amministratori delle società a partecipazione pubblica si veda l’ampio studio di PINOTTI, La responsabilità degli amministratori di società tra riforma del diritto societario ed evoluzione della giurisprudenza, con particolare riguardo alle società a partecipazione pubblica, in Rivista Corte conti, 2004, parte IV, 312; URSI, op. cit., nota 26. (29) Si vedano le osservazioni di CREA, Responsabilità degli amministratori di società e di enti pubblici economici, in www.giustamm.it. In queste società la scelta di una corretta gestione deve essere rivolta innanzi tutto a fornire alla collettività un servizio efficiente e a contenere i costi di gestione più che al conseguimento dell’utile derivante dalla competizione del mercato. D’altra parte la c.d. “funzionalizzazione della gestione societaria” quale relazione con il socio pubblico non può ritenersi un’anomalia in quanto le società che gestiscono servizi pubblici sono pur sempre finanziate con denaro della collettività e ad essa debbono dar conto sia quanto alla trasparenza ed economicità dell’attività di gestione che alla realizzazione di un efficiente servizio per il quale la società è stata costituita (30). Peraltro, la tipologia delle società in mano pubblica è molto variegata ma per le società interamente a capitale pubblico o per quelle a capitale maggioritario pubblico che svolgono un pubblico servizio o attuano interessi dell’amministrazione proprietaria le regole di gestione non sono dettate dal mercato ma dall’ente proprietario se non dalla legge (es. Patrimonio s.p.a.) (31). In definitiva, trattasi di società di diritto speciale i cui statuti, in tutto o in parte derogano alle norme di diritto comune sia con riferimento ai poteri del socio pubblico, sia con riferimento ai rapporti tra ente proprietario e società (32). Qui viene in considerazione il problema dell’influenza del socio pubblico sulla gestione delle società per azioni pubbliche. Essendo stata delineata, dalle indicate sentenze della Cassazione, la responsabilità degli amministratori delle società pubbliche, sottoposta alla giurisdizione della Corte dei conti, quale responsabilità inerente al rapporto tra l’ente pubblico proprietario e gli amministratori della società, di modo che l’azione di danno può essere sostanzialmente assimilata a quella subita dal socio pubblico proprietario, ciò porta a ritenere che la relazione funzionale che intercorre tra socio di comando ed ente gestore possa divenire l’oggetto stesso della cognizione del giudice contabile. A questo problema è connesso quello della vincolatività delle direttive del socio proprietario alla società pubblica, che, prevalentemente, non sono ritenute vincolanti, sia perché il socio pubblico persegue interessi esterni al rapporto sociale, sia perché una volta utilizzato lo strumento privatistico, la 404 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (30) Sulla relazione funzionale quale presupposto della giurisdizione contabile si vedano le considerazioni di CREA, Organizzazione in forma privata di funzioni e servizi pubblici e responsabilità erariale, in Amm.ne e Contabilità di Stato, 2004, 1, p. 29 – v. anche Cass. S.U. 26 febbraio 2004, 1, 3899 cit. (31) Art. 7 della L. 15 giugno 2002 n. 112 con la quale “per la valorizzazione gestionale e alienazione del patrimonio dello Stato e nel rispetto dei requisiti e delle finalità priori dei beni pubblici è istituita una società per azioni che assume la denominazione di “Patrimonio dello Stato S.p.a.”. La stessa norma stabilisce l’ammontare del capitale sociale e soprattutto prevede che “la società opera secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Ministero, previa definizione da parte del Cipe, delle direttive di massima. (32) GOISIS , Contributo allo studio delle società a partecipazione pubblica come persone giuridiche, Milano, 2004; IBBA, Le società legali, Torino, 1992, 258. società è del tutto autonoma dal socio proprietario e non può non seguire le regole del codice civile e del proprio statuto (33). Il mutato orientamento giurisprudenziale, ed i principi che l’hanno ispirato potrebbero portare a ritenere (il condizionale è d’obbligo) che la relazione funzionale intercorrente tra l’ente proprietario delle azioni e la società pubblica comporti che l’azione di responsabilità amministrativa degli amministratori abbia come oggetto il danno subito dal socio proprietario, oltre che per la diminuzione patrimoniale anche per il mancato raggiungimento del fine pubblico la cui realizzazione è stata la ragione della costituzione della Società (34). La disciplina delle società di capitali innova, sotto molti profili, la preesistente disciplina della responsabilità degli amministratori e degli altri organi sociali (35). La riforma assegna un ruolo centrale agli amministratori stabilito dall’articolo 2380 bis del codice civile secondo cui: “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”. Da ciò la nuova disciplina della responsabilità degli amministratori che si indica solo per tipologia: 1) azione sociale di responsabilità promossa in seguito a deliberazione assembleare che ha come oggetto l’adempimento da parte degli amministratori dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze (articoli 2392 e 2393 c.c.). Si è passati dalla diligenza del mandatario a quella più specifica derivante dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze in virtù delle quali è stato nominato (amministratore-manager). L’azione può anche riguardare la violazione dei doveri imposti all’amministratore dall’art. 2391 c.c. in materia di comunicazione agli altri amministratori e al collegio sindacale del proprio conflitto d’interessi. 2) Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci che rappresentano almeno un quinto del capitale sociale (art. 2393 bis c.c.) 3) Azione dei creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione della integrità del patrimonio sociale (art. 2394 c.c.). 4) Azione di responsabilità nelle procedure concorsuali (art. 2394 bis) fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria. DOTTRINA 405 (33) G. ROMAGNOLI, L’esercizio di direzione e coordinamento da parte di enti pubblici , in Nuova giur. Civ. e comm., 2004, I, 214; SCOGNAMIGLIO, Attività imprenditoriale e carattere strumentale dell’ente pubblico in Riv. Trim. di diritto pubbl., 1989, II, 427. (34) In tal senso le interessanti osservazioni di RISTUCCIA in La responsabilità sociale erariale, in Riv. Corte conti, 2004, 1. (35) Sul rapporto tra le azioni di responsabilità degli amministratori delle società pubbliche previste dalla legge societaria e l’azione del procuratore della Corte dei conti si rinvia all’esauriente lavoro di PINOTTI, La responsabilità degli amministratori di società tra riforma del diritto societario ed evoluzione della giurisprudenza con particolare riferimento alle società a partecipazione pubblica, cit.; v. anche RISTUCCIA, op. cit. 5) Azione individuale del socio e del terzo che assumono di essere stati danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori (art. 2395 c.c.). 6) Denuncia al tribunale da parte dei soci che rappresentano il decimo del capitale sociale di gravi irregolarità da parte degli amministratori che danneggiano la società (art. 2409 c.c.). L’azione sociale di responsabilità di cui agli articoli 2393 e 2393 bis del codice civile è azione contrattuale che trova fondamento nella violazione dei doveri dell’amministratore derivanti dal contratto di amministrazione o più propriamente dal contratto di società di cui gli amministratori sono organi di esecuzione, quella del socio e terzo danneggiato ha natura extracontrattuale anche se derivante da atti posti in essere dagli amministratori nell’esercizio dell’attività gestoria. Il nuovo sistema di responsabilità civile degli amministratori organi delle società trova applicazione nelle società in mano pubblica? Il codice civile agli articoli 2449 e 2450 prevede che se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazione in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza; essi possono essere revocati soltanto da chi li ha nominati ed hanno gli stessi diritti e obblighi dei membri nominati dall’assemblea, salve le disposizioni delle leggi speciali. Anche se tali norme derogano al diritto comune in quanto la nomina e la revoca degli amministratori è sottratta alla delibera dell’assemblea, riservandola allo Stato, da tali norme non sembra desumersi una disciplina differenziata degli amministratori di nomina pubblica per la responsabilità verso la società, verso i soci, i creditori sociali e terzi diversa da quelle previste dal codice civile. Peraltro, l’indirizzo giurisprudenziale anteriore al 2003, prevedeva proprio in materia di responsabilità il cosiddetto doppio binario distinguendo l’attività gestionale imprenditoriale di natura privatistica sottoposta alle azioni di responsabilità del codice civile, dagli atti di natura amministrativa o di imperio e di organizzazione di competenza del giudice contabile. La sussistenza dell’interesse pubblico non era ritenuta sufficiente a giustificare l’azione di responsabilità amministrativa per gli atti di gestione presunti dannosi. Si aveva una sostanziale sia pure tendenziale situazione di parità in materia di responsabilità tra gli amministratori delle società private e quelle delle società pubbliche. La giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla responsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica, si fondava, come per gli amministratori delle società private, sul tipo di attività che essi svolgevano cioè del concreto operare sul mercato. L’elemento distintivo se mai si doveva ricercare nella diversa destinazione degli utili realizzati. Infatti, l’imprenditore privato è libero nell’utilizzazione degli utili, quello pubblico deve reinvestire l’utile di gestione per la realizzazione di fini pubblicistici. La teoria del doppio binario, sia pure concettualmente coerente e rispettosa dei principi societari, come si è detto, ha dato adito a forti perplessità in ordine alla sostanziale irresponsabilità degli amministratori di enti pubblici economici e delle società a partecipazione pubblica. Infatti, era difficile dare 406 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO attuazione in concreto alle azioni previste dal codice civile per i casi di mala gestio poiché gli enti proprietari di riferimento non erano azionisti interessati a far valere la responsabilità degli amministratori; in altri termini, l’azione di responsabilità civile era rimessa allo stesso soggetto governativo e perciò politico, che aveva proceduto alla nomina degli amministratori. Peraltro, proprio la previsione dell’art. 2449, c. 4, del c.c., secondo il quale gli amministratori di nomina pubblica di regola non hanno diritti e doveri diversi da quelli nominati dall’assemblea, facendo “salve le disposizioni delle leggi speciali”, ammetterebbe una diversa disciplina dei diritti ed obblighi degli amministratori ad opera della legge o degli statuti. L’introduzione della riserva della legge speciale sembrerebbe dare ingresso esplicito ad un modello di società pubblica speciale (c.d. legali o legificate), che quanto ai diritti e doveri degli amministratori e perciò alla disciplina delle loro responsabilità derogherebbe al codice civile, ove previsto dalla legge stessa o dallo statuto di tali società. A determinare la specialità della responsabilità degli amministratori di società pubbliche si deve far riferimento, nuovamente, ai due elementi che hanno determinato il noto mutamento giurisprudenziale: il perseguimento delle finalità pubbliche e l’utilizzo di risorse pubbliche (36). Si è al contrario osservato che il legislatore nazionale in tal modo sembra essere andato in direzione opposta al diritto europeo allorché ha attribuito nell’ordinamento interno connotati pubblicistici a soggetti da lui stesso qualificati privati, giustificandosi con il richiamo ad un ordinamento assolutamente indifferente a tale destinazione (37). 7) Compatibilità tra le azioni di responsabilità societarie e quella di responsabilità amministrativa: esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei conti. In ogni caso il mutamento di giurisprudenza sul riparto di giurisdizione in materia di responsabilità degli amministratori dell’impresa pubblica con l’affermazione dell’azione del procuratore della Corte dei conti anche per quanto riguarda l’attività gestionale degli stessi, sia pure nei limiti prima indicati, della razionalità e congruità dei comportamenti gestionali, pone il problema della compatibilità di questa azione di responsabilità con le azioni previste dal codice civile. La soluzione di questo quesito è quanto mai complessa anche se in dottrina e giurisprudenza è prevalente la tesi della esclusività della azione di danno del procuratore della Corte dei conti nei confronti degli amministrato- DOTTRINA 407 (36) Sul punto si rimanda alle osservazioni degli studi di cui a nota 34 e specie a quello di M. RISTUCCIA, op. cit., 12; IBBA, op. cit., 258 in cui si distingue la società a partecipazione pubblica di diritto comune da quella a partecipazione pubblica di diritto speciale in cui rileva l’interesse pubblico per cui la società è stata costituita che comprime se non sostituisce lo scopo lucrativo rispetto alle esigenze del servizio e dell’attività. (37) AGRIFOGLIO, La riforma del diritto amministrativo tra diritto europeo e costituzione: un doppio tradimento, in www.lexitalia.it. ri di enti pubblici economici e delle società in cui il capitale sia posseduto totalmente o in maggioranza dallo Stato o dall’ente pubblico (38). Naturalmente, ciò comporta una serie di problemi che riguardano non solo gli aspetti procedurali delle due azioni di responsabilità (quelle del codice civile e quella amministrativa) ma che attengono soprattutto alla individuazione dell’interesse pubblico tutelato innanzi al giudice contabile, il che implica l’individuazione del soggetto leso e della natura del danno da risarcire. Dalle decisioni recenti della Cassazione e della stessa Corte dei conti sembra che si vada delineando il principio che il soggetto leso dalle attività poste in essere dall’amministratore della società partecipata sia l’amministrazione o l’ente pubblico che ne abbia la proprietà o il controllo e dal quale provengono le provviste finanziarie. Il danno erariale è quello subito dall’ente pubblico proprietario. Da ciò il richiamo nella ordinanza della Cassazione 19667 del 2003 all’articolo 1, ultimo comma della legge 20 del 1994 in materia di danno subito dall’amministrazione o ente diverso da quello di appartenenza (responsabilità extracontrattuale) ma ancora più l’affermazione dell’esistenza di un rapporto di servizio tra l’ente proprietario e soggetto esterno costituito da una relazione di tipo funzionale (39). Tale azione può essere simile a quella proponibile da parte del socio o del terzo che siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori (art. 2395 c.c.) e nel caso di socio pubblico proprietario della totalità o dell’80% del capitale sociale a quella dell’art. 2393 del codice civile, con la differenza che a proporre l’azione non è l’assemblea ma il procuratore della Corte di conti. In altri termini, il fondamento della giurisdizione contabile di responsabilità (che è poi sostanzialmente l’interesse tutelato) è inerente al rapporto fra ente pubblico proprietario e amministratori delle società quale garanzia di un controllo giurisdizionale sul buon uso delle risorse pubbliche (rapporto tra obiettivi conseguiti e costi sostenuti) in attuazione del principio del buon andamento e della legittimità dell’attività amministrativa sotto il profilo della efficienza ed economicità della stessa (articolo 97 della Costituzione e articolo 1 della legge 241 del 1990) (40). Ciò, appunto, è quanto mai evidente nel caso di partecipazione totalitaria o per quota superiore al 80% nella quale vi è una 408 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO (38) Sono per l’esclusività dell’azione di responsabilità amministrativa del P.M. presso la Corte dei conti , RISTUCCIA, op. cit., 15; Ursi, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice contabile , in Foro amm. C.d.S., 2004, 693, il quale afferma che la modifica di giurisprudenza a favore della giurisdizione della Corte dei conti “rende quest’ultimo il foro esclusivo dei rapporti delle prestazioni pecuniarie, attive o passive, di valuta o di valore della soggettività pubblica”; sul punto si veda anche Cass. S.U. n. 933/99 che ritiene pacifico il principio dell’esclusività della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie devolute alla sua cognizione. (39) Cass. 3899/04, cit. (40) Cass. S.U. 29 settembre 2003 n. 14488 in Foro it., 2004, I, 2765. DOTTRINA 409 sostanziale coincidenza tra responsabilità verso la società la cui azione è di competenza dell’assemblea e la responsabilità verso singolo socio (artt. 2395, 2393 del codice civile) in questo caso socio pubblico. Ciò non vuol dire che siamo di fronte alla trasposizione delle azioni civilistiche nella azione di responsabilità amministrativa, avendo come ben noto tali azioni caratteristiche e principi, anche processuali, propri e diversi da quelli dell’azione di responsabilità sociale (41), si vuole soltanto affermare che nel caso in cui il socio danneggiato sia l’amministrazione o l’ente pubblico proprietario della quota totalitaria o maggioritaria del capitale azionario, la relativa azione risarcitoria è di competenza esclusiva della Corte dei conti come lo era della autorità giudiziaria ordinaria prima del mutamento giurisprudenziale anche se alcuni criteri generali del diritto societario quali quello della diligenza e prudente gestione o quello della violazione di obblighi a contenuto specifico non possono dirsi incompatibili con l’azione di responsabilità amministrativa. Ciò perché, come si è detto, l’attività di impresa volta al conseguimento di finalità pubbliche mediante l’utilizzazione di risorse pubbliche anche se realizzata con organismi di struttura privatistica è stata ritenuta attività amministrativa e rientra nella materia di contabilità pubblica la cui giurisdizione è attribuita in via esclusiva alla Corte dei conti (art. 103, c. 2, Cost). Se ciò è esatto, è difficile conciliare la natura extracontrattuale (danno non all’amministrazione di appartenenza) anche se derivante dal rapporto di servizio (rapporto funzionale tra ente e società partecipate), della responsabilità degli amministratori degli enti pubblici economici o delle società in mano pubblica con la natura della giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa che, dopo la riforma del 1994, ha carattere obbligatorio e sanzionatorio, con ampi spazi di discrezionalità nella determinazione del danno (c.d. potere riduttivo) a meno che non si voglia sostenere il carattere aggiuntivo di quella alla responsabilità societaria. Al riguardo si è osservato che il coesistere di due azioni, quella di responsabilità amministrativa e quella di responsabilità societaria non determina un conflitto di giurisdizione, ma solo una preclusione all’esercizio di un’azione quando l’altra ha ottenuto il medesimo bene della vita (42). Tale tesi non può essere accolta per la materia in esame, se non per quanto riguarda la società a partecipazione pubblica minoritaria in cui non prevale nell’oggetto sociale il conseguimento di un interesse pubblico, mentre deve (41) Si ricorda che le azioni di responsabilità ex art. 2393 e 2395 c.c. hanno elementi diversi da quella di responsabilità amministrativa dianzi alla Corte dei conti . Le prime sono promosse dal soggetto leso sono rinunciabili e transigibili, hanno un sistema di prova più ampio e previsto per legge, riguardano il risarcimento dell’intero danno, c’è la colpa lieve ecc. La seconda ha natura pubblica e obbligatoria e perciò non soggetta a rinuncia o transazione, presuppone la colpa grave, e da parte del giudice contabile è previsto il c.d. potere riduttivo. (42) Corte dei conti, sez. 1 appello, 3 novembre 2005, n. 356, cit. 410 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO restare fermo il principio dell’esclusività dell’azione dinanzi alla Corte dei conti per le società totalmente e prevalentemente partecipate dall’ente pubblico o per quelle in cui tale ente sia di controllo o di riferimento. Peraltro, si ritiene che permanga nelle società partecipate non integralmente dallo Stato o dall’ente pubblico, l’azione del socio di minoranza ex articolo 2935 c.c. che si basa su presupposti diversi dall’azione di responsabilità amministrativa quale danno personale e diretto del singolo socio derivante da atti colposi o dolosi dell’amministratore. Ciò può comportare un cumulo di azioni risarcitorie autonome non essendo il socio legittimato a proporre l’azione di responsabilità amministrativa. Pertanto, non si condivide la tesi secondo la quale il socio di minoranza può intervenire nel giudizio promosso dal procuratore generale, stante le diverse caratteristiche, come si è detto, delle due azioni di responsabilità (43). Inoltre, sembra doversi ritenere che tutti gli atti che attengono alla vita della società pubblica, quali l’approvazione del bilancio, il recesso dell’ente pubblico nelle società miste, le modifiche statutarie, la revoca degli amministratori, poiché incidono su diritti soggettivi derivanti dal rapporto di società, dovrebbero rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario. In tal senso, per quanto riguarda la revoca di un amministratore di una società interamente pubblica che gestiva un servizio pubblico locale, le SS.UU. della Cassazione con sentenza 15 aprile 2005, n. 7799 (44) hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia che ha ad oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non approvazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori, costituendo gli atti impugnati espressione non di una potestà amministrativa, ma di poteri conferiti al comune dagli artt. 2383, 2458 e 2459 del codice civile, cosicché la posizione soggettiva degli amministratori revocati, che non svolgono né esercitano un pubblico servizio, è configurabile in termini di diritto soggettivo ed è, quindi, tutelabile dinanzi al giudice ordinario. E con riguardo al potere di nomina degli amministratori previsto dall’art. 2458 c.c., la Cassazione precisa che tale potere è sostitutivo della generale competenza dell’assemblea ordinaria e non può essere qualificato come estrinsecazione di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria restando esclusa ogni sua valenza amministrativa. La decisione si segnala per l’incertezza che ancora permane sulla natura delle società a partecipazione pubblica e, soprattutto, perché sembra contraddire agli stessi principi delineati dalla Cassazione, prima indicati, per affer- (43) Corte dei conti, sez. I appello, 3 novembre 2005, n. 356 cit., contra VENTURINI nella nota a tale decisione che propende per la permanenza dell’azione ex art. 2935 c.c. (44) Cass. S.U. 15 aprile 2005 n. 7799 in Foro it., 2006, I, 2726, con ampia nota di richiami giurisprudenziali e di dottrina e con nota critica di URSI, L’ultima frontiera della privatizzazione: la giurisdizione del giudice ordinario in materia di revoca degli amministratori di nomina pubblica. DOTTRINA 411 mare la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di responsabilità degli amministratori di società pubbliche per cattiva gestione delle risorse pubbliche. A meno che, per armonizzare il criterio pubblicistico del reparto di giurisdizione sulla responsabilità degli amministratori di società pubbliche, con il principio che la partecipazione del socio pubblico alla compagine sociale non altera il modello civilistico delle società per azioni e del suo regime giuridico di natura privatistica, si debbono abbandonare pretese di sistemazione dogmatica sulla natura delle società pubbliche e sul rapporto di natura pubblicistica tra ente proprietario del capitale sociale e società partecipata per concludere che il principio di parità delle responsabilità degli amministratori delle società private delineato nella riforma in materia societaria trova una disciplina peculiare derogatoria nel regime della responsabilità degli amministratori delle società in mano pubblica giustificato dalla necessità di una tutela pubblicistica delle risorse pubbliche, e perciò dalla natura del danno, e delle finalità pubbliche delle società stesse (45). Certo è che tale disciplina derogatoria si è venuta ad affermare in un momento in cui società a capitale pubblico e, in particolare, quelle a capitale misto pubblico privato, essendo stato ben delineato l’ambito dell’affidamento diretto (in house) della gestione del servizio pubblico (46), tendono ad immettersi sul mercato e ad agire in regime di competitività con i privati, con la probabile conseguenza che essa venga ad incidere in termini di minore competitività che invece si vuole incentivare. È auspicabile, che si faccia chiarezza nel prevedere se non la fine, quanto meno l’eccezionalità della costituzione di società miste, con la previsione di una separazione netta tra gestione pubblica del servizio e affidamento ai privati della gestione del pubblico servizio (47). In tal modo si avrà anche un chiaro regime di tutela delle risorse pubbliche nei conforti degli amministratori delle società pubbliche sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti e di quelli delle società private, anche a partecipazione pubblica minoritaria affidatarie per gara del servizio, per i quali si seguiranno le regole del codice civile. (45) Da ultimo Cass. 1 marzo 2006, n. 4511; Corte dei conti Sez. giur. Lombardia, 22 febbraio 2006 con nota di Venturini. (46) V. Cons. di Stato Sez. VI 3 aprile 2007, sui presupposti dell’affidamento in house dei servizi pubblici. (47) V. parere della sez. II del Consiglio di Stato, 18 aprile 2007, n. 456. 412 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza: dall’adunanza plenaria n. 4/2003 alla decisione n. 2822/2007 della quinta sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo apre alla Cassazione? di Filippo D’Angelo (*) 1. L’Adunanza Plenaria n. 4/2003. Il problema della pregiudiziale amministrativa, cioè della necessità o meno da parte del titolare della posizione giuridica di interesse legittimo che si sostiene lesa, di impugnare (al fine di ottenerne l’annullamento) l’atto amministrativo lesivo prima di poter conseguire il risarcimento del danno da esso provocato, è oggetto di un lungo dibattito, che ha visto contrapposti gli indirizzi della giurisprudenza amministrativa e di quella ordinaria, in particolare dopo la sentenza n. 500/99 della Cassazione. Come è noto, tra i principi fissati nella sentenza 500/99 dalla Suprema Corte (1), un ruolo non certo marginale riveste quello per cui, ai fini della promuovibilità della azione risarcitoria nei confronti della P.A. causata dalla illegittimità dell’azione amministrativa, non è necessario il preventivo esperimento della azione giurisdizionale amministrativa di annullamento (e quindi la necessaria pregiudizialità del giudizio caducatorio), dovendosi al contrario ammettere la possibilità per il g.o. di accertare l’illegittimità (non dichiarata dal g.a.) del provvedimento amministrativo “incidenter tantum”, e finanche di disapplicarlo, qualora ciò sia necessario ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’illecito della P.A. e, di seguito, per la liquidazione del risarcimento a favore del privato leso (2). (*)· Dottore in Giurisprudenza. (1) Il ragionamento della Suprema Corte muoveva dalle seguenti considerazioni. La pregiudizialità, antecedentemente alla sent. 500/99 veniva affermata perché solo in tal modo si perveniva all’emersione del diritto soggettivo e, conseguentemente, all’accesso alla tutela aquiliana, riservata esclusivamente ai diritti soggettivi. Avendo la sent. 500/99 svincolato la tutela risarcitoria ex art. 2043 dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo, secondo la Corte, non ha più senso ritenere l’annullamento dell’atto illegittimo come presupposto del risarcimento ex art. 2043, in quanto causa di riespansione del diritto soggettivo compresso o affievolito. (2) Tale indirizzo si venne ben presto a contrapporre a quello del Consiglio di Stato (decisione n. 1648/2001), con cui il massimo organo di giustizia amministrativa ammise l’impossibilità per i privati di poter accedere a qualunque forma di tutela risarcitoria nei confronti della P.A., senza previa azione degli ordinari mezzi di tutela che l’ordinamento offre a difesa delle loro situazioni giuridiche soggettive. Peraltro, secondo l’impostazione del Consiglio di Stato DOTTRINA 413 Secondo la Corte l’azione risarcitoria (da esperirsi nell’ordinario termine prescrizionale) è sganciata da quella di annullamento, al punto tale che tra le due azioni sia da ritenersi esistente una assoluta autonomia (in termini di pregiudizialità dell’una verso l’altra): in altre parole, nella sentenza n. 500/99 la Cassazione approda alla tesi per cui il problema della pregiudizialità amministrativa può considerarsi non sussistente e quindi superabile, nella considerazione che i privati potrebbero optare sia per la sola tutela risarcitoria, senza previa impugnazione dell’atto, ovvero avvalersi tanto del rimedio annullatorio quanto di quello risarcitorio, senza che il mancato esperimento dell’uno precluda irrimediabilmente l’accesso all’altro (3). Contro l’orientamento espresso dal massimo organo di giustizia ordinaria, si è presto posto il Consiglio di Stato, il quale con la decisione A.P. n. 4/2003, sostanzialmente confermativa della tesi sostenuta nella precedente n. 1648/2001, ha assunto una posizione diametralmente opposta rispetto alla Corte di Cassazione. Secondo l’impostazione del Consiglio di Stato, dal momento che il legislatore ordinario ha concentrato avanti al g.a. (4) sia la tutela impugnatoria che quella risarcitoria, esperibile nei confronti della P.A. in tutti i casi di attività provvedimentale illegittima, ne consegue la ammissibilità della tutela risarcitoria solo a condizione della previa impugnazione del provvedimento illegittimo e della conseguente favorevole conclusione, per la parte, del relativo giudizio di annullamento: ciò in quanto al g.a. non è concesso conoscere, in via incidentale, della legittimità di provvedimenti amministrativi e soprattutto perché tale giudice deve ritenersi sfornito del potere di disapplicare gli atti amministrativi asseritamente illegittimi ma non annullati, potere questo riservato in via esclusiva al solo g.o., dagli artt. 4 e 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo. Secondo il Consiglio di Stato, il mancato esperimento della azione di annullamento, entro il termine decadenziale, rende inammissibile qualunque azione risarcitoria autonoma (5); poiché essa inoltre ha carattere di mero completamento, nel senso di essere uno strumento ivi accolta, la stessa interpretazione dell’art. 7, Legge 205/2000 doveva far propendere verso la tesi della sussistenza della pregiudiziale amministrativa: infatti, l’utilizzazione della dizione “diritti patrimoniali consequenziali” lascerebbe supporre che il risarcimento del danno consegua ad un preventivo annullamento dell’atto amministrativo lesivo. (3) Cfr, sul punto, A. ROMANO TASSONE, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in Giust. It, www.giust.it, n. 3/2001; v., anche, R. CHIEPPA, La pregiudiziale amministrativa (in R. CHIEPPA – V. LOPILATO, Studi di diritto amministrativo), Milano, 2007 ed, anche, dello stesso autore, È possibile optare per il solo risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo, senza avvalersi degli effetti conformativi del giudicato di annullamento?, in Dir. e form., 2005, p. 376; v, anche D. DEPRETIS, Azione di annullamento e azione risarcitoria nel processo amministrativo, in Dir. e Form., 2002. (4) Con la legge 205/2000. (5) Secondo il Consiglio di Stato, risulta di difficile ammissibilità una fattispecie in cui un privato, rimasto inerte ( nel senso di non essersi azionato né in via amministrativa né in via pretoria) avverso il provvedimento amministrativo sfavorevole, per tutta la durata del termine decadenziale, agisca poi per chiedere il risarcimento del danno subito, nell’imminenza della scadenza del termine prescrizionale. 414 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO di tutela ulteriore della posizione di interesse legittimo lesa, tale pertanto da affiancarsi ai pregiudiziali rimedi a carattere demolitorio e conformativo ma non idonea a sostituirsi ad essi, si dovrebbe comunque rispettare il termine decadenziale per la proposizione della stessa, anche quando sia chiesta al g.o. o allo stesso g.a. la sola tutela risarcitoria. In altri termini, per il Consiglio di Stato, il giudizio risarcitorio può essere instaurato anche successivamente a quello di annullamento, ma non è ipotizzabile una azione risarcitoria autonoma, che non abbia trovato il suo antecedente storico in una pregiudiziale azione annullatoria, esperita entro i termini ordinari di decadenza (6) previsti dalla legge (7). In dettaglio, specifica l’Adunanza Plenaria che il previo annullamento del provvedimento amministrativo è necessario poiché «una volta concentrata presso il giudice amministrativo la tutela impugnatoria dell’atto illegittimo e quella risarcitoria conseguente, non è possibile l’accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo della illegittimità dell’atto non impugnato nei termini decadenziali, al solo fine di un giudizio risarcitorio, e l’azione di risarcimento danni è ammissibile solo a condizione che sia impugnato tempestivamente il provvedimento illegittimo e che sia coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento, in quanto al giudice amministrativo non è dato il potere di disapplicare atti amministrativi non regolamentari » La regola della pregiudizialità opera, secondo la Adunanza Plenaria, ancorché nella specifica materia vi sia la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poiché la sussistenza della giurisdizione esclusiva non fa certo venire meno la necessità di seguire tutte le regole processuali previste a tutela degli interessi legittimi, compresa quella dell’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo (8). Accanto al giudice amministrativo di merito, che ha seguito la linea evidenziata dal Consiglio di Stato, con ulteriori argomenti a sostegno della pre- (6) Stabiliti dalla legge in 60 giorni. (7) Tale indirizzo sembrava essere stato avallato anche dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n 1207/2006 (precedente le tre ordinanze 13659, 133660 del 2006 e 13911 del 2007), aveva stabilito che le controversie relative ai danni da provvedimento amministrativo illegittimo appartengono al g.a., solo in caso di domanda risarcitoria proposta contestualmente all’azione di annullamento; l’eventuale azione risarcitoria autonoma poteva proporsi avanti al g.o., solamente dopo l’annullamento del provvedimento amministrativo stesso. (8) In tal senso anche Adunanza Plenaria, 29 gennaio 2003, n. 1, in Urb. e app., 2003, 547. (9) Consiglio di Stato, Sez. V, 25 luglio 2006, n. 4645; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24 maggio 1995, n. 2631, in Foro amm., II, 546; Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 settembre 2004, n. 6245, in Giur it., 2002, 2405; Consiglio di Stato, Sez. V, 8 marzo 2006, n. 1229, in Giur. amm., 2006, I, 387; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 13 marzo 2006, n. 1183, ivi, 2006, II, 295. Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, quindi, l’azione di risarcimento del danno derivante da provvedimento illegittimo può essere proposta sia unitamente all’azione di annullamento sia in via autonoma, ma solo a condizione che sia stato tempestivamente impugnato il provvedimento illegittimo e che sia stato coltivato con successo il relativo giudizio di annullamento. DOTTRINA 415 giudizialità (9), osservando come il nostro legislatore, per evidenti ragioni di certezza del diritto, abbia previsto diverse azioni impugnatorie pregiudiziali al risarcimento (10), non può tacersi come anche parte della giurisprudenza ordinaria (11), sia di merito che di legittimità, antecedentemente alle pronunce della Cassazione del 2006, si sia allineata alla posizione del giudice amministrativo, riconoscendo la necessità del previo annullamento dell’atto amministrativo, al fine del risarcimento dei danni. La stessa Suprema Corte (12), in particolare, ha, sia pure in un isolato arresto, rilevato come la non conformità di una situazione giuridica al diritto soggettivo (13), quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’articolo 2043 c.c. , non può essere accertata in via incidentale e senza efficacia di giudicato. Conseguentemente, se l’accertamento principale è precluso – ad esempio per decorrenza dei termini – la domanda risarcitoria deve essere rigettata, in quanto il fatto produttivo del danno non è qualificabile come illecito. D’altra parte, sebbene l’inoppugnabilità dell’atto sia nozione meramente processuale, occorre considerare che, in assenza dell’annullamento e della rimozione dell’atto illegittimo, il permanere degli effetti è conforme alla volontà della legge e, pertanto, detti effetti non possono essere valutati alla stregua di un danno ingiusto. (10) In particolare si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3717, in Giur. amm., 2006, 947) che «nei rapporti paritetici, fuori cioè dell’ambito dell’esercizio del potere pubblico, tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione sia in quelli interprivati, molteplici sono le ipotesi in cui è accordato preminente rilievo alle esigenze di certezze, sicché l’interessato ha l’onere di contestare la conformità al diritto di determinate situazioni mediante l’impugnazione di atti o comunque reagendo entro termini di decadenza. Ove non adempia a tale onere, non gli è consentito ottenere con l’azione risarcitoria l’accertamento della non conformità a legge della situazione, atteso che l’accertamento deve farsi necessariamente in via principale e con efficacia di giudicato, vertendo su uno degli elementi essenziali della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. […] Così ad esempio come non sarebbe consentito al privato domandare il risarcimento del danno, per essere stato assoggettato illegittimamente a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai sensi della Legge 689/1981, o comunque indipendentemente dalla impugnazione, o analogamente il lavoratore licenziato non può scegliere di optare per il risarcimento del danno senza impugnare il recesso secondo le prescrizioni della legge 604/1996, lo stesso deve dirsi per il caso di mancata impugnativa di delibere condominiali ». Ulteriore argomento a sostegno della tesi della pregiudizialità è stato individuato dalla sentenza citata nel carattere logico e non tecnico della pregiudiziale dell’annullamento dell’atto. In proposito si veda R. DE NICTOLIS, Il risarcimento dei danni causati dalla Pubblica Amministrazione, Roma, 2006, 50 e ss. (11) Cassazione, 27 marzo 2003, n. 4538, in Foro it., 2003, I, 2073, con nota di P. GALLO, Pregiudiziale e disapplicazione al vaglio della Plenaria e Cassazione; Cassazione, 10 gennaio 2003, n. 157. (12) Cassazione, 27 marzo 2003, n. 4538, cit. (13) Cd. antigiuridicità in senso oggettivo. 416 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In questa situazione di potenziale conflittualità tra giudice amministrativo e ordinario un ruolo non certo secondario ha svolto anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204/2004 (14). Secondo parte della dottrina tale pronuncia sembra decisamente orientata in senso favorevole alla tesi della pregiudizialità, laddove afferma che il risarcimento del danno costituisce soltanto “uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio e/o conformativo, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione”. In questa prospettiva l’azione risarcitoria sembra costruirsi quale potere che si affianca a quello dell’annullamento, con la implicazione che la giurisdizione è comunque fondata sul presupposto che la posizione soggettiva azionata sia, pur sempre, di interesse legittimo. Corollario necessario è che la giurisdizione del giudice amministrativo che deve essere azionata in via preventiva è quella generale di legittimità, sulla quale si radica anche l’eventuale risarcimento del danno che ne consegue. Il ragionamento seguito dalla Consulta è tale per cui il risarcimento del danno è qualificato come strumento di completamento della tutela che è consentito al giudice di concedere, in via principale, mediante l’annullamento, nella considerazione che appare impossibile pervenire ad una valutazione di ingiustizia del danno fintanto che non venga eliminato il provvedimento amministrativo da cui il danno stesso è derivato. Trattasi all’evidenza delle stesse argomentazioni sostenute dalla giurisprudenza amministrativa a giustificazione del necessario, previo annullamento dell’atto amministrativo (15). Da ciò discendono evidenti conseguenze: che il giudizio risarcitorio non è ammissibile laddove non sia previamente o contestualmente intrapreso il giudizio impugnatorio; che in caso di rinuncia al giudizio impugnatorio, non si può mantenere in piedi quello risarcitorio; che il giudizio impugnatorio avverso l’atto amministrativo illegittimo non può essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, perché permane pur sempre l’interesse all’annullamento al fine del giudizio risarcitorio. 2. Le tre ordinanze della Cassazione del luglio 2006. a) Il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario. In questa situazione di dichiarata conflittualità tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ove tra l’altro si è inserita la sentenza n. 191/2006 (14) Ciò in quanto l’esclusione dell’annullamento giurisdizionale, non incide sulla condizione giuridica. In dottrina, sostiene che la sentenza della Consulta n. 204/2004 confermerebbe la tesi della pregiudizialità P. CARPENTIERI, La sentenza della Consulta 204/2004, e la pregiudiziale amministrativa, in Urb. e app., 2004, 1121. (15) La ricostruzione è di R. DE NICTOLIS, Il risarcimento dei danni causati dalla Pubblica Amministrazione, Roma, 2006, 53. DOTTRINA 417 della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ha pronunciato nel luglio 2006 tre ordinanze con le quali ha precisato ulteriormente la propria posizione sui due temi più cruciali dei rapporti tra tutela ordinaria e amministrativa: il riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o. , in ordine alle controversie concernenti la responsabilità civile della P.A. conseguenti ad attività provvedimentale illegittima, e, di nuovo, la “ pregiudizialità amministrativa”, precisando la propria tesi, ancora opposta a quella del Consiglio di Stato (16). In punto di riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o,. per le azioni di responsabilità civile contro la P.A., le tre ordinanze non sembrano discostarsi troppo dai principi comunque consolidatisi in materia. Così la Cassazione ribadisce che la giurisdizione del g.a. resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l’esercizio concreto ed effettivo del potere amministrativo espresso secondo le forme tipiche previste dalla legge, ed afferma essere tale principio valido sia nel caso della giurisdizione generale di legittimità che in quella esclusiva. In dettaglio,secondo la Corte tale collegamento non si rileverebbe in alcuni casi specifici: così quando la P.A. agisce in posizione di parità con i soggetti privati, e quindi avvalendosi di strumenti “iure privatorum”, che pertanto fuoriescono dall’ambito della attività di diritto pubblico; ovvero attraverso attività meramente materiali; ancora, in caso di lesione di diritti incomprimibili, quali il diritto alla salute o all’integrità fisica; ovvero nel caso di attività amministrativa posta in essere in carenza di potere (17), di cui alle ipotesi classiche della occupazione “usurpativa”, tale perchè attuata in mancanza di dichiarazione di pubblica utilità, o del decreto di espropriazione adottato a termini scaduti (18). In tutti questi casi , secondo la Corte , la giurisdizione risarcitoria spetta al g.o.: anzi, più in generale, la tutela giurisdizionale contro l’agire illegitti- (16) Come detto, il Consiglio di Stato ritiene che condizione necessaria per l’accesso alla tutela risarcitoria nei confronti della P.A., per illegittimo esercizio della attività provvedimentale, sia il contemporaneo esercizio della azione risarcitoria a quella di annullamento, entro il termine di decadenza previsto per quest’ultima, ovvero il previo annullamento in sede giurisdizionale dell’atto amministrativo. Tra i primi commenti alle ordinanze si veda, V. CERULLI IRELLI, Prime osservazioni sul riparto di giurisdizione dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, www.giustamm.it, 2006; M. A. SANDULLI, Finalmente “ definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “ comportamenti” e sulla cosiddetta “pregiudiziale” amministrativa. Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela”, in www.giustamm.it, 2006. (17) Ci si riferisce alle controversie meramente risarcitorie già previste dall’art. 33, co. 2, D.Lgs. n. 80/1998, nel testo anteriore alla riformulazione conseguente a Corte Costituzionale n. 204/2004. (18) Tale ultima ipotesi è stata oggetto di una recentissima decisione della Adunanza Plenaria (v. C.d.S., A.P., n. 9/2007), in cui i giudici di Palazzo Spada, muovendo dalla considerazione che la scadenza dei termini legali per l’emissione del decreto di espropriazione non fa comunque venir meno lo scopo di pubblica utilità (presupposto che legittima la P.A. a procedere alla espropriazione di un bene privato e quindi ad esercitare in concreto il suo potere discrezionale), hanno ricondotto tale fattispecie nell’ambito della giurisdizione del g.a. 418 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO mo della P.A. appartiene al g.o. ogniqualvolta il diritto del privato si atteggi in modo tale da non sopportare “compressione per effetto di un potere esercitato (dalla P.A.) in modo illegittimo, ovvero in tutti i casi in cui l’azione della P.A. non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, deliberato secondo i requisiti e le modalità previste dalla legge”, e quindi in via di mero fatto (19). In realtà sulla giurisdizione sembra che le ordinanze della Cassazione tendano più ad una funzione esplicativa di principi comunque già accolti, ed in parte anche consolidati, che non a fissare criteri innovativi rispetto al passato. D’altra parte già Nigro non dubitava che la disciplina processuale delle situazioni descritte dalla Suprema Corte fosse esattamente quella dalla stessa accolta. Così quando la Corte afferma che laddove la situazione lesa si atteggi ad interesse legittimo la giurisdizione deve spettare al g.a. (al quale deve essere anche chiesta la tutela risarcitoria) quale giudice ordinariamente competente a conoscere della lesione di tali situazioni giuridiche in tutte le controversie “di diritto pubblico”, e, nella opposta prospettiva, che laddove la situazione giuridica, di cui si chiede tutela, integri un diritto soggettivo, la giurisdizione appartiene al g.o., dovendosi riconoscere la giurisdizione del g.a. solamente nei casi “particolari”, previsti dall’art. 103 Cost. di “giurisdizione esclusiva” (sulla quale è recentemente tornata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 120/2007), nei quali il giudice amministrativo conosce anche di situazioni giuridiche di diritto soggettivo, coinvolte dall’azione del potere amministrativo. Precisa la Corte che tali “particolari” materie devono essere individuate alla stregua dei parametri offerti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, e più in particolare alla luce del principio guida costituito dalla presenza, nel rapporto, della “Amministrazione-Autorità” (20), che agisca con uso di potere autoritativo avverso il quale è accordata, ai privati, tutela in sede amministrativa (21), non essendo peraltro sufficiente per radicare la giurisdizione del g.a. (22), la mera partecipazione al giudizio della P.A. né tanto meno il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia. Si è già rilevato come i principi accolti in punto di giurisdizione sembrino porsi comunque nel solco di precedenti indicazioni pervenute dalla dottrina e ancora più della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 191/06), che ha avuto modo più volte di indicare il medesimo criterio guida per l’individuazione del giudice dotato di giurisdizione in materia risarcitoria ammini- (19) Così testualmente Cass. ord n. 13659/06. (20) E dunque, sostanzialmente, quando la materia “sarebbe comunque soggetta alla giurisdizione generale di legittimità”; cfr., A. M. SANDULLI, Finalmente definitiva certezza sul riparto di giurisdizione in tema di comportamenti e sulla cd. pregiudiziale amministrativa?, op. loc. cit. (21) Cfr. Corte Cost., n. 204/2004. (22) Il quale, in tal modo, assumerebbe veramente la funzione di giudice “della pubblica amministrazione”, in aperta violazione degli artt. 25 e 102, Cost. DOTTRINA 419 strativa. È sempre la natura autoritativa del comportamento della P.A. il dato idoneo a spostare la giurisdizione in favore del g.a., considerato anche che la giurisprudenza costituzionale esclude che la giurisdizione possa assegnarsi al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno (Corte Cost. n. 191/2006). Anche da ultimo (23), la Consulta ha ricordato come non abbia ragione di sussistere il pregiudizio che vuole il giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva estesa alle azioni risarcitorie, meno “affidabile” del giudice ordinario, (v. Corte Cost., sent. 140/2007). In realtà, come emerge anche dalla sentenza n. 204 del 2004, la Corte costituzionale tende a sottolineare la chiara opzione del Costituente in favore del riconoscimento al giudice amministrativo della piena dignità di giudice, il quale assicura le medesime garanzie, quanto alla effettività delle tutele, del giudice ordinario. Seguendo l’orientamento già espresso nelle pronunce n. 204 del 2004 e, soprattutto, n. 191 del 2006, scrive la Corte che “l’art. 103 Cost., pur non avendo conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari materie» nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti soggettivi. Deve trattarsi tuttavia, di materie determinate nelle quali la pubblica amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere. Il giudizio amministrativo, infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto dell’esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa” (Corte Cost. n. 140/2007, cit. pag. 7). b) La pregiudiziale amministrativa. Se, come rilevato, in punto di riparto di giurisdizione, le ordinanze del luglio 2006 non sembrano avere evidenziato profili di peculiare novità, diversamente la Suprema Corte chiarisce che la giurisdizione del g.a. sull’interesse legittimo è sì piena, nel senso che è realizzabile tanto nella forma della azione di annullamento che in quella risarcitoria, tutela, quest’ultima, accordabile sia in forma specifica che per equivalente (24), ma che tuttavia la tutela risarcitoria è svincolata da quella di previo annullamento. (23) Corte Costituzionale n. 140 del 27 aprile 2007. (24) Secondo la Corte, quindi, la tutela giurisdizionale compete al g.a. in ordine a tutte le controversie che vertono sulla legittimità dell’esercizio del potere amministrativo. L’interesse legittimo è, oramai, divenuto una situazione giuridica sostanziale che deve ricevere una tutela non solo esclusiva, ma anche piena, al pari del diritto soggettivo. Sul punto v. E. PICOZZA, Potere amministrativo e responsabilità civile, in Corriere giuridico n. 1/2007, p. 10 ss. 420 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In definitiva dalla esegesi delle tre ordinanze emerge il dato per cui, in punto di riparto di giurisdizione, la Cassazione sembra avere ormai tendenzialmente accolto il principio per cui è attribuita al solo g.a. la giurisdizione a conoscere di tutte le controversie concernenti l’esercizio del potere amministrativo, a fronte del quale, è bene ricordare, sussistono solo situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo (salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva) in accordo alla tesi della prevalenza del potere amministrativo pubblico rispetto alle situazioni giuridiche soggettive private. In questa prospettiva la logica conseguenza è che, in virtù del principio della concentrazione della tutela, il g.a. conosce e decide anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno conseguente alla lesione di interessi legittimi (25), tanto che sembra venire a perdere la originaria natura di giudice naturale del mero controllo della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, per assumere le connotazioni tipiche di giudice di piena giurisdizione , tra i cui poteri rientra de iure quello di decidere sulle domande risarcitorie proposte dai privati, in ordine ai danni subiti per l’illegittimo esercizio della funzione amministrativa (26). È quindi proprio sul tema della “pregiudizialità amministrativa” che le tre ordinanze in esame hanno costituito un arresto di non poco momento, nella considerazione che la Cassazione è approdata a soluzioni sicuramente innovative rispetto a quelle tendenzialmente diffuse nella giurisprudenza amministrativa, soprattutto a seguito della Adunanza Plenaria n. 4/2003. Né va dimenticato che alla tesi prescelta la Corte è pervenuta attraverso un percorso meditato, reso palese dal fatto che il problema della pregiudizialità amministrativa è affrontato preliminarmente in chiave storica, mediante l’analisi del quadro generale delle correnti di pensiero rinvenibili nella dottrina italiana, e delle due principali teorie enucleate dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul punto: quella, testualmente definita “tutta amministrativa”, per la quale il privato, leso in una sua posizione giuridica (27) soggettiva da un provvedimento della P.A., può adire il g.a. (secondo il disposto dell’art. 7 Legge. n. 205/2000), al fine di ottenere il risarcimento del danno ingiusto, solamente dopo il previo esperimento della azione di annullamento entro il (25) Così, infatti, dispone l’art. 7 della Legge n. 205 /2000, il quale stabilisce che, nell’ambito della sua giurisdizione (sia generale di legittimità che esclusiva), il g.a. dispone il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica. Come parte della dottrina ha evidenziato, ci si avvia verso la cd. “civilizzazione” del processo amministrativo, sia nel senso che il g.a. sarà chiamato ad apprendere specifiche tecniche di indagine in ordine all’accertamento della responsabilità della P.A, sia che in tale processo si verificherà una inserzione più penetrante delle regole del processo civile. Sul punto v., B. MATTARELLA, Il provvedimento amministrativo, in Giorn. Dir. amm., 2005, p. 469 ss. . (26) Ciò, anche, perché nel valutare la responsabilità extracontrattuale il g.a non fa riferimento alla mera illegittimità del provvedimento, ma compie una più complessa valutazione che investe la funzione amministrativa in sé considerata (F. Benvenuti) . (27) Che può indifferentemente avere natura di diritto soggettivo od interesse legittimo. DOTTRINA 421 termine decadenziale previsto dalla legge, con la conseguenza che il mancato esercizio della azione demolitoria o conformativa preclude l’accesso alla tutela risarcitoria, divenendo il provvedimento amministrativo inoppugnabile. La seconda, che la Corte definisce invece “tutta civilistica”, secondo la quale il soggetto, leso in una sua posizione giuridicamente rilevante, può adire il g.o. (28) per l’azione risarcitoria, senza necessità della previa impugnazione dell’atto amministrativo lesivo avanti al g.a. : in tal caso il giudice ordinario può sindacare la legittimità dell’atto, disapplicarlo relativamente al caso da decidere e condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni. L’analisi effettuata dalla Corte è ovviamente in chiave critica, tanto che essa perviene alla conclusione che nessuna delle tesi esaminate è condivisibile: quella “civilistica” perché disattende il principio costituzionale, sancito dall’art. 24 Cost., che esige che alle posizioni di interesse legittimo sia data piena ed effettiva tutela (concentrata avanti ad un unico giudice) in tempi ragionevoli, e che la giurisdizione sull’interesse legittimo deve spettare al giudice amministrativo sia nella forma della tutela di annullamento sia in quella della tutela risarcitoria, azioni entrambe che non possono essere oggetto di distinta cognizione da parte di due diversi giudici. La Corte coglie appieno il limite della teoria civilistica: il frammentare e moltiplicare le sedi dove cercare la tutela giurisdizionale di tutte le sfaccettature in cui si manifesta la lesione dell’interesse legittimo, non può che essere il sintomo di una diminuita effettiva tutela, in danno del privato leso. Ma neanche l’impostazione “tutta amministrativistica” è accolta, poiché anche essa conduce alla conseguenza di comprimere la portata e la effettività della tutela risarcitoria degli interessi legittimi, condizionando la relativa azione all’esercizio fruttuoso (29) della azione di annullamento. Così tracciata la strada, si comprende come la soluzione possibile sia per la Corte solo una: e cioè quella per cui non deve ritenersi l’azione di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi un mero completamento della azione svolta in sede di legittimità, dovendosi piuttosto riconoscerle i caratteri di vera e propria giurisdizione, affidata al g.a. e volta ad agevolare la tutela dei privati. Questo è il motivo per cui, quando ricorre un atto amministrativo espressione dell’esercizio di un pubblico potere, la tutela giurisdizionale spetta al g.a., al quale potrà essere chiesta “la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva”. Ma la vera novità è la affermazione per cui nulla osta che al g.a. sia richiesta anche la sola tutela risarcitoria, ed in tal caso, ma trattasi di assunto non pienamente (28) Sui principi stabiliti dalla sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, cfr. V. CERULLI IRELLI Prime osservazioni sul riparto di giurisdizione dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 500/99, op. loc. cit.; v. anche F. BILE, La responsabilità per lesione di interessi legittimi, in Foro amm., 1982, p. 1671 ss. (29) Nel senso che i privati avrebbero dovuto ottenere dal g.a. una pronuncia costitutiva di annullamento nel merito. 422 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO condivisibile, “senza, allora, dover osservare il termine di decadenza pertinente alla azione di annullamento”(30). La Corte configura, dunque, la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo come autonoma rispetto alla tutela annullatoria e spettante ai privati per il solo fatto che una loro situazione giuridica soggettiva è stata “sacrificata da un potere pubblico esercitato in modo illegittimo”. Non solo: la domanda risarcitoria deve essere obbligatoriamente rivolta al g.a. (31), individuato come il “giudice ordinario” degli interessi legittimi, indipendentemente dalla previa instaurazione di un giudizio sulla legittimità dell’atto, non potendosi ammettere alcun tipo di giurisdizione del g.o. Peraltro , avverte la Corte , qualora il g.a. rifiuti di esercitare la propria giurisdizione a conoscere della domanda risarcitoria promossa in via principale dai privati, tale rifiuto di tutela deve essere considerato come una ingiusta declinatoria di giurisdizione, come tale ricorribile per Cassazione (32) per motivi attinenti alla giurisdizione ex artt. 111 Cost. e 362 co. 1, c.p.c. : in tal caso infatti “il g.a. avrà rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene”. Certo è che, a sostegno di tale impostazione, ormai nettamente distante da quella del Consiglio di Stato, sembra deporre anche il dato normativo di cui all’art. 7 della legge 205/2000. Ciò è evidenziato (33) da quegli autori per i quali l’art. 7 ha conferito al g.a. la giurisdizione sulle domande di risarcimento in tutti i casi di illegittimo esercizio di un pubblico potere, sia che la relativa domanda sia stata introdotta contestualmente con quella di annullamento, sia che sia stata promossa successivamente alla definizione del giudizio caducatorio. In definitiva la Corte pone con le tre ordinanze in disamina tre principi fondamentali: la giurisdizione del g.a. sussiste in tutti i casi in cui si sia in presenza di un concreto esercizio di un pubblico potere, adottato secondo le modalità formali e procedimentali previste dalla legge; spetta al g.a. dispor- (30) Gli effetti conseguenti alle ordinanze sono molteplici. La Corte elimina, per un verso, il principio della degradazione del diritto soggettivo ad opera dei pubblici poteri; per un altro verso il problema della pregiudiziale amministrativa; per un altro ancora, il principio del divieto di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del g.a., il quale, ai fini risarcitori, non dovrà conoscere incidentalmente degli effetti dell’atto amministrativo ma, al contrario, dovrà conoscere dell’atto stesso in via principale, quale componente del fatto illecito della P.A. Sul punto v. R. CHIEPPA, Il giudizio di risarcimento, in Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2005, p. 278 ss. (31) Anche se il provvedimento amministrativo sia stato annullato dallo stesso giudice, a seguito di ricorso giurisdizionale ovvero dal Presidente della Repubblica, a seguito di ricorso straordinario. (32) La quale, in tal sede, svolgerà il suo ruolo costituzionale di giudice del riparto di giurisdizione (33) Cfr. B. CAPPONI, La giurisdizione sul risarcimento del danno da attività provvedimentale della P.A., op. loc. cit., ed anche, F.P. LUISO, Pretese risarcitorie verso la Pubblica Amministrazione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 2002, 43. DOTTRINA 423 re le diverse forme di tutela che l’ordinamento prevede a favore delle situazioni giuridiche lese dall’illegittimo esercizio del potere amministrativo (e tra queste forme, a ragione, rientra il risarcimento del danno); se il g.a. rifiuta di esercitare la sua giurisdizione in ordine alle domande risarcitorie promosse in via autonoma dai privati, cioè senza la previa azione di annullamento, tale diniego è sindacabile avanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ex art. 111 Cost., qualora risulti che il rifiuto del g.a. di giudicare nel merito la domanda risarcitoria autonoma derivi dal solo fatto che la parte non ha, nel termine decadenziale, richiesto in sede di legittimità l’annullamento del provvedimento e la rimozione dei suoi effetti. Non è dubbio che il dato finale desumibile da tale quadro non sia altro che la abolizione, nella prospettazione della Corte, della pregiudiziale amministrativa. Ciò non significa, d’altra parte, che alla implicita eliminazione della pregiudiziale amministrativa corrisponda un indebolimento del giudice amministrativo. È palese infatti come la Corte, ben consapevole dei probabili effetti critici che le pronunce avrebbero prodotto, ha inteso contemperare le opposte esigenze: e dunque via libera all’azione di risarcimento del danno, con o senza azione di annullamento, ma nel rispetto delle competenze del giudice amministrativo, la cui funzione, in ultima analisi, esce sicuramente rafforzata. Ciò in coerenza d’altra parte con quanto osservato, anche di recente, dalla Corte Costituzionale (34), per cui il giudice amministrativo è il giudice unico per la tutela dei cittadini a fronte della attività provvedimentale (ancorché illegittima) della P.A., in ossequio ai principi della concentrazione della tutela, della ragionevole durata e della economia del processo, come tale dotato di strumenti cognitivi ed istruttori non dissimili da quelli del g.o., tanto nella sua giurisdizione generale di legittimità che in quella esclusiva: la esigenza della effettività di tali principi postula quindi che le domande riparatorie, conseguenti ad illegittimo esercizio della funzione pubblica, potranno essere proposte simultaneamente alla domanda di annullamento dell’atto, o successivamente alla caducazione dello stesso, o infine anche senza previo annullamento. 3. La pregiudizialità amministrativa nell’area comunitaria. Come osservato dalla Cassazione il problema della pregiudizialità amministrativa sembra essere una questione “tutta italiana” (35). Con ciò non si vuole affermare che gli ordinamenti giuridici degli altri paesi europei dell’area comunitaria non conoscano tale problematica, ma si vuole semplicemente osservare come tale questione non rivesta, nei suddetti paesi, posizioni così controverse e conflittuali come quelle che si registra- (34) Corte Cost., n. 120/2007. (35) È da ricordare che la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi è sconosciuta negli altri paesi dell’Unione europea e, come tale, tende appunto a configurarsi come un problema “tutto italiano”. 424 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO no in Italia (36). In Francia si riscontra la posizione più netta a favore della autonomia fra azione risarcitoria ed azione annullatoria: i motivi di tale tendenza sono da rintracciarsi nel fatto che l’ordinamento francese offre minori strumenti di tutela, per il cittadino, nella fase di formazione dei provvedimenti amministrativi ed anche in sede giurisdizionale si preferisce il rimedio risarcitorio a quello annullatorio, ritenuto poco incisivo sul potere amministrativo, di cui invece si tendono a mantenere intatti gli effetti consolidati. Diversamente, in Gran Bretagna, le cd. azioni “in tort”, nei confronti dei “public powers”, vengono respinte qualora non siano stati previamente esperiti i rimedi amministrativi previsti: l’ordinamento anglosassone prevede, quindi, seppure in termini molto diversi rispetto all’ordinamento italiano, la pregiudizialità della azione annullatoria rispetto a quella risarcitoria. In Germania, pur non esistendo una pregiudiziale di annullamento di tipo processuale come quella italiana, è previsto che qualsiasi pretesa risarcitoria nei confronti della P.A., in tutti i casi di illegittimo esercizio della funzione pubblica, debba essere respinta qualora il danneggiato, intenzionalmente o colposamente, abbia omesso di esperire, in via preventiva, gli altri rimedi giuridici offerti dall’ordinamento; infine è da ricordare come, anche in ambito comunitario (dove è sconosciuto il problema della pregiudizialità amministrativa), la Corte di Giustizia generalmente affermi il principio per cui è necessario il tempestivo esercizio dell’azione di annullamento prima di poter pervenire a qualsiasi forma di risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo (37) . 4. La posizione della giurisprudenza amministrativa a seguito delle ordinanze della Corte di Cassazione. La sentenza TAR Lecce n. 3710/2006. Come è naturale i principi fissati dalla Cassazione non potevano non avere conseguenze sul giudice amministrativo, stretto da un lato dall’attaccamento alle proprie posizioni, ma pressato, su altro fronte, alla apertura sollecitata dal giudice ordinario. Dall’esegesi delle decisioni dei T.A.R., successive al luglio 2006, emerge che i giudici amministrativi di I grado accolgono – nella maggioranza dei casi (38) – una posizione fortemente critica nei confronti della Corte o quan- (36) Ad esempio, anche in Germania è previsto un termine di decadenza di un mese (decorrente dalla decisione dell’atto amministrativo) per impugnare giudizialmente i provvedimenti della P.A.; in Francia ed in Spagna e nell’ordinamento comunitario, tale termine è elevato a due mesi; infine, in Gran Bretagna, il termine suddetto è di tre mesi. (37) Cfr., Corte di giustizia, 15 luglio 1963, in causa C-25/62, Plaumann; ma anche, Tribunale di prima istanza, 8 maggio 2001, in causa T-182/99, Caravelis. (38) Con l’unica eccezione del T.A.R. Palermo, sentenza n. 1590/2006, in parte del T.A.R. Roma, sentenza n. 14604, e del T.A.R. Bari, sentenza n. 3786/2006. In questi ultimi due casi, i Giudici hanno però accertato l’irrilevanza, per i casi sottoposti alla loro attenzione, del principio contenuto nelle ordinanze della Corte di Cassazione. Peraltro il T.A.R. Palermo si limita a non mettere in discussione la posizione della Cassazione. DOTTRINA 425 tomeno dubitativa, pervenendo in diverse circostanze a disattendere consapevolmente la posizione della Cassazione. In questo senso emblematica è la sentenza del T.A.R. Lecce n. 3710/2006 (39), che, nel richiamare i principi della Adunanza Plenaria n. 4/2003, contesta l’orientamento della Corte sulla scorta di 3 ordini di motivi: in via preliminare, che l’abbandono del principio di pregiudizialità appare incompatibile con la stessa natura e nozione di interesse legittimo, testualmente definito come espressione precipua di un sistema “che tutela l’interesse pubblico attraverso la soddisfazione di quello privato. Commettendo all’individuo l’iniziativa volta a provocare l’intervento del giudice amministrativo, non è possibile permettersi di rinunciare alla subordinazione in parola a pena di incrinare il sistema di tutela dell’interesse pubblico”. Il T.A.R., anche mediante l’analisi del parallelo rapporto tra azione impugnatoria e azione risarcitoria disegnato dal diritto societario, sottolinea che la eliminazione del meccanismo dell’affidamento della tutela dell’interesse pubblico al privato è idoneo ad arrecare, in tesi, un grave pregiudizio per l’interesse pubblico stesso. Consentire infatti al privato la scelta di adire direttamente il Giudice Amministrativo per la sola tutela risarcitoria, comporta la omessa impugnazione dell’atto assunto come illegittimo, il quale, pertanto, continuerebbe a manifestare i propri effetti in virtù del mancato intervento demolitorio del giudice. Secondo il giudice pugliese l’abbandono del principio di pregiudizialità determinerebbe una grave asimmetria tra le due vie di reintegrazione dell’interesse legittimo leso: la reintegrazione dell’interesse legittimo in forma specifica e il risarcimento del danno, nella considerazione che “la prima sarebbe inscindibilmente connessa all’utile esperimento dell’azione impugnatoria, l’altra sarebbe esperibile autonomamente e troverebbe accoglimento a seguito di un giudizio che riguarderebbe la fonte del danno non come atto ma come fatto. A prescindere dalla evidente ricomprensione in un unico istituto delle due forme di tutela reintegratoria (quella in forma specifica e quella risarcitoria) ad opera dell’art. 35, primo e quarto comma del D.Lgs. n 80 del 1998 (così come riscritto dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000), nel sistema delineato dal citato art. 7 della legge n. 205 del 2000 non vi è spazio per questa soluzione che collide col sistema e diventa una ingiustificata forma di trasformismo”. Senza tacere che la perdurante efficacia del provvedimento illegittimo dovrebbe in sostanza leggersi quale chiaro sintomo di assenza di ingiustizia di quest’ultimo, con conseguente impossibilità di ritenere integrati i requisiti del diritto al risarcimento. A sostegno della propria tesi, il TAR richiama (39)Rinviano direttamente a tale precedente richiamandone le motivazioni, T.A.R. Torino n. 4130/2006, T.A.R. Reggio Calabria n. 1771/2006, T.A.R. Salerno n. 1754/2006, T.A.R. Salerno n. 1953/2006, T.A.R. Salerno n. 2176/2006, T.A.R. Napoli n. 7797/2006. Contiene la medesima motivazione, T.A.R. Lecce n. 4013/2006, T.A.R. Sicilia – Catania, Sez. I, 16 aprile 2007. 426 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO una pronuncia della stessa Corte di Cassazione (40), nella quale è espressamente chiarito che “sul piano dei principi propri dell’ordinamento amministrativo, è affidata, nei casi di attribuzione di potere provvedimentale, alla potestà disciplinatrice e ordinatrice dell’amministrazione, la creazione della regola del caso concreto. All’atto programmatico che la esprime, tutti, compresa l’amministrazione, devono adeguare la propria condotta, indipendentemente dalla sua conformità alla legge (cd. principio di dissociazione tra validità ed efficacia dell’atto), fino a quando l’invalidità non sia accertata secondo le procedure previste”. Dal che, “in assenza della rimozione dell’atto, il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell’ordinamento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto gli effetti medesimi” (41). In definitiva accogliere la tesi contraria significherebbe giungere alla fissazione del principio di diritto al di fuori dell’oggetto del processo, così concretizzando un vero e proprio obiter dictum (42). Quel che è certo è che finora il giudice amministrativo è sembrato fermo, da quanto emerge non solo dagli arresti dei T.A.R. e della maggior parte del Consiglio di Stato ma anche dalle indicazioni dottrinarie provenienti dalla stessa area (43), nel ribadire la necessarietà della azione pregiudiziale amministrativa. Le argomentazioni non sono dissimili da quelle sopra ricordate: che il risarcimento del danno può venire in considerazione come effetto dell’annullamento e non come rimedio autonomo che prescinde dall’annullamento, atteso che nel sistema processuale amministrativo, laddove vi sia un (40) Cass., n. 27 marzo 2003, n. 4538. (41)La sentenza della Corte di Cassazione prosegue affermando nei termini seguenti il relativo principio di diritto: “La non conformità di una situazione giuridica al diritto oggettivo (cd. antigiuridicità in senso oggettivo), quale elemento costitutivo della fattispecie attributiva del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., non può essere accertata in via incidentale e senza efficacia di giudicato, sicché, ove l’accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio, in quanto l’interessato non sperimenta, o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, transazione, ecc.), i rimedi specifici previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere rigettata perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile di essere qualificato illecito.” (42) Per la nozione si rinvia all’analisi compiuta da PIERLUIGI CHIASSONI nel saggio “Il precedente giudiziale: tre esercizi di disincanto” (www.giuri.unige.it/intro/dipist/digita/filo/ testi/analisi_2004/07chiassoni.pdf). La definizione risultante è la seguente: un “obiter dictum” è un insieme di enunciati giudiziali del più vario contenuto (potendo esprimere, alternativamente: una norma di condotta, l’interpretazione di un articolo di legge, un’argomentazione o un frammento di argomentazione in diritto, una definizione, un’opinione concernente un istituto del diritto positivo, ecc.), formulato all’interno di una sentenza, il quale risulti essere irrilevante, o rilevante ma dispensabile, rispetto alla decisione adottata, nella prospettiva di un qualche metodo di analisi della sentenza. (43) DE NICTOLIS R., Il risarcimento dei danni cagionati dalla P.A., op. cit. pag. 70 ss. DOTTRINA 427 atto amministrativo illegittimo, la possibilità di conseguire il risarcimento del danno passa necessariamente attraverso la preventiva rimozione dell’atto. È ancora l’art. 7 Legge T.A.R., per il quale il g.a. conosce “anche” dell’”eventuale” risarcimento del danno e degli altri diritti patrimoniali consequenziali a costituire il dato normativo di riferimento, come tale costantemente citato al fine di supportare l’assunto per cui il potere del g.a. di conoscere di eventuali domande risarcitorie non costituisce una autonoma giurisdizione, in quanto il suo potere risarcitorio è un rimedio ovvero una delle varie azioni ad esso proponibili, a carattere “ulteriore ed eventuale”, da cui discende la conseguenza che l’azione risarcitoria non può esercitarsi in una unica azione, che prescinda da quella demolitoria/impugnatoria. Il g.a. nasce e trova legittimazione come giudice del corretto esercizio della funzione pubblica, rispetto alla quale il sindacato impugnatorio è sorto come rimedio accessivo, a seguito della elaborazione in via pretoria. Certo non può tacersi come certi argomenti addotti dai sostenitori della pregiudiziale abbiano anche rilevanti profili pratici. Così, per. es., quando si pone l’accento sul fatto che il risarcimento del danno, senza previo annullamento proposto nel rispetto del termine decadenziale, aprirebbe uno scenario di incertezza e instabilità per gli atti amministrativi, oltre a pericoli di accertamenti incidentali superficiali, specie a fronte di azioni volutamente proposte con largo ritardo rispetto all’atto stesso, e quindi in un momento nel quale appare difficile, se non impossibile, la corretta ricostruzione del quadro probatorio. Il rischio maggiore di tali temuti effetti distorsivi si ravvisa in uno dei campi più delicati della attività amministrativa, che è quello delle gare e degli appalti pubblici. Basti pensare all’ipotesi di acquiescenza prestata dal secondo classificato nella gara di aggiudicazione, in astratto dotato di migliori requisiti rispetto all’aggiudicatario, che porterebbe al duplice negativo risultato di affidare lo svolgimento dell’appalto ad un soggetto in sostanza meno idoneo e di esporre l’amministrazione anche al rischio di una condanna risarcitoria in favore del soggetto non aggiudicatario. In disparte il rilievo, pur talvolta evidenziato, del rischio di un effetto dirompente anche sul bilancio dello stato, vero è che la tesi favorevole poggia anche sul dato normativo di cui all’art. 5 della legge sulla abolizione del contenzioso amministrativo all. E, richiamato nella A.P. n. 4/2003, dal quale si fa tradizionalmente discendere il divieto, per il g.a. di disapplicazione dell’atto amministrativo, essendogli precluso di sindacare la funzione amministrativa sotto il profilo della violazione di legge o dell’eccesso di potere in via meramente incidentale, senza cioè efficacia di giudicato. Da tale osservazione, la logica conseguenza che non pare possibile, per legge, accordare tutela risarcitoria in virtù di un atto che, per non essere stato oggetto di previo annullamento, è, in tesi, pienamente efficace, a meno di non volerlo, quanto meno per incidens, disapplicare. Ancora, nella stessa direzione, non può non tenersi conto di ulteriori obiezioni: del fatto che in concreto anche la condotta omissiva del soggetto danneggiato, in termini di mancata impugnazione, può concorrere all’evento lesivo; che l’esecuzione dell’atto amministrativo, illegittimo/illecito ma 428 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO non annullato, continua a costituire per la P.A. un dovere giuridico, finanche penalmente sanzionabile come abuso d’ufficio; che dal giudicato risarcitorio dovrebbe discendere, per coerenza interna al sistema, un obbligo a carico della P.A. di auto-annullamento, in realtà non previsto da alcuna disposizione di legge. La conclusione è limpidamente esposta dal Consiglio di Stato che difatti sottolinea come “qualora il g.a. voglia pronunciarsi sul risarcimento del danno da attività illegittima della P.A., non possa prescindere dal previo accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo nel contesto dell’unico strumento di cui disponga: la cognizione diretta prevista dal processo di annullamento”(44) . 5. L’ordinanza n. 75 /2007 del C.G.A. e le sentenze n. 386/2007 del C.G.A. e 31 maggio 2007 n. 2822 della V Sezione del C.d.S.: il g.a. apre alle Sezioni Unite? Alle tre ordinanze della Suprema Corte di Cassazione, che costituiscono senza dubbio l’attuale punto fermo della posizione del giudice ordinario sul tema della pregiudiziale amministrativa, pur nella consapevole divergenza con l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nella A.P. n. 4/2003, va riconosciuto un effetto ulteriore, quello, cioè, di avere riportato il problema alla attenzione del giudice amministrativo, che difatti non ha mancato di cogliere la segnalazione. A richiedere un ulteriore approfondimento del sistema della pregiudizialità amministrativa ha provveduto il Consiglio di Giustizia Amministrativa, che, con l’ordinanza in data 2 marzo 2007 n 75, ha rimesso all’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato il compito di prendere una delineata posizione sul punto della sussistenza o meno della pregiudiziale amministrativa. Compito non certo facile, come è reso palese dal fatto che la Adunanza Plenaria, con la attesa decisione n. 9/2007 ha evitato di affrontare il tema in esame. Chiamata infatti a pronunciarsi su una controversia in punto di esprorpiazione, nella quale si poneva un concreto problema di rapporti tra azione di annullamento e azione risarcitoria tale da costituire terreno per una chiara presa di posizione, ha invece sorvolato sulla pregiudiziale, in contrasto anche con quanto auspicato dalla stessa Sez. V nella decisione n. 2822 del 31 maggio 2007, testualmente affermando che “il presente giudizio non costituisce occasione processualmente idonea per affrontare la relativa e complessa problematica (della pregiudiziale)”. Tanto perché, a parere della Adunanza Plenaria, nella specie neanche poteva discutersi di un diritto a contenuto risarcitorio difettando il presupposto della sussistenza dell’atto amministrativo illeggittimo. Soluzione questa che in realtà presenta diversi profili di let- (44) C.d.S. sez. VI, n. 3717 del 21 giugno 2006. DOTTRINA 429 tura, qualora si consideri che, portando alle estreme conseguenze il ragionamento della A.P., la conclusione è che in siffatte ipotesi è ammissibile la tutela risarcitoria diretta. Sintomo questo di un prevedibile ma forse non più giustificabile “temporeggiamento” del C.d.S. stesso, considerati i contrasti esistenti in seno alla stessa magistratura amministrativa, tali da aggiungersi all’originario divario di posizioni già esistente tra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione. Manifestazioni esplicite di questa “parziale” ed obiettiva “inversione di tendenza” sono la sentenza 18 maggio 2007 n. 386 della Sezione giurisdizionale del Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione Sicilia e la sentenza 31 maggio 2007 n. 2822 della Quinta Sezione del Consiglio di Stato. È sufficiente infatti leggere cosa scrive il C.G.A. per rendersi conto di ciò: “ alla luce delle ordinanze del 13 giugno 13569 e 13660 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, deve essere superata la rigida affermazione della necessaria pregiudizialità del giudizio d’annullamento dell’atto “al fine di poter ottenere il risarcimento del danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo”; in sostanza, il giudice siciliano, che pure ha rimesso esso stesso la questione alla A.D., sembrerebbe non ritenere indispensabile attendere la relativa decisione, e chiarisce come l’azione di annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e quella di risarcimento del danno da esso causato siano due rimedi distinti ed autonomi, che la legge offre ai privati a garanzia delle loro posizioni di interesse legittimo. E non solo. La sentenza stessa afferma che “ re melius perpensa” , cioè a seguito di una più attenta e ponderata valutazione, la cd. pregiudiziale amministrativa non costituisce ostacolo in ordine “alla ammissibilità di domande esclusivamente risarcitorie”, con la conseguenza che la omessa impugnazione del provvedimento lesivo entro il termine decadenziale non deve rendere inammissibile ex se la proposizione della eventuale domanda relativa al risarcimento del danno. Il C.G.A. mostra di recepire e di conseguenza avallare l’impostazione della Corte di Cassazione, laddove sostiene che la subordinazione di una eventuale domanda risarcitoria al preventivo esperimento della azione demolitoria, entro il termine perentorio previsto ex lege, costituisce una inconcepibile compressione della tutela giurisdizionale offerta ai privati e il frutto di una incompleta lettura dell’art. 24 della Costituzione, norma che se da un lato sembra legittimare una distinzione sostanziale dell’interesse legittimo dal diritto soggettivo, dall’altro non sembra autorizzare alcuna disparità di trattamento tra le due situazioni giuridiche soggettive, quanto alle garanzie processuali ad esse applicabili tra le quali rientra, a pieno titolo, il risarcimento del danno. Ammettere il contrario significherebbe sia forzare il dettato costituzionale, sia anche non tenere nella dovuta considerazione le evoluzioni legislative, quali il D.Lgs. 80/98 e la Legge. 205/2000, e giurisprudenziali, prime fra tutte le sentenze Cass, n. 500/99 e n. 204/2004 della Corte Cost., che hanno contribuito a rendere l’interesse legittimo una situazione giuridica soggettiva piena da un punto di vista sia sostanziale che processuale. 430 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO In analogia al C.G.A. si pone anche la Sezione Quinta del Consiglio di Stato con la sentenza 31 maggio 2007 n. 2822. Esplicitamente il Collegio avverte che, in punto di pregiudiziale amministrativa, nel giudizio avanti al g.a., occorre fare ricorso ai principi di diritto fissati dalle SS. UU. della Cassazione nelle sentenze del giugno 2006 nn. 13569 e 13660. Pertanto la domanda relativa al risarcimento del danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo ben “deve” proporsi avanti al g.a., individuato come il giudice unico, “monocratico” delle situazioni giuridiche di interesse legittimo, e tale domanda può postularsi anche prescindendo dall’utile e preventivo esperimento della domanda di annullamento, laddove per utile si deve intendere, ipso facto, la necessità per la parte istante di ottenere dal g.a. una pronuncia costitutiva di annullamento nel merito. Pertanto, sotto tale profilo, sembra emergere, dall’esame dell’impianto complessivo della motivazione, l’intenzione del Collegio di superare il sistema della pregiudiziale amministrativa, avallando, al pari del C.G.A., la impostazione delle SS. UU. della Corte di Cassazione . Certo non può trascurarsi di evidenziare come la Sezione Quinta, nella motivazione della sentenza, consapevolmente “aggiusti il tiro” delle sue affermazioni, così come quando aggiunge, quasi a voler comporre il conflitto tra i due ordini giurisdizionali, che l’impostazione della Corte di Cassazione, cui dichiara di aderire, non deve necessariamente considerarsi contrastante con quella della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, costituendo al contrario entrambe il background delle successive sentenze della Corte Costituzionale nn. 204/2004 e 191/2006 ( rese in punto di risarcibilità dell’interesse legittimo). Ciò considerato, il Collegio, nel sottolineare il carattere “rimediale”, aggettivo testualmente mutuato dal lessico adottato dalla Consulta nella sentenza 191/2006, del risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo, nel senso che esso sia da considerarsi una forma di tutela complementare rispetto a quella “ principale” costituita dallo strumento meramente impugnatorio, aggiunge come “ il g.a. non abbia motivo di discostarsi dalle ragioni fondamentali delle SS. UU.”, atteso che esse hanno sia ribadito la rilevanza dell’interesse legittimo, quale situazione soggettiva la cui tutela è tradizionalmente devoluta alla cura del g.a.,sia contribuito anche a rafforzare gli strumenti di tutela conferiti dalla legge a tale giudice. Secondo la V sezione, in sostanza, le impostazioni del C.d.S. e delle SS.UU. non devono necessariamente considerarsi inconciliabili. Ciò sembrerebbe evidenziare la volontà della Quinta Sezione di giungere ad una posizione equilibrata, che tenga conto delle istanze provenienti da entrambe le parti, nell’ottica di un definitivo allineamento dell’interesse legittimo con il diritto soggettivo, per il quale la legge pacificamente prevede la possibilità di forme di tutela di tipo esclusivamente risarcitorio. Risultato da ritenersi giustamente conseguibile anche per l’interesse legittimo, nella considerazione che la legge non dovrebbe né obbligare i privati ad azionare strumenti di tutela, cui potrebbero non essere interessati, e che il rimedio risarcitorio non dovrebbe considerarsi come “ necessariamente” convivente con quello annullatorio. DOTTRINA 431 Come è evidente trattasi di affermazioni in linea con le SS.UU., laddove si legge ancora che“l’interesse legittimo va perdendo la sua tradizionale funzione meramente famulativa od ancillare rispetto al pubblico interesse per assumere connotati più marcatamente sostanziali ”. Ciò significa che già per una parte della giurisprudenza amministrativa l’interesse legittimo è letto quale situazione giuridica soggettiva piena, tutelabile con tutte le tipologie di rimedi offerti dalla legge, tra i quali i privati dovranno ragionevolmente scegliere quello che all’uopo più si confà alla loro singola fattispecie giuridica; ciò ovviamente, senza comportare la necessità, per i privati, di azionare tutti i rimedi previsti dalla legge, nel timore che il mancato esperimento di uno comporti irrimediabilmente l’impossibilità di azionare gli altri. Tali assunti non esauriscono gli spunti riflessivi offerti dalla decisione in rassegna, in quanto è intuibile come il superamento della pregiudizialità comporta necessariamente l’esame del consequenziale tema della disapplicazione amministrativa. Sul punto la V sezione ritiene che ammettere la possibilità per i privati di proporre domande risarcitorie autonome non significherebbe attribuire al g.a. la facoltà di conoscere della legittimità dei provvedimenti amministrativi in via meramente incidentale e, di seguito, di disapplicarli, possibilità categoricamente preclusa dagli artt. 4 e 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo All. E, in quanto rimessa in via esclusiva al solo g.o., quanto invece “postulare la loro efficacia, posto che un provvedimento amministrativo è efficace non solo se è legittimo nel senso che rispetta i parametri sostanziali previsti dalla legge, ma anche se è lecito, nel senso che non ha prodotto alcun tipo di pregiudizio nella sfera giuridicosoggettiva dei suoi destinatari”. In realtà, è proprio sul terreno della disapplicazione che la decisione in commento offre i profili di maggior rilievo, nella parte in cui evidenzia che nel giudizio risarcitorio trova spazio, a ben vedere, anche il giudizio sulla legittimità dell’atto, giudizio che costituisce uno degli elementi fondamentali dell’azione ex art. 2043 c.c. La Quinta Sezione si spinge infine ad individuare i temi de iure condendo: apertis verbis afferma infatti che il sistema della pregiudiziale amministrativa, così delineato, presenta comunque “non pochi spazi di ulteriore completamento che dovrebbero necessariamente essere colmati possibilmente in via pretoria, nell’attesa di un auspicabile e quanto mai doveroso intervento normativo”, da attuarsi tenendo conto anche delle indicazioni derivanti proprio dalla evoluzione giurisprudenziale. In questa fase quindi spetta al g.a. non solo il compito di pronunciarsi sulle eventuali domande risarcitorie autonome dei privati, dovendosi di conseguenza escludere qualsiasi forma di competenza del g.o., ma anche il compito di individuare “ gli strumenti necessari adatti a completare l’intero sistema del riparto delle giurisdizioni e della tutela dell’interesse legittimo”, preparando, per così dire, “il campo” a quello che dovrà essere il successivo e definitivo intervento autonomo del legislatore ordinario. In definitiva la Quinta Sezione del Consiglio di Stato si allinea con il C.G.A., quali frange quasi “ribelli” all’interno del C.d.S. stesso, ma non è 432 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO dubbio che gli sforzi interpretativi sono in ultima analisi tesi a contemperare le diverse esigenze che si colgono all’interno della giurisdizione amministrativa: da un lato di non svuotare di effettività le competenze del giudice amministrativo e dall’altro di prendere comunque atto, apprestando gli opportuni rimedi, del cambiamento dei rapporti tra pubblica amministrazione e società civile, e della esigenza di effettività della tutela, in applicazione concreta del principio del giusto processo, di cui la soggettivizzazione dell’interesse legittimo è forse l’aspetto giuridicamente più rilevante. 6. La pregiudizialità amministrativa: un falso problema? Un approccio sistematico al tentativo di trarre conclusioni non può prescindere dalla analisi storica dello stesso. È pacifico infatti che la tesi della pregiudizialità amministrativa affonda le sue radici in un momento storico affatto diverso, riveniente dal dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo e dalla teoria della degradazione e successiva riespansione del diritto soggettivo ad opera, rispettivamente, del provvedimento amministrativo e del successivo giudicato caducatorio. Poiché l’atto amministrativo era idoneo a degradare il diritto soggettivo ad interesse legittimo, scattava l’onere per il soggetto leso di impugnarlo previamente per ottenerne l’annullamento, inteso quindi non solo come presupposto processuale, ma anche sostanziale per il successivo risarcimento del danno, in quanto attraverso esso il diritto soggettivo veniva a riespandersi in tutta la sua pienezza. Anche in tale ipotesi quindi conditio sine qua non della risarcibilità era il fatto che l’interesse legittimo avesse quale presupposto il diritto soggettivo (secondo l’autorevole insegnamento di Eugenio Cannada-Bartoli) . La fattispecie tipica era quella espropriativa, ovvero quella ablativa di una posizione giuridica attiva già concessa e poi revocata. Ma, superato l’assioma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo, la conseguente costruzione giurisprudenziale sembra ormai priva di sicuro fondamento. Intanto un rilievo di natura tecnica subito si impone. La pregiudizialità nel sistema del diritto processale ha ad oggetto una questione che sta al di fuori della causa nell’ambito della quale è sollevata. Ma, qualora si vada ad analizzare la struttura dell’azione di risarcimento per responsabilità amministrativa, non può non rilevarsi che la valutazione della illegittimità dell’atto e dell’illiceità della condotta sottostante, lungi dal costituire una “questione pregiudiziale”, si pone invece come momento centrale del giudizio risarcitorio, atteso che esso altro non è se non l’oggetto dell’accertamento dell’an della pretesa dedotta in giudizio. In altri termini l’affermazione della risarcibilità della situazione giuridica lesa passa attraverso l’accertamento della illegittimità/illiceità dell’atto, quale componente principale del thema decidendum del giudizio risarcitorio. Ne discende che ciò che già appartiene all’oggetto del giudizio non può costituire oggetto di una questione pregiudiziale. Sotto questo profilo si coglie la importanza peculiare del giudizio sulla “colpa” della amministrazione e sulla violazione delle regole di condotta, nel che si sostanzia uno dei requisiti di cui al 2043 c.c. Ma di tale rilievo lo stesso Consiglio di Stato si DOTTRINA 433 è fatto carico (45), se pure al diverso fine di affermare che la pregiudiziale in discorso ha natura logica e non tecnica, quando testualmente afferma che “l’illegittimità dell’atto è un elemento (non un presupposto esterno) della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., e, quindi, deve ritenersi esistente una pregiudizialità logica e non tecnica”. Ma non si vede, una volta che comunque sia riconosciuto come l’accertamento dell’an attenga alla fattispecie principale, risarcitoria, l’utilità di accogliere una simile distinzione che, comunque, sul piano pratico non conduce a risultati positivamente valutabili, qualora si consideri che è comunque l’analisi del provvedimento, in termini di liceità/illiceità, a sussumere la fattispecie nel paradigma dell’art. 2043 c.c. In realtà, sembra piuttosto che l’esperimento della previa azione di legittimità piena esplichi i suoi effetti sul diverso terreno del quantum risarcitorio. È innegabile infatti che, sia in ipotesi di lesione di interesse legittimo oppositivo che pretensivo, la immediata reazione del soggetto, e il conseguente giudicato favorevole esplicano effetti giuridici nella sfera del destinatario, o rimuovendo immediatamente dal mondo giuridico l’atto lesivo, così evitando il prodursi di ulteriori effetti dannosi, ovvero obbligando l’amministrazione alla adozione dell’atto richiesto, ovvero rimuovendo il diniego illegittimo ed imponendo alla P.A. l’adozione dei conseguenti atti conformativi. In entrambi i casi la lesione subita viene ad ottenere una immediata soddisfazione, non ovviamente ottenibile quando il soggetto inciso rimanga inerte. È, dunque, sul terreno della “monetizzazione” del danno che rileva il comportamento del privato inerte, nel senso che il g.a. non potrà non valutarlo e decidere in conseguenza, limitando il risarcimento stesso alla sola misura differenziale che non sarebbe comunque stata soddisfatta con il giudicato ottenuto in sede di legittimità. Sotto questo profilo è l’art. 1227 c.c. a rivelare nuovi spunti applicativi: la mancata reazione all’atto/comportamento illegittimo è qualificabile quale fatto colposo del creditore che ha concorso a cagionare il danno, idoneo pertanto a diminuire il risarcimento, o addirittura ad eliderlo, secondo la gravità della colpa e le conseguenze derivatene. La sanzione appare in tal caso del tutto coerente con il sistema del risarcimento del danno, in quanto espressione del generale principio per cui non sono risarcibili i danni causati dallo stesso soggetto leso, quando la scelta del ricorrente di non attivare la tutela annullatoria (potendosi però, in tal caso, prevedere “una via di fuga” garantendo la possibilità di dimostrare la prova contraria o la esistenza di una causa di forza maggiore) integri un comportamento gravemente colposo o addirittura doloso; in questo modo il privato verrebbe sì messo nelle condizioni di poter optare per il solo rimedio risarcitorio, ma sarebbe anche “avvisato” delle conseguenze eventualmente negative che da tale scelta potrebbero derivare. Certo la definitiva abolizione della pregiudizialità amministrativa apre lo spazio a ulteriori e non indifferenti problemi, che non sembrano tuttavia, de (45) C.d.S., sez. VI, n. 3717 del 21 giugno 2006, cit. 434 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO iure condendo, irrisolvibili. Così nulla osta che sia previsto in via legislativa un diverso e più breve termine di prescrizione per l’azione risarcitoria da illecito amministrativo, non necessariamente ancorato al termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c. (46), per evitare che l’amministrazione resti irragionevolmente esposta a tardive, quanto capziose, azioni risarcitorie, o forse, soprattutto, che si preveda in subjecta materia una disciplina speciale, analoga a quella contenuta nell’art. 24 comma 6 bis legge n. 262/2005, che limita la responsabilità delle Autorità indipendenti ai soli danni causati da atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave. Vero è che tale norma, che sembra porre una sorta di sfera privilegiata non facilmente giustificabile, appare essere un unicum nel panorama normativo attuale in punto di responsabilità della P.A., e quindi di non immediata e facile estensione, qualora si consideri che in base ai principi generali l’amministrazione risponde anche nei casi di colpa lieve. Ciò non toglie come potrebbe comunque rivelarsi un valido termine di riferimento, in una prospettiva che tenda ad uniformare, o in un senso o nell’altro, il regime della responsabilità della P.A. In questo variegato panorama di interrogativi, le recenti aperture del giudice amministrativo sono indice di una sicura volontà di soluzione del problema in senso conforme al giudice ordinario. Specie la decisione n. 2822/07, che, lungi dall’incrinare la sfera di attribuzioni del giudice amministrativo, tende invece al contrario a rafforzarne la posizione laddove velatamente lo “candida” quale l’organo deputato ad individuare, in via pretoria, i principi di completamento del sistema delle tutele dei quali dovrà poi tenere conto il legislatore ordinario, segna un arresto imprescindibile, delle cui motivazioni la stessa Plenaria non potrà non farsi carico nel momento in cui deciderà che la decisione sulla pregiudizialità non è più procrastinabile. Certo è che il compito del Consiglio di Stato appare decisamente alleggerito, nel senso che la soluzione prospettata dalla sezione V e dal C.G.A., largamente condivisa dalla dottrina (47), rafforza addirittura per certi aspetti la posizione del giudice amministrativo, specie nella parte in cui rimette, in via preliminare, l’individuazione dei principi di completamento del sistema delle tutele alla giustizia amministrativa stessa, presuntivamente considerata, in tale ambito, più “tecnica” del legislatore ordinario. D’altra parte è già stato osservato come il giudice amministrativo “non deve avere paura” di abbandonare la strada della pregiudizialità ed aprire alla Cassazione; non è quindi forse sbagliato ritenere che la Sezione Quinta sia pervenuta alla descritta impostazione, anche per la consapevolezza che l’esigenza di una compiuta opera di mediazione tra le tesi contrastanti è ormai insopprimibile, e che una delle soluzioni possibili per la mediazione stessa è la accettazione, (46) Termini più brevi del quinquennio sono già previsti dall’ordinamento in fattispecie particolari. Così dagli artt. 2950 ss. c.c. (47) Cfr. da ultimo, PELLEGRINO G., Il giudice amministrativo non abbia paura, nota a C.d.S. Sez. V, n. 2822 del 31 maggio 2007. DOTTRINA 435 ma “condizionata”, dei principi proposti dalle Sezioni Unite della Cassazione, quasi a voler intendere , da un lato, che può essere giusto abbandonare la pregiudiziale amministrativa, ma che, dall’altro, le “condizioni” di tale abbandono saranno “dettate” dal Consiglio di Stato, cui spetterà rispondere ad alcuni degli interrogativi sollevati dalla sentenza 2822/2007. Primo fra tutti chiarire in via definitiva se il rimedio risarcitorio costituisca una forma di tutela “complementare” ed eventuale dell’interesse legittimo – che può venire in essere solamente se considerato in via unitaria con lo strumento impugnatorio (di cui costituirebbe, quindi, una estensione “completiva”) (48), ovvero se, di converso, debba intendersi come un rimedio autonomo, nel senso di essere posto, a tutti gli effetti, sullo stesso piano rispetto a quello demolitorio. Le conseguenze derivanti dall’una o dall’altra delle due impostazioni sono sostanziali: qualora si accedesse alla prima delle due soluzioni, non si potrebbe fare a meno della pregiudiziale amministrativa in senso tecnico, posto che il risarcimento del danno sarebbe subordinato all’effettivo utile esperimento della azione d’impugnazione, con conseguente sua sottoposizione ad un termine esclusivamente prescrittivo; qualora, invece, si adottasse la seconda delle soluzioni proposte, che sembrerebbe potersi desumere dal disposto dell’art. 7 della legge 205/2000, ne deriverebbe l’abbandono definitivo della pregiudiziale, ma anche la contestuale necessità di prevedere un obbligatorio e ragionevole termine di decadenza per l’esperimento della azione principale di risarcimento, così come accade per la azione di annullamento. In conclusione appare auspicabile un ripensamento dell’Adunanza Plenaria in tema di pregiudizialità, nella considerazione che la sua elisione appare tenere conto del mutato rapporto tra P.A. e società, della evoluzione della giustizia amministrativa italiana, della oramai pacificamente ammessa risarcibilità dell’interesse legittimo, ma anche e soprattutto del dato per cui la effettiva cura del cittadino nei confronti della attività della P.A. non può essere ristretta quanto alle modalità di tutela , né tanto meno frazionata in molteplici sedi giudiziarie, quanto alle possibilità di giustiziabilità. Né l’abbandono della pregiudiziale appare idoneo a concretizzare quelle lesioni di competenze e attribuzioni temute dal C.d.S. In verità tali paure appaiono infondate: la caduta della pregiudiziale non necessariamente comporterà un indebolimento della potestà del g.a., poiché, al contrario, potrebbe arricchirla, nel senso che potrebbero svilupparsi – come di recente è stato sostenuto – in capo al g.a. nuove “frontiere” nella tutela dell’interesse legittimo, che il g.a. stesso non dovrebbe temere di percorrere, stante il suo “storico” ruolo di giudice della “moderna complessità”(49). (48) Ricostruzione, peraltro, continuamente ribadita dagli organi di giustizia amministrativa a più riprese. Si veda per tutte, a titolo meramente esemplificativo, T.A.R. Sicilia, Sez. I, 7 luglio 2007, n. 1629; ma anche C. d. S., Sez. IV, 8 maggio 2007, n. 2136. (49) PELLEGRINO, op. cit. 1 - ARTICOLI, NOTE, DOTTRINA, RECENSIONI MAURIZIO BORGO, Sulla competenza in materia di ricongiungimento familiare . pag. 41 VINCENZO CARDELLICCHIO, FABRIZIO GALLO, La Stazione unica appaltante provinciale (S.U.A.P.) di Crotone: genesi e prospettive evolutive . . . . . . . . . . . » 26 FILIPPO D’ANGELO, La pregiudiziale amministrativa nella giurisprudenza: dall’adunanza plenaria n. 4/2003 alla decisione n. 2822/07 della quinta sezione del Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo apre alla Cassazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 412 GIANNI DE BELLIS, Il meccanismo dell’IVA italiana al vaglio della Corte di Giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 221 MICHELE DIPACE, Responsabilità amministrativa, azione di responsabilità sociale e principio di parità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 389 CHIARA DI SERI, Le misure cautelari nei confronti di atti legislativi in contrasto con il diritto comunitario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 209 GIUSEPPE FIENGO, Un significativo allargamento dell’in house providing . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 254 MAURIZIO FIORILLI, Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee dell’anno 2006 emesse in cause cui ha partecipato l’Italia . . . . . . . . . . . . . .» 45 OSCAR FIUMARA, Discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – Roma, 26 gennaio 2007. . . . . . . . . . . . . . . . » 1 ANDREA GUAZZAROTTI, Il rigore della Consulta sulla decretazione d’urgenza: una camicia di forza per la politica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4 GLAUCO NORI, La cosa giudicata nazionale nel diritto comunitario . . . . . . . . . . . » 289 VALERIA SANTOCCHI, L’Italia e le sue seimila discariche abusive . . . . . . . . . . . . . . » 267 2 – INDICE DELLE SENTENZE CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE Ord.19 dicembre 2006 nella causa C-503/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 214 I N D I C I S I S T E M A T I C I Ord. 27 febbraio 2007 nella causa C-503/06 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 218 Sent. 15 marzo 2007 nella causa C-35/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 246 Sent. 19 aprile 2007 nella causa C- 295/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 255 Sent. 26 aprile 2007 nella causa C-135/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 279 Sent. 18 luglio 2007 nella causa C-119/05 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 301 CORTE COSTITUZIONALE Sent. 9-23 maggio 2007 n. 171 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16 TRIBUNALE CIVILE DI ROMA Sez. 1° , decreto 8 maggio 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 41 3. INDICE DEGLI ARGOMENTI COMUNITÀ EUROPEE - Aiuti di Stato – CECA – Industria siderurgica – Aiuto dichiarato incompatibile con il mercato comune – Recupero – Autorità di cosa giudicata della sentenza di un organo giurisdizionale nazionale . . . . . . . . » 301 COMUNITÀ EUROPEE – Domanda di pronuncia pregiudiziale – Ricevibilità – Art. 86, n.1, Ce – Mancanza di portata autonoma – Elementi che consentono alla Corte di rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte – Dir. 92/50/CEE, 93/36/CEE, e 93/37/CEE – Normativa nazionale che consente ad un’impresa pubblica di eseguire per diretto incarico da parte di amministrazioni pubbliche operazioni senza applicazione del regime generale d’aggiudicazione degli appalti pubblici – Struttura di gestione interna – Presupposti - L’autorità pubblica deve esercitare su di un ente distinto un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi – L’ente distinto deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’autorità pubblica o le autorità pubbliche che lo controllano . . . . . . . . . . . . . . » 255 COMUNITÀ EUROPEE – Inadempimento di uno Stato – Gestione dei rifiuti – Direttive 75/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 279 COMUNITÀ EUROPEE – Ottava direttiva IVA – Artt. 2 e 5 – Soggetti passivi non residenti all’interno del paese – Imposta indebitamente versata – Modalità per il rimborso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 246 COMUNITÀ EUROPEE – Procedimento sommario – Domanda di sospensione dell’esecuzione e domanda di provvedimenti provvisori – Domanda di pronuncia inaudita altera parte – Protezione degli uccelli – Deroghe . . . . . . . . . . .» 214 COMUNITÀ EUROPEE – Procedimento sommario – Domanda di sospensione dell’esecuzione e domanda di provvedimenti provvisori – Decisione presa inaudita altera parte – Non luogo a provvedere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 218 4. PARERI, COMUNICAZIONI, CIRCOLARI A.G.S. – Parere del 2 gennaio 2007, n. 4 (reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria). Validità della nomina a membro di commissione del concorso interno per titoli ed esami (per l’accesso alla qualifica di primo dirigente del Corpo 438 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Forestale dello Stato) di un consigliere comunale. Effetti sugli atti del procedimento (cs.45306/06, avv. P. Marchini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 341 A.G.S. – Parere del 5 gennaio 2007, n. 1466. Ravvedimento operoso in materia di imposta di consumo sull’energia elettrica (cs.64227/05, avv. G. Mandò) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 346 A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3243. Sicurezza sul lavoro. Potere di accesso all’alloggio di rappresentanza del Prefetto. Decr. Legislativo n. 626/94 (cs. 24198/05, avv. Giovagnoli – interim avv. M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 348 A.G.S. – Parere del 9 gennaio 2007, n. 3245. Applicazione delle disposizioni di cui all’art. 20, co.1, L.241/90 ai procedimenti di competenza dell’Ufficio nazionale per il servizio civile (cs. 48161/06, avv. F. Varrone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 350 A.G.S. – Parere del 13 febbraio 2007, n. 18543. Inapplicabilità dell’art. 4 co. 2 bis L. 168/05 al concorso notarile e alle altre procedure concorsuali a numero chiuso (cs. 43036/06, avv. W. Ferrante) . . . . . » 352 A.G.S. – Parere del 20 febbraio 2007, n. 21716. Decreti liquidazione compensi per attività di assistenza e difesa di soggetti ammessi al gratuito patrocinio (cs. 3822/07, avv. C. Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . » 356 A.G.S. – Parere del 26 febbraio 2007, n. 24832. Accademia dei Georgofili. Uso gratuito o agevolato della sede di proprietà demaniale (cs. 40863/06, avv. A. Palatiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 360 A.G.S. – Parere del 6 marzo 2007, n. 29057. Contributi universitari per gli studenti stranieri dell’Accademia di belle arti di Brera (cs. 43149/06, avv. G. Aiello) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 363 A.G.S. – Parere del 14 marzo 2007, n. 32868 (reso dall’Avvocatura Generale in via ordinaria). Proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area di Tuvixeddu – Tuvumannu in Cagliari ex art. 138, d.lgs. 42/04 (cs. 10475/07, avv. M. Borgo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 364 A.G.S. – Parere del 15 marzo 2007, n. 33252. Assistenza tecnica dell’Agenzia del Demanio nel processo dinanzi alle Commissioni Tributarie (cs. 40972/06, avv. F. Favara) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 368 A.G.S. – Parere del 30 marzo 2007, n. 41082. Cartolarizzazione alloggi di servizio (cs. 8711/07, avv. P. Gallo) . . . . . . . . . . . . . . » 370 A.G.S. – Parere del 14 aprile 2007, n. 46456. S. s.p.a. – Ordine del giorno dell’assemblea ordinaria degli azionisti – Individuazione dell’organo competente per la redazione del progetto di bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006 e della relazione accompagnatoria (cs. 16024/07, avv. G. D’Amato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 372 INDICI SISTEMATICI 439 A.G.S. – Parere del 17 aprile 2007, n. 47332. Art. 15 e segg. d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Estinzione anticipata del finanziamento agevolato da parte del soggetto finanziato (cs. 1952/07, avv. G. Albenzio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 375 A.G.S. – Parere del 21 aprile 2007, n. 49616. Prog. 20/PC/7 – Opere di captazione e adduzione della falda basale del massiccio del Matese – Ministero delle Infrastrutture – Transazione – Compensi dei consulenti tecnici di parte ministeriale (cs. 27902/05, avv. M. Corsini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 386 Agenzia del Territorio, Agenzia delle Entrate – Circolare del 14 giugno 2007, n.6, prot. 47218. Art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 – Facoltà di adempimento anticipato da parte del soggetto finanziato – Compatibilità con il regime sostitutivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» 381 440 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO Finito di stampare nel mese di ottobre 2007 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma