ANNO LXXIII - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2021 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo -CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi -Stefano Maria Cerillo Pierfrancesco La Spina -Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Adele Quattrone -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Carlo Buonauro, Gabriella D’Avanzo, Pietro Garofoli, Michele Gerardo, Andrea Lipari, Adolfo Mutarelli, Gaetana Natale, Gabriella Palmieri Sandulli, Emanuela Rosanò, Isabella Vitiello. Email Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 i n d i c e -s o m m a r i o Comunicato dell’Avvocato Generale, Conferimento dell’incarico di Vice Avvocato Generale dello Stato agli Avvocati dello Stato Maria Letizia Guida ed Enrico De Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Lectio magistralis dell’Avvocato Generale dello Stato, Gabriella Palmieri Sandulli “La difesa del Governo italiano nel Contenzioso Internazionale ed Europeo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Soppressione di Riscossione Sicilia s.p.a. e successione a titolo universale di Agenzia delle Entrate-Riscossione (ADER) a decorrere dal 1°.10.2021. Secondo Addendum al Protocollo d’intesa sottoscritto il 30 marzo 2022 tra l’Avvocatura dello Stato e ADER, Circolare A.G. 1 aprile 2022 n. 20 ›› 26 D.P.C.M. 21 marzo 2021 recante “Autorizzazione all’Avvocatura dello Stato ad assumere la rappresentanza e la difesa dell’Azienda per il diritto allo studio universitario della Regione Campania nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni ammnistrative e speciali”, Circolare A.G. 17 maggio 2022 n. 35 . . . . . . . . ›› 27 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Emanuela Rosanò, Giudici di Pace: la CGUE riconosce il diritto alle ferie e alla tutela previdenziale e assistenziale ove sia accertata la “comparabilità” con i magistrati ordinari (C. giust. Ue, Prima Sez., sent. 7 aprile 2022, C-236/20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 29 CONTENZIOSO NAZIONALE Pietro Garofoli, Le c.d. “concessioni balneari”. Nota alle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. Plen., sentt. 9 novembre 2021 n. 17 e n. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 51 Gaetana Natale, La vexata quaestio della proroga delle concessioni demaniali: prospettive future (Cons. St., Ad. Plen., sentt. 9 novembre 2021 n. 17 e n. 18) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 85 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Gabriella D’Avanzo, Andrea Lipari, Appalti pubblici. Cessione di crediti da corrispettivo di appalto realizzata nell’ambito di una più ampia operazione di cartolarizzazione. Rapporto tra le disposizioni di cui agli artt. 106, co. 13, Codice contratti pubblici e 4, co. 4 bis, Legge cartolarizzazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 95 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Gaetana Natale, Il ruolo delle Nazioni Unite e della Nato nel nuovo contesto internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 107 Gaetana Natale, Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le sfide future per il giurista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 116 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Adolfo Mutarelli, Domanda riconvenzionale impropria e domanda trasversale: un possibile distinguo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 261 Carlo Buonauro, Michele Gerardo, Controversie relative ai rapporti di lavoro. Questioni processuali tipiche del processo del lavoro pubblico ›› 269 Isabella Vitiello, I requisiti estrinseci dell’atto di appello nel processo tributario, con particolare riguardo alla specificità dei motivi . . . . . . . . . . ›› 295 Un ricordo e un saluto a Paolo Vittorio di Tarsia di Belmonte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ringraziamenti, Gabriella D’Avanzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ringraziamenti, Pierluigi Di Palma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ringraziamenti, Maria Elena Scaramucci Lallo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Con Decreto del Presidente della Repubblica del 4 maggio 2022, registrato il 12 maggio 2022, è stato disposto il conferimento dell’incarico di Vice Avvocato Generale dello Stato agli Avvocati dello Stato Maria Letizia Guida ed Enrico De Giovanni. Ai cari ed illustri Colleghi e Amici vivissime congratulazioni e i più fervidi auguri. Gabriella Palmieri Sandulli (*) Email Segreteria Particolare, venerdì 13 maggio 2022. TEMIISTITUZIONALI LectIo MAGIStrALIS DeLL’AvvocAto GenerALe DeLLo StAto (*) GABrIeLLA PALMIerI SAnDULLI La difesa del Governo italiano nel Contenzioso Internazionale ed Europeo 1. Ringraziamenti e introduzione. Magnifico Rettore, Autorità, Prof. Mengozzi, con il quale condivido il bellissimo ricordo del Convegno organizzato nel 2014 in Avvocatura Generale e al Ministero degli Affari Esteri in occasione del semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo, Chiarissimi Professori, Avvocati e rappresentanti dei Consigli degli Ordini, Avvocati dello Stato, Dottorandi, Studentesse e Studenti, gentili Ospiti anche collegati da remoto, desidero, innanzitutto, ringraziare davvero e non come una formula di mero stile il Magnifico Rettore, Prof. Giovanni Molari, il Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche, Prof. Michele Caianiello e il Presidente della Sezione Italiana dell’International Law Association, Prof. Attila Tanzi, per avermi invitato a tenere la lectio magistralis in questa prestigiosissima Università Alma Mater Studiorum di Bologna e in questa magnifica Aula Magna. Lo considero un grande onore per me e per l’Istituto che ho il privilegio di dirigere, perché l’impegno dell’Alma Mater e del suo Dipartimento di Scienze Giuridiche nella promozione dell’internazionalizzazione non solo è ben noto, ma è anche espresso nel riconoscimento di Dipartimento di eccellenza. L’Avvocatura dello Stato ha da sempre, per consolidata tradizione, un co (*) Lectio magistralis tenuta dall’Avvocato Generale dello Stato in occasione dell’evento organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna con la collaborazione della Sezione Italiana dell’International Law Association e l’Avvocatura dello Stato, giovedì 31 marzo 2022. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 stante e vivo rapporto di collaborazione con le Università e ciò consente, attraverso l’aggiornamento e l’attenzione alle riflessioni giuridiche, il migliore svolgimento dei compiti istituzionali, in funzione di positivo completamento della professionalità. L’argomento oggetto della mia lezione credo illustri perfettamente le caratteristiche dell’Avvocatura dello Stato e la sua proiezione internazionale e che è di grande attualità anche in chiave sistemica. 2. La storia. Desidero, innanzitutto, soffermarmi, seppure brevemente, sulle caratteristiche del nostro Istituto, anche per far comprendere come l’impegno in sede sovranazionale si inquadri perfettamente nelle competenze e nelle attribuzioni istituzionali. Non posso non cominciare da qualche sintetico richiamo alla nostra storia. L’Avvocatura dello Stato ha un’origine antica, essendo una delle prime istituzioni dello Stato unitario, se si considera che è stata fondata nel 1876 all’indomani della sua nascita. La conformazione dell’Istituto ha la sua matrice storica nel sistema del Granducato di Toscana, dove Leopoldo di Lorena aveva istituito l’avvocato regio per la rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio, che portò nel 1876 alla costituzione della Regia avvocatura erariale sul modello dell’avvocato regio di Toscana. L’Istituto, fondato con il nome di Avvocatura Erariale con un regolamento del 16 gennaio 1876, “si articola su tre principi fondamentali, validi ancora oggi come vedremo: l’istituzione di un organo dello Stato nettamente distinto dalle amministrazioni assistite, e di un corpo di avvocati dello Stato, opportunamente qualificato e rigorosamente selezionato; una piena indipendenza funzionale ed una assoluta libertà di giudizio a tale organo riconosciuta, quale è quella propria del difensore e del patrono; l’esclusività del patrocinio attribuita all’Istituto per tutte le Amministrazioni ed aziende di Stato, così da assicurare, in un comune pensiero, una costante rigorosa unità d’indirizzo” . Essa trova i suoi antecedenti logici ed ideologici nella concezione illuministica dell'amministrazione pubblica, attenta ad un'ordinata e corretta gestione del settore finanziario nell’interesse degli stessi amministrati. La riforma consistette, in apparente semplicità, nell’affidamento della rappresentanza e difesa tecnica e delle consultazioni legali ad un corpo di avvocati costituito ad hoc. Questa vocazione spiccatamente legalitaria e giustiziale fu mantenuta dal- l’Avvocatura dello Stato anche quando si trovò ad esercitare i propri compiti negli anni difficili in cui lo spirito autoritario dei tempi tendeva a privilegiare gli interessi contingenti dello Stato-apparato. L’Istituto trova, tuttora, la sua disciplina essenziale nel R.D. n. 1611 del TEMI ISTITUzIONALI 1933, cui la legge n. 103 del 1979 ha apportato modifiche, introducendo importanti garanzie nella gestione dell'Istituto, nonché la disciplina della possibile estensione delle funzioni alle regioni a statuto ordinario. Sotto il profilo organizzativo, la riforma del 1979 ha opportunamente accentuato l'affrancamento da riflessi burocratici della composita figura dell'avvocato dello Stato, che non è più ordinata in un complesso gerarchico di qualifiche, ma unitariamente concepita in ragione dell'identità della funzione. Pur avendo i suoi precedenti storici negli avvocati fiscali del diritto romano, riportati in auge nel Settecento dalla tradizione romanistica, l’Avvocatura dello Stato è Istituto relativamente recente: le sue strutture portanti sono direttamente connesse al moto di pensiero che ha portato in Italia a sottomettere la pubblica amministrazione alla giurisdizione e all’avvento dello Stato di diritto. La soluzione, adottata dal nuovo Stato nazionale, di affidare in via esclusiva a funzionari specializzati (veri e propri avvocati) la difesa in giudizio delle proprie controversie, è una caratteristica propria dell’esperienza italiana, ancorché, di recente, sia stata riproposta in altri ordinamenti giuridici, tra i quali la Spagna, il Marocco, il Brasile e, per certi aspetti, l’Austria (Finanzprokuratur), Albania, Grecia. I tratti comuni delle altre Istituzioni omologhe sono stati ben evidenziati nel corso di un interessantissimo Seminario a porte chiuse svoltosi a Bruxelles nel 2017 con il Servizio Giuridico della Commissione e gli Abogados de l’estado spagnoli per un incontro trilaterale e un confronto costruttivo e conoscitivo delle reciproche esperienze anche sotto il profilo eminentemente pratico. 3. L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento nazionale. Nel sistema italiano l’Avvocatura dello Stato svolge le funzioni di assistenza, di consulenza e difesa in via esclusiva e organica delle Amministrazioni statali in tutte le loro articolazioni, degli Organi Costituzionali, delle Autorità amministrative indipendenti e delle Regioni a statuto speciale. L'Avvocatura dello Stato tutela in sede giudiziaria gli interessi patrimoniali e non patrimoniali dello Stato e di altri enti ammessi al patrocinio, ai quali presta pure la propria consulenza senza limiti di materia. A differenza dei sistemi adottati in altri Paesi, nell'ordinamento italiano la tutela legale degli interessi, patrimoniali e non patrimoniali dello Stato, è istituzionalmente attribuita a un corpo di giuristi specializzati, chiamato a svolgere la sua attività quando la cura dell'interesse pubblico -sia nelle forme del diritto comune che attraverso l'esercizio di potestà -richieda di promuovere o sostenere una controversia giudiziaria, ovvero comporti l'adozione di una determinazione che implichi l'applicazione di regole giuridiche. Tale scelta offre innegabili vantaggi che la rendono attuale ancora oggi RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 anche nella visione sovranazionale nell’ottica dell’evoluzione storico-concettuale dei tre principi fondamentali illustrati in precedenza: considerazione unitaria degli interessi dello Stato, che possono trascendere l'esito della singola causa; unità di indirizzo nell'attività defensionale; visione complessiva delle problematiche della funzione amministrativa; costante integrazione tra attività consultiva e contenziosa; e, non ultima per importanza, la notevole riduzione degli oneri di assistenza legale. L’Avvocatura costituisce, quindi, un osservatorio privilegiato, a tutto campo, delle problematiche -sotto ogni angolazione e sotto ogni sfaccettatura -che interessano la politica dello Stato attraverso una visione completa della giurisprudenza di tutti gli organi giurisdizionali di fronte ai quali questi problemi sono sollevati; in un’ottica di trattazione integrale e interdisciplinare. 4. La rappresentanza e difesa del Governo italiano nel contenzioso internazionale. va, innanzitutto, ricordato che la norma cardine di riferimento è l’art. 9 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che contiene le modifiche all’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, prevede che “L'Avvocatura generale dello Stato provvede alla rappresentanza e difesa delle amministrazioni nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari”. Il predetto articolo costituisce, dunque, la base normativa sulla quale si fonda l’attività giurisdizionale dell’Avvocatura Generale in sede internazionale e innanzi ai Giudici dell’Unione europea. In particolare, va ricordato, seppure sia ormai risalente nel tempo, il caso Elsi Elettronica Sicula (Stati Uniti) c. Italia, deciso con la sentenza 20 luglio 1989 della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, di rigetto (per 4 voti a 1) dell’istanza, ritenendo che la Repubblica italiana non aveva commesso alcune delle violazioni allegate nella suddetta istanza e respingendo, con la stessa maggioranza, la domanda di risarcimento presentata dagli Stati Uniti contro la Repubblica italiana, con una sola opinione dissenziente. È stato il primo caso di Collegio difensivo misto (avvocati e professori e avvocati dello stato con una perfetta sinergia e collaborazione che ha reso le difese italiane “imbattibili”) istituito con DPCM ex art. 5 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, “Approvazione del T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato”, che espressamente prevede che “Nessuna Amministrazione dello Stato può richiedere la assistenza di avvocati del libero foro se non per ragioni assolutamente eccezionali, inteso il parere dell'Avvocato generale dello Stato e secondo norme che saranno stabilite dal Consiglio dei ministri. TEMI ISTITUzIONALI L'incarico nei singoli casi dovrà essere conferito con decreto del Capo del Governo di concerto col Ministro dal quale dipende l'Amministrazione interessata e col Ministro delle finanze”. Successivamente alla costituzione del relativo gruppo di avvocati e professori, due Avvocati dello Stato sono stati chiamati a far parte dell’international legal team che ha seguito il contenzioso internazionale per la vicenda dei due marò (caso Enrica Lexie) azionato nei confronti dell’India innanzi al Tribunale Arbitrale Internazionale con sede a L’Aia e all’ITLOS -Tribunale Internazionale del Diritto del Mare con sede ad Amburgo. Un’esperienza unica grazie al confronto con le professionalità espresse ad altissimi livelli internazionali dai componenti e che ha determinato una eccezionale sinergia non solo lavorativa, ma anche culturale. Il risultato principale e fondamentale della sentenza arbitrale, pubblicata il 21 maggio 2020, relativa alla “Enrica Lexie” è senz’altro costituito dalla dichiarazione di carenza di giurisdizione penale dei tribunali indiani, in base alla regola consuetudinaria sulla immunità dalla giurisdizione straniera degli organi dello Stato per atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni pubblicistiche. A tal fine, è stato fondamentale l’accertamento da parte del Tribunale internazionale della natura pubblicistica della funzione di NMP (Nuclei Militari di Protezione) svolta dai due fucilieri sulla base del D.L. n. 107/2011, successivamente convertito con Legge n. 130/2011, per operazioni di contrasto alla pirateria nell’Oceano indiano occidentale in esecuzione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU 1976 (2011) e 2077 (2012). Ciò comporta che solo l’Italia potrà/dovrà esercitare la giurisdizione penale in relazione agli eventi in questione. Il Tribunale non ha accolto la tesi della esclusività della giurisdizione italiana sull’incidente sulla base degli artt. 56, 58, 97, 100 e 300 UNCLOS invocati dall’Italia. va, inoltre, rilevato come il Tribunale abbia superato il precedente della controversia, di cui si dirà più avanti, tra Panama e Italia circa la nave Norstar, nell’escludere la violazione degli artt. 87 e 92 della Convenzione, anch’essi invocati dall’Italia. Mentre in Norstar l’ITLOS ha rilevato una violazione della libertà di navigazione sulla base di tali disposizioni per la semplice adozione del decreto di sequestro che non aveva materialmente in alcun modo interferito sulla navigazione della Norstar, il Tribunale, nella questione Enrica Lexie, ha elevato la soglia per l’illiceità della condotta, indicando che possono violare la libertà di navigazione esclusivamente “acts including physical or material interference with navigation of a foreign vessel, the threat or use of force against a foreign vessel, or non-physical forms of interference whose effect is that of instilling fear in, or causing hindrance to, the exercise of the freedom of navigation” (par. 472). Il Tribunale ha tenuto conto che l’incidente ha intralciato in modo determinante la navigazione della imbarcazione indiana St. Antony, provocando la RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 morte di due cittadini indiani. Sulla base di ciò, il Tribunale ha invitato le Parti a negoziare un accordo risarcitorio, riservandosi il potere di determinare egli stesso il quantum nel caso di mancato accordo. va, inoltre, ricordato che l’Italia aveva già provveduto a effettuare un pagamento ex gratia alle famiglie delle vittime nell’aprile 2012, fatto che ha avuto conseguenze sul negoziato tra Italia e India circa il risarcimento da pagare. Si segnala che l’accertamento del giudice internazionale dell’obbligo di riparazione ha lasciato del tutto impregiudicato l’accertamento sul piano del diritto penale interno che compete, secondo la sentenza, esclusivamente alla magistratura italiana. Infatti, le valutazioni giuridiche internazionali costituiscono meri fatti per il giudice interno. La vicenda si è, poi, conclusa -com’è noto -anche innanzi alla Corte Suprema indiana che, preso atto dell’avvenuto risarcimento accettato dalle parti, il 15 giugno 2021, ha disposto l’annullamento di tutte le accuse a carico dei due fucilieri di marina, estinguendo il processo penale a loro carico. In sede nazionale, il GIP di Roma, Alfonso Sabelli, ha disposto l’archiviazione dell’indagine della Procura di Roma il 31 gennaio 2022. Un Avvocato dello Stato è stato nominato a dicembre 2015 Agente del Governo dal Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale nella controversia instaurata da Panama in protezione internazionale nei confronti dell’Italia, concernente il sequestro di una motonave avvenuto nel 1998, con conseguente richiesta di risarcimento dei pretesi danni subiti, Caso M/N Norstar v. Italy, innanzi all’ITLOS -Tribunale Internazionale del Diritto del Mare con sede ad Amburgo, alla quale si accennava supra. Con la sentenza, pronunciata il 10 aprile 2019, sebbene con un alto numero di opinioni dissenzienti (7), il Tribunale ha ritenuto il sequestro della motonave, una violazione dell’art. 87.1. della UNCLOS “libertà di navigazione”, ma non ha accolto gli altri due motivi di ricorso addotti dalla Repubblica di Panama, che agiva in protezione internazionale (violazione degli artt. 87.2 e 300, “rispetto degli interessi degli altri Stati” e “buona fede”) per inapplicabilità /irrilevanza nella controversia, condannando la Rep. Italiana al risarcimento del danno che ha stimato in 285.000 USD + interessi del 2,71% annuo a datare dal 25 settembre 1998 (data del sequestro) al 10 aprile 2019 (data della lettura della sentenza), che è solo una minima frazione del petitum avanzato (50 milioni di dollari). I fatti da cui ha avuto origine la controversia riguardavano un provvedimento di sequestro emesso nel 1998 dalla Procura della Repubblica di Savona nei confronti della Norstar battente bandiera norvegese, nel quadro di indagini legate a presunti reati fiscali collegati (bunkeraggio). Il sequestro era stato materialmente eseguito nel porto di Palma di Maiorca dalle autorità spagnole dietro richiesta del PM italiano nel quadro della cooperazione giudiziaria e si era protratto fino al 2003, quando il Tribunale di Savona aveva disposto la man TEMI ISTITUzIONALI leva dell’immobilizzazione della nave, decisione confermata dalla Corte d’Appello di Genova nel 2005. va rilevato che la questione aveva una indubbia connessione logica e giuridica con la vicenda dell’Enrica Lexie e, quindi, era davvero importante, anche sotto il profilo della strategia processuale da adottare nelle due controversie, l’unitarietà difensiva e la visione di insieme. La controversia è stata anche un esempio di sinergia istituzionale, sia per la grande qualità professionale del consulente tecnico di parte scelto con il fondamentale apporto del Comandante generale delle Capitanerie di Porto. La consulenza di parte, infatti, è stata determinante per l’esito della controversia, consentendo di limitare il titolo della responsabilità per la Repubblica italiana e, in modo macroscopico, la quantificazione del danno (285.000 dollari USA invece dei 50 milioni di dollari chiesti da parte attrice); fondamentale è stata, poi, la fattiva collaborazione con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Genova per poter recuperare i fascicoli della causa nazionale presso la Procura di Savona. Molto delicata per i possibili effetti susseguenti sul piano dei rapporti internazionali e della responsabilità dello Stato italiano e che ha sollevato un vivo dibattito nella dottrina, la sentenza depositata il 22 ottobre 2014, n. 238, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 legge 17 agosto 1957, n. 848, recante la “esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite firmato a San Francisco il 26 giugno 1945”, e dell’art. 3 della legge n. 14 gennaio 2013, n. 5, “Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni fatta a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento all'ordinamento interno”, con le quali l’Italia aveva dato esecuzione alla sentenza del 3 febbraio 2012 della Corte Internazionale di Giustizia -CIG, resa nel giudizio proposto dalla Repubblica Federale di Germania contro Repubblica italiana e conclusosi con la condanna dell’Italia per essere venuta meno ai suoi obblighi di rispettare l’immunità riconosciuta alla Germania dal diritto internazionale. In quel giudizio le funzioni di Co-Agente erano svolte da un Avvocato dello Stato. Chiaro esempio di interazione e interconnessione fra diritto internazionale e diritto interno. In particolari situazioni, aventi a oggetto cause risarcitorie azionate con riferimento a stragi compiute sul territorio italiano da militari dell’esercito nazista (1), in cui si è espressa la funzione istituzionale tipica propria, l’Avvocatura ha rappresentato l’insussistenza dei presupposti per un intervento ex art. 105 c.p.c., trattandosi di fattispecie di particolare gravità anche sotto il profilo (1) Tribunale di Isernia causa azionata dal Comune di Fornelli; Tribunale di Roma causa azionata dagli eredi delle vittime delle Fosse Ardeatine. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 umanitario, che toccano delicati profili di memoria storica collettiva ancora esistenti e fortemente radicati nella comune percezione e nel comune sentire; esprimendo così un giudizio tecnico coniugato a valutazioni di opportunità al fine di offrire al Governo italiano una complessiva valutazione della questione per orientare nel modo più completo e, perciò, nel modo migliore l’azione e la posizione nel giudizio della Repubblica italiana. Negli ultimi anni, a far data dal 2014, è sensibilmente aumentato l’impegno dell’Avvocatura dello Stato nell’ambito delle controversie di diritto internazionale, che si è affiancato, quindi, a quello ormai consolidato da tempo, innanzi alla Corte di Giustizia e al Tribunale dell’Unione europea. L’Avvocatura Generale dello Stato svolge un ruolo da protagonista nel- l’ambito della trattazione degli arbitrati internazionali azionati da investitori stranieri per la prima volta contro la Repubblica italiana innanzi all’ICSID - International Center of Settlement of Investiment Disputes di Washington e innanzi alla SSC -Arbitration Institute of the Stockholm Chamber of Commerce in tema di fotovoltaico e c.d. “spalma incentivi” e di ECT -Energy Charter Treaty. Sui dettagli si soffermeranno i miei Colleghi nella tavola rotonda a seguire. In questa sede formulo solo alcune considerazioni di carattere generale. L’Avvocatura Generale ha dovuto, pertanto, confrontarsi con una diversa e, soprattutto, nuova modalità di svolgimento della procedura, che si caratterizza per la redazione di atti difensivi, di scambio di corrispondenza, anche per posta elettronica, di conference-call, non solo in tempi più ristretti rispetto a quelli previsti dalle norme processuali di diritto interno, ma anche e soprattutto nell’utilizzo della lingua inglese come lingua del processo. va segnalato che con nota del 22 marzo scorso è stato comunicato, nel quadro dell’ampliata pubblicità informativa, ormai propria anche del Giudice eurounitario, che il Consiglio amministrativo dell’ICSID ha approvato la modifica del Regolamento con effetto dal 1° luglio 2022 in chiave di miglioramento e di accelerazione, di trasparenza, di riduzione dei costi, prevedendo un termine cogente per la pronuncia di sentenze e di ordinanze, allo scopo di facilitare l’accesso agli investitori stranieri e il ricorso alla mediazione. Si tratta di controversie che, oltre ad avere un rilevantissimo valore economico, sono anche suscettibili di incidere sull’immagine del Paese, quale mercato idoneo a offrire agli investitori stranieri un contesto giuridico ed economico caratterizzato da stabilità. In queste cause ci troviamo a competere con attrezzatissimi studi legali esteri specializzati in questo campo, sulla base di regole procedimentali complesse e, all’inizio, per noi inedite. Un compito importante, che siamo fieri di svolgere e nel quale, come ci è stato in più sedi riconosciuto, abbiamo dato buona prova, anche grazie alla capacità di adeguamento alla visione d’insieme. Ne sono dimostrazione i diversi incontri che, su questo tema, ci hanno ri TEMI ISTITUzIONALI chiesto le delegazioni di Stati esteri, che hanno individuato nell’Avvocatura dello Stato un modello per organizzare i loro sistemi di difesa negli analoghi giudizi arbitrali. Ancora più che in altre situazioni processuali, in questo tipo di controversie, ha assunto rilievo determinante la proficua collaborazione con le Amministrazioni interessate al fine di una puntuale e, quindi, più efficace, difesa e con i consulenti ed esperti del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, quale supporto indispensabile per la migliore trattazione delle controversie stesse; con la preziosa e costante collaborazione del Servizio Giuridico per gli Affari giuridici del Contenzioso diplomatico e dei Trattati del MAECI e degli esperti. Anche la procedura con la quale si svolgono gli arbitrati è di assoluta novità, basti pensare alla cross examination, e si delinea, di volta in volta, secondo le indicazioni specifiche del Collegio arbitrale competente a risolvere la singola controversia. Abbiamo, quindi, organizzato un seminario, il 12 aprile 2016, per prepararci all’udienza dibattimentale, ad oggetto “L’udienza di assunzione della prova negli arbitrati ICSID” (struttura e regole dell’Oral Process; la prova testimoniale nell’arbitrato internazionale; la preparazione dei testimoni; Direct, Cross e Re-Direct Examination del testimone). All’interno del nostro Istituto abbiamo costituito un pool di Avvocati specializzati per seguire tutte queste controversie che assicurano anche il necessario coordinamento con il diritto dell’Unione europea; come, quando all’esito della decisione della Corte di giustizia sul caso Achmea, C-284/16, abbiamo chiesto, nei giudizi ancora pendenti e non decisi innanzi all’ICSID e alla SCC, “an award declaring immediate termination”. Segnalo, come espressione degli stretti rapporti fra diritto internazionale e diritto eurounitario e, come effetto anche della globalizzazione e della internazionalizzazione dei rapporti economici e, quindi, in definitiva dello stesso diritto eurounitario, la sentenza Komstroy resa il 2 settembre 2021 nella causa C-741/19. Con dovizia di argomenti in essa si rivendica la competenza della CGUE ad interpretare la Carta dell’energia considerandola essa stessa un atto di diritto dell’Unione siccome sottoscritta anche dalla Commissione Europea. Si ribadiscono le conclusioni cui era pervenuta la Corte nel precedente Achmea del 6 marzo 2018 (all’epoca riguardante l’interpretazione di un BIT causa C-284/16) e l’attribuzione della giurisdizione alla Corte EU sulle controversie intracomunitarie. In quest’ottica, i Tribunali ICSID o SCC aditi per la tutela dei diritti derivanti dalla Carta dell’energia, non possono essere qualificati come organi giurisdizionali degli Stati membri con la conseguenza che le controversie tra soggetti intracomunitari devono essere delibate dagli organi giurisdizionali degli Stati membri sulla base dell’applicazione delle regole procedurali vigenti. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Proprio la natura dell’arbitrato previsto dal Trattato dell’energia ed i limiti al riesame del lodo da parte dei Giudici ordinari degli Stati membri, implicano il rischio che controversie in buona misura riferite a materie disciplinate dal diritto comunitario vengano sottratte al sindacato esclusivo della CGUE. La competenza dell’UE nella stipula degli accordi internazionali non può spingersi fino al punto di negare l’autonomia dell’Unione e del suo ordinamento giuridico. Proprio sul profilo del difetto di giurisdizione dei Collegi arbitrali abbiamo sollecitato e ottenuto -anche grazie al supporto diplomatico del MAECI -l’adesione di altri Stati membri coinvolti negli arbitrati e che hanno condiviso la nostra linea difensiva tesa a sostenere, appunto, il difetto di giurisdizione. Alla fine della settimana di udienza, svoltasi nella sede della World Bank a Parigi, l’ICSID ha organizzato (Thursday, June, 23, 2016), una “training session” con 150 Paesi membri dell’ICSID; in apertura il Segretario generale dell’ICSID ha evidenziato l’importanza di una difesa istituzionale degli Stati nei confronti degli investitori, perché assicura il valore aggiunto della visione complessiva, della continuità della linea difensiva, l’assenza di conflitti di interessi che alcuni studi hanno, difendendo sia gli Stati sia gli investitori, contribuendo a formare la giurisprudenza arbitrale, caratteristiche proprie dell’Avvocatura dello Stato. Desidero sottolineare che, d’altronde, l’Avvocatura dello Stato si è da tempo aperta agli scambi professionali con altre Istituzioni anche omologhe, come testimoniano, oltre ai Convegni internazionali ai quali partecipa l’Avvocato Generale dello Stato, accompagnato da una Delegazione di Avvocati dello Stato, l’incontro, avvenuto nel maggio 2014, con la delegazione degli Avvocati dello Stato del Kuwait e nel luglio 2014 con la delegazione dello Yemen del Nord; l’incontro, avvenuto nel settembre 2013, con la delegazione della Tunisia e l’incontro, avvenuto nel luglio 2013, con la delegazione del Tagikistan. Tutti i predetti incontri erano stati patrocinati dall’IDLO -International Development Law Organization, e hanno consentito di realizzare un proficuo scambio di vedute e di informazioni sui rispettivi sistemi di difesa dello Stato. Di recente è stata in visita all’Avvocatura Generale una delegazione di avvocati sudcoreani, particolarmente interessati non solo a uno scambio di esperienze professionali, ma anche a conoscere i dettagli degli arbitrati internazionali di investimento seguiti dall’Avvocatura dello Stato. Il 24 novembre 2021 è stato presentato all’Avvocatura Generale il primo testo “Introduzione al diritto giapponese” in materia, opera collettanea che affronta in modo chiaro i profili storici, giuridici e comparatistici. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato e dell’Avvocato dello Stato si va, quindi, ormai da tempo e sempre più ampliando nella prospettiva del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea; va ricordato, infatti, che, con TEMI ISTITUzIONALI Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 7 dicembre 2018, l’Avvocatura dello Stato è stata autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa della prestigiosa Banca Centrale Europea nei giudizi attivi e passivi innanzi le Autorità giudiziarie, i Collegi arbitrali e le Giurisdizioni amministrative e speciali sul territorio nazionale. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato e dell’Avvocato dello Stato si va sempre più ampliando anche sotto il profilo professionale della prestazione resa, che impone una preparazione più mirata alle nuove prospettive e che, quindi, non si soffermi alla sola visione di diritto interno. L’ampliamento porta con sé la necessità di ripensare ai meccanismi dei rapporti con le Amministrazioni in una chiave di lettura interdisciplinare e con una sempre crescente attenzione all’ottica dell’impatto sociale con la quale esaminare e valutare la questione giuridica. E ciò anche al fine di consentire di far confluire in un unico atto sia il profilo più squisitamente giuridico espresso dall’Avvocatura dello Stato, sia quello più essenzialmente politico. D’altronde, questa necessità di ridurre a unità ha come effetto quello di comporre in un quadro di riferimento condiviso le diverse sfaccettature delle singole questioni e le loro diverse angolazioni e i loro diversi profili in una complessiva visione di insieme, diretta alla migliore rappresentazione dell’interesse pubblico. Il valore aggiunto che ci dà questa proiezione internazionale credo sia anche quello -come ho già detto nel mio discorso di insediamento il 22 novembre 2019 -di avere l’occasione di formare, sin dal loro ingresso nell’Istituto, un corpo di giuristi versati nel diritto dell’Unione europea e nel settore della tutela internazionale dei diritti fondamentali, che contribuisce alla diffusione della conoscenza di tali materie a livello nazionale, attraverso la propria attività quotidiana nelle aule di giustizia e nelle altre sedi istituzionali dove Avvocati e Procuratori dello Stato prestano la loro opera. va ricordato che la Corte Penale Internazionale (CPI) sta indagando sui crimini commessi durante la guerra in Ucraina; il suo Procuratore Generale, il britannico Karim Khan, si è recato a Kiev per coordinare il lavoro di raccolta delle testimonianze e degli elementi di prova. «Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro la popolazione civile, o contro strutture civili compresi gli ospedali -ha detto Khan -questi sono crimini che la CPI può indagare e perseguire». L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha verificato che nelle prime tre settimane di invasione in Ucraina ci sono stati 43 attacchi contro strutture sanitarie. I crimini di guerra (come quelli più ampi dei crimini contro l’umanità: sterminio, torture, stupri, deportazioni) sono definiti in base alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e, più di recente, allo Statuto di Roma, che nel 1998 ha istituito la Corte Penale Internazionale. In data 2 marzo 2022, prima 39 Paesi, poi divenuti 41, con l’adesione RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 della Svezia e della Bulgaria, hanno presentato un Referral in base all’art. 14 dello Statuto di Roma affinché il Procuratore indaghi sui crimini di guerra e contro l’umanità e genocidio compiuti nel territorio dell’Ucraina. Proprio oggi 31 marzo 2022 si insedia la Commissione istituita dal Ministro della Giustizia e presieduta dal Prof. Francesco Palazzo, emerito di diritto penale presso l’Università di Firenze e dal Prof. Fausto Pocar, per 17 anni Presidente della Corte per i reati commessi nell’ex Jugoslavia, emerito di diritto internazionale presso l’Università di Milano, per redigere -come previsto dallo Statuto di Roma e dopo ben 24 anni -il codice sui crimini di guerra internazionali. 5. La difesa del Governo italiano innanzi alla CEDU. Frequente è stata, poi, la partecipazione dell’Avvocatura Generale dello Stato a fianco dell’Agente del Governo innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo -CEDU a sostegno delle tesi difensive svolte nell’interesse dello Stato italiano, come nel giudizio innanzi alla Grand Chambre della CEDU, in tema di maternità surrogata, conclusosi con la sentenza del 25 gennaio 2017, che ha affermato che il Governo italiano non ha violato alcuna norma della Convenzione EDU nel caso posto all’esame della Corte (caso Paradiso -Campanelli); e nel caso del crocifisso esposto nelle aule scolastiche, risolto dalla CEDU, Grande Camera, con la sentenza 18 marzo 2011, con la quale è stato statuito che non contrasta con il diritto dei genitori all’istruzione dei figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche l’obbligo di affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, in quanto, a dispetto della sua connotazione religiosa, il crocifisso rappresenta un “simbolo passivo”, inidoneo di per sé a configurare una forma di “indottrinamento” degli allievi. Si possono delineare due fasi temporali distinte: in una prima fase, la difesa dell’Avvocatura dello Stato è stata facoltativa, circoscritta solo a grandi questioni di rilievo; in una seconda, il ruolo di difesa del Governo italiano è stato istituzionalizzato, anche per effetto degli ottimi risultati conseguiti innanzi alla Corte di giustizia e al Tribunale Ue. Tanto che l’art. 15, rubricato “Disposizioni in materia di giustizia”, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, contenente le “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito con modificazioni con la legge 1 dicembre 2018, n. 132, ha previsto che “le funzioni di agente del Governo a difesa dello Stato italiano dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo sono svolte dall'Avvocato generale dello Stato, che può delegare un avvocato dello Stato”. La norma è modellata sul meccanismo della difesa in giudizio del Presi TEMI ISTITUzIONALI dente del Consiglio dei Ministri innanzi alla Corte Costituzionale, come espressione della sintesi della valutazione politica del Governo e della difesa tecnica da parte dell’Avvocatura dello Stato. Alla base l’esigenza di sistematizzazione nel patrocinio dello Stato italiano dinanzi alle Corti sovranazionali e l’integrazione dell’attività difensiva ivi svolta con l’esercizio defensionale ordinario al cospetto delle giurisdizioni interne, in specie superiori, sulle stesse materie, e l’opportunità di una simmetria con le modalità della difesa innanzi al Giudice eurounitario ancora una volta in chiave di unitarietà e visione di insieme che solo l’Avvocatura dello Stato può assicurare. Il Regolamento della CEDU, all’art. 35, prevede che gli Stati membri della Convenzione siano rappresentati da agenti, che possono farsi assistere da avvocati o consulenti. I compiti che l’Agente è chiamato ad assolvere sono, innanzitutto, connessi alla rappresentanza e difesa del Governo italiano davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle questioni in cui è chiamato in giudizio lo Stato italiano. Talvolta, l’interesse indiretto dello Stato italiano può richiedere la predisposizione di interventi da svolgersi in procedimenti rivolti contro Stati diversi dall’Italia, quando -per le questioni trattate -possano derivarne riflessi significativi sul diritto italiano, nonché quando si presentino problematiche importanti nelle relazioni interstatali. va rilevato che lo schema concettuale non differisce nella sostanza da quello seguito per le cause innanzi alla CGUE. Rientra nell’esercizio di queste funzioni anche l’individuazione dei casi in cui, alla luce della giurisprudenza consolidata della Corte, pare opportuno o finanche necessitato (in ipotesi in cui, fermi i precedenti sfavorevoli, sussista un rischio elevatissimo di condanna) pervenire a una soluzione amichevole o unilaterale del caso. La citata norma del 2018 giunge a individuare -ancora una volta -nel- l’Avvocatura dello Stato il punto centrale e di riferimento, la figura e, soprattutto, l’apparato amministrativo preposto a questa delicata attività di difesa. In questo modo, la gestione del contenzioso italiano davanti alla Corte di Strasburgo trova supporto all’interno della più qualificata e organizzata istituzione pubblica di assistenza legale. Con il prospettarsi di margini per un confronto sempre più anticipato con il diritto convenzionale, si rafforza sempre di più l’esigenza di consentire al- l’Amministrazione statale coinvolta di avvalersi in maniera ancora più intensa, anche immediata e/o preventiva, dell’apporto consultivo dell’Avvocatura dello Stato per quanto attiene al profilo di prevenzione e del loro patrocinio per la gestione del contenzioso e, dunque, della condotta difensiva in giudizio. In questi termini il ruolo di Agente del Governo assegnato all’Avvocato Generale dello Stato si raccorda, peraltro, all’attività consultiva già svolta in tema di regolamentazione amichevole dinanzi alla Corte: la decisione, al ri RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 guardo, è di competenza della Presidenza del Consiglio dei ministri, sentite le Amministrazioni coinvolte e, una volta determinatasi per una proposta di regolamento amichevole, di norma, richiede preventivamente un parere all’Avvocatura Generale dello Stato (la facoltà di richiedere detto parere è prevista dall’art. 1, comma 5, DPCM 1 febbraio 2007). Da ultimo, l’art. 1, comma 172, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 ha previsto che, al fine di supportare l’Agente del Governo a difesa dello Stato italiano dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, possono essere nominati esperti, nel numero massimo di otto, individuati tra magistrati ordinari, amministrativi e contabili, professori universitari, ricercatori a tempo determinato, assegnisti di ricerca, dottori di ricerca e dirigenti dell’amministrazione dello Stato. L’attività dell’Agente del Governo può giovarsi, pertanto, delle esperienze professionali di queste figure istituzionali che ricoprono ruoli di rilievo e di prestigio in un’ottica interdisciplinare a tutto vantaggio della tutela dell’interesse pubblico nazionale innanzi alla CEDU. Una norma da me fortemente voluta e sostenuta proprio per questo. Come ha dato prova la giurisprudenza dei giudici di Strasburgo -e come già suggeriva la tradizione costituzionale interna -sarebbe oggi fuorviante pretendere di rappresentare l’insieme dei principi fondamentali come un catalogo tassativo, capace di cristallizzare un numero determinato di fattispecie giuridiche. Si tratta, piuttosto, di un elenco aperto, dove la precisa collocazione del diritto è spesso affidata alla responsabilità dell’interprete. Nondimeno, il fenomeno di necessitata interazione tra i diversi diritti, vecchi e nuovi, entro una società pluralistica, impone un loro contemperamento e, dunque, una loro reciproca limitazione, spesso anche in seno ad un corretto esercizio del potere pubblico. Da questa circostanza nasce la necessità di qualificare alcuni diritti come fondamentali, cioè, di collocare alcune situazioni in una posizione più alta nella gerarchia dei valori riconosciuti e tutelati dall’ordinamento, e tra questi alcuni come diritti inviolabili. Anche nella cornice della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, lo sforzo di inventariare un catalogo di diritti assurti al sommo rango potrebbe essere messo in crisi dal difetto di corrispondenza tra la nozione di diritti umani e quella, ormai storicizzata, di diritti costituzionali meritevoli di tutela in quanto fondamentali, ovvero, addirittura, in quanto inviolabili. Come è noto, tra le più significative novità introdotte per mezzo del Protocollo n. 15, la cui entrata in vigore è subordinata alla ratifica della totalità dei membri del Consiglio d’Europa, vi è senz’altro quella di inserire nel preambolo della Convenzione il richiamo al principio di sussidiarietà quale regola di precedenza e alla teoria del margine di apprezzamento, progressivamente emersa nella giurisprudenza di Strasburgo, come parametro limite dell’intervento e, dunque, di salvaguardia delle specificità di cui solo i Parlamenti na TEMI ISTITUzIONALI zionali possono essere promotori. Entrambi costituiscono espressione del più generale principio di prossimità che governa funzionalmente i sistemi multi- livello. Incamerarli dentro la Convenzione ha lo scopo di garantire una più puntuale definizione dello spazio giudiziale riconosciuto alla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione ai margini di enforcement dei diritti, che tuttora sono riservati alle giurisdizioni interne dei Paesi membri. L’operatività del criterio del “margine di apprezzamento” ricorre nella giurisprudenza relativa a talune importanti disposizioni della Convenzione, quali quelle relative ai diritti di libertà e di sicurezza personale (art. 5), al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9), di espressione (art. 10), di riunione e di associazione (art. 11), al principio di non discriminazione (art. 14), al diritto di proprietà (art. 1, prot. 1). Peraltro, oltre che, nel lavoro degli organi giurisdizionali interni, anche la Pubblica Amministrazione è chiamata, in prima battuta, a operare il bilanciamento tra i vari diritti attraverso la costante ricerca e la difesa dell’interesse pubblico quale crocevia e sintesi dei diversi interessi particolari. Di tale insopprimibile esigenza di contemperamento dei diritti umani non può non tenersi in debito conto, in specie nelle materie -come quella tratteggiata dall’art. 1, prot. 1 -in cui la ricerca di un «giusto equilibrio» è predicata dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nell’interpretazione del testo convenzionale. In questo ambito, il funzionamento di tale complesso meccanismo può beneficiare del contributo dell’Avvocatura dello Stato, quale esclusivo organo consultivo delle Amministrazioni statali chiamate al difficile compito di bilanciamento dei diritti e degli interessi, loro organo difensivo nel contenzioso nazionale e, infine, organo difensivo sovranazionale dinanzi alla Corte di Strasburgo. Il circolo virtuoso che ne può derivare vede, da un lato, l’Avvocatura dello Stato difendere e illustrare dinanzi alla Corte di Strasburgo le ragioni delle scelte e del funzionamento dell’ordinamento nazionale; dal- l’altro, intervenire presso gli organi nazionali al fine di proporre correttivi utili a scongiurare il prodursi di criticità anche sistematiche nella tutela dei diritti umani, tali oltre tutto da esporre lo Stato a un numero imprecisato di ricorsi e soccombenze. Nel contenzioso nazionale la presenza in giudizio dell’Avvocatura dello Stato può rappresentare un mezzo per sensibilizzare il giudice domestico a una interpretazione convenzionalmente orientata, onde scongiurare, come detto, il formarsi di contenziosi (anche) seriali a Strasburgo. L’ambito giurisdizionale costituisce, dunque, la dimensione privilegiata della tutela dei diritti umani, nella variegatura dei casi di specie offerti da una realtà sociale complessa e in continua evoluzione. Di qui il primato della regola concreta, da ricostruirsi sempre più nel dialogo tra i diversi livelli dell’esperienza giudiziale. Sotto questo profilo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani si caratterizza per una dimensione casistica, che ordinariamente si affida ad un RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 sistema di precedenti, sui quali vanno stratificandosi i principi utilizzati e applicati dalla Corte al caso concreto. Il sistema multilivello, benché imperniato sul primato della tutela come criterio di sintesi nella compresenza di fonti e giudici nazionali e sovranazionali, sembra insuscettibile di essere ricondotto ad una unità secondo il senso tradizionale. In un ordinamento così disarticolato e frammentato, dove pure si voglia garantire il primario valore della certezza del diritto, una funzione decisiva è svolta dal dialogo tra le Corti coinvolte secondo la rispettiva competenza. Esso va inteso come momento di confronto e di reciproco arricchimento, che matura anche al di fuori delle occasioni di scambio assicurate dalle regole procedurali. Il sorgere di una rete di soluzioni appare imprescindibile affinché la soluzione individuata come ottimale tenga conto anche dei profili sovranazionali ed internazionali, cosicché la tutela si riveli il più possibile uniforme e integrata. In questo senso, non si può ignorare il monito di chi riconduce concettualmente il c.d. dialogo tra le Corti a una visione d’insieme del sistema, che non trascuri la prospettiva della effettiva tutela dei diritti fondamentali, ma nemmeno si arresti al dogma della sua massimizzazione, salvaguardando il valore guida della certezza del diritto. Per agevolare i giudici nell’esercizio di questo importante ruolo collaborativo, sembra fondamentale l’apporto di un interlocutore comune nelle diverse sedi contenziose, quale l’Avvocatura dello Stato, punto di raccordo già in base ai propri compiti istituzionali più risalenti e, a fortiori, da quando ha anche il patrocinio assolto nella difesa dello Stato italiano davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea e davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per il suo tramite, il dialogo tra le Corti, la cui importanza è ormai costantemente sottolineata anche dalla nostra Corte costituzionale, può essere reso più efficace e può essere favorito lo sviluppo di una cultura giuridica comune ai diversi ordinamenti e livelli, che tenga conto delle insopprimibili differenze che giustificano un trattamento differenziato, ma amplifichi gli aspetti di identità o similitudine. L’attività difensiva compiuta ai diversi piani della giurisdizione assicura continuità e formalità nella trasmissione del materiale giurisprudenziale e, ancor più, delle sensibilità sottese alle posizioni assunte dal legislatore ovvero dall’Amministrazione competente. La base della partecipazione a questo dialogo asimmetrico, in cui l’Avvocatura dello Stato finisce per essere il minimo comune denominatore, sembra garantita -ancora -da una interpretazione in chiave ampia e sostanziale del principio di sussidiarietà. Se, come detto, la dinamica prevalente corre verso un pragmatismo giurisdizionale, la funzione che deve essere riconosciuta all’Avvocatura dello Stato non può che essere quella di “cinghia di trasmissione” nel circuito dei comuni principi e beni giuridici meritevoli di tutela, contemperando -nella mediazione dell’interesse pubblico -le esigenze di garanzia dell’individuo con l’irrinunciabile esigenza TEMI ISTITUzIONALI di coerenza interna al sistema tecnico, sulle cui forme giuridiche poggia l’affidamento dei cittadini nelle regole. Sembra voler rafforzare questo modello di dialogo, piuttosto che scardinarlo, la novità assoluta introdotta dallo strumento processuale congegnato nel Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione europea: il rinvio pregiudiziale facoltativo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, avente per oggetto la richiesta -da parte delle «più alte giurisdizioni» individuate in concreto da ciascuno Stato -di un parere consultivo (cioè formalmente privo di un valore vincolante) riguardante questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione della normativa della Convenzione. La riforma mira proprio a rafforzare il ruolo attivo delle giurisdizioni nazionali, attraverso un meccanismo che coinvolge in via preventiva e immediata l’organo giurisdizionale della Convenzione, ma tradisce, altresì, tutto sommato una funzione di autoconservazione del sistema convenzionale nella misura in cui si assicuri lo scopo ultimo di garantire una maggiore sostenibilità del meccanismo giurisdizionale. Le brevi riflessioni che sono state sin qui operate hanno permesso di tratteggiare, cogliendone, nonostante la necessaria sinteticità, gli elementi caratterizzanti, l’articolato funzionamento della difesa del Governo italiano di fronte la Corte di Giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Di certo, entrambe le Corti hanno assunto una sempre maggiore importanza all’interno del nostro ordinamento, soprattutto perché partecipano sia direttamente che in via mediata, alla regolazione di ampi settori della vita dei cittadini, ivi inclusi i diritti fondamentali. Inoltre, il sistema UE e quello CEDU, benché separati ed autonomi, mostrano sempre maggiori spazi di interdipendenza e interconnessione: basti pensare alla circostanza che sempre più spesso le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE dai Giudici nazionali degli Stati membri individuano come parametri di riferimento norme della Convenzione EDU e che la CGUE non si sottrae al compito di considerarli utili e di valutarli ai fini della pronuncia adottata. Tali spazi di interconnessione suggeriscono, quindi, anche un necessario rilancio della discussione sulle possibili modalità di “compartecipazione” fra i due sistemi. Non si intende approfondire qui una questione estremamente complessa come quella dell’adesione dell’UE alla CEDU, ma si vuole soprattutto sottolineare che permane -e forse si rafforza anche -una costante necessità di rafforzare il dialogo fra le Corti, compreso quello fra CGUE e CEDU. D’altronde, ben prima della previsione dell’adesione, i costanti richiami incrociati fra le due Corti hanno permesso di avviare il meritorio tentativo di uniformare la tutela multilivello dei diritti fondamentali. Da un punto di vista strettamente interno, l’avere concentrato le difese del Governo italiano presso l’Avvocatura dello Stato e previsto forme di co RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 ordinamento a “geometria variabile” ha fatto sì che nascesse un nuovo approccio al contenzioso europeo e internazionale, che ha condotto a esiti pienamente positivi e che inducono a ritenere sussistente la necessità di rafforzare i vari elementi di tale “modello” che potrebbe diventare ancora di più un’esperienza di riferimento anche all’estero. In tale contesto, non può rinunciarsi alla continua necessità di adeguamento ai cambiamenti, a volte veri e propri stravolgimenti, che le odierne sfide globali impongono agli Stati, sia internamente che nel panorama delle relazioni internazionali. Non a caso, il paradigma classico del processo è in forte evoluzione e si discosta sensibilmente da alcuni capisaldi che vengono, invece, man mano erosi. Si pensi, ad esempio, all’informatizzazione dei processi di lavoro, allo sviluppo del processo telematico, oppure alla possibilità che, oltre alla dematerializzazione, la presenza fisica possa essere sostituita da partecipazioni informatiche da remoto: elementi già ben utilizzati dalla CGUE, dal 2012, anno in cui è stato dato avvio all’utilizzo del sistema informatico e-Curia. 6. Il contenzioso innanzi alla Corte di giustizia e al Tribunale dell’Unione europea. va ricordato che l’art. 42, comma 3, della legge 24 dicembre 2012, n. 234 prevede che “Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari europei e il Ministro degli affari esteri nominano, quale agente del Governo italiano previsto dall'articolo 19 (2) dello Statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea, un avvocato dello Stato, sentito l'Avvocato generale dello Stato”. Le difese del Governo della Repubblica italiana innanzi alla Corte di Giustizia, al Tribunale dell’Unione europea e, più di rado, innanzi al Tribunale della funzione pubblica, sono state sempre svolte dall’Avvocatura dello Stato. L’art. 42 citato ha, dunque, codificato una prassi che si era affermata negli ultimi anni con la nomina di un Avvocato dello Stato quale Capo del Contenzioso Diplomatico e Agente del Governo e, poi, dopo la riforma del Ministero degli Affari Esteri del 2007, come Agente del Governo, il cui ufficio di supporto è posto all’interno del Servizio per gli Affari giuridici del Contenzioso diplomatico e dei Trattati del Ministero degli Affari Esteri, attualmente Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale. L’Agente del Governo (va precisato che, a differenza di quanto accade per la CEDU, non sono previsti né Co-Agenti, né la possibilità di delega) ha la rappresentanza processuale della Repubblica italiana davanti al plesso giudiziario dell’Unione europea e, pertanto, assicura il coordinamento delle difese istituzionalmente svolte dall’Avvocatura Generale dello Stato e l’unitarietà (2) Tutti gli Stati membri e le Istituzioni sono rappresentati davanti alla Corte di Giustizia da un agente nominato per ciascuna causa; l’agente può essere assistito da un consulente o da un avvocato abilitato al patrocinio dinnanzi a un organo giurisdizionale di uno Stato membro. TEMI ISTITUzIONALI della difesa anche con riferimento al riparto di competenze fra Stato Regioni e Enti locali. Costante e intenso, quindi, il nostro impegno quotidiano nell’attuale sistema giuridico multilivello: l’ampiezza e l’importanza delle materie di competenza dell’Unione europea, sempre maggiori soprattutto dopo il Trattato di Lisbona, il progressivo aumento dello spettro dei diritti riconosciuti dalla Corte EDU e la complessità delle questioni oggetto degli arbitrati internazionali hanno richiesto una forte specializzazione e una visione dell’attività dell’Istituto che vada oltre le sue tradizionali caratteristiche. Ma ciò costituisce anche il nostro punto di forza. Il patrocinio dinnanzi alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali consente all’Avvocatura dello Stato di essere testimone privilegiato di quel dialogo tra le Alte Corti che costituisce strumento fondamentale affinché l’integrazione tra l’ordinamento interno e quelli sovranazionali avvenga senza pregiudizio per le nostre tradizioni costituzionali e per i principi supremi che ne sono alla base. È un dialogo al quale anche l’Avvocatura dello Stato contribuisce nel- l’ottica di assicurare l’interesse pubblico generale e non solo quello della parte coinvolta nel giudizio. Basti ricordare, per limitarsi ai procedimenti già conclusi, il caso c.d. Taricco-bis, nel quale l’Avvocatura dello Stato ha difeso le ragioni del Governo dinnanzi alla Corte costituzionale e, poi, della Repubblica italiana dinnanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. In nessun luogo al di fuori dell’Avvocatura dello Stato è possibile avere quella visione d’insieme delle questioni giuridiche che caratterizzano un determinano momento storico: la presenza costante davanti al giudice ordinario, contabile e amministrativo, davanti alla Corte costituzionale e alle Corti sovranazionali, consente all’Avvocatura dello Stato di affrontare le tematiche su cui i Giudici sono chiamati a pronunciarsi in ogni sua sfaccettatura, garantendo l’indispensabile coerenza delle posizioni sostenute e la comprensione delle ricadute di quelle posizioni in ogni ambito. Ciò fa dell’Avvocatura anche un’essenziale palestra di formazione di giovani leve di giuristi, in grado di affrontare con profitto tutti i settori della professione forense e di ben meritare in ogni sede. Negli ultimi anni si è radicata un’ulteriore competenza per l’Agente fondamentale per una rappresentazione ancora una volta unitaria dell’interesse del Governo italiano. Assolve, infatti, d’intesa con il Dipartimento per le politiche europee, anche il compito di indire le riunioni di coordinamento con le Amministrazioni centrali e locali di volta in volta interessate e presiede le riunioni finalizzate alla proposizione degli interventi e dei ricorsi innanzi alla Corte di giustizia ex art. 42, comma 2, della legge n. 234/2012 citata, alle quali partecipano in veste di relatori gli Avvocati dello Stato assegnatari delle singole cause e le Amministrazioni interessate per competenza e materia. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Le riunioni si susseguono ininterrotte dall’agosto 2015 e sono diventate un importante ausilio per elaborare sia una visione unitaria sulla valutazione di opportunità di presentare osservazioni o spiegare intervento in giudizio (diretto) a sostegno di una delle parti in causa, sia nella fase contenziosa dei ricorsi diretti. L’Agente del Governo svolge un ruolo molto importante perché realizza un momento di sintesi, da un lato, tra le diverse posizioni e valutazioni espresse dalle singole Amministrazioni competenti e interessate e, dall’altro, con il profilo politico strettamente inteso. Una modalità operativa concreta che non si inquadra in una organizzazione burocratica, ma assume caratteristiche di duttilità per adattarsi e risolvere singole situazioni; nell’ambito di un regime di competenze non rigidamente delineate, ma concretamente operative e finalizzate alla migliore espressione dell’interesse pubblico, della collettività. Il riconoscimento del ruolo dell’Agente, espressamente codificato nell’art. 42 della legge n. 234/2012, in particolare al comma 1, citato, nell’ottica del sempre maggiore coinvolgimento anche nelle procedure precontenziose EU Pilot e nelle procedure di infrazione, affiancando all’Agente l’Avvocato assegnatario del fascicolo in Avvocatura (come nel caso della Xylella fastidiosa). Dal 16 aprile 2012, dopo il primo periodo di sperimentazione effettuata nel mese di ottobre 2011, è diventato operativo anche per l’Italia il processo telematico con il sistema e-Curia. L’introduzione del processo telematico ha rivoluzionato il modo di lavorare come tradizionalmente inteso, semplificando non solo le procedure di trasmissione delle comunicazioni della Cancelleria, di cui l’Ufficio dell’Agente costituisce il “back office”, ma anche delle procedure di trasmissione degli atti difensivi, rendendo l’Ufficio del- l’Agente totalmente “paperless”, attuando, quindi, la totale dematerializzazione e realizzando pure un risparmio di spesa, stimato intorno ai 250.000/300.000 euro annui. va sottolineato che il nuovo sistema telematico della Corte costituzionale da poco entrato in funzione è ispirato a questo modello e non a caso si chiama e-Cost, pur essendo espressamente assimilato al processo amministrativo telematico, le cui regole si applicano in assenza di regole specifiche proprie e con un rinvio generale esterno. La partecipazione alle riunioni periodiche con gli Agenti di Governo degli altri Stati membri della UE, con i quali l’Agente e il suo ufficio condividono una rete di rapporti istituzionali, attraverso lo scambio di e-mail sulle questioni più rilevanti consente di coordinare le azioni dei Governi nazionali nelle cause d’interesse comune e di suggerire opportuni correttivi alle norme procedurali vigenti. L’Agente del Governo italiano svolge le proprie funzioni innanzi al Tribunale dell’Unione europea, la cui istituzione è stata decisa nel 1988 dal Con TEMI ISTITUzIONALI siglio delle Comunità europee, su richiesta della Corte di giustizia. Esso è entrato in funzione il 31 ottobre 1989. Fino a tale data, l’unico processo comunitario esistente era quello di fronte la Corte di giustizia. Le principali ragioni che hanno portato all’istituzione del Tribunale del- l’UE sono, da un lato, la necessità di alleviare l’onere di lavoro della Corte di giustizia e, dall’altro, l’intenzione di garantire una migliore tutela giurisdizionale all’interno del sistema comunitario, prevedendo un doppio grado di giudizio per talune controversie innestato dal basso. Come avvenuto per i Tribunali Amministrativi Regionali italiani, come ricordato l’anno scorso in occasione del 50° anniversario della loro istituzione con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034. Il Tribunale, oltre alle competenze relative ai ricorsi per annullamento indicate nel paragrafo precedente, ha giurisdizione su: (a) i ricorsi diretti a ottenere il risarcimento per responsabilità extracontrattuale dei danni causati dalle istituzioni comunitarie o dai loro dipendenti; (b) i ricorsi fondati su contratti stipulati dalle Comunità, che prevedono espressamente la competenza del Tribunale; (c) i ricorsi in materia di marchio comunitario; (d) le impugnazioni proposte contro le sentenze di primo grado dei tribunali specializzati (ad oggi l’unico esistente è il Tribunale della Funzione Pubblica), in questo caso opera quale giudice di secondo grado. Il par. 3, dell’art. 256 TFUE dispone: «il Tribunale è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte ai sensi dell’art. 267, in materie specifiche determinate dallo Statuto». Le competenze del Tribunale sono andate ampliandosi nel corso degli anni. Sin dall’istituzione era previsto che il rito del Tribunale non dovesse discostarsi molto da quello della Corte. Nel preambolo della decisione istitutiva del nuovo organo si legge: «è auspicabile che le norme da applicare al procedimento dinanzi al Tribunale non divergano più del necessario dalle norme che disciplinano il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia». In effetti, nella procedura del Tribunale dell’Ue, risultano essere vigenti le stesse norme generali valide per la Corte: fase scritta, fase orale, istruttoria, deliberazione delle sentenze/ordinanze, intervento dei terzi e via dicendo. Si è voluto, dunque, creare e mantenere un quadro di unitarietà del diritto processuale del- l’Unione europea. I due riti sono disciplinati dalle medesime norme statutarie, originariamente previste per la sola Corte e poi estese al Tribunale. I regolamenti dei due organi spesso prevedono delle disposizioni del tutto identiche o con lievi differenze legate alla natura dell’organo. I giudizi pregiudiziali rappresentano la competenza più importante della Corte di Giustizia in materia non contenziosa ed incidentale e per questo costituiscono l’attività più rilevante anche in termini numerici per l’Ufficio dell’Agente. Attraverso tale procedura, menzionata dall’art. 19, par. 3, lett. b, TUE e di RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 sciplinata dall’art. 267 TFUE, il giudice nazionale, qualora ravvisi la necessaria antecedenza logico-giuridica della “soluzione europea” rispetto alla controversia nazionale, ha la facoltà o l’obbligo (laddove sia un giudice di ultima istanza, salvo quando l’interpretazione della norma comunitaria sia chiara e non presenti alcun ragionevole dubbio) di deferire alla Corte di Giustizia le questioni riguardanti l’interpretazione del diritto dell’Unione europea e -più di rado -l’accertamento della validità di un atto delle istituzioni europee. Dunque, il rinvio pregiudiziale può essere effettuato esclusivamente da un organo giurisdizionale (d’ufficio o su istanza delle parti) su questioni che scaturiscano da controversie reali e non fittizie. Le parti del procedimento nazionale non posso adire direttamente la Corte di Lussemburgo, ma prendono parte (anche attiva) al processo. La pendenza del procedimento pregiudiziale comporta la sospensione del processo nazionale, di cui costituisce una parentesi e, quindi, un incidente. L’art. 267 TFUE costituisce un ricorso di primaria importanza per il cittadino ed un mezzo fondamentale di creazione del diritto, perciò, il cancelliere della Corte provvede a notificare tutte le decisioni dei giudici nazionali nella versione originale o tradotta (salva la possibilità di comunicare un semplice sunto) alle parti in causa, agli Stati membri e ad altre istituzioni europee (in ogni caso alla Commissione europea). La notifica del cancelliere ha l’effetto di informare della pendenza del procedimento e, solo per le parti del processo nazionale, dell’apertura della fase incidentale. Il Parlamento Europeo, già nel documento di lavoro sulla diciassettesima relazione annuale sul controllo dell'applicazione del diritto comunitario del 22 gennaio 2001, aveva affermato che: “La differenza nel numero di domande di pronuncia pregiudiziale rivolte da ciascuno Stato membro induce a riflettere sul fatto che in alcuni Stati i giudici e gli avvocati non sono sufficientemente edotti in materia di diritto comunitario. Secondo un'altra teoria il diritto degli Stati membri di cui fanno parte le giurisdizioni nazionali che non rivolgono domande di pronuncia pregiudiziale è assai vicino al diritto comunitario, per cui le direttive vengono facilmente recepite. Siffatta spiegazione è forse corretta, ma va sottolineato che solo gli Stati membri che hanno un'alta percentuale di trasposizione possono utilizzare tale argomento. Il contrario sarebbe assai contraddittorio”. L’Italia si pone molto al di sopra della media degli altri Stati membri, segno che i Giudici italiani guardano con attenzione al diritto dell’Unione e prima di applicarlo, nei casi di dubbi interpretativi, preferiscono rivolgersi alla Corte di giustizia. Un punto va esaminato con attenzione e riguarda il significato da attribuire alla presenza di uno Stato membro nelle procedure pregiudiziali di interpretazione. va ricordato che, entro due mesi dalla notifica del rinvio pregiudiziale, a cui vanno aggiunti 10 giorni (termine processuale per la distanza ex art. 51 TEMI ISTITUzIONALI del Regolamento di procedura della CGUE), l’Agente del Governo provvede a consultare le Amministrazioni dello Stato che hanno competenza nelle materie sollevate davanti alla Corte e, di concerto con l’Avvocatura Generale dello Stato, all’esito delle riunioni di coordinamento indette ex art. 42, comma 1, citato, decide se depositare osservazioni scritte; se optare per un probabile intervento orale, con il rischio, però, di vedere preclusa una reale partecipazione alla fase orale, qualora la Corte decidesse di ometterla (ex art. 44-bis del Regolamento di procedura); ovvero se non intervenire, perché, ad esempio, la questione non ha alcuna rilevanza nel diritto interno o non è segnalata la pendenza di un contenzioso nazionale analogo, sul quale la pronuncia della Corte possa avere influenza. Gli Stati membri spesso intervengono in procedimenti che non li riguardano direttamente, per l’estrema importanza che le sentenze della Corte ex art. 267 TFUE assumono sia sull’evoluzione del diritto dell’Unione europea, sia sul modo di interpretare il diritto dell’Unione europea cui ogni Stato membro è interessato; sia, soprattutto, sulle questioni di maggiore interesse politico. Una regola non scritta di “fair play” istituzionale impone di non presentare osservazioni al solo scopo di sottolineare o eccepire la non conformità della normativa di un altro Stato membro al diritto eurounitario. Dalle statistiche, redatte con cadenza trimestrale dall’Ufficio dell’Agente e inoltrate al Dipartimento per le Politiche europee, risulta che il maggior numero dei rinvii pregiudiziali notificati all’Agente del Governo italiano verte soprattutto sulla fiscalità; le altre materie più ricorrenti riguardano il lavoro e la politica sociale, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi. Nella scansione procedimentale emergono gli aspetti più significativi e specifici della difesa svolta e dell’attività di sintesi e di coordinamento tra la visione giuridica e la visione politica, quest’ultima intesa nella più nobile accezione di tutela dell’interesse pubblico. Le parti non hanno la possibilità di replicare per iscritto alle rispettive osservazioni e per questo motivo la discussione orale rappresenta il momento in cui è possibile confutare le argomentazioni non collimanti o che possono indirizzare in modo non condivisibile la pronuncia della Corte. Tuttavia, il regolamento di procedura della Corte prevede la possibilità per la stessa, sentito l’Avvocato generale, di omettere la fase orale, se nessuna delle parti presenta una domanda (entro tre settimane dalla notifica della chiusura della fase scritta del procedimento) che indichi i motivi per i quali desidera essere sentita. La Corte è divenuta sempre più rigorosa nel richiedere una motivazione non di mero stile, ma assolutamente appropriata e nel considerare assolutamente discrezionale il suo potere di accoglierla o meno. La dequotazione della fase orale da parte della Corte di Giustizia si pone nell’ambito di un irreversibile processo di trasformazione della procedura in prevalentemente scritta e solo eventualmente orale. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Durante il periodo più difficile dell’emergenza epidemiologica tale de- quotazione ha consentito di assicurare l’ordinario svolgimento delle cause che, ove necessario, anche con udienze da remoto sulla piattaforma Cisco Webex o sostituendole con quesiti a risposta scritta diretti alle Parti. L’importanza del rinvio pregiudiziale, strumento di cooperazione “da giudice a giudice” è stata spesso sottolineata dalla stessa Corte di giustizia come la “chiave di volta” del sistema giurisdizionale dell’Unione europea. E proprio nel meccanismo del rinvio pregiudiziale che si enfatizza la funzione dell’Avvocatura dello Stato che, già presente (a monte) nei giudizi nazionali a quo, è chiamata a rappresentare le ragioni del Governo italiano anche innanzi alla Corte di giustizia, per, poi, (a valle), rappresentarne esiti e conseguenze alla ripresa del giudizio dinnanzi al giudice nazionale. Un circuito virtuoso, dunque, come si è già detto nel paragrafo precedente. Come accaduto nella causa C-497/20, su rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione che aveva adito la Corte di giustizia al fine di chiarire, in sostanza, se il diritto dell’Unione osti a una disposizione di diritto interno, l’art. 111, comma 8, della Cost., che, secondo la giurisprudenza nazionale, non consente al singolo di contestare, nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi a tale giudice, la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa. La Corte, riunita in Grande Sezione, ha dichiarato, con sentenza del 21 dicembre 2021, che una siffatta disposizione è conforme al diritto dell’Unione. Alla luce del principio dell’autonomia procedurale, ha osservato, infatti, che, fatta salva l’esistenza di norme dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, ai sensi dell’articolo 19 TUE; garantendo che tali modalità non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività). Il diritto dell’Unione, infatti, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri limitino o subordinino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purché tali due principi siano rispettati, come accade, appunto, nel caso di specie. Per citare solo qualche caso rilevante e di interesse recente, la causa pregiudiziale proposta dal giudice portoghese in tema di c.d. Superlega calcistica (C-331/21); e, innanzi al Tribunale dell’Ue, le cause in tema di sanzioni economiche alla Russia, T-125/22 e T-125/22R, ricorsi proposti da Russia Today France, nelle quali sono intervenuti la Francia, il Belgio e la Polonia a sostegno del Consiglio dell’Unione europea; di cui costituisce un precedente la causa T-732/14 e la sentenza del 13 settembre 2018 di rigetto del ricorso, pro TEMI ISTITUzIONALI posta da una Banca russa. In relazione alla richiesta di misure cautelari, il Tribunale ha ritenuto, con ordinanza del 30 marzo 2022, non sussistenti i presupposti in quanto il pregiudizio lamentato è meramente economico e finanziario, non si realizza la condizione dell’urgenza e il bilanciamento degli interessi è a favore del Consiglio. 7. Conclusioni. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato e dell’Avvocato dello Stato si va sempre più ampliando nella prospettiva del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea. Questo ampliamento di ruolo è perfettamente congeniale alla preparazione giuridica e professionale degli Avvocati dello Stato e può essere la chiave di volta anche per la modernizzazione delle strutture amministrative, soprattutto nella fase attuativa del PNRR -Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e dei suoi obiettivi (come la riforma della giustizia civile e l’eliminazione dell’arretrato anche di quella amministrativa). Noi siamo pronti ad affrontare queste sfide, forti dell’esperienza maturata durante il periodo dell’emergenza epidemiologica che abbiamo trasformato in un fattore di accelerazione della informatizzazione e della dematerializzazione del nostro Istituto, per contribuire in modo fattivo alla crescita del nostro Paese e alla realizzazione degli obiettivi indicati nel PNRR. Grazie per l’attenzione. RASSEGNA AvvOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Avvocatura Generaledello Stato cIrcoLAre n. 20/2022 oggetto: Soppressione di riscossione Sicilia s.p.a. e successione a titolo universale di Agenzia delle entrate-riscossione (ADer) a decorrere dal 1° ottobre 2021. Secondo Addendum al Protocollo d’intesa sottoscritto il 30 marzo 2022 tra l’Avvocatura dello Stato e ADer. Con l'allegata Circolare n. 63/2021 è stato trasmesso l'Addendum al Protocollo d'intesa sottoscritto il 1° ottobre 2021 tra l'Avvocatura dello Stato e ADER con il quale, tenuto conto dell'impatto che la successione di ADER a Riscossione Sicilia s.p.a poteva avere sull'attività dell'Avvocatura dello Stato, si disponeva al punto 2.1, che “l'Avvocatura dello Stato fino al 31 marzo 2022 non presterà il proprio patrocinio a favore dell'ente relativamente a tutte le cause, sia passive che attive, riferibili alle attività della disciolta Riscossione Sicilia S.p.A., e ciò indipendentemente dal grado di giudizio e dalla magistratura adita”. In data 30 marzo 2022 è stato sottoscritto tra l'Avvocatura dello Stato e ADER un secondo Addendum, con il quale il termine del 31 marzo 2022 è stato posticipato al 31 dicembre 2022. Fino a tale data, pertanto, continua ad applicarsi quanto previsto nella Circolare n. 63/2021, con particolare riferimento al fatto che l'archivio non debba procedere all'impianto di nuovi affari per gli atti afferenti ai contenziosi suddetti eventualmente notificati presso l'Avvocatura. Allegati: 1) Secondo Addendum del 30 marzo 2022 (pubblicato sul sito Internet dell'Avvocatura dello Stato e dell'Agenzia delle Entrate-Riscossione); 2) Circolare n. 63/2021. L'AvvOCATO GENERALE Avv. Gabriella Palmieri Sandulli (omissis) TEMI ISTITUzIONALI Avvocatura Generaledello Stato cIrcoLAre n. 35/2022 oggetto: D.P.c.M. 21 marzo 2021 recante “Autorizzazione all'Avvocatura dello Stato ad assumere la rappresentanza e la difesa dell'Azienda per il diritto allo studio universitario della regione campania nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali”. Si comunica che con D.P.C.M. del 21 marzo u.s., in fase di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, l'Avvocatura dello Stato è stata autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa dell'Azienda per il diritto allo studio universitario della Regione Campania nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali. L'AvvOCATO GENERALE Avv. Gabriella Palmieri Sandulli ContEnziosoComUnitarioEdintErnazionalE Giudici di Pace: la CGUE riconosce il diritto alle ferie e alla tutela previdenziale e assistenziale ove sia accertata la “comparabilità” con i magistrati ordinari Nota a Corte di giustizia dell’uNioNe europea, prima sezioNe, seNteNza 7 aprile 2022, C-236/20 Emanuela Rosanò* Con la recentissima sentenza del 7 aprile 2022 (causa C-236/20) la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Prima Sezione, si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto euro-unitario della normativa italiana che disciplina il rapporto di lavoro dei giudici di pace (L. 21 novembre 1991 n. 374 e s.m.i.). Il rinvio pregiudiziale è stato operato dal Tar per l’Emilia Romagna, Prima Sezione, con ordinanza n. 363/2020 dell’1 giugno 2020, nell’ambito di una controversia sorta tra PG, giudice di pace, e il Ministero della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura e la Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito al rifiuto di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro di pubblico impiego, a tempo pieno o a tempo parziale, tra la ricorrente e il Ministero della Giustizia. In particolare il Giudice Amministrativo ha sollevato le seguenti questioni pregiudiziali: “se gli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali del- l’unione europea, le direttive n. 1999/70/Ce sul lavoro a tempo determinato (clausole 2 e 4), n. 1997/81/Ce sul lavoro a tempo parziale (clausola 4), n. 2003/88/Ce sull’orario di lavoro (art. 7), n. 2000/78/Ce (artt. 1, 2, comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condi (*) Avvocato e specialista giuridico legale finanziario presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, già praticante presso l’Avvocatura Generale dello Stato. RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 zioni di lavoro, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana di cui alla legge 374/91 e s.m. e d.lgs. 92/2016 come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico. se i principi comunitari in tema [di] autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale e segnatamente l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico. se la clausola 5 dell’accordo quadro Ces, uNiCe e Ceep sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/Ce, osti all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana, secondo cui l’incarico a tempo determinato dei giudici di pace quali giudici onorari, originariamente fissato in 8 anni (quattro più quattro) possa essere sistematicamente prorogato di ulteriori 4 anni senza la previsione, in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva”. elementi di fatto e di diritto del giudizio. Il procedimento principale trae origine dal ricorso promosso da una cittadina italiana, ricoprente funzioni di giudice di pace ininterrottamente dal 3 luglio 2002 al 31 maggio 2016 e in attesa di riconferma, volto all’accertamento del diritto alla costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo pieno o part-time con il Ministero della Giustizia e la conseguente condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive medio tempore maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali o, in subordine, alla condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al risarcimento dei danni subiti a causa del- l’assenza di qualsivoglia tutela assistenziale e previdenziale. A sostegno della propria domanda la ricorrente afferma che vi sarebbe una piena equiparazione, quanto alle funzioni esercitate, del giudice di pace rispetto ai magistrati togati o che comunque ricorrerebbero tutti gli indici tipici di un rapporto di lavoro pubblico di tipo subordinato (dovere di osservanza di un orario di lavoro, retribuzione prefissata erogata mensilmente, dovere di esclusività ad eccezione dell’attività forense al di fuori del circondario, sottoposizione, al pari dei magistrati ordinari, al potere disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura). La normativa italiana sarebbe dunque in contrasto con quella unionale ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE in materia di lavoro, essendo irrilevante -per la nozione comunitaria di “lavoratore” - la qualificazione in termini di onorarietà del servizio. Contesto normativo e interpretazione del giudice a quo. La figura del giudice di pace è stata istituita con la legge 21 novembre 1991 n. 374, la quale aveva individuato nel termine di otto anni (due mandati da quattro anni) la durata massima del rapporto di lavoro. Il giudice di pace è un giudice ordinario (art. 1 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) appartenente all’ordine giudiziario (articolo 1, comma 2, legge n. 374/1991) ed “esercita la giurisdizione in materia civile e penale e la funzione conciliativa in materia civile” (articolo 1, comma 1, l. 374/1991), al pari del magistrato di carriera. Con riguardo alla durata dell’incarico con decreto legge n. 115/2005, convertito, con modificazioni, in L. 168/2005, il legislatore ha ampliato l’originario termine di otto anni prevedendo un ulteriore mandato di quattro anni. Successivamente, sino ad oggi, la proroga nell’esercizio delle funzioni è stata continuativamente attuata in base alle leggi che si sono nel tempo succedute. La giurisprudenza italiana, in particolare della Cassazione, è costante nell’escludere l’inquadramento della figura del giudice di pace nel rapporto di pubblico impiego. In particolare, è stato osservato che la categoria dei funzionari onorari, della quale fa parte il giudice di pace ricorre quando esiste un rapporto di servizio volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la presenza degli elementi che caratterizzano l’impiego pubblico. È stato, quindi, sostenuto che i due rapporti si distinguono per le seguenti caratteristiche: 1) la scelta del funzionario, che nell’impiego pubblico viene effettuata mediante procedure concorsuali ed e, quindi, di carattere tecnico-amministrativo, mentre per le funzioni onorarie è di natura politico-discrezionale; 2) l’inserimento nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, che è strutturale e professionale per il pubblico impiegato e meramente funzionale per il funzionario onorario; 3) lo svolgimento del rapporto, che nel pubblico impiego è regolato da un apposito statuto, mentre nell’esercizio di funzioni onorarie è privo di una specifica disciplina, quest’ultima potendo essere individuata unicamente nell’atto di conferimento dell’incarico e nella natura di tale incarico; 4) il compenso, che consiste in una vera e propria retribuzione, inerente al rapporto sinallagmatico costituito fra le parti, con riferimento al pubblico impiegato e che invece, riguardo al funzionario onorario, ha carattere meramente indennitario e, in senso lato, di ristoro degli oneri sostenuti; 5) la durata del rapporto che, di norma, è a tempo indeterminato nel pubblico impiego e a termine (anche se vi e la possibilità del rinnovo dell’incarico) quanto al funzionario onorario (cfr., ex plurimis, Cass. n. 99/2018 e n. 17862/2016). ne consegue, per il giudice di pace, il mancato riconoscimento di ogni forma di tutela di tipo previdenziale ed assistenziale, anche in riferimento alla RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 tutela della salute, della maternità e della famiglia oltre che del diritto irrinunciabile per qualsiasi lavoratore (art. 36 Cost.) alle ferie. II giudice del rinvio ritiene dubbia la conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina in base alla nozione di “lavoratore” -di tipo senz’altro sostanziale -invalsa nell’ambito del diritto dell’UE, svolgendo i giudici di pace funzioni giurisdizionali del tutto assimilabili a quelle dei giudici c.d. togati e/o comunque a quelle di un prestatore di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione. Ricorda, infatti, il Collegio, come in base alla clausola 4 (“principio di non discriminazione”) dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito nella direttiva 1999/70/CE, il diverso trattamento di un lavoratore a tempo determinato rispetto ad un lavoratore a tempo indeterminato comparabile può giustificarsi solo in presenza di “ragioni oggettive”. orbene, la nozione di “ragioni oggettive” dev’essere intesa nel senso che essa non autorizza a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato per il fatto che tale differenza di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta. Tale nozione richiede, al contrario, che la disparità di trattamento in causa risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. La mera qualificazione legislativa di un rapporto di pubblico servizio come rapporto onorario non appare atta da sola ad escludere nè la sussistenza, di fatto e di diritto, di un rapporto di lavoro subordinato, nè ingiustificate discriminazioni a danno dei lavoratori pubblici a tempo determinato in assenza della determinazione di criteri oggettivi e trasparenti sottesi ad un’esigenza reale di discriminazione. del pari non potrebbero costituire “ragioni obiettive”, secondo il Collegio, le differenze -pur esistenti -in punto di modalità di selezione, apparendo ciò del tutto illogico oltre che sproporzionato, e non potendo ostare il mancato superamento del concorso pubblico (art. 97 Cost.) attesa la previsione di cui all’art. 2126 c.c. in tema di rapporto di lavoro di fatto. d’altra parte, aggiunge ancora il giudice rimettente, se anche si volesse conferire a tali differenze ordinamentali la valenza di "ragioni obiettive" atte a giustificare una discriminazione fra giudici di carriera e giudici di pace, tale differenziazione potrebbe solo consentire di escludere il diritto alla piena assimilazione e, quindi, l’applicabilità ai giudici di pace dello stesso trattamento economico e previdenziale dei giudici di carriera, ma non certo legittimare la negazione di qualsiasi diritto in presenza di un’acclarata attività continuativa ed a tempo pieno in regime di subordinazione (diritto ad un’equa retribuzione, alla pensione, alla tutela della salute e della maternità, alla continuità del rapporto in caso di abusiva reiterazione del rapporto a tempo determinato). Risulta, infine, dubbia, ad avviso del giudice a quo, la compatibilità euro- unitaria -segnatamente in riferimento alla clausola 5 (“misure di prevenzione degli abusi”) dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato sopra citato ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE -della normativa nazionale in punto di sistematica proroga dell’incarico del giudice di pace. Secondo il Collegio, una volta acclarata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la sistematica reiterazione del rapporto “onorario” disposta dal legislatore italiano contrasta con le esigenze poste dal suddetto accordo quadro, non essendo previste sanzioni “effettive e dissuasive” alternative rispetto alla non possibile conversione in rapporto a tempo indeterminato a meno di non voler riservare ai giudici di pace, anche in questo caso, un trattamento meno favorevole rispetto agli altri lavoratori dell’Unione. l’evoluzione della normativa e della giurisprudenza sui contratti a tempo determinato nel pubblico impiego. Il necessario punto di partenza è costituito dalla direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999 che ha dato attuazione all’accordo quadro sui contratti di lavoro a tempo determinato, il cui scopo è quello di garantire “il rispetto del principio di non discriminazione” fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato (clausola 1, lett. a) e clausola 4, comma 1 (1)) nonché di prevenire “gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” (clausola 1, lett. b). obiettivi questi poi concretizzati dalla clausola 5 intitolata “misure di prevenzione degli abusi” ove è previsto che “per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli stati membri (…) dovranno introdurre (…) una o più misure relative a: -ragioni oggettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; -la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; - il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”. A tale direttiva lo Stato Italiano ha dato attuazione con il d.lgs. n. 368/2001, che ha delimitato il perimetro della legittimità dei contratti a tempo determinato sanzionando l’abusiva protrazione/reiterazione dei rapporti a termine con la c.d. “conversione” del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato. L’art. 5 del decreto, nel comma 4-bis (introdotto dalla L. 247/07), recita: “Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipenden (1) “1. per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”. RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 temente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2” . Il comma 2, infatti, stabilisce che “se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”. In sostanza, il d.lgs. n. 368/2001, emanato espressamente allo scopo di adeguare la normativa interna a quella comunitaria, stabilisce che, nel caso in cui il dipendente venga impiegato oltre il limite massimo di 36 mesi, il rapporto si “converte” e diviene a tempo indeterminato. nel pubblico impiego vige una disposizione che ha carattere di specialità rispetto alla disciplina anzidetta: l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001. Tale disposizione scaturisce dal dettato dell’art. 97 della Costituzione italiana, che impone alle pubbliche amministrazioni di assumere personale solo a seguito di procedure selettive. nello specifico, l’art. 36 del d.lgs. n. 165/01, nel primo comma stabilisce che: “per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35”; nel comma 2 precisa che “per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”. La lettura del dato normativo interno consente di ritenere che nel pubblico impiego l’assunzione mediante contratto a tempo indeterminato costituisce (o dovrebbe costituire) la regola, essendo il ricorso a tipologie contrattuali cd flessibili consentito esclusivamente per rispondere ad esigenze di carattere “temporaneo” od “eccezionale” (cfr. art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001). Il comma 5 dell’art. 36 d.lgs. 165/2001 precisa infine che: “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”. In altri termini, nel pubblico impiego, se l’assunzione a termine avviene in violazione di norme imperative, il prestatore ha solo titolo al risarcimento del danno. Per quanto attiene alla compatibilità tra tale sistema normativo e le fonti di provenienza comunitaria, la Corte di Giustizia ha ritenuto necessario elaborare un principio di “equivalenza” fra posizioni lavorative affini. In sostanza, ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE l’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, nel settore pubblico, deve dare luogo all’applicazione di rimedi di peso comparabile a quelli applicati nel settore privato (2). Con la sentenza emessa in data 26 novembre 2014, nelle cause riunite C22/ 13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, c.d. caso mascolo, la Corte di Giustizia ha confermato in modo definitivo che la reiterazione di rapporti a tempo determinato, anche nell’ambito del settore pubblico, costituisce un abuso e, in quanto tale, deve essere necessariamente sanzionata. Per quanto concerne l’individuazione in concreto della misura repressiva applicabile, la pronuncia suddetta, nei punti 77-83, ha ribadito che “quando, come nel caso di specie, il diritto dell’unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro … esse non devono essere però meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’unione (principio di effettività)”. Fissati questi principi guida il danno risarcibile, per essere conforme al disposto del Giudice comunitario, deve: -avere effettiva efficacia dissuasiva, e non solo risarcitoria o ripristinatoria; -non avere conseguenze di minore favore rispetto al settore privato (principio di equivalenza); -non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario. (2) vale il richiamo alle seguenti pronunce: -sentenza emessa dalla Corte di Giustizia il 26 novembre 2006 nella causa C-53/04 (Caso marrosu+1/ospedale san martino di genova), in cui si afferma che (punto 48) “la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico” … (punto 49) “come risulta dal punto 105 della citata sentenza adeneler e a., affinché una normativa nazionale … che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione”. -ordinanza del 2 dicembre 2013, resa nel processo C-50/2013 (caso papalia), in cui afferma che l’onere probatorio che il lavoratore deve assolvere per godere della protezione avverso l’abusiva reiterazione dei contratti a termine oltre il limite dei 36 mesi, non deve essere tanto gravoso al punto da svilire la tutela. In particolare, al lavoratore che intenda conseguire il risarcimento del danno non può essere chiesto di provare la perdita di migliori opportunità lavorative. RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 Con la sentenza a Sezioni Unite n. 5072/2016 del 15 marzo 2016 la Corte di Cassazione ha ritenuto di dare corretta e puntuale esecuzione alle istruzioni impartite all’ordinamento Comunitario, in particolare dalle sentenze marrosu del 2006 e mascolo del 2014, le quali hanno sancito la possibilità per gli Stati Membri di adottare forme di tutela diverse dalla “conversione” del rapporto lavorativo, lasciando agli Stati membri una certa discrezionalità di scelta. Il complesso di misure che le Sezioni Unite ritengono sufficienti a soddisfare i parametri dettati dalla Corte di Giustizia con la sent. mascolo (C-22/13) si articola nel seguente modo: 1-Una “responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine”, 2-Un risarcimento del danno che si compone di due elementi: a. Un’indennità forfetaria, attribuita senza che il lavoratore sia chiamato a fornire alcuna prova, da quantificare fra un minimo di 2,5 mensilità e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (si tratta del- l’indennità prevista dall’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010 che, nel lavoro privato, viene riconosciuta in aggiunta alla conversione del rapporto); b. Un risarcimento per la perdita di chances favorevoli, previo assolvimento di un pesante onere probatorio a carico del lavoratore. Costui deve dimostrare che, se l’Amministrazione avesse regolarmente indetto un concorso, egli sarebbe risultato vincitore o, comunque, che talune possibilità di impiego alternative sono sfumate a causa del rapporto a termine instaurato con l’Amministrazione. nell'ampia ed articolata motivazione le Sezioni Unite hanno rilevato che la misura dissuasiva e il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico richiesto dalla Corte di Giustizia risiede proprio nella agevolazione della prova per cui il dipendente pubblico è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo e un massimo. Il danno così determinato, ad avviso della Suprema Corte, può qualificarsi come “danno comunitario” nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5 d.lvo 165/2001), ove applicabile nella sua sola portata testuale, a ritenersi lesiva della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale. la sentenza della Corte di giustizia dell’unione europea. La Corte di Giustizia, pronunciandosi sui quesiti sollevati dal Tar per l’Emilia Romagna, ha dichiarato il secondo inammissibile e il primo ammissibile in parte, così statuendo: “1) l’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce del parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura in allegato alla direttiva 97/81/Ce del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’uNiCe, dal Ceep e dalla Ces, come modificata dalla direttiva 98/23/Ce del Consiglio, del 7 aprile 1998, nonché la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/Ce del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro Ces, uNiCe e Ceep sul lavoro a tempo determinato, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non prevede, per il giudice di pace, alcun diritto a beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni né di un regime assistenziale e previdenziale che dipende dal rapporto di lavoro, come quello previsto per i magistrati ordinari, se tale giudice di pace rientra nella nozione di «lavoratore a tempo parziale» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e/o di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e si trova in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario. 2) la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro”. In ordine alla prima questione la Corte ha precisato che spetta al giudice del rinvio, in ultima analisi, determinare se il giudice di pace possa essere inquadrato nella nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi della clausola 2, punto 1 (3), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e dei criteri indicati nella sentenza del 16 luglio 2020 (causa C 658/18), dove la Corte ha ritenuto che possa essere incluso nella nozione di «lavoratore a tempo determinato » chi, nell’esercizio delle funzioni di giudice di pace, sia stato nominato per un periodo limitato e abbia svolto prestazioni reali ed effettive per le quali ha percepito indennità aventi carattere remunerativo. Qualora sia accertato, ha aggiunto la Corte, che il giudice di pace si trovi, in una situazione “comparabile” a quella dei magistrati ordinari, occorre ancora verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi l’esistenza di una differenza di trattamento. Rileva, in particolare, la Corte che le diverse modalità di accesso, tramite concorso, alla magistratura ordinaria rispetto a quelle richieste per la nomina dei giudici di pace, consentono di escludere che questi ultimi beneficino integral (3) “1. il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno stato membro”. RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 mente dei diritti dei magistrati ordinari ma non possono giustificare l’esclusione, per i magistrati onorari, di ferie annuali retribuite nonché di ogni regime assistenziale e previdenziale di cui beneficiano i magistrati ordinari che si trovano in una situazione comparabile. Pertanto, osserva la Corte “fatte salve le verifiche di competenza esclusiva del giudice nazionale, occorre considerare che, sebbene talune differenze di trattamento possano essere giustificate dalle differenze di qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui i magistrati ordinari devono assumere la responsabilità, l’esclusione dei giudici di pace da ogni diritto alle ferie retribuite nonché da ogni forma di tutela di tipo assistenziale e previdenziale è, alla luce della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, inammissibile”. In ordine alla terza questione pregiudiziale, relativa all’abusiva reiterazione dei contratti di lavoro dei giudici di pace, la Corte rileva, infine, che contrasta con il diritto unionale una normativa, come quella nazionale che, nel vietare, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, non preveda al contempo, in tale settore, un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (cfr., in tal senso, il richiamo alla sentenza del 7 marzo 2018, santoro, C 494/16) (4). (4) Il rinvio pregiudiziale è stato sollevato dal Tribunale di Trapani, con ordinanza del 5 settembre 2016, nell’ambito di una controversia insorta tra la ricorrente, dipendente comunale e il suo l’Ente datoriale, in merito alle conseguenze derivanti dalla successione di contratti di lavoro a tempo determinato conclusi tra l’interessata e l’Ente locale. La CGUE pronunciandosi sul rinvio ha così statuito: “la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/Ce del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro Ces, uNiCe e Ceep sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. La Corte di Giustizia, se da un lato osserva come la clausola 5 dell’accordo quadro non possa ostare, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi una sorte diversa al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che detti contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, dall’altro lato rimette al giudice del rinvio il compito di verificare la concreta attuazione delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro e il carattere effettivo e dissuasivo del meccanismo sanzionatorio approntato per sanzionare l’abusivo ricorso alla successione dei contratti a termine. ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 39 Corte di giustizia dell’Unione europea, Prima sezione, sentenza 7 aprile 2022, C-236/20 pres., rel. A. Arabadjiev -domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna (Italia) il 4 giugno 2020 -PG / Ministero della Giustizia, CSM -Consiglio Superiore della Magistratura, Presidenza del Consiglio dei Ministri. «Rinvio pregiudiziale -Politica sociale -Accordo quadro CES, UnICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato -Clausole 2 e 4 -Accordo quadro CES, UnICE e CEEP sul lavoro a tempo parziale -Clausola 4 -Principio di non discriminazione -Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro -Giudici di pace e magistrati ordinari -Clausola 5 Misure volte a sanzionare il ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato -direttiva 2003/88/CE -Articolo 7 - Ferie annuali retribuite» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 20, 21, 31, 33, 34 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997 (in prosieguo: l’«accordo quadro sul lavoro a tempo parziale»), che figura in allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UnICE, dal CEEP e dalla CES (GU 1998, L 14, pag. 9), come modificata dalla direttiva 98/23/CE del Consiglio, del 7 aprile 1998 (GU 1998, L 131, pag. 10) (in prosieguo: la «direttiva 97/81»), delle clausole 2, 4 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro sul lavoro a tempo determinato»), che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UnICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU 1999, L 175, pag. 43), degli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16), nonché dell’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 2003, L 299, pag. 9). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta tra PG, giudice di pace, e il Ministero della Giustizia (Italia), il Consiglio Superiore della Magistratura (Italia) e la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Italia) in merito al rifiuto di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro di pubblico impiego, a tempo pieno o a tempo parziale, tra PG e il Ministero della Giustizia. Contesto normativo Diritto dell’Unione accordo quadro sul lavoro a tempo parziale 3 La clausola 2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, intitolata «Campo di applicazione », così prevede: «1. Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo parziale che hanno un contratto o un rapporto di lavoro definito per legge, contratto collettivo o in base alle prassi in vigore in ogni Stato membro. (...)». 4 La clausola 4, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale dispone quanto segue: «1. Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive. 2. dove opportuno, si applica il principio “pro rata temporis”». accordo quadro sul lavoro a tempo determinato 5 La clausola 2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, intitolata «Campo d’applicazione», così prevede: «1. Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro. (...)». 6 La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, intitolata «Principio di non discriminazione», è del seguente tenore: «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. 2. Se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis. (...)». 7 La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», è così formulata: «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». direttiva 2003/88 8 L’articolo 7 della direttiva 2003/88, intitolato «Ferie annuali», dispone quanto segue: «1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro». Diritto italiano 9 L’articolo 106 della Costituzione contiene disposizioni fondamentali relative all’accesso alla magistratura: «Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 41 La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli (...)». 10 La legge del 21 novembre 1991, n. 374 -Istituzione del giudice di pace (supplemento ordinario alla GURI n. 278, del 27 novembre 1991), nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: la «legge n. 374/1991»), così dispone: «Articolo 1 Istituzione e funzioni del giudice di pace 1. È istituito il giudice di pace, il quale esercita la giurisdizione in materia civile e penale e la funzione conciliativa in materia civile secondo le norme della presente legge. 2. L’ufficio del giudice di pace è ricoperto da un magistrato onorario appartenente all’ordine giudiziario. (...) Articolo 4 nomina nell’ufficio 1. I magistrati onorari chiamati a ricoprire l’ufficio del giudice di pace sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio superiore della magistratura su proposta formulata dal consiglio giudiziario territorialmente competente, integrato da cinque rappresentanti designati, d’intesa tra loro, dai consigli del- l’ordine degli avvocati e procuratori del distretto di corte d’appello. (...) Articolo 10 doveri del giudice di pace 1. Il giudice di pace è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari. (...) (...) Articolo 11 Indennità spettanti al giudice di pace 1. L’ufficio del giudice di pace è onorario. 2. Ai magistrati onorari che esercitano la funzione di giudice di pace è corrisposta un’indennità di [lire italiane (ITL)] 70 000 (circa EUR 35) per ciascuna udienza civile o penale, anche se non dibattimentale, e per l’attività di apposizione dei sigilli, nonché di [ITL] 110 000 [circa EUR 55] per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo. 3. È altresì dovuta un’indennità di [ITL] 500 000 [circa EUR 250] per ciascun mese di effettivo servizio a titolo di rimborso spese per l’attività di formazione, aggiornamento e per l’espletamento dei servizi generali di istituto. (...) 4 bis. Le indennità previste dal presente articolo sono cumulabili con i trattamenti pensionistici e di quiescenza comunque denominati. 4 ter. Le indennità previste dal presente articolo non possono superare in ogni caso l’importo di euro 72 000 lordi annui». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 11 PG ha svolto ininterrottamente le funzioni di Giudice di pace dal 3 luglio 2002 al 31 maggio 2016. 12 nell’ambito del procedimento principale, PG, sostenendo che i giudici di pace e i magi RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 strati ordinari esercitano funzioni identiche, ha chiesto che fosse dichiarato il suo diritto allo status giuridico di dipendente pubblico, a tempo pieno o a tempo parziale, appartenente alla magistratura. PG ha altresì chiesto di essere reintegrato nei suoi diritti quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale. 13 Il giudice del rinvio sottolinea che, secondo la normativa nazionale, contrariamente alla situazione dei magistrati ordinari, il rapporto di lavoro del giudice di pace non presenta gli elementi caratteristici dei rapporti di lavoro rientranti nel pubblico impiego. ne conseguirebbe che il giudice di pace non beneficia di alcuna forma di tutela di tipo assistenziale e previdenziale, ivi compresa la tutela della salute, della maternità e della famiglia, oltre che del diritto alle ferie. 14 Eppure, secondo il giudice del rinvio, i giudici di pace esercitano funzioni giurisdizionali assimilabili a quelle dei magistrati ordinari e, in ogni caso, a quelle di altri lavoratori della pubblica amministrazione. Il fatto che la retribuzione corrisposta ai giudici di pace sia formalmente qualificata come «indennità» sarebbe irrilevante. I rinnovi indebiti e ingiustificati dei rapporti di lavoro a tempo determinato e la proroga sistematica dei mandati dei giudici di pace provocherebbero una «stabilizzazione» del rapporto di lavoro che la legge italiana qualifica come onorario, per la quale non è prevista alcuna sanzione effettiva e dissuasiva. 15 In tale contesto, il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna (Italia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se gli articoli 20, 21, 31, 33 e 34 della [Carta], le [clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70], [la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva 97/81], [l’articolo 7 della direttiva 2003/88 nonché l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78] ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana di cui alla legge [n. 374/1991] e al decreto legislativo n. 92/2016 come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico. 2) Se i principi [di diritto dell’Unione europea] in tema [di] autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale e segnatamente l’articolo 47 della [Carta] ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico. 3) Se la clausola 5 dell’[accordo quadro sul lavoro a tempo determinato] osti all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana, secondo cui l’incarico a tempo determinato dei giudici di pace quali giudici onorari, originariamente fissato in 8 anni (quattro più quattro) possa essere sistematicamente prorogato di ulteriori 4 anni senza la previsione, in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva». 16 A seguito della pronuncia della sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572), la Corte ha chiesto al Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna se, alla luce di tale sentenza, esso intendesse mantenere la propria domanda di pronuncia pregiudiziale. ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 43 17 Il 28 ottobre 2020, il giudice del rinvio ha comunicato che intendeva mantenere tale domanda, motivando che la Corte non si era pronunciata su tutti i profili di incompatibilità tra il diritto dell’Unione e la normativa interna di cui trattasi. Tale giudice ha precisato che era importante che la Corte esaminasse in modo approfondito le funzioni esercitate dal giudice di pace nell’ordinamento giuridico italiano, in quanto l’assenza di un siffatto esame rischiava di comportare un margine di apprezzamento eccessivamente ampio da parte del giudice nazionale. sulle questioni pregiudiziali Sulla ricevibilità delle questioni 18 In proposito, occorre rammentare che, secondo una costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito della cooperazione tra quest’ultima e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumere la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale che lo ponga in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. di conseguenza, allorché le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire (sentenza del 17 settembre 2020, Burgo Group, C‑92/19, EU: C:2020:733, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). 19 ne consegue che le questioni vertenti sul diritto dell’Unione sono assistite da una presunzione di rilevanza. Il diniego della Corte di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica, oppure quando la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una risposta utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza del 17 settembre 2020, Burgo Group, C‑92/19, EU: C:2020:733, punto 40 e giurisprudenza ivi citata). 20 A questo proposito, al fine di permettere alla Corte di fornire un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale, l’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura della Corte esige, segnatamente, che la domanda di pronuncia pregiudiziale contenga l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile al procedimento principale. 21 Per quanto riguarda la prima questione, l’ordinanza di rinvio non soddisfa tali requisiti. 22 L’ordinanza di rinvio non consente infatti di comprendere le ragioni per le quali gli articoli 33 e 34 della Carta nonché le disposizioni della direttiva 2000/78 dovrebbero ostare a una normativa nazionale, come interpretata dalla giurisprudenza nazionale, secondo la quale i giudici di pace, in quanto magistrati onorari, non beneficerebbero dello stesso regime retributivo, assistenziale e previdenziale dei magistrati ordinari e sarebbero quindi esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale di cui beneficiano i lavoratori del settore pubblico. 23 Quanto alla seconda questione, il giudice del rinvio non espone le ragioni che possono averlo indotto a interrogarsi sulla compatibilità della normativa di cui trattasi rispetto ai principi di autonomia e di indipendenza delle funzioni giurisdizionali esercitate dai giudici di pace. Il giudice del rinvio si limita, infatti, a indicare che l’imparzialità e l’indipendenza RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 del giudice impongono che siano riconosciuti a tutti i magistrati i diritti fondamentali quali la continuità del servizio, un trattamento economico sufficiente e il rispetto dei diritti della difesa nei procedimenti disciplinari e paradisciplinari. 24 ne consegue che la Corte non dispone degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile a una parte della prima questione e alla seconda questione. 25 da quanto precede risulta che occorre dichiarare irricevibili, da un lato, la prima questione pregiudiziale nella parte in cui verte sull’interpretazione degli articoli 33 e 34 della Carta nonché della direttiva 2000/78 e, dall’altro, la seconda questione pregiudiziale nel suo insieme. Sulla prima questione 26 In via preliminare, non sembra che, con la sua prima questione, il giudice del rinvio chieda un’interpretazione autonoma degli articoli 20, 21 e 31 della Carta, questi ultimi essendo richiamati unicamente a sostegno della domanda di interpretazione della direttiva 2003/88, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale nonché dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. 27 Pertanto, con tale questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 7 della direttiva 2003/88, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale nonché la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non preveda, per il giudice di pace, il diritto di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni né di un regime assistenziale e previdenziale che dipende dal rapporto di lavoro, come quello previsto per i magistrati ordinari. 28 Come già rilevato al punto 13 della presente sentenza, il giudice del rinvio precisa che il rapporto di lavoro dei magistrati ordinari è un rapporto di pubblico impiego, diversamente da quello dei giudici di pace, che viene qualificato come «onorario» dalla normativa di cui trattasi. In tali circostanze, i giudici di pace, come PG, sarebbero privati di ogni diritto alle ferie retribuite nonché di ogni forma di tutela di tipo assistenziale e previdenziale, ivi compresa la tutela della salute, della maternità e della famiglia. 29 A tale riguardo, dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta che il rapporto di lavoro dei giudici di pace si distingue da quello dei magistrati ordinari sotto diversi profili essenziali, vale a dire l’assunzione, la posizione nel sistema organizzativo della pubblica amministrazione, il regime delle incompatibilità e di esclusività della prestazione, la retribuzione, la durata del rapporto nonché il carattere pieno ed esclusivo delle funzioni. 30 Anzitutto, occorre ricordare che, nella sua sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572), la Corte ha dichiarato, in sostanza, che la nozione di «lavoratore a tempo determinato», di cui alla clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa include un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare. 31 ne consegue che, nel caso di specie, spetta al giudice del rinvio, in ultima analisi, determinare se PG rientri nella nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e/o di «lavoratore a tempo parziale» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale. 32 occorre ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo de ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 45 terminato vieta che, per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato siano trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di svolgere un’attività in forza di un contratto a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 136]. 33 Analogamente, in conformità all’obiettivo di eliminazione delle discriminazioni tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, per quanto attiene alle condizioni di impiego, osta a che i lavoratori a tempo parziale siano trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive. 34 Poiché la formulazione della clausola 4, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e quella della clausola 4, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato sono, in sostanza, identiche, occorre rilevare che le considerazioni espresse riguardo a una di tali disposizioni valgono, mutatis mutandis, anche per l’altra. 35 La Corte ha dichiarato che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato mira a dare applicazione al principio di non discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di lavoro di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 137]. 36 Per quanto riguarda le «condizioni di impiego» di cui alla clausola 4 del medesimo accordo quadro, la Corte ha già dichiarato che tali condizioni includono le condizioni relative alle retribuzioni nonché alle pensioni dipendenti dal rapporto di lavoro, ad esclusione delle condizioni relative alle pensioni derivanti da un regime legale di previdenza sociale (sentenza del 15 aprile 2008, Impact, C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 134). 37 Spetta al giudice del rinvio stabilire se il regime assistenziale e previdenziale di cui trattasi nel procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione della clausola 4 di tale accordo quadro. 38 Peraltro, poiché le suddette «condizioni di impiego», ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, coprono gli elementi costitutivi della retribuzione, ivi compreso il livello di tali elementi, il diritto alle ferie annuali retribuite nonché le condizioni relative alle pensioni di vecchiaia che dipendono dal rapporto di lavoro, spetta al giudice del rinvio accertare se, tenuto conto di un insieme di fattori, quali la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, l’attività giurisdizionale di PG, nell’esercizio delle funzioni di giudice di pace, fosse comparabile a quella di un magistrato ordinario [v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punti da 143 a 147]. 39 Qualora sia accertato che un giudice di pace, come PG, si trova, sotto il profilo della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, in una situazione comparabile a quella dei magistrati ordinari, occorre poi ancora verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi l’esistenza di una differenza di trattamento. 40 A tale riguardo occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punto 1, di detto accordo quadro dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 150 e giurisprudenza ivi citata]. 41 detta nozione richiede, secondo una giurisprudenza parimenti costante, che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s’inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 151]. 42 La Corte ha dichiarato, al punto 156 della sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572), per quanto riguarda la giustificazione relativa all’esistenza di un concorso iniziale specificamente concepito per i magistrati ordinari ai fini dell’accesso alla magistratura, concorso che non è richiesto ai fini della nomina dei giudici di pace, che, tenuto conto del margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri quanto all’organizzazione delle loro amministrazioni pubbliche, essi possono, in linea di principio, senza violare la direttiva 1999/70 o l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, stabilire condizioni di accesso alla magistratura, nonché condizioni di impiego applicabili sia ai magistrati ordinari che ai giudici di pace. 43 Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 157]. 44 Qualora un simile trattamento differenziato derivi dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato, ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. A tale riguardo, occorre considerare che talune differenze di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all’esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punti 158 e 159]. ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 47 45 La Corte ha quindi ritenuto che gli obiettivi invocati dal governo italiano consistenti nel mettere in luce le differenze nell’attività lavorativa tra un giudice di pace e un magistrato ordinario possano essere considerati come configuranti una «ragione oggettiva», ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, nei limiti in cui essi rispondano a una reale necessità, siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine [sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, UE:C:2020:572, punto 160]. 46 A questo proposito, la Corte ha considerato che le differenze tra le procedure di assunzione dei giudici di pace e dei magistrati ordinari e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale, e più specificamente dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni. In ogni caso, spetta al giudice del rinvio valutare, a tal fine, gli elementi qualitativi e quantitativi disponibili riguardanti le funzioni svolte dai giudici di pace e dai magistrati professionali, i vincoli di orario e le sanzioni cui sono soggetti nonché, in generale, l’insieme delle circostanze e dei fatti pertinenti [v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani), C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 161]. 47 discende quindi da tale giurisprudenza che l’esistenza di un concorso iniziale specificamente concepito per i magistrati ordinari ai fini dell’accesso alla magistratura, che invece non vale per la nomina dei giudici di pace, consente di escludere che questi ultimi beneficino integralmente dei diritti dei magistrati ordinari. 48 Tuttavia, si deve constatare che, tenendo conto di detta giurisprudenza e, in particolare, delle verifiche che rientrano nella sua competenza esclusiva, conformemente alla sentenza del 16 luglio 2020, Governo della Repubblica italiana (Status dei giudici di pace italiani) (C‑658/18, EU:C:2020:572, punto 161) e ricordate al punto 46 della presente sentenza, il giudice del rinvio ha rilevato, in sostanza, che la differenza tra le modalità di accesso alla magistratura applicabili a queste due categorie di lavoratori non può giustificare l’esclusione, per i magistrati onorari, di ferie annuali retribuite nonché di ogni regime assistenziale e previdenziale di cui beneficiano i magistrati ordinari che si trovano in una situazione comparabile. 49 Per quanto riguarda, in particolare, il diritto alle ferie, occorre ricordare che, conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, «gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane». 50 Inoltre, dal tenore della direttiva 2003/88 e dalla giurisprudenza della Corte emerge che, se è vero che spetta agli Stati membri definire le condizioni di esercizio e di attuazione del diritto alle ferie annuali retribuite, essi devono, però, astenersi dal subordinare a una qualsivoglia condizione la costituzione stessa di tale diritto, il quale scaturisce direttamente dalla suddetta direttiva (sentenza del 25 giugno 2020, varhoven kasatsionen sad na Republika Bulgaria e Iccrea Banca, C‑762/18 e C‑37/19, EU:C:2020:504, punto 56 nonché giurisprudenza ivi citata). 51 del resto, si deve rammentare che, conformemente al punto 2 della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, dove opportuno, si applica il principio «pro rata temporis ». RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 52 In tal senso, la Corte ha dichiarato che, in caso di lavoro a tempo parziale, il diritto del- l’Unione non osta né al calcolo di una pensione di vecchiaia effettuato secondo il principio «pro rata temporis» (v., in tal senso, sentenza del 23 ottobre 2003, Schönheit e Becker, C‑4/02 e C‑5/02, EU:C:2003:583, punti 90 e 91), né a che le ferie annuali retribuite siano calcolate secondo tale medesimo principio (v., in tal senso, sentenze del 22 aprile 2010, zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols, C‑486/08, EU:C:2010:215, punto 33, nonché dell’8 novembre 2012, Heimann e Toltschin, C‑229/11 e C‑230/11, EU:C:2012:693, punto 36). Infatti, nelle cause che hanno dato luogo a tali sentenze, la presa in considerazione di un orario di lavoro ridotto rispetto a quello del lavoratore a tempo pieno costituiva un criterio obiettivo che consentiva una riduzione proporzionata dei diritti dei lavoratori interessati (sentenza del 5 novembre 2014, Österreichischer Gewerkschaftsbund, C‑476/12, EU:C:2014:2332, punti 23 e 24). 53 Pertanto, fatte salve le verifiche di competenza esclusiva del giudice nazionale, occorre considerare che, sebbene talune differenze di trattamento possano essere giustificate dalle differenze di qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui i magistrati ordinari devono assumere la responsabilità, l’esclusione dei giudici di pace da ogni diritto alle ferie retribuite nonché da ogni forma di tutela di tipo assistenziale e previdenziale è, alla luce della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato o della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, inammissibile. 54 Sulla scorta delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 7 della direttiva 2003/88, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale nonché la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non prevede, per il giudice di pace, alcun diritto a beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni né di un regime assistenziale e previdenziale che dipende dal rapporto di lavoro, come quello previsto per i magistrati ordinari, se tale giudice di pace rientra nella nozione di «lavoratore a tempo parziale» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e/o di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e si trova in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario. Sulla terza questione 55 Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 5 del- l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro. 56 In primo luogo, occorre ricordare che la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato prevede che gli Stati membri adottino misure relative al numero di rinnovi dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi e/o alla durata massima totale di tali contratti o rapporti di lavoro. 57 orbene, si deve constatare che la normativa italiana applicabile alla controversia principale prevedeva effettivamente un limite al numero di rinnovi successivi nonché alla durata massima di tali contratti a tempo determinato. 58 A tale riguardo, secondo costante giurisprudenza, sebbene gli Stati membri dispongano di un margine di discrezionalità quanto alle misure di prevenzione degli abusi, essi non ConTEnzIoSo CoMUnITARIo Ed InTERnAzIonALE 49 possono tuttavia rimettere in discussione l’obiettivo o l’effetto utile dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato [v., in tal senso, sentenza dell’11 febbraio 2021, M.v. e a. (Successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico), C‑760/18, EU:C:2021:113, punto 56]. 59 In secondo luogo, occorre esaminare se la sanzione di un eventuale abuso soddisfi i requisiti posti dalla clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, nel- l’ipotesi in cui la normativa italiana non consenta la trasformazione del rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato. 60 da una giurisprudenza costante risulta che la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non sancisce un obbligo per gli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato (ordinanza del 12 dicembre 2013, Papalia, C‑50/13, non pubblicata, EU:C:2013:873, punto 16), né enuncia sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui siano stati constatati abusi [sentenza dell’11 febbraio 2021, M.v. e a. (Successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico), C‑760/18, EU:C:2021:113, punto 57]. 61 Spetta quindi alle autorità nazionali adottare misure proporzionate, effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, le quali possono prevedere, a tal fine, la trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato, deve potersi applicare una misura al fine di sanzionare debitamente tale abuso e rimuovere le conseguenze della violazione [sentenza dell’11 febbraio 2021, M.v. e a. (Successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico), C‑760/18, EU:C:2021:113, punti da 57 a 59]. 62 Affinché una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (sentenza del 7 marzo 2018, Santoro, C‑494/16, EU:C:2018:166, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). 63 Poiché non spetta alla Corte pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni di diritto interno, incombe al giudice del rinvio valutare se i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno siano adeguati per prevenire e, se del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato [sentenza dell’11 febbraio 2021, M.v. e a. (Successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico), C‑760/18, EU:C:2021:113, punto 61]. 64 nel caso di specie, dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che non vi è nel- l’ordinamento giuridico italiano alcuna disposizione che consenta di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. 65 orbene, l’assenza di qualsiasi sanzione non appare idonea a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. RASSEGnA AvvoCATURA dELLo STATo -n. 4/2021 66 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla terza questione dichiarando che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro. sulle spese 67 nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: 1) l’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura in allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UniCE, dal CEEP e dalla CEs, come modificata dalla direttiva 98/23/CE del Consiglio, del 7 aprile 1998, nonché la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CEs, UniCE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non prevede, per il giudice di pace, alcun diritto a beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni né di un regime assistenziale e previdenziale che dipende dal rapporto di lavoro, come quello previsto per i magistrati ordinari, se tale giudice di pace rientra nella nozione di «lavoratore a tempo parziale » ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e/o di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e si trova in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario. 2) la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro. CoNteNzioSoNAzioNALe Le c.d. “concessioni balneari” Nota alle sentenze n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato Pietro Garofoli* Con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha statuito (al punto 14), in applicazione del diritto comunitario, che “il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica”. La decisione in commento è sicuramente destinata a lasciare il segno nella lunga e travagliata vicenda delle concessioni marittime (e d’ora in avanti quando si farà riferimento a queste si dovranno intendere anche quelle fluviali e lacuali) ed è stata presa sulla base di una puntuale e approfondita analisi del diritto comunitario e dei principi applicabili in materia. In particolare, il Consiglio di Stato si è soffermato dapprima sulla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro, sancita dall’art. 49 del TFUE (1), indagando il concetto di “interesse transfrontaliero certo”, per l’applica (*) Avvocato dello Stato. I due articoli che si pubblicano a margine delle sentenze nn. 17 e 18 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 9 novembre 2021, sono stati redatti dagli Autori prima della recente approvazione da parte del Senato, approvazione con modificazioni al ddl d’iniziativa governativa e collegato alla legge di bilancio n. 2469, Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 (n.d.r.). (1) Articolo 49 TFUE (ex articolo 43 del TCE) Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 zione dei principi di non discriminazione e di trasparenza espressi dalla norma. Successivamente, la sentenza in esame, ha fatto riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE (2) (c.d. Direttiva Bolkestein), prendendo in considerazione la nozione di autorizzazione di servizi e il requisito della “risorsa naturale scarsa” per la sua applicazione. L’analisi è stata condotta sulla falsariga della sentenza della CGUE nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa, del 14 luglio 2016, ripercorrendone le statuizioni, quasi a volerle definitivamente recepire nella giurisprudenza domestica. Il Consiglio di Stato sembrerebbe, però, essere andato oltre la decisione della Corte di Giustizia, definendone i contorni in maniera più netta ed eliminando il pur limitato margine di discrezionalità lasciato dalla Corte europea al giudice domestico nell’applicare i principi comunitari ai singoli casi concreti, eventualmente portati alla sua attenzione. La sentenza in esame ha, infatti, sancito il generalizzato divieto di proroghe e il conseguente obbligo di applicazione dell’evidenza pubblica senza alcun distinguo, per tutte le concessioni demaniali marittime o lacuali, indipendentemente dal loro valore, dalla loro ubicazione, dai risvolti occupazionali. Posto, quindi, che dopo la sentenza in esame, sembra ormai chiaro che le gare per l’assegnazione delle concessioni non potranno essere ulteriormente rinviate, come si è fatto negli ultimi anni attraverso le proroghe dichiarate illegittime dall’Unione europea, occorrerà focalizzare l’attenzione sui criteri, alla luce delle indicazioni del Consiglio di Stato, con cui le concessioni saranno riassegnate e soprattutto porsi il problema della valutazione, per i concessionari uscenti, del valore aziendale e quanto potrà incidere per la La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali. (2) Articolo 12 Direttiva 2006/123/CE (Selezione tra diversi candidati) 1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. 2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l'autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. 3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell'ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto comunitario. ConTEnzIoSo nAzIonALE quantificazione del relativo indennizzo l’eventuale affidamento sulla durata della concessione e se detto affidamento possa essere considerato legittimo. Per procedere ad una analisi delle luci e delle (possibili) ombre della sentenza in esame occorre fare un passo indietro e almeno accennare al contesto fattuale e normativo nel quale la sentenza ha visto la luce. * * * Il contrasto della legislazione nazionale in materia di concessioni balneari e il diritto dell’Unione si evidenzia a partire dal 2006, anno in cui è stata adottata la direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno (i.e. direttiva servizi, recepita nell'ordinamento interno con il decreto legislativo 26 marzo 2010 n. 59). Al tempo la legislazione italiana in materia di concessioni balneari si presentava non conforme al diritto primario dell’Unione (in particolare alla libertà di stabilimento ex art. 43 TCE, oggi art. 49 TFUE). vigeva, infatti, il c.d. diritto di insistenza ex art. 37 cod. nav., il quale al comma 2 stabiliva che «al fine della tutela dell’ambiente costiero, per il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime per attività turistico-ricreative è data la preferenza alle precedenti concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze». Tale previsione dunque accordava la preferenza al concessionario uscente e rendeva più difficile il subentro di un altro operatore economico nei rapporti concessori in scadenza, con potenziale effetto di “chiusura” del mercato in questione. * * * La prima procedura di infrazione. È stato dunque in ragione di questo contrasto tra la normativa italiana e il diritto europeo che nel 2008 la Commissione europea ha aperto una prima procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano (i.e. P.I. n. 2008/4908). Tale procedura si è chiusa nel mese di febbraio 2012 dopo che il legislatore italiano ha adeguato il diritto interno al diritto comunitario: i) con l’abrogazione del diritto di insistenza ex all'art. 37, comma 2, cod. nav., (abrogato dall’art. l, comma 18, del decreto legge 30 dicembre 2009 n. 194); ii) e con la delega Governo ad adottare un decreto di riordino complessivo della materia, (decreto previsto dall'art. 11, comma 2, della Legge 15 dicembre 2011 n. 217). In quella circostanza la Commissione europea ha concordato sulla opportunità di una proroga delle concessioni in essere. Ciò essenzialmente al fine di tutelare il legittimo affidamento degli operatori economici e assicurare la stabilità dei rapporti giuridici nelle more di un riordino complessivo della disciplina di settore. La disciplina in esame, come ricorda anche l’Adunanza Plenaria nella rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 sentenza in esame, è di sicuro impatto sul settore turistico balneare, per le caratteristiche geo-morfologiche (il territorio nazionale presenta 7.500 km di coste) ed economico-sociali del nostro Paese (circa 300 mila gli occupati nel solo settore turistico balneare, stando ai dati del 2018 e per un giro di affari stimato in circa 15 miliardi l’anno). In aggiunta, va considerato che la presenza di stabilimenti balneari ha origini lontane, in alcuni casi sin dal 1700, sicché la problematica del legittimo affidamento assume particolare rilievo, soprattutto in ragione degli importanti investimenti realizzati nel tempo. Questi dati portano ad intendere quanto alto sia il numero e la varietà delle aree demaniali interessate e che potrebbero essere oggetto di concessione in Italia per le attività turistico balneari, in misura nemmeno comparabile con la maggior parte degli Stati membri. * * * La seconda procedura di infrazione. Per quanto si è detto, come è agevole intuire, un riordino sistematico della materia in esame è operazione né facile, né immediata. non solo in ragione del confronto politico che questa operazione implica, ma soprattutto attese le ricadute sociali ed economiche che alla stessa si legano e che necessariamente impongono -tra le altre cose -un coinvolgimento attivo degli stakeholders (e cioè delle circa 30 mila imprese operanti nel settore, le quali sono rappresentate da numerose associazioni di categoria). La Commissione europea non ha, tuttavia, tollerato il dilatarsi pressoché inevitabile dei tempi, pur necessari per questa regolamentazione, e sul finire del 2018 ha inviato allo Stato italiano una lettera per l’apertura di una fase pre-contenziosa per non corretto recepimento della direttiva servizi. Il 3 dicembre 2020 la Commissione europea ha formalmente aperto una nuova procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, avendo rilevato un contrasto della legislazione nazionale in materia di assegnazione e durata delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali per attività ricreative e turistiche (c.d. "concessioni balneari") con il diritto europeo. nella lettera inviata ex art. 258 TFUE, la Commissione europea prende in esame il quadro normativo nazionale, concludendo nel senso che la normativa interna si pone in contrasto con l'art. 12 della direttiva 2006/123/Ce (i.e. direttiva servizi) e con l'art. 49 TFUE. * * * Il riordino e la proroga. nel frattempo, però, il legislatore italiano con l'art. l, commi da 675 a 684, Legge 30 dicembre 2018 n. 145 (Legge di bilancio per il 2019) ha disposto che con DPCM fosse avviata la revisione della disciplina delle concessioni balneari, ispirata ai principi di concorrenza, trasparenza e parità di trattamento ConTEnzIoSo nAzIonALE ed intesa ad assicurare tanto la tutela e la valorizzazione dei beni demaniali, quanto la massima qualità del servizio erogato. Per la redazione del DPCM è stato costituito un apposito tavolo tecnico interministeriale. nelle more di tale riordino della materia -e in linea con la soluzione convenuta con la Commissione europea al momento della chiusura della Procedura di Infrazione n. 2008/4908 -la Legge n. 145/2018 ha previsto altresì la proroga delle concessioni in essere, per evitare che il prodursi di un vuoto normativo potesse andare a detrimento del legittimo affidamento degli operatori economici e per garantire la certezza dei rapporti giuridici. Già nel mese di luglio 2019 un primo schema del DPCM è stato presentato alla Commissione europea, la quale ha formulato i propri rilievi. A seguito di ciò, i lavori del tavolo tecnico sono proseguiti al fine di accogliere le modifiche suggerite dalla Commissione. A inizio 2020, è stata informalmente prospettata alla Commissione la presentazione di un nuovo schema di DPCM, giunto ormai alle fasi finali di preparazione. Tuttavia, lo stato di emergenza ingenerato dalla pandemia da Covid-19 non ha consentito l'ultimazione dei lavori, ripresi sul finire dello scorso anno ed ancora in corso. * * * Le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria. In ragione di questa situazione, al momento delle pronunce dell’Adunanza Plenaria, la giurisprudenza del Giudice Amministrativo appariva divisa da una parte nel senso della disapplicazione della disciplina dettata dalla Legge di bilancio per il 2019, Cons. Stato, sez. vI, 18 novembre 2019 n. 7874 e Cons. Stato, sez. vI, 17 luglio 2020 n. 4610. In senso contrario, ossia nel senso della applicabilità delle norme di cui alla Legge n. 145/2018, -tra le molte -le sentenze "gemelle" Cons. Stato, sez. v, 24 ottobre 2019 nn. 7251, 7252, 7253, 7254, 7255, 7256, 7257, 7258; Cons. Stato, sez. v, 26 ottobre 2020 n. 6472; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 27 novembre 2020 n. 1321; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 15 gennaio 2021 n. 72. In questa situazione, la questione è stata rimessa all’Adunanza plenaria, “onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate, nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali” (par. 5). In applicazione del principio di effettività del diritto comunitario e seguendo consolidati indirizzi giurisprudenziali, la sentenza n. 18/2021 ha quindi risposto al primo quesito posto all’Adunanza nel senso che “l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing”. Secondo il Consiglio di Stato, “opinare diversamente significherebbe autorizzare rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto” (par. 32). * * * L’Adunanza Plenaria ha, quindi, indicato i profili di contrasto della normativa interna con l’art. 49 TFUE evidenziando come, a differenza che nel settore degli appalti, ove la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è maggiormente espressa, i principi in esso contenuti (pubblicità, trasparenza) debbano essere “‘adattati’ tenendo conto della particolarità del settore di mercato che viene in considerazione” (par. 16) e giungendo alla conclusione che per qualsiasi concessione demaniale venga in rilievo un “interesse transfrontaliero certo” dal momento che “qui non si tratta di un appalto, infatti, di un appalto isolato, da eseguirsi una tantum” ma “al contrario degli appalti o delle concessioni di sevizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo”. In questo modo però, l’Adunanza Plenaria è forse stata “più realista del re” e al fine di non violare il principio di eguaglianza, ha tolto ogni possibilità di una valutazione amministrativa e giudiziale sulle singole concrete autorizzazioni senza considerare la varietà e l’estensione delle coste, la loro ubicazione e il grado di sviluppo della recettività locale, potrebbe non comportare, nel concreto, l’assenza di un interesse transfrontaliero certo (si pensi all’indubitabile valore economico di una concessione sulle rinomante coste della versilia paragonandola a quella di alcuni sperduti tratti delle coste ioniche, forse di maggior valore paesaggistico, ma avulsi da un contesto turistico). negare la possibilità che le migliaia di concessioni demaniali possano avere caratteristiche tali per le quali sia necessaria una disciplina giuridica differenziata, in ragione delle differenti caratteristiche, potrebbe determinare violazione del principio di uguaglianza, inteso in senso sostanziale, che ha voluto tutelare l’Adunanza plenaria. * * * La sentenza in esame passa, poi, a esaminare i profili di contrasto del regime interno con l'art. 12 direttiva 2006/123/CE, soffermandosi in particolare sul concetto di "scarsità delle risorse naturali". L’art. 12 della direttiva 2006/123/CE è rubricato “Selezione tra diversi candidati” e al suo primo comma stabilisce che «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che ConTEnzIoSo nAzIonALE presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento». non di meno, il successivo comma terzo ammette altresì che «gli Stati membri possono tenere conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell'ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto comunitario». Dalla lettura congiunta di tali disposizioni, si ricava dunque che -di principio -a fronte di una risorsa naturale scarsa (condizione della "limitatezza" delle risorse) l'assegnazione della risorsa per finalità di sfruttamento economico deve avvenire attraverso l’espletamento di una gara improntata ai principi della trasparenza e dell'imparzialità. Questione centrale, perciò, è innanzitutto quella di definire quando una risorsa sia o meno scarsa, poiché è solo a fronte della accertata scarsità della risorsa naturale che consegue la necessità di fare applicazione dell'art. 12 della direttiva 2006/123/Ce. In tal senso si è espressa anche la Corte di giustizia nella citata sentenza Promoimpresa S.r.l. (3), dove -tra l’altro -si legge: «per quanto riguarda, più specificatamente, la questione se dette concessioni debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni per via della scarsità delle risorse naturali, spetta al giudice nazionale verificare se tale requisito sia soddisfatto. A tale riguardo, il fatto che le concessioni di cui ai procedimenti principali siano rilasciate a livello non nazionale bensì comunale deve, in particolare, essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato» (par. 43; in senso analogo v. anche par. 49 e par. 62 della medesima sentenza). La Corte afferma in sostanza che spetta al giudice a quo stabilire l'applicabilità al caso di specie dell'art. 12 della direttiva 2006/123/Ce, previa necessaria verifica, nel caso concreto, del ricorrere del requisito della scarsità della risorsa prescritto dallo stesso art. 12 primo allinea. Anche in relazione a questo profilo sembrerebbe che l’Adunanza plenaria abbia dato una interpretazione più rigorosa della norma comunitaria rispetto a quella data dalla Corte di Giustizia. Il Giudice Amministrativo, infatti, dopo aver correttamente affermato che “Il concetto di scarsità va, invero, interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi” e aver ricordato che la Corte di Giustizia nella sen (3) Cause riunite C-458/14 e C-67/15. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 tenza Promoimpresa afferma che “le concessioni sono rilasciate a livello non nazionale ma comunale” e che “va ancora considerata la concreta disponibilità di aree ulteriori rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione” con una generica valutazione della situazione a livello nazionale giunge alla conclusione che “nel settore delle concessioni demaniali con finalità turistico- ricreative, le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti” e che, pertanto, sussistono i presupposti per una indiscriminata applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123 (par. 25 della sentenza 18/21). Si dovrebbe ritenere, invece, sulla scorta delle statuizioni della Corte di Giustizia, che di regola, il compito di svolgere una verifica circa il ricorrere della condizione della scarsità o limitatezza delle risorse naturali debba spettare all'amministrazione procedente, la quale dovrà condurre l’indagine caso per caso, alla luce dei parametri dettati dal legislatore nazionale. orbene, sul punto occorre osservare che il progetto di revisione complessiva della materia delineato dall'art. 1, commi da 675 a 684, della Legge 30 dicembre 2018 n. 145 (i.e. Legge di bilancio per il 2019) si articola in quattro fasi, la prima delle quali è finalizzata proprio alla ricognizione e alla mappatura del litorale e del demanio costiero marittimo. Scopo di una tale attività -che può senz'altro estendersi ai beni del demanio lacuale e fluviale -è essenzialmente quello di avere una reale contezza dell'entità e della consistenza di tale patrimonio, al fine di garantire la possibilità di accesso da parte di nuovi operatori economici (v. spec. art. 1, comma 676, Legge n. 145 del 2018, dove si legge che l'emanando DPCM «stabilisce le condizioni e le modalità per procedere: a) alla ricognizione e mappatura del litorale e del demanio costiero-marittimo; b) all'individuazione della reale consistenza dello stato dei luoghi, della tipologia e del numero di concessioni attualmente vigenti nonché delle aree libere e concedibili»). Detta attività di ricognizione e mappatura -che indubbiamente richiede del tempo per poter essere adeguatamente espletata in un contesto come quello italiano caratterizzato da oltre 7.500 Km di coste -è senz'altro di essenziale importanza al fine di stabilire la scarsità o meno delle risorse in parola. Solo all'esito di una tale mappatura (che, come abbiamo visto, il Governo ha intrapreso) e, dunque, solo una volta stabilito quali aree demaniali possano dirsi "scarse", sarà possibile discutere del regime giuridico relativo ai provvedimenti autorizzatori che insistono su di esse. Questo, peraltro, sembra emergere anche dalla lettera di costituzione in mora inviata dalla Commissione europea, laddove la stessa in più punti rappresenta l'opportunità di una valutazione da effettuarsi caso per caso (v., ad es., pagg. 8 e 9). * * * ConTEnzIoSo nAzIonALE Considerazioni conclusive. 1) Conclusivamente possiamo affermare che la sentenza in commento rappresenta senz’altro una pietra miliare nella disciplina delle concessioni demaniali marittime (fluviali e lacuali), di notevole pregio per la ricostruzione dell’istituto alla luce del diritto comunitario. 2) occorre, tuttavia, rilevare la possibile sussistenza di alcune “criticità” sia in relazione ai criteri fissati per l’affidamento delle concessioni, sia in relazione alla indiscriminata fissazione del termine per il rinnovo delle concessioni (al 31 dicembre 2023), in assenza di una accurata e completa attività di mappatura e ricognizione dei beni stessi. Solo a conclusione di questa attività di monitoraggio si potrebbe essere certi della sussistenza dei requisiti della “scarsità della risorsa naturale”e “dell’interesse transfrontaliero certo” previsti per l’applicazione della normativa comunitaria. Detti requisiti sono, infatti, condizione necessaria e ineliminabile per ritenere applicabili, rispettivamente, l’art. 12 direttiva 2006/12/Ce e l’art. 49 TFUE, come evidenziato anche dalla Commissione Europea nella lettera di formalizzazione della procedura di infrazione del 3 dicembre 2020. Tale mappatura sarà anche indispensabile per assicurare una adeguata e proporzionata tutela dell’eventuale legittimo affidamento ingenerato negli attuali concessionari, dal susseguirsi delle leggi di proroga e dalla incertezza giurisprudenziale sulla loro applicabilità. Come ricordato dalle sentenze in commento, anche in questo caso la Corte di Giustizia nella sentenza Promoimpresa ha affermato che riguardo all’accertamento del legittimo affidamento necessiti “una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti” e che “L’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi” (par. 49). In questo quadro le amministrazioni locali e lo Stato potrebbero vedersi costretti a fare fronte ad innumerevoli richieste di indennizzo che poste a carico delle finanze pubbliche potrebbero comportare un notevole ed imprevisto impatto sui saldi di bilancio e se poste a carico degli altri concorrenti alla procedura di gara potrebbero costituire proprio quel vantaggio per il vecchio concessionario che la normativa comunitaria e interna ha deciso di eliminare. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 9 novembre 2021 n. 18 -Pres. F. Patroni Griffi, Est. r. Giovagnoli -Comune di Lecce (avv.ti L. Astuto e S. Lazzari) c. A.C. (avv. F. vetrò), Associazione Federazione Imprese Demaniali (avv. F. Massa) e con l’intervento ad opponendum di Summertime S.a.s ed altri. Sentenza T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, n. 73/2021. FATTo e DIrITTo 1. Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ha accolto il ricorso proposto da A.C., titolare di concessione demaniale marittima in Lecce, località Spiaggiabella, e, per l’effetto, ha annullato i provvedimenti con cui il Comune di Lecce ha respinto l’istanza di proroga ex lege 145/2018, rivolgendo al concessionario formale interpello al fine di conoscere se lo stesso intendesse avvalersi della facoltà di prosecuzione dell’attività ai sensi dell’art. 182 d.l. 34/2020 (convertito in legge n. 77/2020), con contestuale pagamento del canone per l’anno 2021 ovvero, in via alternativa, di non avvalersi di tale facoltà e di accettare una proroga tecnica della concessione per la durata di anni tre. Il T.a.r. Lecce, in sintesi, ha ritenuto che l’Amministrazione comunale avesse illegittimamente disapplicato la legge nazionale che prevede la proroga delle concessioni demaniali; ha sostenuto, in particolare, che l’art. 12 direttiva 2006/123/CE non sia self-executing e che, comunque, anche ove lo fosse, ciò non legittimerebbe l’organo amministrativo a disapplicare la legge interna, essendo l’accertamento della natura self-executing della direttiva riservato solo al giudice e precluso all’Amministrazione. 2. Per ottenere la riforma di detta sentenza ha proposto appello il Comune di Lecce, con ricorso allibrato, presso la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con il numero di r.g. 1975/2021. 3. Si è costituito in giudizio per resistere al ricorso l’originario ricorrente. 4. Si è costituita in giudizio, al fine di sostenere le ragioni del ricorrente, chiedendo, quindi, il rigetto dell’appello, la Federazione imprese demaniali, già interveniente ad adiuvandum nel giudizio di primo grado. 5. Con decreto n. 160 del 2021, il Presidente del Consiglio di Stato, rilevato che la questione oggetto del ricorso riveste una particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria, onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali, ha deferito d’ufficio l’affare all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a., rimettendo, in particolare, le seguenti questioni di diritto: 1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-excuting, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all‘accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva; 2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, ConTEnzIoSo nAzIonALE comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio. 3) se, con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, debbano intendersi quali «aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145. 6. nella fase di giudizio dinnanzi all’Adunanza plenaria sono intervenuti ad opponendum, a sostegno delle ragioni dell’originario ricorrente davanti al T.a.r. Lecce (parte qui appellata), alcune associazioni di categoria (il Sindacato italiano balneari (SIB), l’Associazione nazionale approdi e porti turistici, l’Associazione CnA Balneatori Puglia e Lidi del Salento, il Comitato coordinamento concessionari demaniali pertinenziali italiani), alcuni enti territoriali (la regione Abruzzo e il Comune di Castrignano del Capo), nonché alcuni soggetti privati (indicati in epigrafe) titolari di concessione demaniale marittima. 7. Il Comune di Lecce ha eccepito l’inammissibilità di tutti gli interventi e, con specifico motivo di appello, ha gravato la sentenza di primo grado anche nella parte in cui aveva ritenuto ammissibile l’intervento spiegato in primo grado dalla Federazione imprese demaniali. 8. Alla pubblica udienza del 20 ottobre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. 9. occorre, in via pregiudiziale, esaminare la questione, sulla quale le parti si sono confrontate anche nel corso dell’udienza pubblica del 20 ottobre 2021, relativa all’ammissibilità degli interventi, sia di quelli svolti direttamente innanzi all’Adunanza plenaria, sia di quello svolto in primo grado dalla Federazione imprese demaniali, atteso che il capo di sentenza che ha ritenuto ammissibile detto intervento è stato specificamente gravato dal Comune di Lecce. 10. Gli interventi sono tutti inammissibili. 10.1. I concessionari demaniali e le pubbliche amministrazioni intervenienti, sia pure con sfumature diverse, assumono di essere titolari di un interesse a partecipare alla sede giurisdizionale in cui si definisce la regola di diritto da applicare successivamente alla risoluzione della presente controversia. Tale interesse non è, tuttavia, di per sé in grado di legittimare l’intervento in giudizio del terzo. Invero, come ha affermato questa Adunanza plenaria nelle sentenze n. 23 del 2016 e n. 10 del 2020, non è sufficiente a consentire l’intervento la sola circostanza che l’interventore sia parte di un (altro) giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire. osta al riconoscimento di una situazione che lo legittimi a intervenire l’obiettiva diversità di petitum e di causa petendi che distingue i due processi, sì da non potersi configurare in capo al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem. Al contrario, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce. non a caso, in base a un orientamento del tutto consolidato, nel processo amministrativo l’intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto ti rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 tolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale (v. ex plurimis, sul punto, Cons. St., sez. Iv, 29 febbraio 2016, n. 853). Ed è appena il caso di ricordare, come ha già chiarito questa Adunanza nella sentenza n. 23 del 2016, che risulterebbe peraltro sistematicamente incongruo ammettere l’intervento volontario in ipotesi, come quella qui esaminata, che si risolvessero nel demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, comma primo, Cost.) il compito di verificare in concreto l’effettività dell’interesse all’intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio a quo), in assenza di un adeguato quadro conoscitivo di carattere processuale, ove si pensi, solo a mo’ di esempio, alla necessaria verifica che il giudice ad quem sarebbe chiamato a svolgere, ai fini del richiamato giudizio di rilevanza, circa l’effettiva sussistenza in capo all’interveniente dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del giudizio a quo. 10.2. Considerazioni in parte analoghe valgono per l’intervento spiegato dalle associazioni di categoria. nel processo amministrativo la legittimazione attiva (e, dunque, l’intervento in giudizio) di associazioni rappresentative di interessi collettivi obbedisce a regole stringenti, essendo necessario che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell’associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati. resta quindi preclusa ogni iniziativa giurisdizionale che non si riverberi sugli interessi istituzionalmente perseguiti dall’associazione, sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi o per mere finalità di giustizia, finalizzate esclusivamente alla tutela di singoli iscritti, atteso che l’interesse collettivo dell’associazione deve identificarsi con l’interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con la mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati. Per autorizzare l’intervento di un’associazione esponenziale di interessi collettivi occorre, quindi, un interesse concreto ed attuale (imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso. nel caso di specie, il provvedimento impugnato (che si traduce nel diniego di proroga di una singola concessione demaniale) lede esclusivamente l’interesse del singolo, senza impingere in via immediata sulla finalità istituzionale delle associazioni. né, per le ragioni già esposte, a giustificare l’intervento può rilevare la circostanza che la risoluzione delle questioni di diritto sottese al caso del singolo associato possa avere, specie per la valenza nomofilattica della pronuncia resa da questa Adunanza plenaria, una rilevanza anche sulla posizione di altri concessionari. La soluzione delle quaestiones iuris deferite a questa Adunanza plenaria non incide in via diretta ed immediata sugli interessi istituzionalmente rappresentati, ma produce effetti non attuali e meramente eventuali sulla sfera giuridica dei concessionari, il che non può ritenersi sufficiente a radicare la legittimazione all’intervento, che, come si è detto, non può essere sorretto dalla necessità di sostenere una tesi di diritto e, quindi, da mere ed astratte finalità di giustizia (cfr. Ad. Plen. n. 9 del 2015). 10.3. Alla stregua delle considerazioni che precedono, gli interventi in questione vanno giudicati inammissibili e le relative parti estromesse dal giudizio. 11. La risoluzione delle questioni sottoposte dall’Adunanza plenaria richiede in via preliminare l’esame del regime normativo cui è sottoposto il rilascio e il rinnovo delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, al fine di vagliare la sussistenza di eventuali profili ConTEnzIoSo nAzIonALE di contrasto della legge nazionale (in particolare l’art. 1, commi 682 e 683, legge n. 145 del 2018, che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere) con norme dell’Unione europea direttamente applicabili. 12. La questione è stata già in gran parte scandagliata dalla Corte di giustizia U.E., con la sentenza 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa, la quale ha affermato, in sintesi, i seguenti principi: a) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; 2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo. 13. Anche dopo la sentenza della Corte di giustizia, nonostante essa sia stata recepita da una copiosa giurisprudenza nazionale, il dibattito sulla compatibilità comunitaria della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege è continuato, soprattutto in ambito dottrinale. Da più parti, invero, si è negato che il diritto dell’Unione imponga l’obbligo di evidenza pubblica per il rilascio delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. In questa prospettiva, si è apertamente contestata l’applicabilità sia dei principi generali a tutela della concorrenza desumibili dall’art. 49 TFUE, sia dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. 13.1. L’applicabilità dell’art. 49 TFUE è stata messa in discussione ritenendo mancante nel caso di specie il requisito dell’interesse transfrontaliero certo, il cui accertamento è stato rimesso dalla Corte di giustizia alla valutazione del giudice nazionale. 13.2. rispetto all’applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE sono stati mossi due ordini di obiezioni: il primo volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa (requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale); il secondo, che entra in contrasto frontale con la sentenza del giudice europeo, volto radicalmente ad escludere la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi, nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva. 14. L’Adunanza plenaria ritiene che tali obiezioni non siano condivisibili e che debba essere ribadito il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere. Tale incompatibilità sussiste, per le ragioni che si esporranno, sia rispetto all’art. 49 TFUE, sia rispetto all’art. 12 della c.d. direttiva servizi. 15. Per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 49 TFUE, la Corte di giustizia, sin dalla nota sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98, Telaustria e Telefonadress, ha chiarito che qualsiasi atto dello Stato che stabilisce le condizioni alle quali è subordinata la prestazione di un’attività economica sia tenuto a rispettare i principi fondamentali del trattato e, in particolare, i principi di non discriminazione in base alla nazionalità e di parità di trattamento, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva. Come detto in precedenza, nell’ottica della Corte detto obbligo di trasparenza impone all’autorità concedente di assicurare, a favore di ogni potenziale rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 offerente, un “adeguato livello di pubblicità” che consenta l’apertura del relativo mercato alla concorrenza, nonché il controllo sull’imparzialità delle relative procedure di aggiudicazione. La Corte ha inizialmente elaborato tale giurisprudenza per disciplinare quelle commesse pubbliche che, per la loro natura giuridica o per le loro ridotte dimensioni, sono sottratte alle regole della concorrenza previste dalla normativa europea in tema di appalti pubblici. Si può, peraltro, ritenere che le ragioni di fondo alla base di tale giurisprudenza giustifichino -come, del resto, chiaramente confermato dalla sentenza Promoimpresa del 2016 -la loro applicazione ad ogni fattispecie (anche non avente carattere puramente negoziale per il diritto interno) che dia luogo a prestazione di attività economiche o che comunque costituisca condizione per l’esercizio di dette attività. Più precisamente, secondo questa giurisprudenza, quando sia accertato che un contratto (di concessione o di appalto), pur se si colloca al di fuori del campo di applicazione delle direttive, presenta un interesse transfrontaliero certo, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di tale contratto ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto. L’interesse transfrontaliero certo consiste nella capacità di una commessa pubblica o, più in generale, di un’opportunità di guadagno offerta dall’Amministrazione anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri. La Corte di giustizia, nella sua giurisprudenza, se ne è occupata soprattutto in materia di appalti di lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria, elaborando alcuni indici identificativi. Per la Corte di giustizia, “spetta in linea di principio all’amministrazione aggiudicatrice interessata valutare, prima di definire le condizioni del bando di appalto, l’eventuale interesse transfrontaliero di un appalto il cui valore stimato è inferiore alla soglia prevista dalle norme comunitarie, fermo restando che tale valutazione può essere oggetto di controllo giurisdizionale” (Corte di giustizia, 15 maggio 2008, C. 147/06). Tuttavia, prosegue la Corte, “una normativa può certamente stabilire, a livello nazionale o locale, criteri oggettivi che indichino l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo. Tali criteri potrebbero sostanziarsi, in particolare, nell’importo di una certa consistenza dell’appalto in questione, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori. Si potrebbe altresì escludere l’esistenza di un tale interesse nel caso, ad esempio, di un valore economico molto limitato dell’appalto in questione (v., in tal senso, sentenza 21 luglio 2005, causa C-231/03, Coname, Racc. pag. I-7287, punto 20). È tuttavia necessario tenere conto del fatto che, in alcuni casi, le frontiere attraversano centri urbani situati sul territorio di Stati membri diversi e che, in tali circostanze, anche appalti di valore esiguo possono presentare un interesse transfrontaliero certo” (ancora Corte di giustizia, 15 maggio 2008, C. 147/06). In particolare, sempre con riferimento agli appalti, la Corte di giustizia ha affermato che tali criteri oggettivi potrebbero identificarsi “nell’importo di una certa consistenza dell’appalto in questione, in combinazione con il luogo di esecuzione dei lavori o, ancora, nelle caratteristiche tecniche dell’appalto e nelle caratteristiche specifiche dei prodotti in causa. A tal riguardo, si può altresì tenere conto dell’esistenza di denunce presentate da operatori ubicati in altri Stati membri, purché sia accertato che queste ultime sono reali e non fittizie” (Corte di giustizia, 6 ottobre 2016, n. 318). 16. Con riferimento al “mercato” delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, tali criteri devono evidentemente essere “adattati”, tenendo conto della particolarità del settore ConTEnzIoSo nAzIonALE di mercato che viene in considerazione. Qui non si stratta, infatti, di un appalto “isolato”, da eseguirsi una tantum, rispetto al quale l’esiguo valore economico, la specialità, sotto il profilo tecnico, delle prestazioni richieste e anche l’ubicazione (lontana dai confini) della prestazione potrebbero scoraggiare o rendere comunque scarsamente probabile la partecipazione di operatori economici di altri Stati membri. nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico- ricreative a venire in considerazione come strumento di guadagno offerto dalla p.a. non è il prezzo di una prestazione né il diritto di sfruttare economicamente un singolo servizio avente rilevanza economica. Al contrario degli appalti o delle concessioni di sevizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo. Basti pensare che il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime. L’attrattiva economica è aumentata dall’ampia possibilità di ricorrere alla sub-concessione. A tal proposito, l’articolo 45-bis cod. nav. consente al concessionario, previa autorizzazione dell’autorità competente, di affidare ad altri soggetti la gestione delle attività oggetto della concessione (o di attività secondarie nell’ambito della concessione stessa). L’attuale formulazione della norma è il risultato della modifica disposta dall’articolo 10, comma 2, della legge 16 marzo 2001, n. 18, che ha soppresso le parole “in casi eccezionali e per periodi determinati”, rendendo possibile il ricorso alla sub-concessione in via generalizzata e senza limiti temporali. È allora evidente che, a causa del ridotto canone versato all’Amministrazione concedente, il concessionario ha già la possibilità di ricavare, tramite una semplice sub-concessione, un prezzo più elevato rispetto al canone concessorio, che riflette il reale valore economico e l’effettiva valenza turistica del bene. Già queste considerazioni traducono in termini economici un dato di oggettiva e comune evidenza, legata alla eccezionale capacità attrattiva che da sempre esercita il patrimonio costiero nazionale, il quale per conformazione, ubicazione geografica, condizioni climatiche e vocazione turistica è certamente oggetto di interesse transfrontaliero, esercitando una indiscutibile capacità attrattiva verso le imprese di altri Stati membri. Pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole delle concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile, non solo sul piano costituzionale nazionale (dove pure è chiara la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza derivanti da una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali), ma, soprattutto e ancor prima, per quello che più ci interessa ai fini del presente giudizio, rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione. né si può sminuire l’importanza e la potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale attraverso un artificioso frazionamento del medesimo, nel tentativo di valutare l’interesse transfrontaliero rispetto alle singole aree demaniali date in concessione. Una simile parcellizzazione, oltre a snaturare l’indiscutibile unitarietà del settore, si porrebbe in contrasto, peraltro, con le stesse previsioni legislative nazionali (che, quando hanno previsto le proroghe, lo hanno sempre fatto indistintamente e per tutti, non con riferimento alle singole concessioni all’esito rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 di una valutazione caso per caso) e, soprattutto, darebbe luogo ad ingiustificabili ed apodittiche disparità di trattamento, consentendo solo per alcuni (e non per altri) la sopravvivenza del regime della proroga ex lege. non vi è dubbio, al contrario, che le spiagge italiane (così come le aree lacuali e fluviali) per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentino tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo, il che implica che la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata si pone in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE, in quanto è suscettibile di limitare ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, a maggior ragione in un contesto di mercato nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere. 17. L’obbligo di evidenza pubblica discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della c.d. direttiva 2006/123, che prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo, atteso che la Corte di giustizia si è espressamente pronunciata sul punto ritenendo che “l’interpretazione in base alla quale le disposizioni del capo III della direttiva 2006/123 si applicano non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro è conforme agli scopi perseguiti dalla suddetta direttiva” (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 103). 18. Devono, a tal proposito, essere fugati i dubbi relativi alla possibilità di far rientrare le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative nel campo di applicazione della direttiva in questione e, più in generale, i dubbi in merito alla stessa possibilità di ritenere la direttiva immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto del presente giudizio. In tal senso, già la Corte di giustizia con la sentenza Promoimpresa del 2016 si è espressa chiaramente, demandando al giudice nazionale solo il compito di accertare il requisito della scarsità della risorsa naturale. Tuttavia, come si è accennato, le conclusioni cui è giunta nel 2016 la Corte di giustizia sono state, specie nell’ambito del dibattito dottrinale, oggetto di tentativi di confutazione e molti di quegli argomenti critici sono stati ripresi dall’appellante nel presente giudizio. 19. I principali argomenti contrari all’applicazione della direttiva 2006/123 alle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative possono essere sintetizzati nei termini che seguono. I) nel settore delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, le notevoli differenze esistenti fra le legislazioni degli Stati membri (in particolare quelli più direttamente interessati ossia, oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Grecia e Croazia) avrebbe richiesto una preventiva armonizzazione delle normative nazionali applicabili in tale settore. Presupponendo (e implicando) tale preventiva armonizzazione, la direttiva 2006/123 avrebbe dovuto essere fondata, oltre che sugli articoli del Trattato relativi alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi (artt. 47, paragrafo 2 del Trattato sulle Comunità europee, ora, rispettivamente, artt. 53 e 63 TFUE) anche su un’altra base giuridica, vale a dire sull’art. 94 del Trattato sulle Comunità europee (ora art. 115 TFUE) che prevede il ricorso all’unanimità per l’adozione di atti normativi aventi come obiettivo l’armonizzazione delle legislazioni nazionali (mentre la direttiva 2006/123 è stata approvata a maggioranza). II) La direttiva 2006/123, se applicata alle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa, comporterebbe un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia di turismo, ponendosi così in contrasto con quanto oggi prevede l’art. 195 TFUE, secondo il quale, in materia di turismo, l’Unione europea si limita soltanto ad una politica di accompagnamento, con esclusione di “qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”. III) La concessione di beni demaniali non rientrerebbe comunque nella nozione di autorizza ConTEnzIoSo nAzIonALE zione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2006/123. La concessione del demanio marittimo -si osserva -è un atto che permette soltanto l’occupazione del bene di proprietà pubblica per uso turistico e ricreativo, ma non autorizza l’attività di servizio prestata dall’impresa turistico balneare. È vero che lo stabilimento balneare è di norma esercitato su suolo demaniale; nulla, tuttavia, toglierebbe, all’attività di servizio, il carattere suo proprio, se anche fosse esercitata su suolo di proprietà privata. Ma soprattutto non è vero il contrario, e cioè che la concessione demaniale riguardi necessariamente attività di stabilimento balneare (o di impresa turistica). In astratto, la concessione può essere richiesta e finanche preferita malgrado abbia ad oggetto attività non corrispondenti a prestazioni di servizi; e non perde in questo caso alcuno dei suoi connotati tipici. In senso giuridico, gli oggetti dei due provvedimenti permissivi -concessione demaniale e autorizzazione alla prestazione del servizio -corrono, quindi, su binari paralleli e non si confondono, con conseguente estraneità della concessione demaniale al campo applicativo dell’art. 12 della direttiva 2006/123. In tale direzione viene spesso richiamata anche la sentenza del Tribunal Costitucional spagnolo n. 223/2015, che, proprio su queste basi, ha escluso che la direttiva stessa si applichi al caso di concessione demaniale, ritenendo, appunto che la concessione “si configura come titolo di occupazione di demanio pubblico, non come misura di intervento secondo le leggi di settore che ricadono sull’attività [...]. Sarà quindi questa normativa di settore a disciplinare le attività di impresa di cui la concessione pubblica risulta essere solo il supporto fisico”. Iv) Le aree demaniali marittime, fluviali o lacuali non potrebbero in ogni caso considerarsi risorse scarse: mancherebbe, quindi, anche in fatto, il presupposto per applicare la norma della direttiva servizi. v) Si osserva, infine, che in ogni caso la direttiva 2006/123 e, in particolare, la disposizione contenuta nell’art. 12 sarebbe priva di quel livello di dettaglio e di specificità necessario ai fini della diretta applicabilità, in assenza di un puntuale recepimento da parte del legislatore nazionale. non si tratterebbe, in altri termini, di una direttiva self-executing. 20. Ad avviso dell’Adunanza plenaria, nessuno di tali argomenti risulta meritevole di condivisione. 21. occorre, anzitutto, evidenziare che la direttiva 2006/123 deve essere considerata una direttiva di liberalizzazione, nel senso che è tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso: “fissa disposizioni generali volte ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra i medesimi, al fine di contribuire alla realizzazione di un mercato interno dei servizi libero e concorrenziale” (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 104). Come emerge per tabulas dal suo articolo 1 (ed è, peraltro, confermato dai suoi numerosi Considerando e dal dibattito politico che si è svolto nella lunga fase di gestazione che ne ha preceduto la definitiva approvazione), l’obiettivo è quello di “stabilire le disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi”. Ciò al fine, appunto, di rendere possibile l’attuazione della libera circolazione dei servizi nel mercato interno, sul presupposto che tale libertà (a differenza di quella delle persone, dei beni e dei capitali) non avesse ancora trovato piena attuazione nell’ambito del mercato interno a causa della presenza all’interno degli ordinamenti nazionali di centinaia di ostacoli amministrativi o misure protezionistiche camuffate e discriminanti. La base giuridica della direttiva, pertanto, va individuata nel Capo II e nel Capo Iv del TFUE. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 L’obiettivo della direttiva non era (e non è) quello di “armonizzare” le discipline nazionali che prevedono ostacoli alla libera circolazione, ma, appunto, di eliminare tali ostacoli (attraverso lo smantellamento, più che l’armonizzazione, delle leggi nazionali che ad essi forniscono una copertura normativa), al fine di realizzare un’effettiva concorrenza fra i prestatori dei servizi, restando fermo che il risultato finale di ogni direttiva (anche se di liberalizzazione) implica un’armonizzazione normativa, che, però, non è l’obiettivo primario della direttiva 2006/123 e non può costituirne, pertanto, la base giuridica legittimante, come sostenuto da chi, invece, invoca la necessità di applicare la regola dell’unanimità in seno al Consiglio. In tale prospettiva la Corte di giustizia ha infatti affermato, proprio con riferimento alla direttiva 2006/123, che “la piena realizzazione del mercato interno dei servizi richiede anzitutto che vengano soppressi gli ostacoli incontrati dai prestatori per stabilirsi negli Stati membri”, per poi richiamare il considerando 7 e l’obiettivo di implementare un quadro giuridico generale, formato da una combinazione di misure diverse destinate a garantire un grado elevato d’integrazione giuridica nell’Unione per mezzo, in particolare, di un’armonizzazione vertente su precisi aspetti della regolamentazione delle attività di servizio (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punti 105 e 106). In base al Considerando 7 risulta evidente che la finalità di istituire un quadro giuridico generale a vantaggio di un’ampia varietà di servizi ha comportato, in via prioritaria e principale, l’eliminazione degli “ostacoli che possono essere rimossi rapidamente”, mentre, per quanto riguarda gli altri ostacoli, necessita di “avviare” un processo di valutazione, consultazione e armonizzazione “complementare” in merito a questioni specifiche grazie al quale sarà possibile modernizzare progressivamente ed in maniera coordinata i sistemi nazionali che disciplinano le attività di servizi. Considerato quindi l’obiettivo primario della direttiva 2006/123, non viene in evidenza l’art. 115 TFUE (art. 94 del Trattato sulle Comunità europee), che prevede la deliberazione all’unanimità delle direttive di armonizzazione e coordinamento. 22. Queste considerazioni valgono anche per gli articoli da 9 a 13, che riguardano, nell’ambito di attività diverse, il rilascio di autorizzazioni da parte di pubbliche autorità e, in particolare, per l’art. 12, ai sensi del quale, “qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. 23. Le considerazioni che precedono consentono di superare anche il secondo argomento che viene invocato contro l’applicazione della direttiva in materia di concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, ossia l’assenza di competenza dell’Unione europea ad adottare misure di armonizzazione in materia di turismo, alla luce dell’art. 195 TFUE. La circostanza già evidenziata che la direttiva 2006/123 non possa considerarsi una direttiva di armonizzazione (essendo, piuttosto, una direttiva di liberalizzazione) dimostra, di per sé, l’infondatezza dell’assunto. Inoltre, l’art. 12 della direttiva 2006/123, nella misura in cui pretende una procedura di gara trasparente ed imparziale per il rilascio di autorizzazioni in caso di scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, è norma volta a disciplinare il mercato interno in termini generali, applicandosi quindi a tutti i settori salvo quelli esclusi dall’ambito di applicabilità della medesima direttiva. In tale prospettiva deve essere letta la disposizione di cui all’art. 2 comma 2 della direttiva 2006/123, dove si stabilisce che la direttiva non si applica ConTEnzIoSo nAzIonALE ai “servizi nel settore dei trasporti, ivi compresi i servizi portuali”, con la conseguente necessità, in sede di applicazione pratica della norma, di enucleare specificamente la nozione di “servizi portuali”, anche con riferimento al (diverso) concetto di porto (turistico) e all’oggetto della concessione demaniale. Del resto, la portata conformativa dell’art. 12 della direttiva 2006/123 sulle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa non si riverbera in modo diretto sulla politica nazionale in materia di turismo: il rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare), la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva. La tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia. Altrimenti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati. Ad esempio, oltre al turismo, competenze di mero sostegno dell’Unione europea sono previste in materia di sanità pubblica, istruzione, cultura e protezione civile, che sono tutti settori rispetto ai quali i contratti pubblici sono sottoposti all’obbligo di gara. Del resto, con specifico riferimento all’applicabilità della direttiva 2006/123 al settore del turismo, la Corte di giustizia ha espressamente affermato che essa “si applica a numerose attività in costante evoluzione, tra le quali figurano i servizi collegati con il settore immobiliare, nonché quelli nel settore del turismo” (Corte di giustizia, Grande sezione, 22 settembre 2020, C724/ 2018 e C-727/2018, punto 35). 24. non ha pregio neanche l’argomento volto a contestare la qualificazione della concessione demaniale con finalità turistico-ricreativa in termini di autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2006/123. Come si è visto, a sostegno di tale posizione si osserva, in sintesi, che la concessione attribuisce il bene (rectius, il diritto di sfruttarlo), ma non autorizza l’esercizio dell’attività e che le attività svolte dal concessionario non sono sempre attività di servizi. Tale impostazione risulta, tuttavia, meramente formalistica, perché valorizza la distinzione, propria del diritto nazionale, tra concessione di beni (come atto con effetti costitutivi/traslativi che attribuisce un diritto nuovo su un’area demaniale) e autorizzazione di attività (come atto che si limita a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente). Questa distinzione, di stampo giuridico-formale, deve essere rivisitata nell’ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’Unione, che da tempo, proprio in materia di concessioni amministrative, ha dato impulso ad un processo di rilettura dell’istituto in chiave sostanzialistica, attenta, più che ai profili giuridico-formali, all’effetto economico del provvedimento di concessione, il quale, nella misura in cui si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie che, a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi. Dall’art. 4, punto 1, della direttiva 2006/123 risulta che per rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 “servizio”, ai fini di tale direttiva, si intende qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 57 TFUE, fornita normalmente dietro retribuzione. In particolare, “un’attività di locazione di un bene immobile […], esercitata da una persona giuridica o da una persona fisica a titolo individuale, rientra nella nozione di 􀀀servizio􀀀, ai sensi dell’articolo 4, punto 1, della direttiva 2006/123” (Corte di giustizia, Grande sezione, 22.9.2020, C724/ 2018 e C-727/2018, punto 34). La stessa decisione della Commissione 4 dicembre 2020 relativa al regime di aiuti SA. 38399 2019/C (ex 2018/E) “Tassazione dei porti in Italia” contiene l’affermazione per cui “la locazione di proprietà demaniali dietro il pagamento di un corrispettivo costituisce un’attività economica”. È allora evidente che il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico- ricreativi va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara. Del resto, come ricordato dalla Corte di giustizia nella più volte citata sentenza Promoimpresa, “il considerando 39 della direttiva in questione precisa che la nozione di regime di autorizzazione dovrebbe comprendere, in particolare, le procedure amministrative per il rilascio di concessioni”. E la stessa sentenza ha chiaramente affermato che “tali concessioni possono quindi essere qualificate come autorizzazioni, ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123, in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica”. L’Adunanza plenaria non può che condividere tali conclusioni e ribadire che le concessioni di beni demaniali per finalità turistico-ricreative rappresentano autorizzazioni di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva c.d. servizi, come tali sottoposte all’obbligo di gara. 25. In senso contrario non vale neanche valorizzare la mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale, sul quale peraltro la Corte di giustizia, nella sentenza Promoimpresa, ha rilevato che le concessioni sono rilasciate a livello non nazionale bensì comunale, fatto che deve “essere preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato”. Il concetto di scarsità va, invero, interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della “quantità” del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti, oltre che dei fruitori finali del servizio che tramite esso viene immesso sul mercato. va ancora considerata la concreta disponibilità di aree ulteriori rispetto a quelle attualmente già oggetto di concessione. È sulle aree potenzialmente ancora concedibili (oltre che su quelle già assentite), infatti, che si deve principalmente concentrare l’attenzione per verificare se l’attuale regime di proroga fino al 31 dicembre 2033 possa creare una barriera all’ingresso di nuovi operatori, in contrasto con gli obiettivi di liberalizzazione perseguiti dalla direttiva. La valutazione della scarsità della risorsa naturale, invero, dipende essenzialmente dall’esistenza di aree disponibili sufficienti a permettere lo svolgimento della prestazione di servizi anche ad operatori economici diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga ex lege. Da questo punto di vista, i dati forniti dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle Infrastrutture rivelano che in Italia quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune regioni (come Liguria, Emilia-ro ConTEnzIoSo nAzIonALE magna e Campania) arrivano quasi al 70%. Una percentuale di occupazione, quindi, molto elevata, specie se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico- ricreative, perché inquinata o comunque “abbandonata”. A ciò si aggiunge che in molte regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la percentuale già assentita. È evidente, allora, che l’insieme di questi dati già evidenzia che attualmente le aree demaniali marittime (ma analoghe considerazioni valgono per quelle lacuali o fluviali) a disposizione di nuovi operatori economici sono caratterizzate da una notevole scarsità, ancor più pronunciata se si considera l’ambito territoriale del comune concedente o comunque se si prendono a riferimento porzioni di costa ridotte rispetto alla complessiva estensione delle coste italiane, a maggior ragione alla luce della già evidenziata capacità attrattiva delle coste nazionali e l’elevatissimo livello della domanda in tutto il periodo estivo (che caratterizza l’intero territorio nazionale, al di là della variabilità dei picchi massimi che possono differenziare le singole zone). Pertanto, nel settore delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti, perché è stato già raggiunto il -o si è molto vicini al -tetto massimo di aree suscettibile di essere date in concessione. Anche da questo punto di vista, quindi, sussistono i presupposti per applicare l’art. 12 della direttiva 2006/123. 26. non ha pregio, infine, la tesi volta a sostenere che la disposizione in questione non potrebbe considerarsi self-executing, perché non sufficientemente dettagliata o specifica. Il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considerare self-executing dipende, invero, dal risultato che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare tale risultato. Da questo punto di vista, l’art. 12 della direttiva persegue l’obiettivo di aprire il mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse, sostituendo, ad un sistema in cui tali risorse vengono assegnate in maniera automatica e generalizzata a chi è già titolare di antiche concessioni, un regime di evidenza pubblica che assicuri la par condicio fa i soggetti potenzialmente interessati. rispetto a tale obiettivo, la disposizione ha un livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale che prevede la proroga ex lege fino al 2033 e ad imporre, di conseguenza, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità. Pur essendo auspicabile (come si dirà nel prosieguo con maggiore dettaglio) che il legislatore intervenga, in una materia così delicata e sensibile dal punto di vista degli interessi coinvolti, con una disciplina espressa e puntuale, non vi è dubbio, tuttavia, che nell’inerzia del legislatore, l’art. 12 della direttiva 2006/123 e i principi che essa richiama, tenendo anche conto di come essi sono stati più volti declinati dalla giurisprudenza europea e nazionale, già forniscono tutti gli elementi necessari per consentire alle Amministrazioni di bandire gare per il rilascio delle concessioni demaniali in questione, non applicando il regime di proroga ex lege. 27. Alla luce delle considerazioni che precedono deve, quindi, ritenersi che anche l’art. 12 della direttiva 2006/123 sia applicabile al rilascio e al rinnovo delle concessioni demaniali marittime, con conseguente incompatibilità comunitaria, anche sotto tale profilo, della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata delle concessioni già rilasciate. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 È peraltro indiscutibile che il confronto competitivo, oltre ad essere imposto dal diritto del- l’Unione, risulta coerente con l’evoluzione della normativa interna sull’evidenza pubblica, che individua in tale metodo non solo lo strumento più efficace per la scelta del miglior “contraente” (in tal caso, concessionario), cioè del miglior interlocutore della pubblica amministrazione, ma anche come mezzo per garantire trasparenza alle scelte amministrative e apertura del settore dei servizi al di là di barriere all’accesso. Inoltre, il confronto è estremamente prezioso per garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza, potendo contribuire in misura significativa alla crescita economica e, soprattutto, alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita. 28. Le considerazioni appena svolte conducono alla conclusione -anticipando sin da ora la risposta al terzo quesito -secondo cui anche la moratoria emergenziale prevista dall’art. 182, co. 2, d.l. 34/2020 presenta profili di incompatibilità comunitaria del tutto analoghi a quelli fino ad ora evidenziati. non è, infatti, seriamente sostenibile che la proroga delle concessioni sia funzionale al “contenimento delle conseguenze economiche prodotte dal- l’emergenza epidemiologica”. In senso contrario, si deve osservare, come evidenziato dalla Commissione nell’ultima lettera di costituzione in mora (che riguarda anche l’art. 182, co. 2, d.l. 34/2020), che “la reiterata proroga della durata delle concessioni balneari prevista dalla legislazione italiana scoraggia […] gli investimenti in un settore chiave per l’economia italiana e che sta già risentendo in maniera acuta dell’impatto della pandemia da COVID-19. Scoraggiando gli investimenti nei servizi ricreativi e di turismo balneare, l’attuale legislazione italiana impedisce, piuttosto che incoraggiare, la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano. La modernizzazione è ulteriormente ostacolata dal fatto che la legislazione italiana rende di fatto impossibile l’ingresso sul mercato di nuovi ed innovatori fornitori di servizi”. non vi è quindi alcuna ragionevole connessione tra la proroga delle concessioni e le conseguenze economiche derivanti dalla pandemia, presentandosi semmai essa come disfunzionale rispetto all’obiettivo dichiarato e di fatto diretta a garantire posizioni acquisite nel tempo. 29. Le considerazioni che precedono danno conto anche delle ragioni del mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE. nel caso di specie ricorre una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d. “giurisprudenza Cilfit” (di recente, ribadita, sia pure con alcuni correttivi volti a renderla più flessibile, dalla Corte di giustizia, Grande Camera, nella sentenza 6 ottobre 2021, C-569/19), i giudici nazionali di ultima istanza non sono sottoposti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. La questione controversa è stata, infatti, già oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia e gli argomenti invocati per superare l’interpretazione già resa dal giudice europeo non sono in grado di sollevare ragionevoli dubbi, come confermato anche dal fatto che i principi espressi dalla sentenza Promoimpresa sono stati recepiti da tutta la giurisprudenza amministrativa nazionale sia di primo che di secondo grado, con l’unica isolata eccezione del T.a.r. Lecce, il quale, peraltro, più che mettere in discussione l’esistenza di un regime di evidenza pubblica comunitariamente imposto cui sottoporre il rilascio o il rinnovo della concessioni demaniali, ha negato (come si vedrà nel prosieguo con maggiore dettaglio) la sussistenza di un potere di non applicazione in capo agli organi della P.A., toccando, quindi, una questione sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) ancor più consolidati e granitici. 30. Appurata l’incompatibilità comunitaria (per contrasto sia con gli artt. 49 e 56 TFUE sia ConTEnzIoSo nAzIonALE con l’art. 12 della direttiva 2016/123) della disciplina nazionale (art. 1, commi 682 e 683, l. n. 145/2018 e art. 182, comma 2, d.l. 19 n. 34/2020) che prevede la proroga ex lege delle concessioni demaniali già rilasciate, si può procedere all’esame dei quesiti concernenti le conseguenze di tale contrasto normativo. 31. viene sotto tale profilo in rilievo il primo quesito oggetto del decreto presidenziale di rimessione all’Adunanza plenaria: 1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-excuting, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all’accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva. 32. L’Adunanza plenaria ritiene che l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing. In termini generali, va, anzitutto, osservato che la sussistenza di un dovere di non applicazione anche da parte della P.A. rappresenta un approdo ormai consolidato nell’ambito della giurisprudenza sia europea sia nazionale. In particolare, nella sentenza Fratelli Costanzo si legge espressamente che “tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali”, sono tenuti ad applicare le disposizioni UE self-executing, “disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi” (22 giugno 1989, C-103/88). Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 389 del 1989) ha ribadito che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) -tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme” comunitarie nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea. Il Consiglio di Stato, a sua volta, sin dalla sentenza sez. v 6 aprile 1991, n. 452, ha chiarito che tutti i soggetti dell’ordinamento, compresi gli organi amministrativi, devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante le norme comunitarie, non applicando le norme nazionali contrastanti. opinare diversamente significherebbe autorizzare la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto. 33. Queste conclusioni valgono anche per il caso in cui a venire in rilievo sia una direttiva self-executing. A tal proposito, il T.a.r. Lecce (nella sentenza oggetto del presente giudizio) ha valorizzato la distinzione tra regolamenti comunitari -che sono, per loro stessa natura, direttamente applicabili e tali quindi da giustificare la non applicazione anche da parte della P.A. -e direttive, che, al contrario, di regola non possono produrre effetti diretti e la cui eccezionale natura self-executing richiederebbe una complessa attività interpretativa, la quale, ove rimessa ai singoli organi amministrativi, rischierebbe di legittimare non applicazioni della rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 legge nazionale affidate a valutazioni soggettive ed opinabili del singolo funzionario, prive di riscontro in sede di giurisprudenza nazionale o europea. 34. L’argomento, sebbene suggestivo, non può essere condiviso, per diverse ragioni. 34.1. In primo luogo, è dirimente la circostanza che nel caso di specie tale incertezza circa il carattere self-executing della direttiva 2006/123 non sussiste, perché tale carattere è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza Promoimpresa (C-174/06), oltre che da una copiosa giurisprudenza nazionale che ad essa ha fatto seguito. 34.2. In secondo luogo, la prospettata distinzione, nell’ambito delle norme U.E. direttamente applicabili, fra i regolamenti, da un lato, e le direttive self-executing, dall’altro -al fine di ritenere solo le prime e non le seconde in grado di produrre l’obbligo di non applicazione in capo alla P.A. -si tradurrebbe nel parziale disconoscimento del c.d. effetto utile delle stesse direttive autoesecutive e nella artificiosa creazione di un’inedita categoria di norme U.E. direttamente applicabili (nei rapporti verticali) solo da parte del giudice e non della P.A. Di tale limitazione non vi è traccia nella giurisprudenza comunitaria, la quale, anzi, è da tempo orientata verso una progressiva valorizzazione dell’effetto diretto della direttiva self-executing (cui si riconosce una crescente incidenza anche nella disciplina dei rapporti orizzontali). 34.3. Infine, la tesi della non disapplicabilità da parte della P.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cade in una contraddizione logica, che finisce per sterilizzarne ogni utilità pratica. Basti pensare che, anche ad ammettere che la legge in contrasto con la direttiva self-esecuting non sia disapplicabile dalla P.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anticomunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato. E allora, nel momento in cui la P.A. ha comunque deciso di “non applicare” quella legge (nel caso di specie, negando la proroga) e il privato ha sottoposto al vaglio giurisdizionale l’atto amministrativo frutto di quella non applicazione, il giudice, che certamente ha il potere di non applicazione, non potrebbe che prendere atto della legittimità dell’atto e respingere il ricorso. Altrimenti si dovrebbe ritenere che nemmeno il giudice può disapplicare la legge che la P.A. ha applicato, con chiara violazione di consolidati principi sui rapporti tra ordinamenti nazionale e comunitario. In altri termini, delle due l’una: o si ammette che la legge non è disapplicabile nemmeno dal giudice (ma in questo modo il contrasto con il principio di primazia del diritto dell’Unione diventa stridente) oppure si ammette che l’Amministrazione è “costretta” ad adottare un atto illegittimo, destinato poi ad essere annullato dal giudice, che può fare ciò che la P.A. non ha potuto fare, cioè non applicare la legge nazionale anticomunitaria. Ma immaginare un’Amministrazione “costretta” ad adottare atti comunitariamente illegittimi e a farlo in nome di una esigenza di certezza del diritto (legata all’asserita difficoltà di individuare le direttive selfexecuting) appare una contraddizione in termini. 35. Le considerazioni che precedono evidenziano come le distinzione tra norme non applicabili tout court e norme non applicabili dal giudice ma non della P.A. risulti foriera di contraddizioni e inconvenienti pratici, anche perché di fatto affida alla fase dell’eventuale contenzioso giurisdizionale la primazia del diritto dell’Unione, con la conseguenza che, in caso di mancata impugnazione, la violazione della direttiva andrebbe ingiustificatamente a consolidarsi (e con riferimento al presente contenzioso va sottolineato che rispetto alle proroghe assentite nella maggior parte dei casi non ci sono controinteressati attuali che propongono ricorso). 36. ne consegue allora che la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata ConTEnzIoSo nAzIonALE né dal giudice né dalla pubblica amministrazione, senza che sia all’uopo necessario (come chiarito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 170 del 1984) una questione di legittimità costituzionale. Si ricorda, invero, che un sindacato di costituzionalità in via incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cfr., in particolare, Corte Cost., sentenze n. 289/2017, n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019). nessuna delle due “eccezioni” ricorre nel caso di specie, perché le norme comunitarie violate sono self-executing e non vengono in rilievo diritti fondamentali della persona costituzionalmente protetti. 37. In senso contrario non vale invocare il rischio correlato alle possibili ripercussioni che una simile non applicazione potrebbe generare in termini di responsabilità penale dei concessionari demaniali, i quali, secondo una certa impostazione, venute meno le proroghe ex lege, si troverebbero privi di titolo legittimante l’occupazione del suolo demaniale, così incorrendo nel reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo previsto dal- l’art. 1161 cod. nav. Tale timore è, infatti, privo di fondamento, atteso che ad una simile conclusione ostano incondizionatamente i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale. Detti principi, come riconosciuto anche dalla Corte di giustizia U.E., fanno parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri e come tali sono parte integrante dello stesso ordinamento comunitario (ed in ogni caso rappresenterebbe comunque controlimiti interni al principio di primazia). ne discende che la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem. 38. non rilevano, in senso contrario, neanche le esigenze correlate alla tutela dell’affidamento degli attuali concessionari. In primo luogo, l’affidamento del concessionario dovrebbe trovare tutela (come chiarito da Corte di giustizia e anche dalla Corte costituzionale) non attraverso la proroga automatica, ma al momento di fissare le regole per la procedura di gara (par. 3 del- l’art. 12 della direttiva e sentenza Promoimpresa par. 52-56). In relazione alla pretesa esigenza di tutela dell’affidamento, anche la lettera di messa in mora della Commissione europea del 3 dicembre 2020, nel rilevarne l’insussistenza, ricorda che “secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. In secondo luogo, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili”. In termini più generali si è affermato che, “qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09). 38.1. Tali condizioni non sussistono nella materia in esame, specie se si considera che, ancor prima e a prescindere dalla direttiva 2006/123, il Consiglio di Stato aveva già affermato che rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 per le concessioni demaniali la sottoposizione ai principi della concorrenza e dell’evidenza pubblica trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione del bene pubblico si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai suddetti principi di trasparenza e non discriminazione (cfr. Cons. Stato, sez. Iv, 25 gennaio 2005, n. 168, Id., sez. v, 31 maggio 2007, n. 2825). A ciò si aggiunga la considerazione che, su questa materia, la prima procedura di infrazione risale al 2008. Si tratta della procedura di infrazione n. 2008/4908, su cui v. la lettera di messa in mora inviata all’Italia il 29 gennaio 2009, iniziata in seguito della segnalazione dell’AGCM (segnalazione AS481 del 20 ottobre 2008), procedura poi chiusa nel 2012, confidando sul fatto che l’art. 11 d.l. n. 194/2009, conv. in l. n. 25/2010, aveva delegato il Governo ad emanare un decreto legislativo avente ad oggetto la revisione e il riordino della legislazione relativa alle concessioni demaniali marittime. 38.2. Anche la Corte costituzionale, a partire dal 2010, è più volte intervenuta sulla questione, dichiarando costituzionalmente illegittime alcune disposizioni regionali -per mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento U.E. (art. 117, primo comma, Cost.) -che prevedevano proroghe delle concessioni demaniali marittime in favore dei titolari delle concessioni. Si segnala, in particolare, Corte cost. n. 180/2010, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, l.r. Emilia-romagna 23 luglio 2009, n. 8, il quale prevedeva la possibilità, per i titolari di concessioni demaniali, di chiedere la proroga della concessione, fino ad un massimo di 20 anni dalla data del rilascio, subordinatamente alla presentazione di un programma di investimenti per la valorizzazione del bene. La Corte ha dichiarato la norma costituzionalmente illegittima perché determinava “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento (detto anche “di non discriminazione”), che si ricava dagli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi”. Analoga vicenda ha riguardato l’art. 16, comma 2, l.r. Toscana n. 23 dicembre 2009, n. 77, che è stata dichiarata illegittima dalla Corte con sentenza n. 340/2010. Tale disposizione prevedeva la possibilità di una proroga, fino ad un massimo di 20 anni, delle concessioni in essere, in ragione dell’entità degli investimenti realizzati e dei relativi ammortamenti: in tale occasione la Corte si è richiamata alla sua precedente decisione n. 180/2010, sopra citata. Stessa sorte hanno subito l’art. 4, comma 1, l.r. Marche 11 febbraio 2010, n. 7; l’art. 5, l.r. veneto 16 febbraio 2010, n. 13; gli artt. 1 e 2, l.r. Abruzzo18 febbraio 2010, n. 3, dichiarati illegittimi con sentenza n. 213/2011. Tali disposizioni consentivano ai titolari di concessione in corso di validità, che avessero eseguito o che eseguissero, durante la vigenza della concessione, interventi edilizi, accompagnati o meno da acquisto di attrezzature e beni mobili, di chiedere la variazione della durata della concessione per un periodo compreso tra 7 e 20 anni (decorrenti dalla data di variazione). Al di là delle singole fattispecie, dall’esame delle pronunce citate si evince (appunto già a partire dal 2010) che, nel procedimento di assegnazione dei beni demaniali, occorre assicurare il rispetto delle regole della par condicio, tra cui, in primis, l’effettiva equipollenza delle condizioni offerte dal precedente concessionario e dagli altri aspiranti. 39. Può procedersi all’esame del secondo quesito rimesso all’Adunanza plenaria, con il quale si chiede di stabilire, “nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa del- l’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della ConTEnzIoSo nAzIonALE legge n. 241 del 1990, nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio”. 40. In via preliminare, è utile ricordare che, secondo la stessa giurisprudenza comunitaria, il principio di primazia del diritto U.E. di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi. In linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato. Si possono richiamare, a tal proposto, con specifico riferimento alla questione dell’obbligo di autotutela su un atto amministrativo comunitariamente invalido, le sentenze Khune (C453/ 04) e Kempter (C-2/06), in cui la Corte UE, pur escludendo la sussistenza di un generalizzato obbligo di autotutela o di riesame, individua alcune condizioni in presenza delle quali tale obbligo sussiste, anche in presenza di giudicato che abbia escluso l’illegittimità del provvedimento medesimo. Secondo la Corte, tale obbligo sussiste quando: a) l’amministrazione disponga secondo il diritto nazionale del potere di riesame; b) l’atto amministrativo sia divenuto definitivo a seguito di una sentenza di un giudice nazionale di ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della CGUE successiva alla medesima, risulti fondata su una interpretazione errata del diritto adottata senza che la Corte fosse stata adita in via pregiudiziale. 41. Tali principi, che l’Adunanza plenaria intende condividere e ribadire, non sono tuttavia applicabili al caso di specie, dove, a ben guardare, non si pone propriamente una questione di autotutela amministrativa su provvedimenti amministrativi. La risposta al quesito sub 2) richiede, infatti, la previa qualificazione dell’atto di rinnovo di proroga, richiesto o che sia stato eventualmente già adottato. 42. L’Adunanza plenaria ritiene che l’atto di proroga sia un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile (così la sentenza Cons. St., sez. vI, 18 novembre 2019 n. 7874). In tal senso, la formulazione letterale dell’art. 1, comma 682, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 non lascia spazio a dubbi, perché la norma direttamente dispone che le concessioni demaniali già rilasciate “vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici” (sull’ambito oggettivo di applicabilità della disposizione è intervenuto il d.l. 14.8.2020 n. 104 convertito con legge 13.10.2020 n. 126, che ha stabilito, al comma 1 dell’art. 100, che “Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 682 e 683, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, si applicano anche alle concessioni lacuali e fluviali, ivi comprese quelle gestite dalle società sportive iscritte al registro Coni di cui al decreto legislativo 23 luglio 1999 n. 242, nonché alle concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, inclusi i punti d’ormeggio, nonché ai rapporti aventi ad oggetto la gestione di strutture turistico ricreative in aree ricadenti nel demanio marittimo per effetto di provvedimenti successivi all’inizio dell’utilizzazione”). La proroga del termine avviene, quindi, automaticamente, in via generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione di alcun potere amministrativo. Si tratta, in buona sostanza, di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e “legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate. Ed invero, se una legge proroga la durata di un provvedimento amministrativo, quel contenuto continua ad essere vigente in forza e per effetto della legge e, quindi, assurge necessariamente a fonte regolatrice del rapporto rispetto al rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 quale l’atto amministrativo che (eventualmente) intervenga ha natura meramente ricognitiva dell’effetto prodotto dalla norma legislativa di rango primario. Si è verificata, quindi, e in mancanza di una riserva di amministrazione costituzionalmente garantita, una novazione sostanziale della fonte di regolazione del rapporto, che ora trova appunto la sua base, in particolare per ciò che concerne la durata del rapporto, nella legge e non più nel provvedimento (mutatis mutandis, con riferimento alla questione della legificazione dei d.P.C.M. adottati per contenere l’emergenza epidemiologica da Covid-19, la cui durata è stata prorogata ex lege dai decreti-legge n. 44/2021 e n. 52/2021, cfr. Cons. Stato, sez. III, ord. 29 marzo 2021, n. 1606). 43. Seguendo questa impostazione, se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione, ne discende, allora, che l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si fosse mai prodotto. Sono le dinamiche (di non applicazione) della fonte primaria che regolamenta il rapporto di diritto pubblico che determinano l’effetto di mancata proroga delle concessioni. Di talché l’Amministrazione non esercita alcun potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano): se l’atto eventualmente adottato dall’amministrazione svolge la sola funzione ricognitiva (e nei termini appunto in cui svolga questa sola funzione), mentre l’effetto autoritativo è prodotto direttamente dalla legge, la non applicabilità di quest’ultima impedisce il prodursi dell’effetto autoritativo della proroga. Del resto, il potere di autotutela quale potere di regolamentare una seconda (rectius “ulteriore”) volta, in aderenza al principio di buon andamento e continuità dell’azione amministrativa, il rapporto di diritto pubblico (e l’interesse pubblico ad esso sotteso) presuppone detto potere di regolamentazione che, come sopra evidenziato, è stato invece avocato a sé dal legislatore. In altre parole, il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge. non può peraltro evitarsi di considerare la particolare funzione svolta dall’atto ricognitivo eventualmente adottato dall’Amministrazione: essa non costituisce il portato del potere autoritativo riconosciuto alla soggettività pubblica, pur essendo comunque riconducibile alla posizione dell’Amministrazione all’interno dell’ordinamento giuridico generale. Tale provvedimento è funzionale a rappresentare il verificarsi di un fatto (la proroga) con un grado di certezza che consente alla collettività di fare affidamento su di esso al fine di rendere sollecito e affidabile il traffico economico e giuridico, che deriva appunto dal ruolo svolto dall’Amministrazione nell’ambito di una società fluida come quella contemporanea, nella quale anche molti rapporti tipicamente amministrativi sono regolati in assenza di un provvedimento espresso. Detto ruolo consente alle soggettività pubbliche di creare certezze giuridicamente rilevanti per i terzi, laddove invece ai privati è inibita questa facoltà rispetto a soggetti estranei al rapporto negoziale. Sicché le medesime ragioni di certezza depongono nel senso che l’Amministrazione provveda, comunque, a rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarla al soggetto cui è stato rilasciato detto atto. 44. Analoghe considerazioni valgono anche nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale. Da questo punto di vista, è pur vero che occorre ribadire -in applicazione dei principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata, diventati essi ConTEnzIoSo nAzIonALE stessi princìpi non solo degli Stati membri ma anche del diritto dell’Unione -– l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, con la conseguenza che, come affermato ripetutamente dalla stesa Corte di giustizia, il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di non applicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione (v. ex plurimis, sentenza 11 settembre 2019, causa C-676/17, con ulteriori richiami; Corte giust., 16 marzo 2006, causa C-234/04; 1° giugno 1999, causa C-126/97; in termini cfr. anche Ad. Plen. n. 6/2021 e Cass. civ., Sez. 5, 27 gennaio 2017, n. 2046). Tuttavia, occorre tener conto del fatto che, nel caso di specie, tali principi vanno adeguati tenendo conto che il giudicato incide su un rapporto di durata (qual è appunto quello che deriva dal rilascio o dal rinnovo della concessione demaniale). Sotto tale profilo, va, infatti, ricordato, che, come affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 11 del 2016, le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate: la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, dunque, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto. La sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di giustizia è, quindi, equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato (come accade quando viene in considerazione un rapporto di durata) determina non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica. ora, considerando che in seguito al rinnovo della concessione demaniale nasce (o prosegue) un rapporto di durata, deve essere richiamato il consolidato principio in base al quale la sopravvenienza normativa (cui è equiparabile, appunto, la sentenza interpretativa della Corte di giustizia) incide sulle situazioni giuridiche durevoli per quella parte che si svolge successivamente al giudicato. ne consegue che, per quella parte di rapporto non coperta dal giudicato, non vi sono ostacoli a dare immediata attuazione allo jus superveniens di derivazione comunitaria (con le conseguenze di cui infra). 45. In conclusione, pertanto, l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali produce come effetto, anche nei casi in cui siano stati adottati formali atti di proroga e nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole, il venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non applicazione della disciplina interna. 46. L’Adunanza plenaria è, tuttavia, consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni. Basterà ricordare che la prima proroga, fino al 31 dicembre 2015, fu disposta dall’art. 1, comma 18, d.l. n. 194 del 2009, convertito con modificazione in legge 26 febbraio 2010, n. 25. Il termine del 31 dicembre 2015 fu successivamente prorogato sino al 31 dicembre 2020 per effetto della successiva legge 24 dicembre 2012, n. 228, e, infine, approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020, l’art. 1, commi 682 e 683 ha disposto l’ulteriore proroga fino al 31 dicembre 2033. nel corso di queste ripetute proroghe, il legislatore, anche per fare fronte alle procedure di infrazione nel frattempo aperte dalla Commissione europea, aveva “annunciato” il “riordino della materia in conformità dei principi di derivazione europea” (così l’art. 24, comma 3-sep rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 ties d.l. n. 113 del 2016, convertito in legge n. 160 del 2016); come è noto, tuttavia, la nuova normativa volta a garantire compatibilità con l’ordinamento europeo non è mai intervenuta. ne è derivata una situazione di sicura incertezza, che sarebbe ulteriormente alimentata dal- l’improvvisa cessazione di tutti i rapporti concessori in atto, come conseguenza della immediata non applicazione della legge nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione. 47. In questo quadro normativo, l’Adunanza plenaria, applicando principi analoghi a quelli già espressi nella sentenza n. 13 del 2017, ritiene allora che, a fronte di un quadro di incertezza normativa, sussistano i presupposti per modulare gli effetti temporali della propria decisione. La deroga alla retroattività trova fondamento nel principio di certezza del diritto: si limita la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni (in tal senso, ma con riferimento all’ordinamento comunitario, Corte di giustizia, 15 marzo 2005, in C-209/03). nel caso di specie, peraltro, la graduazione degli effetti è resa necessaria dalla constatazione che la regola in base alla quale le concessioni balneari debbono essere affidate in seguito a procedura pubblica e imparziale richiede di prevedere un intervallo di tempo necessario per svolgere la competizione, nell’ambito del quale i rapporti concessori continueranno a essere regolati dalla concessione già rilasciata. Detto periodo deve essere congruo rispetto all’esigenza funzionale di espletare le gare e di evitare il significativo impatto economico e sociale che altrimenti deriverebbe dall’improvvisa decadenza dei rapporti concessori in essere. Al tempo stesso, il lasso temporale non può essere elusivo dell’obbligo di adeguamento della realtà nazionale all’ordinamento comunitario. L’intervallo temporale potrebbe altresì consentire a Governo e Parlamento di approvare doverosamente una normativa che possa finalmente riordinare la materia e disciplinare in conformità con l’ordinamento comunitario il sistema di rilascio delle concessioni demaniali. È, infatti, compito del legislatore farsi carico di una disciplina che, nel rispetto dei principi del- l’ordinamento dell’Unione e degli opposti interessi, sia in grado di contemperare le ormai ineludibili istanze di tutela della concorrenza e del mercato con l’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti. 48. Pertanto, l’Adunanza plenaria, consapevole della portata nomofilattica della presente decisione, della necessità di assicurare alle amministrazioni un ragionevole lasso di tempo per intraprendere sin d’ora le operazioni funzionali all’indizione di procedure di gara, nonché degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente deriveranno su una moltitudine di rapporti concessori, ritiene che tale intervallo temporale per l’operatività degli effetti della presente decisione possa essere congruamente individuato al 31 dicembre 2023. Scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se via sia -o meno -un soggetto subentrante nella concessione. Si precisa sin da ora che eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni altra disciplina comunque diretta ad eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere. ConTEnzIoSo nAzIonALE 49. In ordine ai principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare, ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’approntare la normativa di riordino del settore, può ricordarsi che l’art. 12 della direttiva 2006/123 già contiene importanti criteri in grado di veicolare la discrezionalità del legislatore, imponendo, appunto, una “procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”, ma precisando anche che, “nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”. nel considerare tali ultime prerogative possono essere apprezzati e valorizzati in sede di gara profili di politica sociale e del lavoro e di tutela ambientale. Con specifico riferimento al legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, funzionale ad ammortizzare gli investimenti da loro effettuati, la Corte di giustizia ha constatato che “gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale”, precisando che si possa tenere conto di tali considerazioni “solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva” e che comunque necessiti al riguardo “una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti” (sentenza Promoimpresa). La Corte di giustizia ha del resto rinvenuto detta situazione rispetto a una concessione attribuita nel 1984, “quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”, esigendo che “la risoluzione di siffatta concessione sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare, dal punto di vista economico” (sentenza Promoimpresa). L’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi. Se i criteri dettati dall’art. 12 della direttiva 2006/123 non impongono il rispetto del principio di rotazione (dettati in relazione al diverso settore dei contratti pubblici disciplinati dalle direttive del 2014, le nn. 23, 24 e 25), nondimeno, nel conferimento o nel rinnovo delle concessioni, andrebbero evitate ipotesi di preferenza “automatica” per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato (circostanza che potrebbe verificarsi anche nell’ipotesi in cui le regole di gara consentano di tenere in considerazione gli investimenti effettuati senza considerare il parametro di efficienza quale presupposto di apprezzabilità dei medesimi). La scelta di criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi è, infatti, essenziale per garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni. A tal fine i criteri di selezione dovrebbero dunque riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, essere collegati all’oggetto del contratto e figurare nei documenti di gara. nell’ambito della valutazione della capacità tecnica e professionale potranno, tuttavia, essere individuati criteri che, nel rispetto della par rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 condicio, consentano anche di valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri), anche tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale; anche tale valorizzazione, peraltro, non potrà tradursi in una sorta di sostanziale preclusione all’accesso al settore di nuovi operatori. Ulteriori elementi di valutazione dell’offerta potranno riguardare gli standard qualitativi dei servizi (da incrementare rispetto ad eventuali minimi previsti) e sostenibilità sociale e ambientale del piano degli investimenti, in relazione alla tipologia della concessione da gestire. La durata delle concessioni dovrebbe essere limitata e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, al fine di evitare la preclusione dell’accesso al mercato. Al riguardo, sarebbe opportuna l’introduzione a livello normativo di un limite alla durata delle concessioni, che dovrà essere poi in concreto determinata (nell’ambito del tetto normativo) dal- l’amministrazione aggiudicatrice nel bando di gara in funzione dei servizi richiesti al concessionario. La durata andrebbe commisurata al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa e non dovrebbe eccedere il periodo di tempo ragionevolmente necessario al recupero degli investimenti, insieme ad una remunerazione del capitale investito o, per converso, laddove ciò determini una durata eccessiva, si potrà prevedere una scadenza anticipata ponendo a base d’asta il valore, al momento della gara, degli investimenti già effettuati dal concessionario. È inoltre auspicabile che le amministrazioni concedenti sfruttino appieno il reale valore del bene demaniale oggetto di concessione. In tal senso, sarebbe opportuno che anche la misura dei canoni concessori formi oggetto della procedura competitiva per la selezione dei concessionari, in modo tale che, all’esito, essa rifletta il reale valore economico e turistico del bene oggetto di affidamento. 50. Le suddette considerazioni si riverberano anche nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale. Si è già detto che l’eventuale giudicato che abbia riconosciuto il diritto alla proroga non attribuisce un diritto incondizionato alla continuità del rapporto, dovendosi viceversa ritenere che la parte del rapporto non coperta dal giudicato sia esposta alla normativa comunitaria. Detta affermazione richiede di stabilire quale sia la parte del rapporto non coperta dal giudicato. I rapporti concessori oggetto di eventuali giudicati formatisi sulla normativa in esame (in particolare l’art. 1, commi 682 e 683, legge n. 145 del 2018, che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere), successiva alla sentenza Promoimpresa della Corte di giustizia, necessitano di essere regolamentati tenendo conto, da un lato, del portato tipico dell’autorità di cosa giudicata (sopra illustrato) e, dall’altro, delle implicazioni derivanti dalle modifiche normative (cui sono equiparate le sentenze della Corte di giustizia) successivamente intervenute a disciplinare il rapporto. La particolarità della vicenda discende dal fatto che la sentenza Promoimpresa è stata pronunciata nel 2016, quindi prima della modifica normativa del 2018, sicché essa non costituisce quella sopravvenienza idonea ad incidere sul giudicato formatosi successivamente (in particolare riguardante la modifica normativa del 2018). nondimeno non si può non considerare il ruolo che svolge la presente pronuncia in punto di certezza del diritto relativo alle concessioni balneari sul territorio italiano, ruolo reso evidente, da un lato, dal deferimento d’ufficio della questione da parte del Presidente del Consiglio di Stato di cui al decreto n. 160 del 2021, dato il notevole impatto sistemico della questione e la ConTEnzIoSo nAzIonALE rilevanza del rapporto tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione, e considerata la particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria “onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”; e, dall’altro lato, dalla graduazione temporale degli effetti della presente pronuncia. Dette circostanze inducono a ritenere che, anche rispetto ai rapporti oggetto di sentenza passata in giudicato favorevole per il concessionario, gli effetti della non applicazione della normativa in esame si produrranno al termine del periodo transitorio sopra illustrato. In tal senso convergono: -le stesse ragioni di certezza che inducono a prevedere un periodo transitorio che preceda l’obbligo di non applicazione della disciplina legislativa interna in conflitto con il diritto UE; -considerazioni concrete di applicabilità amministrativa del principio di diritto enunciato (che richiedono necessariamente di prevedere un intervallo per lo svolgimento delle gare); -l’opportunità di consentire al legislatore di normare le procedure di affidamento delle concessioni balneari in conformità al diritto UE, considerato anche il ruolo nevralgico delle medesime nell’ambito dell’economia italiana; - la necessità di evitare disparità di trattamento; - generali esigenze di semplificazione e linearità della disciplina pubblicistica. ne deriva che i giudicati favorevoli per il concessionario formatisi sulla normativa in esame cessano di disciplinare il rapporto concessorio a far data dalla scadenza del periodo biennale di cui appena sopra. 51. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto: 1. Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico- ricreative -compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 -sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. 2. Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto. 3. Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di deri rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 vazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento del- l’U.E. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: a) dichiara inammissibili gli interventi ed estromette dal giudizio il Sindacato italiano balneari (SIB), l’Associazione nazionale approdi e porti turistici, l’Associazione CnA Balneatori Puglia e Lidi del Salento, il Comitato coordinamento concessionari demaniali pertinenziali italiani, la regione Abruzzo, il Comune di Castrignano del Capo, i concessionari demaniali indicati in epigrafe nonché, in parziale riforma della sentenza appellata, la Federazione italiana imprese demaniali; b) enuncia i principi di diritto di cui in motivazione; c) restituisce gli atti alla v Sezione del Consiglio di Stato per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito nonché sulle spese del giudizio. Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2021. ConTEnzIoSo nAzIonALE La vexata quaestio della proroga delle concessioni demaniali: prospettive future Gaetana Natale* Le sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021 hanno suscitato, come è noto, un notevole dibattito vertente sulla sorte delle concessioni demaniali marittime in essere, c.d. concessioni balneari, in un paese come l’Italia che presenta molti kilometri di costa da tutelare. Il Supremo Consesso della Giustizia Amministrativa ha statuito che: “Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative -compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, convertito in legge n. 77 del 2020 -sono in contrasto con il diritto euro-unitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE [c.d. direttiva Bolkestein]. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. Ancorché siano intervenuti atti di proroga [delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative] rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali atti siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiano, comunque, formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A., in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione, prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è, comunque, esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto. (*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto di Sistemi Giuridici Comparati, Consigliere Giuridico del Garante per la Privacy. redazione delle note a cura della Dott.ssa Anna Pagano, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. in appendice all’articolo i passaggi più significativi della bozza di emendamento al disegno di legge per il mercato e la concorrenza, per il riordino di tutte le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali (Consiglio dei Ministri n. 61, 15 febbraio 2022). rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni demaniali marittime [per finalità turistico-ricreative] in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto, perché in contrasto con le norme dell’ordinamento U.E.”. La lettura della suddetta statuizione riassunta nei suoi punti essenziali pone -prima facie -due questioni rilevanti: la prima quella della “modulazione temporale degli effetti della disapplicazione”, l’altra quella del “giudicato”. È opportuno ricordare che tali sentenze non nascono da ordinanze di rimessione delle sezioni semplici del Consiglio di Stato, ma da una precisa iniziativa del Presidente del Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 99 comma 2 c.p.a. (1) (potere a cui non si ricorre spesso), previa richiesta all’Ufficio Studi di un dossier di giurisprudenza sul tema da cui emergeva che tutti i TAr (tranne il Tar Puglia -sede di Lecce) (2) avevano riconosciuto l’incompatibilità delle proroghe concesse senza la procedura dell’evidenza pubblica con la normativa eurounitaria. Si poneva, dunque, il problema della sorte di tali proroghe e la definizione di criteri guida per l’operato della P.A., data la portata nomofilattica e allo stesso tempo conformativa delle pronunzie dell’Adunanza Plenaria. riguardo al profilo della modulazione degli effetti temporali delle pronunzie, laddove fissano al 31 dicembre 2023 la durata delle proroghe, si ricorderà che già l’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017 (3) aveva chiarito tale possibilità in merito agli effetti costitutivi del prospective overruling. (1) Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 160 del 24 maggio 2021. (2) vedi: T.A.r. Puglia, Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2021, nn. 71-75; T.A.r. Campania, Salerno, Sez. II, n. 265 del 29 gennaio 2021; T.A.r. Puglia, Lecce, 1 febbraio 2021, nn. 155, 156, 160, 161, 164 e 165; T.A.r. Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 40 del 3 febbraio 2021; T.A.r. Puglia, Lecce, 15 febbraio 2021, nn. 263 e 268; T.A.r. Toscana, Sez. II, n. 363 dell’8 marzo 2021; Consiglio di Stato, Sez. vI, n. 7874 del 18 novembre 2019; Tar Puglia, Lecce, Sez. I, nn. 1321-1322 del 27 novembre 2020; Cons. Stato, Sez. Iv, n. 1416 del 16 febbraio 2021. (3) Cons. Stato, Adunanza Plenaria n. 13 del 22 dicembre 2017: “L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario al- l’interpretazione adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare ripercussioni socio-economiche”. ConTEnzIoSo nAzIonALE riguardo alla seconda questione dei giudicati intervenuti prima delle sentenze dell’Adunanza Plenaria, questi possono essere incisi da norme sopravvenute essendo rapporti di durata: nel caso di specie lo ius superveniens viene individuato nella sentenza Promoimpresa del 14 luglio 2016 (4). nello stesso tempo tali sentenze dell’Adunanza Plenaria contengono un monito al legislatore, ossia quello di non concedere ulteriori proroghe che dovranno essere disapplicate sia dal giudice sia dalla pubblica amministrazione. Problema: tali statuizioni saranno in grado di prevenire i possibili contenziosi che potranno sorgere? Cercheremo di definire i possibili scenari futuri, considerato anche che, ai sensi dell’art. 99 comma 3, le sentenze dell’Adunanza Plenaria hanno effetto diretto solo sulle sezioni semplici del Consiglio di Stato e che queste ultime possono rimettere nuovamente la questione all’Adunanza Plenaria. È stato ritenuto (5) che in tale circostanza il Consiglio di Stato abbia svolto un ruolo di supplenza del legislatore che non (4) Sentenza della Grande Corte (Quinta Sezione) del 14 luglio 2016, Promoimpresa srl (C458/ 14) c. Consorzio dei Comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro e Regione Lombardia e Mario Melis e a. (C-67/15) c. Comune di Loiri Porto San Paolo e Provincia di Olbia Tempio, Cause riunite C-458/14 e C-67/15, ha affermato i seguenti principi di diritto “1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati. 2) L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico-ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”. Sul punto: SAnChInI, “Le concessioni demaniali marittime a scopo turistico-ricreativo tra meccanismi normativi di proroga e tutela dei principi europei di libera competizione economica: profili evolutivi alla luce della pronuncia della Corte di giustizia resa sul caso Promoimpresa-Melis” in Rivista della Regolazione dei Mercati, fascicolo 27/2016; SQUArATTI, “L’accesso al mercato delle concessioni delle aree demaniali delle coste marittime e lacustri tra tutela dell’investimento ed interesse transfrontaliero” in European Paper. (5) CArAvITA -CArLoMAGno, “La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma”, in Federalismi.it, 20, 2021, 1 ss.; ChITI, “False piste: il T.A.R. Lecce e le concessioni demaniali marittime” in Giornale di Diritto Amministrativo, 6/2021; FrAnCArIo, “Se questa è nomofiliachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato”; GIAnnACCArI “Stessa spiaggia, stesso mare. Di concessioni demaniali marittime e (assenza di) concorrenza” in Mercato Concorrenza Regole, 2021, n. 2, 307-341; roLLI, GrAnATA, “Concessioni demaniali marittime: la tutela della concorrenza quale Nemesi del legittimo affidamento” in Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc. 5, 2021, pag. 1624 -nota a Consiglio di Stato Ad. Plen., 9 novembre 2021, n. 17; roMA, “Nessun dubbio su applicabilità Bolkestein a concessioni balneari rilasciate con atto formale” in https://www.mondobalneare.com/nessun-dubbiosu- applicabilita-bolkestein-concessioni-balneari-atto-formale; PorTALUrI, “Concessioni balneari: giudizio netto, ora tocca al legislatore”, in Il quotidiano di Puglia, 10 novembre 2021; TIMo, “Concessioni balneari senza gara… all’ultima spiaggia”; TonDI DELLA MUrA, “Se la supplenza dei giudici aggroviglia nodi e soluzioni”, in Dirittifondamentali.it, 14 novembre 2021; “Spiagge: il Consiglio di Stato proroga le concessioni balneari fino al 2023” in Diritto e Giustizia, 10 novembre 2021; zAMPETTI, “Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021” in giustiziainsieme.it. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 è intervenuto nella ultima legge di Bilancio e che nella legge delega sulla concorrenza si è limitato a chiedere una mappatura delle attuali concessioni che rappresentano un panorama molto variegato: vi sono, infatti, concessioni prorogate ex lege e molte altre prorogate de facto. Due affermazioni sono importanti dell’Adunanza Plenaria: 1) la Pubblica Amministrazione ha il dovere di disapplicare le norme incompatibili con il diritto euro-unitario. Alcuni Tar avevano sostenuto che non era la P.A. deputata a stabilire se la Direttiva Bolkestein fosse o non fosse self executive, ma tale argomentazione non è stata ritenuta valida dall’Adunanza Plenaria. 2) occorre superare la nozione tradizionale di “concessione di beni” distinta dalla concessione di servizi e di lavori, perché in ambito euro-unitario quello che rileva è “l’attività”: se è economica ed incide sulla concorrenza, si ricade nel campo di applicazione dell’evidenza pubblica, tenuto anche conto del concetto di “scarsità delle risorse” e di “interesse certo transfrontaliero”. È opportuno precisare che tali pronunzie non porranno automaticamente fine alle procedure di infrazione, poiché le norme sono ancora vigenti e l’obbligo di disapplicazione potrà non essere rispettato. I concessionari uscenti cominciano a prospettare la lesione del legittimo affidamento per gli investimenti effettuati, ponendo la necessità di ricevere indennizzi e ristori in relazione ai quali dovranno essere prese in considerazione anche le tariffe e i canoni applicati. Ma si può parlare di legittimo affidamento quando la questione delle proroghe e le relativa procedura di infrazione risale addirittura al 2008? (6). Di recente è stato istituito un tavolo tecnico per la definizione di un quadro completo con mappatura di tutte le concessioni, la loro scadenza e l’individuazione delle modalità del loro affidamento con il relativo tentativo di individuazione delle procedure per indennizzi che dovranno tener conto anche del c.d. vantaggio competitivo. È ragionevole pensare che vi saranno atti c.d. ricognitivi da parte delle pubbliche amministrazioni che potrebbero anche regolarizzare subito le procedure entro il 31 dicembre 2023. Tale scelta virtuosa potrebbe, però, far sorgere un copioso contenzioso volto ad ottenere l’indennizzo causato dalla c.d. risoluzione anticipata della concessione. Secondo alcuni autori come Clarich (7), le indicazioni prospettiche del (6) Una prima procedura di infrazione n. 4908 risale già al 2008. Lo Stato italiano, non avendo ottemperato alle promesse fatte a suo tempo è stato poi destinatario di una nuova procedura di infrazione risalente al 3 dicembre 2020 con una lettera di costituzione in mora n. 4118, nella quale la Commissione osserva come “la normativa italiana, oltre a essere incompatibile con il diritto dell’Unione europea, sia in contrasto con la sostanza della sentenza della Corte di giustizia (Promoimpresa)”. CASILLo, “Concessioni demaniali marittime: ancora una procedura di infrazione contro l’Italia” in https://www.agalegale. it/2021/01/21/concessioni-demaniali-marittime/. (7) In un seminario tenutosi il 19 gennaio 2021 presso l’Università Sapienza di roma dal titolo “Concessioni demaniali e diritto europeo. Le sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e 18/2021” il Professor Clarich ha puntualizzato come il vero destinatario delle statuizioni dell’Adunanza Plenaria siano le pubbliche amministrazioni. ConTEnzIoSo nAzIonALE l’Adunanza Plenaria sono rivolte alla Pubblica Amministrazione più che al legislatore, affinché attivino sin da ora le procedure di gara in virtù dell’effetto conformativo delle sentenze dell’Adunanza Plenaria che hanno solo valore di orientamento e non effetti diretti. non è pienamente condivisibile la tesi di Enrico Follieri (8) secondo cui le sentenze dell’Adunanza Plenaria sarebbero fonti normative di secondo livello. Il Consiglio di Stato che ha considerato senza dubbio l’impatto sociale della sua pronuncia sui concessionari uscenti ha interferito sulle prerogative del Parlamento? È prospettabile un ricorso in Cassazione per eccesso di potere giurisdizionale ex art. 111 comma 8 Cost.? Secondo Clarich no, perché l’Adunanza Plenaria si limita ad indirizzare gli effetti delle concessioni in essere nei confronti della Pubblica Amministrazione e non del legislatore. Il vincolo per il legislatore non è dato dalle statuizioni dell’Adunanza Plenaria, ma dalle prescrizioni del diritto euro-unitario (principio della gara pubblica, libertà di stabilimento, principio dell’indennizzo e dell’equo ristoro). Il problema del riordino normativo non si esaurisce nel dilemma proroga o non proroga, ma presenta profili di maggiore complessità se si prende in considerazione il rapporto del 21 dicembre della Corte dei Conti sezione Controlli sulla gestione dei beni demaniali. Tale rapporto ha messo in evidenza i problemi dei canoni: settore che muove 15 miliardi di euro, mentre i canoni arrivano a 100 milioni di euro. vi è, dunque, un problema di sistema. La Corte dei Conti (9) evidenzia che la gestione delle concessioni spetta agli enti locali, mentre i proventi vanno all’Erario statale. vi sono attualmente 12.000 concessioni, il sistema informatico è il c.d. Portale del Mare che funziona solo se gli enti locali comunicano i dati alle regioni. Ma per gli enti che omettono (8) FoLLIErI, “L'Adunanza Plenaria, 'sovrano illuminato', prende coscienza che i principi enunciati nelle sue pronunzie sono fonti del diritto (Consiglio di stato, Ad. Plen., 22 dicembre 2017, n. 13)” in Urbanistica e Appalti, 2018, 3, 382. “I principi enunciati dall’Adunanza Plenaria sono fonti culturali del diritto che intervengono su altri atti-fonte (politici); la Plenaria non pone cioè un principio di per sé autonomo poiché ha ad oggetto un altro atto-fonte e questa constatazione determina i suoi caratteri che, in sintesi, sono: a) interviene su atti-fonte e, sotto questo profilo, può definirsi di secondo grado; b) non ha un grado prestabilito nella gerarchia delle fonti, ma va collocata nel gradino immediatamente superiore alla norma che interpreta; c) il vincolo del precedente viene meno quando la fonte interpretata è, in qualunque modo, rimossa; d) ha natura interpretativa ed efficacia retroattiva, tranne nell’ipotesi di overuling, nella ricorrenza di determinati elementi. Proprio la rilevanza del principio oltre il caso deciso e la acquisita coscienza del vincolo che ne deriva, fa degli enunciati della Plenaria una fonte del diritto che consente, per evitare le conseguenze di un mutamento di interpretazione rispetto a precedenti indirizzi giurisprudenziali che incidono sull’affidamento sino ad allora riposto dai soggetti del- l’ordinamento su un determinato assetto dei rapporti, di stabilire che le modifiche non riguardano i casi pregressi, ma il futuro. Si prospetta, cioè, il cambiamento dell’interpretazione per le successive applicazioni della disposizione e, in un certo senso, si fanno salvi i rapporti pregressi e quello oggetto di decisione cui viene applicata la regola superata”. (9) Corte dei Conti, Sezione Generale di Controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato. La gestione delle entrate derivanti dai beni demaniali marittimi. Deliberazione 21 dicembre 2021, n. 20/2021/G in https://www.corteconti.it/Download?id=66e13045-e3dc-4787-9bc3-a2f59e757143. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 tale comunicazione non vi è alcuna sanzione. La Corte dei Conti suggerisce, pertanto, che i canoni pagati siano destinati ai Comuni che avrebbero così un incentivo ad una corretta gestione delle concessioni e alla puntuale comunicazione dei dati per tenere sotto controllo la situazione delle coste. Sorvolando sugli effetti verticali ed orizzontali della Direttiva Bolkestein, vediamo quale tipi di contenziosi potrebbero profilarsi in futuro dopo tali pronunzie in esame. 1) Primo scenario: tali pronunzie impongono alla Pubblica Amministrazione di adottare i provvedimenti necessari in caso di giudicati favorevoli. vi saranno probabilmente ricorsi amministrativi per l’annullamento di tali atti che pongono nel nulla le proroghe in precedenza concesse: tali atti possono definirsi meramente ricognitivi o sono atti autoritativi espressione di potere pubblico? Sembrano avvalorare tale seconda tesi una pronuncia della Corte di cassazione penale n. 3581 del 28 gennaio 2021 (10) e la sentenza n. 802/21 del CGA (11), la quale statuisce che anche in presenza di attività amministrativa vincolata, il provvedimento è espressione di potere amministrativo autoritativo, non ricognitivo, soggetto ad autotutela. 2) Secondo scenario: riguardo a questi provvedimenti di segno contrario che ci saranno, perché l’Adunanza Plenaria impone di adottarli, i concessionari potrebbero chiedere il risarcimento per annullamento in autotutela di un provvedimento favorevole invocando le due Adunanze Plenarie nn. 20 e 21/2021 (12). Si ricorderà che il legittimo affidamento sul provvedimento favorevole (10) Corte di Cassazione Penale, Sez. 3^, 28 gennaio 2021, n. 3581 ha statuito che la proroga richiede un’espressa istanza del privato e un espresso provvedimento del Comune, per cui il reato di occupazione abusiva si configura quando non vi è tale provvedimento espresso. (11) Cons. Gius. Amm. regione Sicilia, del 13 settembre 2021, n. 802 ove ha affermato che “Ai fini della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, la circostanza che il potere amministrativo sia vincolato -e cioè che il suo esercizio sia predeterminato dalla legge nell'an e nel quomodo -non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica, assimilabile ad un diritto potestativo, ove l'Amministrazione eserciti una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale: il potere vincolato, dunque, resta comunque espressione di "supremazia" o di "funzione", con il corollario che dalla sua natura vincolata derivano conseguenze non sul piano della giurisdizione, ma su quello delle tecniche di tutela (si pensi al potere del giudice in sede di giudizio sul silenzio di pronunciarsi, ai sensi dell'art. 31, comma 3, c.p.a., sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio)”. (12) Cons. Stato, Adunanza Plenaria, Sentenze 29 novembre 2021, nn. 20-21. Sul punto si veda: ALESIo, “Concorso di colpa dell’impresa aggiudicataria e responsabilità precontrattuale della stazione appaltante” in Diritto & Giustizia, fasc. 235, 2021, pag. 4; nAPoLITAno, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20) in giustiziainsieme.it; rUM, “Provvedimento favorevole poi annullato: risarcibilità dell’affidamento incolpevole ingenerato nel privato. Questioni giurisdizionali e di merito. Il punto dopo la triade di sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 19, 20 e 21 del 2021” in Riv. il Diritto Amministrativo; “L'Adunanza Plenaria si esprime sulla domanda diretta ad ottenere la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento amministrativo, emanato dalla medesima amministrazione, favorevole all’interessato” ConTEnzIoSo nAzIonALE (13), secondo le sopracitate sentenze dell’Adunanza Plenaria, è escluso solo in caso di illegittimità evidente e se si ha conoscenza dell’impugnativa contro l’atto. I concessionari uscenti hanno fatto affidamento sulla legge 145 del 2018 che è successiva alla sentenza Promoimpresa che è del 2016. 3) Terzo scenario: problema del giudicato. L’effetto della sentenze del- l’Adunanza Plenaria si esplica anche sui giudicati favorevoli per lo ius superveniens nei rapporti di durata, non vi è conflitto, ma successione di norme. I nuovi provvedimenti potranno essere impugnati innanzi al giudice dell’ottemperanza (14), ma sono ius superveniens solo le sentenze interpretative della Corte di Giustizia e non le sentenze dell’Adunanza Plenaria. Al par. 50 della sentenza si legge che è la stessa Adunanza a dire che la sentenza Promoimpresa è antecedente alla legge 145/2018: quindi, nel caso di specie lo ius superveniens non è Promoimpresa, ma la stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria (15). Riv. il Diritto Amministrativo; zUrLo, L’adunanza plenaria si pronuncia sul tema della responsabilità della p.a. per la lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un provvedimento favorevole poi annullato in via giudiziale” in appaltiecontratti.it. (13) Sul punto è da segnalarsi una recentissima sentenza del Consiglio di Stato del 13 gennaio 2022, Sez. vI, n. 229. Si tratta di una sentenza relativa ad un chiosco sito in area demaniale in località Campese all’Isola del Giglio, dopo un ricorso proposto dall’Agenzia del Demanio ove si conferma la validità delle concessioni balneari pre-2009, riconoscendo che i balneari che hanno concessioni antecedenti a quella data hanno diritto a vedersi riconosciuto il principio del legittimo affidamento, pur ribadendo i concetti riportati dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Si determina, in sostanza, l’inapplicabilità della direttiva Servizi ai rapporti concessori sorti anteriormente al termine di trasposizione della stessa. Si veda: https://iltirreno.gelocal.it/versilia/cronaca/2022/01/20/news/il-consiglio-distato- valid e-le-vecchi e-concessioni-balneari-1.41150500 ; https://www.giglionews.it/concessioni-demaniali-il-consiglio-di-stato-a-favore-di-unimpresa-grossetana. (14) vedi Adunanza Plenaria 9 giugno 2016, n. 11. Sul punto: IMPArATo, “Nota a Consiglio di Stato -Adunanza Plenaria 9 giugno 2016, n. 11” in il diritto amministrativo.it; CoMMAnDATorE, “I limiti oggettivi del giudicato amministrativo all’esame della plenaria - il commento” in Leggi D’Italia. (15) Su leggi interpretative non retroattive e incidenza sul giudicato si veda Corte Costituzionale sentenza 374 del 2000, la quale dispone che “Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte, in linea generale è da escludere che possa integrare una violazione delle attribuzioni spettanti al potere giudiziario una disposizione di legge che appare finalizzata ad imporre all'interprete un determinato significato normativo, ma se il legislatore, come nella specie, oltre a creare una regola astratta, prende espressamente in considerazione anche le sentenze passate in giudicato, che attribuiscono un trattamento economico al personale, incidendo direttamente ed esplicitamente su di esse, rivela in modo incontestabile il preciso intento di interferire su questioni coperte da giudicato, non rispettando, in modo arbitrario, la diversa condizione di chi abbia avuto il riconoscimento giudiziale definitivo di un certo trattamento economico rispetto a chi non lo abbia ottenuto, e conseguentemente violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale nonché le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi. Peraltro, alle somme da corrispondersi in forza della presente decisione, sarà comunque applicata (successivamente all'entrata in vigore della legge in questione) la detta disciplina del 'riassorbimento' nei futuri incrementi retributivi prevista dal medesimo comma 5, in riferimento all'ipotesi di somme già versate allo stesso titolo, anteriormente all'entrata in vigore della legge medesima. -v. le sentenze nn. 229/1999, 432/1997, 153/1994 e 6/1994, in tema di retroattività della legge; le sentenze nn. 321/1998, 432/1997, 386/1996 e 15/1995, riguardo ai limiti all'interferenza del legislatore sulla potestà di giudicare ed, infine, le sentenze n. 417/1996 e 390/1995, sulla discrezionalità di quest'ultimo di modificare, anche sfavorevolmente, la disciplina di trattamenti economici”. rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 4) Quarto scenario: i concessionari che hanno avuto una proroga di anno in anno e ora sino al 31 dicembre 2023 potrebbero trovarsi di fronte ad una Amministrazione che comincia a pubblicare i bandi: tali bandi potrebbero essere impugnati se non prevedono un’applicazione differita al 2024, poiché è stata concessa una proroga ai concessionari uscenti sino al 31 dicembre 2023. orbene, gli scenari potranno essere diversi: non è possibile prevedere il futuro, ma l’orizzonte che si profila non sarà scevro di questioni che il giudice amministrativo dovrà risolvere, auspicando sempre un intervento chiaro e tempestivo del legislatore nazionale. *** nella riunione del Consiglio dei Ministri del 15 febbraio 2022 è stata discussa la bozza dell’emendamento al disegno di legge per il mercato e la concorrenza, prevedendo che entro 6 mesi siano approvati i decreti legislativi per il riordino di tutte le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali. Questo il passaggio più significativo dell’emendamento: “Al fine di assicurare un più razionale e sostenibile utilizzo del demanio marittimo, favorirne la pubblica fruizione e promuovere, in coerenza con la normativa europea, un maggiore dinamismo concorrenziale nel settore dei servizi e delle attività economiche connessi allo sfruttamento delle concessioni per finalità turistico-ricreative, il Governo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, è delegato ad adottare, su proposta del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile e del Ministro del Turismo, di concerto con il Ministro della transizione ecologica, il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata, uno o più decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia di concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, per finalità turistico-ricreative, nonché la disciplina in materia di concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, ivi inclusi i punti di ormeggio”. È significativo che l’emendamento preveda sempre un accesso libero alla spiaggia, considerandola un bene comune e fruibile dalla collettività. Infatti, tale emendamento prevede che i decreti legislativi dovranno determinare “criteri omogenei per l’individuazione delle aree suscettibili di affidamento in concessione, assicurando l’adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e le aree libere o libere attrezzate, nonché la costante presenza di varchi per il libero e gratuito accesso e transito per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione anche al fine di bal ConTEnzIoSo nAzIonALE neazione, con la previsione, in caso di ostacoli da parte del titolare della concessione al libero e gratuito accesso e transito alla battigia, delle conseguenze delle relative violazioni”. Importante è la previsione di una norma “scudo” per chi ha la concessione come unica fonte di reddito. Per le concessioni balneari che verranno messe a gara dall’1 gennaio 2024, sarà necessario tener conto “della posizione dei soggetti che, nei cinque anni antecedenti l’avvio della procedura selettiva hanno utilizzato la concessione, quale prevalente fonte di reddito per sé e per il proprio nucleo familiare, nei limiti definiti anche tenendo conto della titolarità, alla data di avvio della procedura selettiva, in via diretta o indiretta, di altra concessione o di altre attività di impresa o di tipo professionale”. Particolare attenzione è data alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e alle disabilità. nello sforzo di sintesi operato dal Governo la bozza dell’emendamento prevede che si debba tenere “in adeguata considerazione, ai fini della scelta del concessionario, della qualità e delle condizioni del servizio offerto agli utenti, alla luce dei programmi di interventi indicati dall’offerente per migliorare l’accessibilità e la fruibilità del demanio, anche da parte dei soggetti con disabilità, e della idoneità di tali interventi ad assicurare il minimo impatto sul paesaggio, sull’ambiente e sull’ecosistema, con preferenza del programma di interventi che preveda attrezzature non fisse e completamente amovibili”. vi è un indennizzo per il concessionario uscente a carico del concessionario subentrante. La bozza dell’emendamento prevede “la definizione di criteri uniformi per la quantificazione dell’indennizzo da riconoscere al concessionario uscente, posto a carico del concessionario subentrante, in ragione del mancato ammortamento degli investimenti realizzati nel corso del rapporto concessorio e autorizzati dall’ente concedente e della perdita del- l’avviamento connesso ad attività commerciali o di interesse turistico”. Ed inoltre un tetto al numero di concessioni di cui può essere titolare uno stesso concessionario. nei decreti legislativi da adottare da qui a sei mesi, il governo dovrà definire il “numero massimo di concessioni di cui può essere titolare in via diretta o indiretta, uno stesso concessionario a livello comunale, provinciale, regionale o nazionale, prevedendo obblighi informativi in capo all’ente concedente in relazione alle concessioni affidate al fine di verificare il rispetto del numero massimo”. Dalla lettura di tale bozza si coglie lo sforzo da parte del Governo di conciliare le varie istanze e i vari interessi coinvolti. Certamente la situazione italiana è peculiare, se pensiamo che in Francia e in Spagna, ma anche in molti Stati americani le spiagge sono libere. viene qui in rilievo la teoria dei beni pubblici di Giannini: il concetto di proprietà legato non alla “dimensione del- l’appartenenza”, ma a quella “della funzione sociale”. nella bozza dell’emendamento si coglie in maniera pienamente condivisibile il profilo della “sostenibilità sociale ed ambientale” che deve essere centrale nelle nuove gare rASSEGnA AvvoCATUrA DELLo STATo -n. 4/2021 che saranno poste in essere a partire dall’1 gennaio 2024, garantendo in maniera equilibrata la tutela del concessionario uscente e la tutela del livello occupazionale, prevedendo magari anche delle clausole sociali nei bandi che verranno pubblicati. Questi 6 mesi saranno, dunque, decisivi per la sorte delle nostre amate coste. PAReRiDeLCoMitAtoConsULtivo Appalti pubblici. Cessione di crediti da corrispettivo di appalto realizzata nell’ambito di una più ampia operazione di cartolarizzazione. Rapporto tra le disposizioni di cui agli artt. 106, co. 13, Codice contratti pubblici e 4, co. 4 bis, Legge cartolarizzazioni Parere del 15/02/2022-98869/98877, al 20506/2021, avv. Gabriella d’avanzo, Proc. andrea liPari 1 -L'Avvocatura Distrettuale di Napoli ha sottoposto alle definitive determinazioni della Scrivente il quesito formulato da un'istituzione scolastica in merito alla valenza del rifiuto da quest'ultima opposto, a norma dell'art. 106, co. 13, del D.L.vo 50/2016 (Codice dei contratti pubblici), "a ... una cessione di crediti realizzata, nell'ambito di una più ampia operazione di cartolarizzazione ex art. 4 della legge 130/1999". Nella richiesta di parere si sostiene che l'art. 4, comma 4 bis (1) della c.d. legge cartolarizzazioni, n. 130/1999 e l'art. 106, comma 13 (2) del D.L.vo n. (1) L. 30/04/1999, n. 130. Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti. Pubblicata nella Gazz. Uff. 14 maggio 1999, n. 111. 4. Modalità ed efficacia della cessione. (...) 4-bis. Alle cessioni effettuate nell'ambito di operazioni di cartolarizzazione non si applicano gli articoli 69 e 70 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, nonché le altre disposizioni che richiedano formalità diverse o ulteriori rispetto a quelle di cui alla presente legge. Dell'affidamento o trasferimento delle funzioni di cui all'articolo 2, comma 3, lettera c), a soggetti diversi dal cedente è dato avviso mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale nonché comunicazione mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento alle pubbliche amministrazioni debitrici. (2) D.Lgs. 18/04/2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici). Art. 106 Modifica di contratti durante il periodo di efficacia. (...) comma 13. Si applicano le disposizioni di cui alla legge 21febbraio 1991, n. 52. Ai fini dell'opponibilità alle stazioni appaltanti, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici. Fatto salvo il rispetto degli obblighi di tracciabilità, le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, con rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 50/2016, recante Codice dei contratti pubblici, "lungi dal realizzare un'antinomia normativa ... presentano, in realtà un ambito oggettivo di applicazione radicalmente diverso", in quanto individuerebbero "altrettante norme eccezionali (rispetto alla lex generalis costituita dagli artt. 69 e 70 del r.d. n. 2440/1923)". In estrema sintesi, la normativa in materia di cartolarizzazione dei crediti sarebbe "speciale rispetto a quella in materia di cessione dei crediti" disciplinata dalla L. n. 52/1991 -quest'ultima richiamata nel citato art. 106, comma 13 del D.Lgs. n. 50/2016 -in quanto la cartolarizzazione dei crediti "si realizza attraverso una operazione giuridico-economica complessa, di cui la cessione del credito costituisce solo un frammento". Inoltre, la medesima legge 130 del 1999, "precludendo a monte 1'applicabilità degli artt. 69 e 70 cit., ha inteso all'evidenza precludere anche l'applicazione delle ulteriori disposizioni (quali quella, antecedente, di cui all'art. 117 del codice appalti) che, derogando all'art. 70, hanno disciplinato in modo diverso la medesima materia". Conclusivamente, l'Avvocatura Distrettuale ritiene che "se la l. n. 130/1999 ha derogato alla lex generalis, escludendo a monte la necessità del consenso della pubblica amministrazione per le cessioni di crediti realizzate nell'ambito di più ampie operazioni di cartolarizzazione, in nessun caso potranno trovare applicazione le norme che, in parziale deroga all'art. 70 del regio decreto, si prefiggano il più limitato obiettivo di diversamente disciplinare le modalità di prestazione di tale consenso essendo esclusa in radice la possibilità di opporsi alla cessione". Alla luce delle suesposte considerazioni, rilevato che in questi termini si è pronunciato anche il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza del 24 settembre 2020, n. 5561, si chiede di conoscere "le definitive determinazioni" della Scrivente, "eventualmente anche a modifica del precedente parere espresso con nota prot. 36748 del 17 luglio 2020". *** 2-Come viene rilevato nella richiesta di parere, la Scrivente si è espressa sulla questione di diritto di cui trattasi, concludendo, con consultazione sottoposta al previo esame del Comitato Consultivo, che per le cessioni di credito derivanti da corrispettivo di appalto trovi applicazione lo speciale regime di cui all'art. 106, comma 13 del D.Lgs. n. 50/2016, e che, quindi, non siano am corso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessione. Le amministrazioni pubbliche, nel contratto stipulato o in atto separato contestuale, possono preventivamente accettare la cessione da parte dell'esecutore di tutti o di parte dei crediti che devono venire a maturazione. In ogni caso l'amministrazione cui è stata notificata la cessione può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente in base al contratto relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, con questo stipulato. pArerI DeL ComItAto CoNSULtIvo missibili, senza l'adesione (sotto forma di mancato rifiuto) dell'Amministrazione debitrice, cessioni di credito nell'ambito di operazioni di cartolarizzazione (Ct 52446/2019 avv. D'Avanzo) se riguardanti, appunto, la materia degli appalti. All'esito di una complessiva ricognizione del sistema, infatti, si era giunti al motivato convincimento che l'art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016 -che ricalca, con poche modifiche, il previgente art. 117 del D.L.gs. 163 del 2006 -rechi un regime speciale per la cessione dei crediti da corrispettivo di appalto, incentrato sul potere di rifiuto della cessione da azionarsi entro il termine legale ivi stabilito. In ragione della rilevata specialità, dunque, si era ritenuto che la norma all'esame non potesse ritenersi tacitamente abrogata, anche considerato che essa è cronologicamente successiva all'art. 4, comma 4 bis della legge n. 130 del 1999, introdotto con l'art. 12, D.L. 23 dicembre 2013, n. 145. A diverse conclusioni è, tuttavia giunto il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5561 del 24 settembre 2020, citata dall'Avvocatura Distrettuale -oltre che con la decisione, resa in pari data, n. 5562 -ritenendo preclusa, all'Amministrazione ceduta, la possibilità di opporre il suo rifiuto, ai sensi dell'art. 106, comma 13 del D.Lgs. n. 50/2016, alla cessione dei crediti riguardanti il corrispettivo di un contratto di appalto, nel caso in cui detta cessione avvenga nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione. In particolare, secondo il Giudice Amministrativo, il citato art. 106, comma 13 del codice dei contratti "si appalesa speciale rispetto alla disciplina codicistica, mentre la norma recata dal comma 4-bis dell'art. 4 cit. è norma speciale rispetto a tutte le disposizioni che disciplinano le formalità per la cessione dei crediti, con la conseguenza che l'art. 106, comma 13, del d.lgs. 50/2016, che richiama le sole "cessione dei crediti" e non contiene un espresso riferimento alla "cartolarizzazione" è inapplicabile, essendo prevalente la disciplina speciale recata dall'art. 4, comma 4-bis, della l. 130/1999 ". È stata così disattesa la tesi, prospettata in giudizio da un'Azienda Sanitaria, la quale aveva, invece, sostenuto che l'art. 106 comma 13 del D.lgs. 50/2016 avesse abrogato implicitamente la norma di cui al comma 4-bis del- l'art. 4 della L. 130/1999 -in quanto successiva -introdotta dall'art. 12 del D.L. n. 145 del 2013, conv. in L. n. 145 del 2014; si legge, infatti, in entrambe le pronunce che "la norma in questione è meramente riproduttiva della precedente disposizione recata dall'art. 117 del d.lgs. n. 163/06 che era ad essa antecedente". 3-Alla luce del duplice arresto del Consiglio di Stato, si rende necessario acquisire l'avviso di codeste Amministrazioni in ordine alla linea di condotta che si riterrà di adottare. È, infatti, innegabile la rilevanza che l'applicazione dei principi enunciati dal Giudice amministrativo avrà sulle (sempre più frequenti) cessioni dei crediti derivanti da corrispettivo di appalto, di concessione e delle altre operazioni rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 annoverate dall'art. 106, comma 13 D.Lgs. n. 50/2016, cessioni che potranno, quindi, concludersi, se effettuate nell'ambito di un'operazione di cartolarizzazione, a prescindere dall'eventuale adesione della p.A. (espressa sotto forma di mancato rifiuto nel termine previsto dalla citata norma del Codice dei contratti pubblici). Il tema assume, peraltro, particolare rilievo anche in considerazione degli obiettivi perseguiti dal pNrr (piano Nazionale di ripresa e resilienza) e, quindi, delle esigenze di tutela degli scambi commerciali e della circolazione della ricchezza oltre che della regolarità e dell'efficienza dei contratti pubblici. In questo contesto, non può che ribadirsi l'auspicio di un intervento legislativo che chiarisca l'ambito applicativo delle diverse discipline, rientrando nella potestà del legislatore l'emanazione di norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, secondo il pacifico insegnamento della Corte di Cassazione, ad orientare l'interprete nella lettura di norme preesistenti in applicazione del principio di unità ed organicità dell'ordinamento giuridico (sul punto, ex multis, Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2016, n. 22552). tanto premesso, al fine di offrire un contributo consultivo nell'individuazione di un percorso interpretativo quanto più lineare e coerente con il vigente sistema nel suo complesso, si osserva quanto segue. 3.1 -In primo luogo, nell'evidenziare che non risultano ulteriori pronunce del medesimo segno da parte del Giudice Amministrativo, si rileva che la specialità della disciplina degli appalti, in ragione della quale questa Avvocatura Generale aveva ritenuto di potere concludere per 1'inapplicabilità della cartolarizzazione, è stata condivisa dalla Corte dei Conti Sicilia, Sez. contr., Delib. 26 marzo 2020, n. 34. Con la citata Deliberazione -che merita di essere esaminata per la convincente analisi delle diverse ipotesi di cessione del credito verso la p.A. -la Sezione di Controllo per la regione siciliana ha fornito esaustiva risposta ad un quesito attinente proprio alle operazioni di c.d. "cartolarizzazione". In particolare, dopo avere dato atto che nel nostro ordinamento vige, ai sensi dell'art. 1260 c.c., il principio della "libera circolazione del credito", e che la "cedibilità del credito verso lo Stato e gli altri enti pubblici" costituisce "disciplina speciale rispetto al diritto comune", la Corte dei Conti ha ben distinto, "nell'ambìto di detta disciplina, ... la materia degli appalti pubblici da quella relativa alla circolazione dei crediti commerciali, interessata da una serie di disposizioni normative relative alla c.d. certificazione dei crediti mediante la piattaforma elettronica della P.a., introdotta con l'art. 37, comma 7 bis del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, che hanno semplificato le formalità richieste per la cessione dei crediti al fine di garantirne una maggiore circolazione". Con specifico riferimento all'art. 106, comma 13 del D.Lgs. n. 50 del pArerI DeL ComItAto CoNSULtIvo 2016, il Collegio ha precisato "che trattasi di norma speciale, dettata per la materia degli appalti (il cui testo riproduce l'analoga disciplina introdotta dall'art. 117 del decreto legislativo n. 163/2006 del codice dei contatti Pubblici) la cui disciplina si discosta dalla normativa codicistica in quanto la cessione dei crediti è subordinata alla preventiva adesione della pubblica amministrazione: il citato codice, al fine di conferire certezza alla prefata "adesione" della P.a. ha previsto che quest'ultima si esprima sotto forma di mancato rifiuto entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessione". È stato, tuttavia, chiarito che, secondo il costante insegnamento della Corte di Cassazione, il divieto di cessione senza l'adesione della p.A. si applica "solo ai rapporti di durata", come, appunto, l'appalto, mentre nel caso di "cessione di un credito insorgente da un ordinario contratto di compravendita" la disciplina applicabile è quella ordinaria codicistica (così, Cass. III, n. 981/2002). ed infatti, una volta eseguita la prestazione nell'ambito di un rapporto di durata (appalto, e/o somministrazione o fornitura), "non sussiste alcuna ragione per procrastinare, in deroga al principio di cui all'art. 1260 c.c. della generale cedibilità dei crediti indipendentemente dal consenso del debitore, 1' "inefficacia provvisoria" della cessione dei crediti ... Pertanto, allorchè il contratto di appalto all'origine del credito ceduto, alla data di comunicazione della cessione risulti completamente esaurito, non vi è necessità di accettazione del credito da parte dell'ente pubblico"(cass. iii, n. 268/2006; n. 2209/2007). In senso conforme, si veda, ex aliis, Cass. Sez. vI 1, n. 16282/2020. In estrema sintesi, la facoltà riconosciuta alla p.A. di opporre un rifiuto alla cessione del credito è subordinata alla duplice condizione che si tratti di contratti disciplinati dall'art. 106, comma 13 del Codice dei contratti pubblici -previsione che costituisce lex specialis rispetto alle disposizioni civilistiche -e che tali contratti siano ancora in corso. Ne consegue che, come ben chiarito nella citata Deliberazione dalla Corte dei Conti, in caso di cessione di crediti derivanti da "operazioni negozialidiverse da quelle annoverate dall’art. 106 citato (ad es. crediti commerciali derivanti dall'acquisto di beni e servizi) che avvengano nell'ambito di applicazione delle disposizioni sulla cartolarizzazione disciplinate dalla legge n. 130 del 30 aprile 1999, non è prevista la facoltà per la pubblica amministrazione di opporre un rifiuto" (3). (3) Sotto tale profilo, ha rilevato la Corte di Conti che, laddove si tratti della circolazione di crediti commerciali certificati attraverso la piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni predisposta dal ministero dell'economia e delle Finanze, è prevista una facoltà di rifiuto da parte della p.A., soggetta al brevissimo termine di sette giorni dalla comunicazione, in forza dell'art. 7 del D.L. 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 giugno 2013, n. 64 (c.d. decreto sblocca pagamenti). rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 Come si è sopra detto, alle medesime conclusioni si era pervenuti nel già citato parere del Comitato Consultivo. 3.2 -Con specifico riferimento alle due sentenze gemelle del 24 settembre 2020 del Consiglio di Stato, pur prendendosi ovviamente atto, per l'autorevolezza della fonte, della soluzione ivi prospettata, non ci si può esimere dall'osservare, da un lato, che non si tratta, per quanto si è sopra detto, di un orientamento consolidato (4) e, dall'altro lato, che i relativi giudizi hanno riguardato posizioni di enti non patrocinati dall'Avvocatura dello Stato, la quale, pertanto, non ha avuto modo di prospettare le proprie difese dinanzi al Giudice adito. Ad ogni modo, se, come si legge nei citati arresti del Consiglio di Stato, con l'art. 4, comma 4-bis della legge 130/1999, inserito con l'art. 12 D.L. n. 145/2013, si è inteso introdurre un regime applicabile anche alla cessione dei crediti derivanti da appalti pubblici, non appare chiara la ragione per la quale tale disposizione non contenga nessun riferimento proprio alla normativa in materia di contratti pubblici (in primis al D.Lgs. 163/2006). Dal canto suo, l'art. 106 del Codice, nel prevedere una specifica potestà/facoltà dell'Amministrazione di opporsi alla cessione, nei termini e con le modalità stabilite dal legislatore, non disciplina alcuna deroga a tale facoltà per quanto riguarda la (già vigente) disciplina regolatoria delle operazioni di cartolarizzazione. È, infatti, avviso di questa Avvocatura Generale che la disposizione in commento, che, come si è detto, riproduce sostanzialmente il previgente art. 117, del D.lgs. n. 163 del 2006, è tuttora vigente, né, proprio in ragione della sua specialità, potrebbe ritenersi tacitamente abrogata, anche considerato che essa è cronologicamente successiva all'art. 4, comma 4 bis della legge 130 del 1999, in quanto introdotto con l'art. 12 D.L. 23 dicembre 2013, n. 145. Ciò non sta, ovviamente, a significare che l'art. 106 abbia "implicitamente abrogato la norma recata dall'art. 4 bis dell'art. 4 della legge 130 del 1999 in quanto successiva" -come sembrerebbe avere inteso il Consiglio di Stato nel- l'esporre le ragioni della diversa soluzione data alla vicenda contenziosa -ma, ben diversamente, che la successione temporale delle norme in materia di appalti pubblici (art. 117 del D.Lgs. n. 163 del 2006 e art. 106 del D.Lgs n. 50 del 2016) conferma di per sè la perdurante vigenza della cessione dei crediti disciplinata, appunto, anche nel 2016, senza previsioni derogatorie della specifica facoltà oppositiva riconosciuta all'Amministrazione nel nuovo Codice degli appalti. (4) peraltro, la giurisdizione sugli atti di rifiuto della cessione del credito è del Giudice ordinario. Nei casi esaminati dal Consiglio di Stato, l'impugnazione ha riguardato una delibera di un'Azienda Sanitaria che aveva "disciplinato la materia", della quale le note impugnate costituivano, ad avviso del Giudice, atti "meramente applicativi". pArerI DeL ComItAto CoNSULtIvo Inoltre, il Consiglio di Stato qualifica l'art. 4, comma 4 bis cit. "norma speciale rispetto a tutte le disposizioni che disciplinano le formalità per la cessione dei crediti". tuttavia, con riguardo a tale profilo, pare a questa Avvocatura quanto meno dubbio che gli innegabili effetti giuridici prodotti dalla manifestazione di volontà dell'Amministrazione nei rapporti con il cedente, e i significativi riflessi nei rapporti tra questi e il cessionario, consentano di attribuire valenza meramente procedurale o formalistica alle prescrizioni contenute all'art. 106, comma 13, del D.Lgs. n. 50 del 2016. In altri termini, sembra ragionevole sostenere che l'art. 106 non contempli un requisito formalistico della cessione, conferendo piuttosto una vera e propria potestà all'Amministrazione, in deroga a quanto previsto dal ridetto art. 4. 3.3 -Si soggiunge, per completezza di analisi, che la tesi che esclude l'applicazione del citato art. 106 nell'ambito delle operazioni di cartolarizzazione si presta ad una serie di non trascurabili criticità sul piano pratico, in parte evidenziate dalla stessa Avvocatura Distrettuale di Napoli nella precedente consultazione. È, infatti, innegabile che, ove accolta, la diversa soluzione metterebbe in pericolo alcuni dei presidi posti a tutela dell'Amministrazione e finalizzati ad assicurare la corretta ed efficiente esecuzione del contratto relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, stipulato con il cedente. Innanzitutto, l'Amministrazione non potrebbe "opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente" in base al rapporto in corso, e quindi neppure, ad esempio, l'eccezione di compensazione, o quella di inadempimento legata alla non corretta esecuzione del contratto di appalto. occorre, al riguardo, considerare che, già in base ai principi generali in materia di cessione del credito, il debitore ceduto può opporre al cessionario le eccezioni opponibili al rapporto con il cedente soltanto se queste ultime riguardano fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori all'accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto (ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 17 gennaio 2001, n. 575; Cass. Sez. 5, ord. 20 aprile 2018, n. 9842); di talché, ad esempio, l'Amministrazione non potrebbe eccepire al cessionario l'inadempimento dell'appaltatore-cedente verificatosi successivamente alla conoscenza della cessione. Il tema si pone in termini ancor più problematici alla luce dell'orientamento recente (e dai riflessi applicativi ancora incerti) della giurisprudenza nomofilattica, che sembra ulteriormente limitare le eccezioni opponibili dal debitore ceduto in un'operazione di cartolarizzazione, escludendo che quest'ultimo possa opporre al cessionario eccezioni fondate sui rapporti con il cedente (Cass., sez. III, 30 agosto 2019, n. 21843). Secondo la Corte di Cassazione, infatti, i crediti che formano oggetto di ciascuna operazione di cartolarizzazione costituiscono un vero e proprio "pa rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 trimonio separato", ad ogni effetto, rispetto a quello della società veicolo e rispetto a quello relativo ad altre operazioni di cartolarizzazione; tale patrimonio è a destinazione legalmente vincolata, in via esclusiva, al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l'acquisto dei crediti, nonché al pagamento dei costi dell'operazione. In altri termini, il flusso di liquidità che l'incasso dei crediti è in grado di generare è funzionale, in via esclusiva, al rimborso dei titoli emessi, alla corresponsione degli interessi pattuiti ed al pagamento dei costi dell'operazione. In un simile quadro, ai debitori non sarebbe consentito, secondo la Corte di Cassazione, opporre in compensazione, al cessionario, "controcrediti da essi vantati verso il cedente (nascenti da vicende relative al rapporto con esso intercorso ed il cui importo, pertanto, lungi dall'essere noto alla "società veicolo" al momento della cessione, deve essere accertato giudizialmente)" (Cass. n. 21843/2019 cit.). Inoltre, nei confronti del cessionario non potrebbero essere svolti i controlli prodromici al pagamento -se effettuato nei confronti del cedente quali ad esempio la verifica della regolarità del DUrC; né potrebbe operare il meccanismo dell'intervento sostitutivo previsto dal Codice dei contratti pubblici in relazione alle inadempienze contributive risultanti dal DUrC (art. 30, co. 5) e ai ritardati pagamenti delle retribuzioni delle maestranze (art. 30, co. 6). peraltro, il divieto di rifiutare la cessione dei crediti derivanti da corrispettivo di un contratto di appalto in corso, non appare del tutto coerente con la ratio di tutela delle finanze pubbliche che ispira l'art. 48-bis Dpr n. 602 del 1973, ai sensi del quale "... le amministrazioni pubbliche ... prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiano è inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all'agente della riscossione..." (5). (5) Ciò in quanto, aderendo alla tesi per cui, in applicazione della legge n. 130 del 1999, il debitore ceduto in un'operazione di cartolarizzazione non possa opporre al cessionario eccezioni fondate sui rapporti con il cedente, neppure potrebbe essere rifiutato dalla p.A. l'adempimento nei confronti del cessionario, allorché la verifica di cui all'art. 48 bis cit. restituisca esito negativo per esposizioni debitorie maturate prima che la cessione sia opponibile all'Amministrazione. ma anche ritenendo che la verifica nei confronti del cedente sia ostativa dell'adempimento nei confronti del cessionario allorquando restituisca esito negativo per debiti maturati prima dell'opponibilità della cessione, l'Amministrazione ceduta non potrebbe tuttavia rifiutare il pagamento al cessionario, a fronte di una verifica negativa nei confronti del cedente per esposizioni debitorie sorte successivamente. Di talché vi sarebbe il rischio, per la p.A., di dover pagare al cessionario i crediti che di volta in volta, anno dopo anno, sorgeranno da quel contratto, anche se la parte contrattuale privata ha, da parte sua, consistenti debiti, maturati immediatamente dopo la pubblicazione pArerI DeL ComItAto CoNSULtIvo 3.4 -occorre infine evidenziare che, come già anticipato in nota sub 3, il Legislatore ha dettato una specifica disciplina per l'ipotesi di circolazione di crediti commerciali certificati attraverso la piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni predisposta dal ministero del- l'economia e delle Finanze. In tali casi, è prevista una facoltà di rifiuto da parte della p.A., sia pure soggetta al brevissimo termine di sette giorni dalla comunicazione, in forza dell'art. 37, comma 7 bis D.L. 24 aprile 2014, n. 66, che ha modificato l'art. 7 del D.L. 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 giugno 2013, n. 64 (c.d. decreto sblocca pagamenti). Ai sensi del citato art. 37, co. 7 bis del D.L. n. 66 del 2014, "le suddette cessioni dei crediti certificati si intendono notificate e sono efficaci ed opponibili nei confronti delle amministrazioni cedute dalla data di comunicazione della cessione alla pubblica amministrazione attraverso la piattaforma elettronica, che costituisce data certa, qualora queste non le rifiutino entro sette giorni dalla ricezione di tale comunicazione. non si applicano alle predette cessioni dei crediti le disposizioni di cui all'articolo 117, comma 3, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e di cui agli articoli 69 e 70 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, nonché le disposizioni di cui all'articolo 7 della l. 21 febbraio 1991, n. 52, e all'articolo 67 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle cessioni effettuate dai suddetti cessionari in favore dei soggetti ai quali si applicano le disposizioni della l. 30 aprile 1999, n. 130". pertanto, con riferimento alle cessioni di crediti verso la pubblica amministrazione derivanti dall'esecuzione di appalti pubblici e che siano "certificati", il legislatore ha delineato una specifica forma di adesione per silenzio assenso (i.e.: per mancato rifiuto entro 7 giorni dalla comunicazione della cessione), che, per effetto del richiamo contenuto nell'ultimo periodo, è da ritenersi applicabile anche quando la cessione di tali crediti avvenga nel contesto, appunto, di operazioni di cartolarizzazione. La previsione avvalora, dunque, la tesi per cui le cessioni dei crediti derivanti da corrispettivo di appalto e dalle altre operazioni di cui all'art. 106, comma 13 del D.L.gs. n. 50/2016, sono regolate da un regime speciale che consente una diversa modalità della facoltà del rifiuto da parte dell'Amministrazione ceduta solo ove espressamente prevista dal legislatore. *** Nel senso sopra esposto è l'avviso di questa Avvocatura Generale, che resta a disposizione per ogni chiarimento dovesse rendersi ulteriormente necessario, considerati i suesposti profili di criticità e la rilevanza economica del settore interessato. della cessione e conservati per tutta la durata del contratto (che può estendersi anche per molti anni). rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 Si allegano la richiesta di parere dell'Avvocatura Distrettuale(*) e la precedente consultazione resa dalla Scrivente con nota 17 luglio 2020, n. 367481(**). Sulla questione è stato nuovamente sentito il Comitato Consultivo, che, nella seduta del 9 febbraio 2022, si è espresso in conformità. (*) Parere del 20/05/2021-100681, Ct 2596/2021-MUtAReLLi: « Con nota prot. n. 1935 del 9 marzo 2021, l'Istituto (...) chiedeva a questa Avvocatura di emettere il parere di competenza in ordine all'efficacia del rifiuto opposto dall'Istituzione scolastica a norma del- l'art. 106, co. 13, D.Lgs. n. 50/2016 (c.d. Codice dei contratti pubblici) a fronte di una cessione di crediti realizzata nell'ambito di una più ampia operazione di cartolarizzazione ex art. 4 della L. n. 130/1999 (c.d. Legge cartolarizzazioni). Ad avviso della Scrivente, le disposizioni di cui agli artt. 106, co. 13, Codice contratti pubblici, e 4, co. 4-bis, Legge cartolarizzazioni, lungi dal realizzare un'antinomia normativa, che è invero soltanto apparente, presentano in realtà un ambito oggettivo di applicazione radicalmente diverso. rispetto agli artt. 69 e 70 del r.D. n. 2440/1923, in altre parole, l'art. 4, co. 4-bis, L. n. 130/1999 si pone quale legge eccezionale (nel senso fatto proprio dall'art. 14 delle preleggi) alla stessa stregua dell'art. 106, co. 13, del Codice dei contratti pubblici, che parimenti fa eccezione alla regula iuris tratteggiata dal legislatore del 1923. Com'è noto, infatti, a norma dell'art. 70 del r.D. n. 2440/1923 "per le somme dovute dallo Stato per somministrazioni, forniture ed appalti, devono essere osservate le disposizioni dell'art. 9, allegato e, della legge 20 marzo 1865, n. 2248". tale disposizione, a sua volta, stabilisce che "sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione, se non vi aderisca l'amministrazione interessata". orbene, il principio ricavabile dal combinato disposto degli artt. 69 e 70 del r.D. n. 2440/1923 e 9 della L. n. 2248/1865, può considerarsi ad un tempo lex specialis rispetto alla disciplina di cui agli artt. 1260 ss. cc., che non riconosce alcuna facoltà di opposizione al debitore ceduto, e lex generalis rispetto alla particolare materia della cessione di crediti verso lo Stato derivanti da contratti in corso di esecuzione per somministrazioni, forniture e appalti. ogni norma successiva che dovesse diversamente disciplinare la materia, dunque, dovrà fare i conti con tali richiamati principi generali, allo scopo di chiarire i rapporti tra la lex posterior e la lex prior. per quanto specificamente concerne la norma di cui all'art. 106, co. 13, Codice dei contratti pubblici, prima di esaminare i rapporti tra questa e le disposizioni della L. n. 130/1999, occorre preliminarmente indagarne la genesi storica, essendo la stessa il frutto di successivi interventi legislativi, stratificatisi nel corso di 30 anni. All'indomani dell'emanazione della L. n. 52/1991, infatti, le cessioni di crediti di impresa realizzate nell'ambito di operazioni di factoring erano integralmente assoggettate all'indicata disciplina generale di cui al r.D. n. 2440/1923. Si è dovuto attendere il 6 marzo 1994, data di entrata in vigore della L. n. 109/1994, per potersi affermare, in deroga agli artt. 69 e 70 del regio Decreto, che "le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52, sono estese ai crediti verso le pubbliche amministrazioni derivanti da contratti di appalto di lavori pubblici, di concessione di lavori pubblici e da contratti di progettazione, nell'ambito della realizzazione di lavori pubblici" (art. 26, co. 5). Il primo vagito dell'attuale art. 106, co. 13, del Codice dei contratti pubblici, tuttavia, appartiene al D.p.r. n. 554/1999, il cui art. 115, co. 3, finalmente stabiliva che "la cessione del credito da corrispettivo di appalto è efficace ed opponibile alla pubblica amministrazione qualora questa non la rifiuti con comunicazione da notificarsi al cedente ed al cessionario entro quindici giorni dalla notifica di cui al comma 2" (Art. 115, co. 3). La prefata disposizione, pur abrogata dall'art. 256 del D.Lgs. n. 163/2006 (in uno con l'art. 26, pArerI DeL ComItAto CoNSULtIvo co. 5, Legge merloni), è stata poi riprodotta all'art. 117 del vecchio Codice degli appalti, giungendo a noi, per il tramite dell'art. 106, co. 13, del D.Lgs. n. 50/2016, sostanzialmente inalterata (eccezion fatta. per il maggiore lasso di tempo oggi concesso alle amministrazioni pubbliche per comunicare la propria opposizione alla cessione). oggi, dunque, è normativamente stabilito che: "Si applicano le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52. ai fini dell'opponibilità alle stazioni appaltanti, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici. Fatto salvo il rispetto degli obblighi di tracciabilità, le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, concorso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessione. [ ... ]". L'ambito oggettivo di applicazione dell'art. 106, co. 13, Codice dei contratti pubblici, risulta quindi normativamente circoscritto in virtù del richiamo, per vero assai poco perspicuo, alla legge n. 52/1991. Quanto, invece, all'art. 4, co. 4-bis, L. n. 130/1999, lo stesso, introdotto per mano del D.L. n. 145/2013 (convertito con L. n. 9/2014), prevede che: "alle cessioni effettuate nell'ambito di operazioni di cartolarizzazione non si applicano gli articoli 69 e 70 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, nonché le altre disposizioni che richiedano formalità diverse o ulteriori rispetto a quelle di cui alla presente legge". Si tratta, allora, di stabilire se le due norme disciplinino la stessa materia, realizzando un'antinomia normativa da risolversi mediante l'applicazione del c.d. criterio cronologico (predicante l'abrogazione implicita della lex prior), o se, all'opposto, si tratti di discipline dettate con riferimento a fattispecie diverse. Come anticipato, a parere della Scrivente gli artt. 4, co. 4-bis, L. n. 130/1999 e 106, co. 13, D.Lgs. n. 50/2016, individuano altrettante norme eccezionali (rispetto alla lex generalis costituita dagli artt. 69 e 70 del r.D. n. 2440/1923), ciascuna delle quali risulta limitata ad uno specifico ambito di applicazione (rispettivamente, le operazioni di cartolarizzazione e la cessione di crediti disciplinata dalla L. n. 52/1991). tra le due norme, in altre parole, non si realizza alcuna antinomia normativa, disciplinando ciascuna la propria materia. La normativa in materia di cartolarizzazione dei crediti, infatti, si presenta quale normativa speciale rispetto a quella in materia di cessione dei crediti. La cartolarizzazione dei crediti, invero, si realizza attraverso una operazione giuridico-economica complessa, di cui la cessione del credito costituisce solo un frammento. Si osserva, inoltre, che la Legge cartolarizzazioni, precludendo a monte l'applicabilità degli artt. 69 e 70 del r.D. n. 2440/1923, ha inteso all'evidenza precludere anche l'applicazione delle ulteriori disposizioni (quali quella, antecedente, di cui all'art. 117 del Codice appalti) che, derogando all'art. 70, hanno disciplinato in modo diverso la medesima materia. In altre parole, se la L. n. 130/1999 ha derogato alla lex generalis, escludendo a monte la necessità del consenso della pubblica amministrazione per le cessioni di crediti realizzate nell'ambito di più ampie operazioni di cartolarizzazione, in nessun caso potranno trovare applicazione le norme che, in parziale deroga all'art. 70 del regio Decreto, si prefiggano il più limitato obiettivo di diversamente disciplinare le modalità di prestazione di tale consenso, essendo esclusa in radice la possibilità di opporsi alla cessione. Del medesimo avviso, del resto, appare anche la giurisprudenza del Giudice Amministrativo, alla stregua del quale "non può condividersi la tesi secondo cui la norma del nuovo codice degli appalti (art. 106 comma 13 del d.lgs. 50/2016) avrebbe abrogato implicitamente la norma recata del comma 4bis dell'art. 4 della l. 130/1999 in quanto successiva, poiché la norma in questione è meramente riproduttiva della precedente disposizione recata dall'art. 117 del d.lgs. n. 163/06 che era ad essa antecedente. neppure risulta convincente la tesi secondo cui la norma del codice degli appalti prevarrebbe, in base al principio di specialità, sulla disposizione recata dall'art. 4, comma 4 bis, della l. 130/1999, in quanto tale disposizione si appalesa speciale rispetto alla disciplina codicistica, mentre la norma recata dal comma 4-bis dell'art. 4 cit. è norma speciale rispetto a tutte le disposizioni che disciplinano le formalità per la cessione dei crediti, con la conseguenza che l'art. 106, comma 13, del d.lgs. 50/2016, che richiama le sole "cessione dei crediti" e non contiene un espresso riferimento alla "cartolarizzazione" è inapplicabile, essendo prevalente la disciplina speciale recata dall'art. 4, comma 4-bis, della l. 130/1999. neppure è possibile ricorrere ad un'interpretazione estensiva dell'art. 106, comma 13, del d.lgs. rASSeGNA AvvoCAtUrA DeLLo StAto -N. 4/2021 n. 50/2016, facendo rientrare le "cartolarizzazioni" nell'ambito delle "cessione dei crediti", in quanto, essendo tale disposizione derogatoria rispetto alla disciplina comune, deve essere interpretata restrittivamente. Peraltro, l'omesso espresso riferimento a tale strumento da parte del legislatore può ragionevolmente spiegarsi in considerazione della ratio della norma relativa alle cartolarizzazioni, richiamata nella propria memoria dalle parti appellate, che è quella di favorire la competitività delle imprese, consentendo alle imprese cedenti di conseguire il pagamento delle proprie fatture in termini rapidissimi, assicurando una regolarità di cash flow indispensabile per il finanziamento dell'attività" (Cons. Stato, Sez. III, 24 settembre 2020, n. 5561). Alla luce delle suesposte osservazioni, e tenuto conto della richiamata giurisprudenza del Consiglio di Stato, in considerazione del rilievo della questione, in quanto involgente il generale rapporto tra le disposizioni di cui agli artt. 106, co. 13, Codice contratti pubblici e 4, co. 4-bis, Legge cartolarizzazioni, si resta in attesa di conoscere le definitive determinazioni di codesta Avvocatura Generale, eventualmente anche a modifica del precedente parere espresso con nota di codesta Avvocatura prot. n. 367481 del 17 luglio 2020. (...) Il procuratore dello Stato L'Avvocato Distrettuale dello Stato Francesco mutarelli Giovanni Cassano» (**) pubblicata in rass., 2020, vol. 4, pp. 170 ss. LegIsLazIoNeedattUaLItà Il ruolo delle Nazioni Unite e della Nato nel nuovo contesto internazionale Gaetana Natale* La terribile guerra scoppiata lo scorso 24 febbraio 2022 in Ucraina, oltre a creare una profonda crisi umanitaria ed incertezza sul destino dell’intera Europa e sui valori fondanti di libertà e democrazia, ci ha spinti anche a riflettere sul ruolo che a livello internazionale deve essere svolto in maniera efficace dall’ONU e dalla Nato. L’uso della forza nel panorama del diritto internazionale è uno degli argomenti più controversi, considerato anche che in tale branca del diritto il sistema delle fonti è concepito non come «sistema verticale », ma «come sistema orizzontale». Dal secondo dopoguerra tale sistema è stato oggetto di una parziale verticalizzazione per i seguenti motivi: 1) da un lato, il consolidamento di alcune norme generali (i principi generali di diritto e le norme di jus cogens) che, costituendo regole fondamentali dell’ordinamento internazionale, sarebbero dotate di forza giuridica superiore; 2) dall’altro, la costituzione di un numero sempre crescente di organizzazioni internazionali (per esempio, le Nazioni Unite), la cui produzione normativa, a difesa della pace e sicurezza internazionale, incorpora principi intangibili e universali. L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) è da una parte della dottrina considerato come la chiave di lettura del sistema in (*) Professore di Sistemi Giuridici Comparati, Avvocato dello Stato, assegnato alla V sezione dell'Avvocatura Generale dello Stato, Sezione preposta alla difesa tecnica del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e del Ministero della Difesa. Il presente scritto è stato elaborato dall'Autrice come parte integrante del corso di formazione per gli Ufficiali della Marina, tirocinanti presso l'Avvocatura Generale dello Stato. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 ternazionale delle fonti. Esso dispone che la Corte, nella soluzione delle controversie che le sono sottoposte, applicherà: -le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, contenenti norme espressamente riconosciute fra gli Stati in controversia; -la consuetudine internazionale (basata sull’usus e opinio iuris), quale prova di una pratica generalmente accettata come diritto; -i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili; -le decisioni giudiziarie e la dottrina degli autori più altamente qualificati dalle varie nazioni, in qualità di strumenti sussidiari. Tale articolo 38 della CIG, per la dottrina dominante, si limita solo ad operare una mera ricognizione delle fonti, senza fornire alcuna gerarchia. Si tratta, pertanto, di una norma operativa che si limita a indicare i criteri adoperati dalla CIG nel procedimento di risoluzione delle controversie. A conferma di tale tesi, fu eliminata una precedente stesura del testo dello Statuto contenente un’esplicita successione delle fonti menzionate all’art. 38: la Corte deve, quindi, prendere simultaneamente in considerazione tutte le fonti citate, tenendo altresì conto delle loro interrelazioni. È da notare che l’articolo in esame non ha la pretesa di contenere una lista esaustiva delle fonti a cui ricorrere nella risoluzione delle liti internazionali: a titolo di esempio, la Corte ha sovente richiamato nelle sue pronunce «atti di organizzazioni internazionali», (in particolare risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) che, come visto, non figurano nell’elenco sopra esposto. Occorre, allora, chiedersi che valore abbia sul piano del diritto internazionale l’ultima risoluzione dell’Assemblea Generale ONU di condanna contro la Federazione Russa per l’invasione dell’Ucraina? Superando il concetto di soft law e tenendo ben presente il valore politico, è certamente una presa di posizione forte di condanna della guerra come strumento di risoluzione delle controversie, considerato che la comunità internazionale ha come obiettivo primario la civile convivenza fra i popoli (Quadri). Convenzionalmente la nascita del diritto internazionale viene fatta risalire all’epoca della pace di Westfalia del 1648 al termine della Guerra dei Trent’anni: da quella data tutti gli stati affermarono la loro eguaglianza nella sovranità e indipendenza, ponendo fine alla diarchia Impero-Papato, le entità sovrane di vertice di pari grado superiorem non recognoscens. Fu così che, da tale data, la comunità orizzontale degli Stati sovrani avvertì la necessità di dare vita ad una serie di norme condivise nel tentativo di “autolimitare la loro sfera di azione”. Da allora il diritto internazionale si sviluppò come «diritto degli stati», poiché essi rappresentano gli unici soggetti costituenti un ordinamento giuridico orizzontale. Tale assetto ha conservato quasi immutate le sue caratteristiche almeno fino ai primi anni del Novecento, anche se dopo il LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Congresso di Vienna (1815) si è sentito il bisogno di creare una «diplomazia dei congressi» in cui gli Stati «effettivamente più forti» (Inghilterra, Francia, Austria, Prussia e Russia) prendevano decisioni che incidevano sulla vita e i rapporti tra gli Stati di Occidente e sulla successiva «civilizzazione e colonizzazione » del mondo. Fu così che già dal 1500 si è assistito in Europa al progressivo consolidamento di alcuni Stati Nazionali, in particolare delle grandi monarchie Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo. Parallelamente, i principi di sovranità dello stato, nazionalità -intesa come fattore aggregante che ha costituito la premessa, in epoca più recente, del principio di autodeterminazione dei popoli e di uguaglianza formale fra Stati -si sono affermati come valori fondanti della comunità internazionale. Tali valori sono immanenti a prescindere dal fondamento teorico del diritto internazionale: si ricorderanno la teoria del diritto naturale del XVII secolo (Francisco de Vitoria e Francisco Suàrez in Spagna, Ugo Grozio in Olanda), le teorie positivistiche (Jellinek, Jhering secondo i quali lo Stato è sottoposto soltanto a quegli obblighi che esso stesso ha accettato attraverso un libero atto di autolimitazione della propria sovranità), la c.d. «teoria della volontà comune» (Vereinbarung), la teoria normativistica pura di Kelsen, la teoria sociologica francese (Scelle e Duguit che rintracciano il fondamento giuridico dell’ordinamento internazionale in un sentimento di solidarietà sociale capace di indurre qualsiasi comunità di individui a ricercare il bene comune), le nuove teorie realistiche basate sul c.d. common law of human Kind, nuova struttura di potere a tendenza universalistica (c.d. diritto globale dell’umanità), la teoria del «New Haven» (Tanzi), che evidenzia la centralità del processo normativo continuo in base al quale nella comunità internazionale si affermano le decisioni dei soggetti più forti della scena internazionale. Ebbene, attraverso l’elaborazione di tutte queste teorie è consolidato a livello internazionale il principio secondo il quale il riconoscimento di uno stato sovrano si basa essenzialmente, oltre che sul controllo effettivo e permanente del territorio, sullo svolgimento di elezioni democratiche. È questa la nota dottrina tobar: Tobar, Ministro degli Esteri dell’Ecuador, si fece portatore di tale principio all’inizio del Novecento, quando le Repubbliche centro-americane si impegnarono, mediante la stipula di appositi trattati, a non riconoscere la legittimità dei governi rivoluzionari, finchè i loro esponenti non fossero stati liberamente eletti dal popolo e non avessero riorganizzato su basi costituzionali i rispettivi Paesi di appartenenza. Nel Preambolo della Carta dell’oNU si legge “noi popoli delle nazioni Unite (siamo) decisi a salvare le generazioni future da ulteriori guerre”. Nel mondo, però, dal 1945, anno di ratifica della Carta, ci sono stati più di 100 conflitti armati, con più di 20 milioni di vittime. Se da una parte la Carta, dun RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 que, vieta la minaccia e l’uso della forza (art. 2, par. 4), dall’altra, ci sono delle eccezioni in cui si può ricorrere ad essa: la legittima difesa individuale e collettiva in caso di attacco armato e il sistema di sicurezza collettiva ad opera del Consiglio di Sicurezza che ha una funzione ben diversa dall’Assemblea delle Nazioni Unite. È interessante, dunque, l’analisi di questo meccanismo e i chiari riferimenti presenti nello Statuto dell’Organizzazione. All’art. 2 (4) si legge testualmente: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia e dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Tale articolo si completa con la c.d. dottrina Stimson, ossia la dottrina del non riconoscimento di situazioni illegittime. Tale dottrina risale al 1932, anno in cui il Segretario di Stato statunitense (Stimson, appunto) dichiarò di non poter ammettere la legittimità delle situazioni e degli atti contrari al diritto sancito dal Patto della Società delle Nazioni Unite. Si trattava, nel caso specifico, della conquista giapponese della provincia cinese della Manciuria. In epoca più recente, si ricordano la ris. 276 del 1970, con cui il Consiglio di Sicurezza dichiarava contraria al diritto internazionale la presenza delle autorità sudafricane sul territorio della Namibia e la ris. 662 del 1990 che dichiarava nulla e non avvenuta l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq. Disattendere il divieto dell’uso della forza può essere annoverato anche come una violazione stessa di diritto consuetudinario, come ha riconosciuto la Corte Internazionale di Giustizia nella celebre sentenza del 1986 relativa ad uno dei casi più importanti del diritto internazionale del dopoguerra, ossia Nicaragua vs Stati Uniti. Dal canto suo la Commissione del Diritto Internazionale ha espresso la sua visione a riguardo, affermando che le disposizioni della Carta riguardanti il divieto dell’uso della forza costituiscono un esempio cospicuo di una regola di diritto internazionale avente il carattere di jus cogens. È singolare osservare che nella Carta delle nazioni Unite non viene mai usata la parola “guerra”, ma “forza”, insieme all’espressione “misure coercitive”, questo perché tradizionalmente la guerra è la forma più grave di “forza”, ma non l’unica. Per prima cosa, con l’espressione “forza” si fa riferimento alla “forza armata”, ma ciò non esclude che anche altri tipi di forze come quella economica e politica non rientrino in tale categoria. L’organo che ha la responsabilità primaria di mantenere la pace e la sicurezza internazionale è il Consiglio di sicurezza, come sancito dall’art. 24 della Carta. Nel capitolo VII dello Statuto all’art. 39 si legge: “Il Consiglio di sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Dunque, qualsiasi decisione LEGISLAzIONE ED ATTUALITà riguardante la minaccia o la violazione della pace deve passare sotto l’analisi del Consiglio di Sicurezza. La prima eccezione al divieto dell’uso della forza è il diritto di autodifesa collettiva ed individuale, come riconosciuto dall’art. 51. Il principio di autodifesa è da annoverare tra i “i diritti innati” di tutti gli stati, ma se da una parte il diritto di proteggere sé stessi da un attacco esterno è indiscutibile ed è alla base dell’istinto umano di sopravvivenza, dall’altra la sua definizione giuridica e ambito di applicazione è stato oggetto di diverse discussioni e controversie. Secondo quanto stabilito dall’art. 51 si comprendono caratteristiche e comportamenti che devono essere seguiti. Per prima cosa, esso si applica solo “contro un attacco armato”; in secondo luogo, gli Stati hanno il dovere di riportare al Consiglio di Sicurezza l’esercizio del diritto di autodifesa. A tal riguardo bisogna menzionare i tre elementi alla base della possibilità di uso della forza nel caso di autodifesa, che non sono espliciti nella Carta, ma fanno parte del diritto internazionale consuetudinario: necessità, proporzione e immediatezza. La seconda eccezione al divieto dell’uso della forza, oltre alla c.d. preemptive self-defense (c.d. guerra preventiva, dottrina Bush), è un ordine o, meglio dire, un’autorizzazione di uso della forza secondo l’art. 42, qualora una minaccia, una violazione alla pace o un atto di aggressione si siano verificate. La Carta prevedeva, inizialmente un meccanismo di azioni per il mantenimento o il ristabilimento della pace portate direttamente dal Consiglio di Sicurezza con forze militari messe a disposizione da parte degli Stati membri, sulla base di accordi che si sarebbero dovuti stipulare in base all’art. 43. Dal momento che questi accordi non sono stati stipulati, il meccanismo ha funzionato ricorrendo ad azioni degli Stati autorizzate dal Consiglio di Sicurezza o con azioni più limitate decise dal Consiglio e gestite dal Segretario Generale secondo le direttive del Consiglio stesso. In questo secondo caso si fa riferimento alle c.d. operazioni di peace keeping, o di mantenimento della pace. All’indomani della fine della Guerra Fredda, periodo durante il quale il Consiglio di Sicurezza si trovava bloccato dal veto di uno o di più Membri Permanenti dovuto all’opposizione tra Usa e URSS, esso ha utilizzato questo suo potere in numerose occasioni, adottando risoluzioni di autorizzazione. Si possono citare la Somalia, Timor Est e l’Afghanistan. Il rapporto tra Consiglio di Sicurezza e Assemblea delle nazioni Unite è venuto in rilievo con il recente conflitto in Ucraina, riguardo al quale la Russia ha opposto il suo diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza, mentre l’Assemblea Generale con il voto di 141 paesi («one state one vote») ha approvato la recente risoluzione che ha usato la parola “deplora” in ordine al- l’invasione dell’esercito russo sul territorio ucraino. Nel corso della storia la frequente inattività del Consiglio di Sicurezza, soprattutto nel primo quarantennio di vita dell’ONU, ha indotto l’Assemblea RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Generale a ritagliarsi una propria competenza concorrente a quella del Consiglio, al fine di salvaguardare la pace e la sicurezza internazionale. Tale competenza fu affermata per la prima volta nel 1950 con l’adozione della ris. 377 (c.d. risoluzione Uniting for Peace o risoluzione Acheson), con cui l’assemblea stabiliva la propria facoltà di intervenire, in caso di inerzia del Consiglio, in ogni situazione di minaccia alla pace attraverso l’adozione di raccomandazioni o di misure collettive ritenute necessarie, ivi comprese quelle relative all’invio delle forze armate. Nel recente panorama internazionale che sembra delineare un nuovo scenario geopolitico per la volontà della Russia di voler annettere al suo territorio il Don Bass e la Crimea (formalmente annessa con un referendum nel 2014), l’attacco armato ad un paese sovrano, quale l’Ucraina, ha visto un rafforzamento anche della Nato, il cui ruolo sembrava essere sopito nel corso degli ultimi anni. Non solo: il Consiglio Atlantico ha deciso di recente di rafforzare la cooperazione con la Finlandia e la Svezia. Questi due paesi, ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg saranno associati a tutte le consultazioni. È singolare che paesi tradizionalmente neutrali abbiano chiesto di aderire alla NATO. Si ricorderà che l’Alleanza Atlantica è stata istituita con il Trattato di Washington del 4 aprile 1949. Creata come organizzazione militare per contrastare il pericolo sovietico, ha poi radicalmente mutato il proprio ruolo in seguito alla dissoluzione dell’URSS, trasformandosi così in una forza internazionale per il mantenimento della pace. scopi principali della Nato sono la mutua difesa obbligatoria dalle aggressioni esterne e la risoluzione diplomatica delle controversie tra gli stati membri. Organo supremo è il Consiglio Atlantico che riunisce i rappresentanti degli Stati membri e ha sede a Bruxelles. Dell’organizzazione fanno parte: Albania, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Regno Unito, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paese Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia, Ungheria e USA. L’aperura della NATO ai paesi dell’Europa orientale era stata avviata già nel gennaio 1994, quando durante il vertice tenutosi a Bruxelles, fu deciso di dar vita al c.d. Partenariato per la pace, invitando i paesi dell’Est ad instaurare una più stretta collaborazione con l’Alleanza in vista di un suo futuro allargamento. Si trattava di una logica conseguenza nel cambiamento del ruolo dell’Alleanza Atlantica nel nuovo ordine di sicurezza europeo generato dalla fine della guerra fredda. In questo contesto, accompagnato dal progressivo disimpegno militare statunitense dall’Europa, la NATO ha dovuto rimodulare il suo ruolo, caratterizzandosi sempre più come organizzazione regionale di difesa. Ed è tale il ruolo che sta svolgendo in questi drammatici giorni di attacchi LEGISLAzIONE ED ATTUALITà militari russi in Ucraina. Quest’ultima, infatti, ha fatto richiesta di adesione all’Unione Europea e non fa ancora parte della NATO. Pertanto, l’attività di difesa della NATO deve necessariamente consistere in un rafforzamento della difesa militare sui confini dei paesi aderenti (Polonia, Romania, Moldavia e gli altri paesi balcanici, c.d. “response defense”) e nel non riconoscimento della c.d. no fly-zone. Eppure, nella nostra epoca digitale che ha visto il passaggio dal “territorio” al “cloud” cambia anche il concetto di guerra e di aggressione: può definirsi tale anche l’attacco informatico agli asset IT nel cyberspazio (malware o attacchi DDoS, Distributed Denial od Service Attacks), ragion per cui sembra profilarsi la possibile (ma non auspicabile) applicazione dell’art. 5 dell’Alleanza atlantica (si pensi al cyberattacco nel 2010 in Iran, Nokepia nel 2017). Tale articolo afferma che un “attacco armato” contro uno o più alleati della Nato si considera come un attacco contro ogni componente della Nato e, quindi, ognuno di essi può, secondo il diritto all’autodifesa sancito dall’art. 51 della Carta dell’Onu decidere le azioni che ritiene opportuno intraprendere. Il concetto di guerra si evolve: si sta parlando di guerra “ibrida”, di “guerra delle narrative”, di “guerra dei numeri”, di “guerra basata sul terrore nucleare”, “guerra dell’energia intesa come fattore decisivo per la geopolitica”, “dell’uso anticipato dell’intelligence sulle azioni militari”, di “guerra della disinformazione”. L’informazione è concepita come una vera e propria “arma” in un mondo dominato dai social e dai c.d. “filter bubbles”. Le sanzioni molto dure adottate dall’Unione Europea (in particolare l’esclusione della Russia dal circuito Swift delle transazioni internazionali) ci portano a svolgere alcune considerazioni sulla c.d. PesC, la Politica estera e di sicurezza Comune, introdotta solo con Trattato di Maastricht, il c.d. «secondo pilastro». Sebbene il Trattato di Lisbona in vigore dal dicembre 2009 abbia operato una razionalizzazione dell’azione esterna complessiva dell’UE, la PESC continua a mantenere una struttura che la rende diversa dalle altre politiche (relative soprattutto alla sfera socio-economica), in quanto ancora si registra una prevalenza di elementi di cooperazione intergovernativa rispetto a quelli di integrazione a livello sovranazionale. Dopo la riforma operata dal Trattato di Lisbona, la PESC si fonda sui principi e persegue gli obiettivi sanciti nelle disposizioni generali sull’«azione esterna dell’Unione» (art. 21 tUe). Essa si fonda, in particolare: -sulla salvaguardia dei valori dell’unione, dei suoi interessi fondamentali, della sua sicurezza, indipendenza e integrità; -sul consolidamento e sul sostegno della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani e del diritto internazionale; - sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; - sulla prevenzione dei conflitti. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 La PESC, in quanto politica di cooperazione che adotta un metodo intergovernativo, conferisce un ruolo fondamentale agli Stati membri sotto tre aspetti: 1) attraverso l’obbligo di cooperazione previsto all’art. 24 TUE che impone agli Stati di sostenere attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza «in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca» (c.d. clausola di solidarietà sociale); 2) attribuendo loro il potere decisionale in sede di Consiglio Europeo; 3) prevedendo per essi poteri e doveri specifici (tra cui, ex art. 28 par. 2 TUE), l’obbligo di rispettare le decisioni adottate dal Consiglio nella conduzione della loro azione in caso di intervento operativo dell’Unione. Occorre precisare che l’art. 42 TUE stabilisce esplicitamente che la PsdC, ossia la Politica di sicurezza e difesa Comune costituisce parte integrante della PESC e «comprende la graduale definizione di una politica di difesa comune dell’Unione che condurrà a una difesa comune quando il Consiglio Europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso». Essa mira ad assicurare all’Unione i mezzi civili e militari in missioni esterne per il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, in conformità ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri, che restano su base volontaria. È stato osservato (Flick) che per la prima volta il Parlamento italiano ha autorizzato in questi giorni l’invio di “strumenti militari di protezione” per aiutare l’Ucraina. In conformità all’art. 11 della Costituzione, i decreti approvati non parlano tecnicamente di “armi”, ma di strumenti militari che servono più a proteggersi che ad attaccare. Sebbene l’Ucraina non sia formalmente ancora entrata nell’Unione Europea si è invocato l’art. 42 par. 7 TUE, la c.d. clausola di mutua assistenza, in virtù della quale se uno Stato membro subisce un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò tuttavia non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, in particolare di quelli che fanno parte della Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico (NATO). Anche dopo le riforme operate dal Trattato di Lisbona, dunque, la NATO continua a rappresentare il principale quadro di riferimento della difesa europea e, come disposto dall’art. 42, par. 2, TUE la cooperazione nel settore della PSDC deve essere conforme agli impegni assunti, nell’ambito di tale organizzazione dai Paesi che ne sono membri. Oltre all’asse G7, all’Unione Europea , all’Alto rappresentante UE per la Politica Estera, Josep Borrell, al Consiglio Affari Esteri UE con il Segretario di Stato USA Antony Blinken, un ruolo importante sta svolgendo in questi LEGISLAzIONE ED ATTUALITà drammatici giorni anche l’osCe, ossia l’organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in europa. Nata negli anni settanta con il nome di Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa CSCE, l’organizzazione fu concepita come un forum di cooperazione tra gli stati europei volto a favorire la distensione internazionale. Finita la guerra fredda, il mutare delle priorità strategiche in tema di sicurezza internazionale rese necessaria una trasformazione della CSCE: con la conferenza di Budapest del dicembre del 1994, pertanto, fu deciso di istituzionalizzare gli incontri, conferendo alla struttura lo status di organizzazione e cambiando il nome in osCe. L’OSCE, cui fanno parte attualmente 56 paesi (vi aderiscono tutti gli Stati europei, alcune Repubbliche ex sovietiche, gli Stati Uniti e il Canada) è un’organizzazione volta alla prevenzione dei conflitti, al monitoraggio delle situazioni di crisi e alla ricostruzione nelle zone interessate da una guerra: essa, dunque, è attiva e presente in ogni fase di un conflitto armato. La sua attività si basa su una stretta collaborazione tra gli Stati membri nelle questioni riguardanti la sicurezza politico-militare. Dato il carattere regionale dell’attività dell’OSCE, le possibilità di coordinazione tra l’attività di tale organismo e le altre organizzazioni europee si evidenziarono già in occasione del conflitto in Serbia. L’OSCE, infatti, riucì a realizzare una proficua collaborazione tra l’Unione Europea che garantiva il necessario supporto economico e la UEO (Unione dell’Europa Occidentale, mera struttura militare di raccordo), al fine di assicurare una migliore tenuta dell’embargo imposto all’epoca allo stato serbo. Nonostante l’Unione Europea non sia rappresentata nell’OSCE, le posizioni tenute dai membri dell’Unione in essa presenti vengono discusse come parte della PESC e prese in considerazione nelle riunioni del Consiglio Europeo. *** Leggendo le tragiche notizie che ci giungono in questi giorni dal- l’Ucraina, non si può fare a meno di fare riferimento alla lettera che Einstein scrisse nel 1932 a Freud a seguito dell’invito rivoltogli dalla Società delle Nazioni intitolata “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. In tale lettera Einstein proponeva a Freud la linea di Kant “Progetto per una Pace Perpetua” e quella di Kelsen “Il problema della sovranità”: “la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci, entro certi limiti, alla sua libertà di azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è chiaro che non vi è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. La sovranità rimane il problema nella misura in cui implica la prospettiva stessa dell’assenza di limiti”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le sfide future per il giurista Gaetana Natale* SommArIo: 1. I problemi che gli algoritmi pongono oggi al giurista -2. Algoritmo e diritto amministrativo -3. Algoritmo e diritto penale -4. Algoritmo e contratto -5. Il governo della tecnica e il controllo umano delle sue applicazioni -6. Qual è oggi la più grande intelligenza artificiale del mondo? -7. Algoritmi, neuroscienze e neurodiritti. L’algoritmo e l’adolescenza -8. Strumenti normativi regolatori e prospettive future nella dimensione euro-unitaria e in quella nazionale -9. Servizio civile digitale -10. Hate speech: un fenomeno incontrollabile? -11. La figura degli influencer -12. La commercializzazione dei dati personali: il caso Facebook -13. La tutela dei minori e il diritto all’oblio -14. L’“eredità digitale” -15. Il fenomeno del c.d. revenge porn -16. La diffamazione tramite chat privata o mailing list -17. L’interoperabilità: il dialogo necessario tra il digitale e il diritto -Bibliografia. (...) 6. Qual è oggi la più grande intelligenza artificiale del mondo? Nvidia e microsoft hanno fatto fronte comune e hanno “costruito” la più grande intelligenza artificiale del mondo: megatron-Turing Natural Language Generation (MT-NLG), composta da più di 530 miliardi di parametri. Il software ha raggiunto un’accuratezza senza precedenti in moltissimi ambiti (dal ragionamento alla comprensione della lettura). MT-NLG è stato addestrato su Microsoft Azure NDv4, sul supercomputer di apprendimento automatico Selene di Nvidia ed è composto da ben 825 GB di testo ottenuti dal mondo del web, da articoli prelevati da Wikipedia, ad archivi di riviste accademiche (come Nature o Science) a video di notizie. In questo modo, l’intelligenza artificiale supera i suoi predecessori in un’ampia gamma di attività differenti: dal completamento automatico delle frasi, delle risposte che offre, passando dalla lettura e nel ragionamento. Tuttavia, a causa della grande quantità di dati utilizzati per l’addestramento del modello, i ricercatori non sono stati in grado di cancellare alcune parole che non dovrebbero essere utilizzate. In poche parole, MT-NLG può produrre dei contenuti potenzialmente razzisti o sessisti. Ne è la prova il fatto che alcune intelligenze artificiali create (*) Avvocato dello Stato, Professore a contratto di Sistemi Giuridici Comparati, Consigliere Giuridico del Garante per la Privacy. Redazione delle note a cura delle Dott.sse Giulia Arcari e Valentina Sabatino, ammesse alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. I precedenti capitoli della monografia pubblicati in Rass., 2021, n. 3, pp. 169 ss. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà per dare consigli etici hanno improvvisamente avuto una deviazione in senso contrario. Si tratta dell’IA chiamata Ask Delphi, creata da alcuni ricercatori sulla base di un algoritmo di apprendimento automatico in grado di consigliarci eticamente su cosa fare in base alla situazione in cui eravamo. A tale intelligenza artificiale si possono fare delle domande e, dopo pochi secondi, l’algoritmo ci dice se è la cosa più o meno etica da fare. Molti dei giudizi e delle risposte date sono discutibili. Ad esempio, un utente ha chiesto cosa ne pensasse di “un uomo bianco che cammina verso di te di notte”, rispondendo “va tutto bene”. La stessa domanda è stata fatta mettendo come soggetto un uomo di colore e la risposta è cambiata in peggio. Gli utenti sono riusciti a far piegare l’IA al loro volere, creando delle frasi ad hoc per mandare in confusione l’algoritmo. Ad esempio, domandando se fosse giusto mettere musica ad alto volume alle tre di notte, l’intelligenza artificiale ha risposto giustamente “no”, ma chiedendo, invece, se fosse giusto mettere musica ad alto volume alle tre di notte, perché vi rende felice, invece, il software ha risposto “si”. Secondo gli autori dell’intelligenza artificiale, però, Delphi è un prototipo di ricerca destinato a indagare le più ampie questioni scientifiche su come i sistemi di intelligenza artificiale possano essere realizzati per comprendere le norme sociali e l’etica. Insomma, un’IA nata con finalità etiche, immessa nel mondo di internet diventa il “mostro”, nel senso latino del termine “monstrum”, ossia straordinario, ma nello stesso tempo spaventoso per le deviazioni in cui può evolvere. Secondo il Pentagono americano, sarà addirittura l’intelligenza artificiale a prevedere le guerre nel futuro. Si ricorderà la notizia della morte del capo del programma nucleare iraniano per mano di un’IA: essa avrebbe manovrato un fucile da cecchino posizionato da degli agenti dei servizi segreti israeliani per uccidere il nemico. Dopo questi eventi, il Pentagono ha manifestato un nuovo interesse nell’IA e nel suo uso per scopi bellici. Il Dipartimento della Difesa americano, infatti, vorrebbe usare i computer per prevedere le mosse dei nemici ed agire di conseguenza negli scenari di guerra (98). In particolare, il programma in cui l’IA sarebbe impiegata è il GIDE, o Global Information Dominance Experiments, che avrebbe già realizzato una (98) Vedi il libro di H.A. KISSINGER, E. SCHMIDT, D. HUTTENLOCHER, “The Age of AI: And our Human Future”, 2021. Secondo gli autori, sarà l’intelligenza artificiale il prossimo terreno su cui si combatterà la futura guerra fredda. Kissinger ci mette in guardia sull’I.A. che «potrà essere utilizzata per una sorprendente gamma di usi civili e militari, dalla lettura dei raggi X e dalla previsione dei modelli meteorologici al potenziamento dei robot assassini e alla diffusione della disinformazione». Secondo Kissinger, «la relazione tra Stati Uniti e Cina è passata dalla partnership alla cooperazione, dall’incertezza al confronto vicino o reale, e in assenza di dialogo aspettarsi che vengano prese decisioni sagge da tutte le parti è un atto di fede nel futuro che è difficile da accettare». Insomma, «stiamo entrando in un nuovo periodo della coscienza umana che non comprendiamo ancora del tutto». RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 prima esercitazione completa con tre intelligenze artificiali separate, ma connesse tra loro, chiamate con i nomi in codice Cosmos, Gaia e Lattice. Esse hanno il compito di lavorare insieme e di processare una mole enorme di dati in tempo reale per effettuare previsioni di scenari bellici e configurare di conseguenza le difese americane. Durante una conferenza, il Segretario alla difesa americano Lloyd Austin ha elogiato l’IA, descrivendola come “il corretto mix di tecnologia, concetti operativi e capacità, inseriti in un reticolo flessibile, credibile, affidabile e formidabile, capace di fermare le azioni di ogni avversario”. L’idea del Pentagono sembra, dunque, quella di sviluppare un’intelligenza artificiale sempre più avanzata, usandola come deterrente contro qualsiasi nemico intenda iniziare una nuova guerra su larga scala. L’implementazione dell’IA è pensata per ridurre i tempi della “zona grigia” dei conflitti, ovvero il momento della guerra in cui entrambe le parti cercano di stabilire la consistenza delle forze, le debolezze e il posizionamento del nemico, preparando di conseguenza dei piani strategici per contrastarlo. In questo modo, gli Stati Uniti sperano di conseguire dei vantaggi operativi su qualsiasi nemico e in ogni teatro di guerra. La decisione del Pentagono di adoperare le intelligenze artificiali per scelte così delicate, che mettono a rischio anche migliaia di vite umane, è stata duramente criticata dal punto di vista etico. Lloyd, però, ne ha difeso l’impiego, dicendo che: “il nostro uso dell’IA vuole rafforzare i valori democratici, proteggere i nostri diritti, assicurare la sicurezza e difendere la Privacy. Capiamo le pressioni e le tensioni e sappiamo che le valutazioni etiche e legali dell’uso della tecnologia guerra possono richiedere tempo”. Anche la Cina potrebbe avere un programma IA molto avanzato, per cui Washington sarebbe già indietro nella guerra tecnologica rispetto al suo principale nemico. Ma a questo punto non si potrebbe creare un’intelligenza artificiale per migliorare le relazioni diplomatiche fra gli Stati? Non si potrebbe creare l’algoritmo della pace mondiale che sia in grado di prospettare i benefici della cooperazione internazionale e del multilateralismo per creare principi ecogiuridici in grado di rispettare l’ambiente e le risorse naturali per uno sviluppo sostenibile basato sul “principio di non regressione” delle risorse naturali? Non si potrebbero creare algoritmi di sviluppo etico in grado di contenere il climate change e raggiungere la carbon neutrality entro tempi ragionevoli per le future generazioni? Io credo di si: è l’uomo che può indirizzare lo sviluppo dell’IA verso obiettivi positivi, è l’uomo faber suae fortunae, è l’uomo che nel programmare ed educare gli algoritmi può decidere in che direzione andare, ponendo nella programmazione dei sistemi di allerta e di blocco in caso di deviazione del- l’algoritmo dagli obiettivi etici da lui stesso prefissati. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà È un’idea utopistica? Credo di no: la parola idea viene dalla radice greca id nell’aoristo del verbo orao, vedere con gli occhi della mente: occorre vedere oggi con gli occhi della mente quello che potrebbe essere il futuro possibile e decidere la direzione giusta verso cui tendere. Un episodio deve farci riflettere. Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, laureata ad Harvard, assunta nel 2019 come ingegnere informatico addetta ai dati, ha affermato, nel- l’ottobre 2021, che nella piattaforma Facebook “c’era un piano di sicurezza e di controlli sui messaggi di odio e sulla disinformazione, ma dopo le elezioni presidenziali del 2020 qualcosa è cambiato, gli algoritmi sono cambiati e il sistema è diventato meno sicuro”. Secondo Haugen la piattaforma social avrebbe allentato la censura dei messaggi di odio e i contenuti che disinformavano sul risultato elettorale, finendo per favorire la diffusione dei messaggi di presunti brogli. La donna, considerata la misteriosa “gola profonda” di Facebook, è uscita allo scoperto, mostrando il suo volto e tratteggiando un quadro inquietante della piattaforma che fa capo a Mark zuckerberg, affermando in una deposizione innanzi al Congresso americano: «hanno sempre preferito il profitto alla sicurezza. Facebook amplifica il peggio degli esseri umani e questo atteggiamento si è allargato a Instagram. Avevano pensato che se avessero cambiato gli algoritmi per rendere il sistema più sicuro, la gente avrebbe speso meno tempo sui social, avrebbe cliccato meno le inserzioni pubblicitarie e Facebook avrebbe fatto meno soldi». Haugen ha raccontato di aver deciso di intraprendere questa battaglia, perché ha perso una persona cara a causa delle teorie cospirazioniste che circolavano sui social. Riguardo Instagram, l’ingegnere ha sostenuto che impatta in modo drammatico sugli adolescenti: prima al congresso Usa a Washington, poi al Parlamento di Londra, quindi al Web Summit di Lisbona con tappa a Bruxelles, l’ex data scientist di Facebook ha portato nel cuore del- l’Unione Europea la sua testimonianza, nell’intento di dare impulso alle proposte di regolamentazione dei giganti digitali. Haugen, la whistleblower, ha parlato agli eurodeputati della Commissione per il mercato interno, con il Commissario europeo Thierry Breton e al Parlamento Europeo affermando: «Cari membri del Parlamento, la posta in gioco è molto alta. Avete l’opportunità unica di creare nuove regole per il nostro mondo online. Le regole non devono riguardare solo gli aspetti giuridici, ma anche le piattaforme. L’accesso ai dati è solo il punto di partenza. È ciò che consente ai ricercatori e alle autorità di regolamentazione di valutare i rischi e i danni dell’intero sistema di profilazione, targeting, e classificazione basata sull’engagement. Se a Facebook sarà permesso di continuare a operare nel- l’oscurità, avremo solo un crescendo di tragedie come risultato, poiché viene favorito l’estremismo, la polarizzazione e la disinformazione. Abbiamo visto l’impatto che le grandi piattaforme possono avere sulle nostre democrazie e società, in particolare sul benessere dei nostri figli». RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Il Commissario Breton ha ribadito la determinazione dell’UE per regolamentare “quello che sembra ancora un Far west digitale” e ha sottolineato «che i grandi sforzi di lobby a cui stiamo assistendo sono sprecati: non permetteremo che gli interessi aziendali interferiscano con l’interesse generale degli europei». Il Commissario è strenuo difensore dell’adozione dei Regolamenti sui servizi digitali (Digital Services Act, Dsa) e sui mercati digitali (Digital markets Act, Dma) già nel primo semestre del 2022, quando la Francia assumerà la presidenza di turno dell’UE. Si punterà a creare uno spazio digitale più sicuro in cui siano protetti i diritti degli utenti, comprese le regole per contrastare i contenuti illegali online, migliorare la responsabilità e la trasparenza degli algoritmi e occuparsi della moderazione dei contenuti e della pubblicità mirata; si propone come l’occasione di plasmare l’economia digitale a livello UE per diventare un punto di riferimento globale sulla regolamentazione digitale. Le proposte dei vari regolamenti presentata nel dicembre 2020 dovrebbe essere modificata e migliorata. Ma è importante colpire anche il grande potere economico delle piattaforme con una adeguata tassazione: il G20 tenutosi a Roma il 29-30 ottobre 2021 ha concordato, tra i grandi della terra, la c.d. tassa minima globale, webtax al 15%, definendo la base imponibile, non in relazione alla sede legale di tali società, ma in base al luogo in cui saranno realizzati i profitti (99). L’accordo, i cui aspetti tecnici dovranno essere meglio definiti da un ulteriore intesa in sede OCSE, rappresenta un primo passo per arginare gli ingenti profitti delle piattaforme che possono superare il PIL degli Stati sovrani. Non solo: le grandi piattaforme pongono in essere anche attività speculative grazie alla loro forza persuasiva. Ha suscitato scalpore la notizia che, dopo aver venduto sul mercato una quota nella sua partecipazione in Tesla come suggerito dall’esito di un sondaggio condotto su Twitter, Elon Musk abbia esercitato le sue stock options e ricomprato circa la metà delle azioni vendute pagandole, però, il 99,4% in meno e guadagnando 2,4 miliardi di dollari. Twitter viene così utilizzato per manovrare gli assets finanziari. Elon Musk lo ha fatto con il bitcoin e con le altre valute digitali, lo ha fatto con azioni caldissime come quelle della catena dei punti vendita di videogiochi Gamestop. Ora si è dedicato direttamente alle azioni della sua azienda, produttrice di (99) Gli amministratori delle società di telecomunicazioni europee (come Deutsche Telekom, Telefonica e Vodafone) stanno chiedendo che le grandi società tecnologiche americane, come Netflix, You- Tube (Google) e Facebook (oggi Meta), sostengano le spese di rete che loro stesse utilizzano per la loro massiccia attività in Europa. È questo uno strumento, insieme alla web tax, per contenere il loro straripante potere economico. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà auto elettriche: la Tesla. Egli, infatti, ha lanciato un sondaggio sul social per chiedere se avrebbe dovuto vendere il 10% della sua partecipazione nella società di fronte all’ipotesi, in discussione presso il Senato statunitense, che venga introdotta una tassa sugli utili non realizzati (in pratica sull’eventuale aumento del valore delle azioni che rimane una ricchezza virtuale, finché i titoli non sono effettivamente venduti) per le 700 persone più facoltose del paese. Hanno risposto in 4 milioni con una prevalenza del 58% dei voti favorevoli alla vendita. L’esito ha provocato uno scossone sui mercati con le azioni Tesla calate del 16% in due giorni. A questo punto, Musk vende 4,5 milioni di azioni per un controvalore di 5,5 miliardi di dollari, ma dai documenti trasmessi alla SEC (l’autorità statunitense di vigilanza dei mercati) Musk ha esercitato un diritto di stock options (ossia la possibilità di acquistare un titolo ad un valore prestabilito, indipendentemente dalle variazioni di prezzo intercorse nel frattempo) comprando 2,1 milioni di azioni. Le azioni sono state pagate 6,2 dollari l’una a fronte di un valore di mercato che supera i mille dollari, garantendo all’imprenditore un guadagno del 99,4%. Pagato 14 milioni di dollari, il pacchetto azionario vale ai prezzi correnti 2,4 miliardi di dollari. Non solo: Musk ha spostato la sua residenza dalla California al Texas, dove il regime fiscale sui proventi da partecipazioni societarie è più favorevole. Musk ha, al momento, un patrimonio personale stimato in 281 miliardi di dollari, superiore al Pil di molti Stati sovrani. Tale situazione richiede un controllo e una tassazione adeguata, a cui il G20 ha cercato di dare una risposta: le grandi ricchezze vanno adeguatamente tassate secondo il criterio della capacità contributiva e in aderenza ad una logica redistributiva. Tali piattaforme hanno un potere di contrattazione superiore agli Stati, che si concretizza nella c.d. Tax ruling, potendo stabilire i termini della regolazione e della tassazione su un piano di parità, se non di superiorità, con i governi nazionali che dipendono da tali piattaforme, per assicurare ai propri cittadini servizi come le comunicazioni, la sanità, la giustizia, la sicurezza. È notizia recente che Facebook stia pensando non solo di cambiare nome, ma di presentare Metaverso (100), nuova realtà aumentata che inciderà pro (100) L. PARDO, “Il metaverso spalanca nuove frontiere dell’economia. E delle regole”, su https://www.wired.it/article/metaverso-ecommerce-regole/. La parola Metaverso è un neologismo che si sta diffondendo ormai tra coloro che studiano l’innovazione futura della tecnologia. A tutt’oggi, però, tale parola non può essere definita con uno specifico significato. Nell’articolo sopra riportato, la parola metaverso viene fatta risalire alla definizione di Neal Stephenson, contenuta nel romanzo cyberpunk “Snow Crash” del 1992: «uno spazio tridimensionale all’interno del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attraverso avatar personalizzati». Si prospettano scenari e soluzioni interessanti ma sorgono anche preoccupazioni inquietanti. Nel Metaverso ognuno di noi, in futuro, avrà un gemello virtuale? E se così sarà, potremo considerare il gemello un soggetto giuridico? Avrà capacità RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 fondamente sulle nostre vite (101). La tecnologia corre su un binario più ve- giuridica e di agire? Il diritto potrà regolare il metaverso? Come riportato nell’articolo sopra citato, «il metaverso rappresenta l’ambiente globale di convergenza di differenti soluzioni tecnologiche (blockchain e smart contracts, non-fungible tokens e cryptovalute, intelligenza artificiale e realtà aumentata), che permetteranno la continua interazione personale e commerciale fra gli utenti, nonché la fusione fra il mondo reale e quello virtuale (attraverso avatar)». Un esempio di questo nuovo universo è dato dal videogioco, tramite il quale il giocatore/avatar, durante l’azione, accede al negozio virtuale di un marchio vero, reale, prova l’articolo di abbigliamento e lo compra realmente. Come ci dice l’autore del- l’articolo, le caratteristiche essenziali del metaverso sono: «natura globale e decentralizzata, che non sopporta confini geografici o giurisdizionali; interazione sincronica degli e fra gli utenti, fra realtà fisica e realtà virtuale; connessione continua e interoperabilità». Il Metaverso sicuramente ci deve far riflettere sul modo in cui i dati saranno trattati: ci chiediamo quali soggetti dovranno raccogliere e trattare i dati, con quali procedure, se ci sarà una adeguata protezione. I rischi di data breach potrebbero essere all’ordine del giorno, per cui se vogliamo “spostarci” sulla realtà virtuale dobbiamo pensare ad una adeguata cybersecurity, dal momento che sarà sicuramente difficile identificare ed attribuire le responsabilità agli autori degli attacchi. Come si legge nell’articolo, «l’utilizzo di soluzioni di intelligenza artificiale nel metaverso richiederà soluzioni normative risk-based uniformi e quanto più possibile globali, nonché sistemi di compliance sofisticati ed affidabili in capo ai soggetti che tali soluzioni offrono nel metaverso. Il metaverso rappresenterà opportunità e rischi per titolari di diritti di proprietà intellettuale ed industriale, così come per fornitori di contenuti… L’idea di una due diligence preventiva sugli asset di proprietà intellettuale e industriale per coglierne opportunità e limiti di sfruttamento nel metaverso, ed eventualmente estendere agli aventi diritto tali facoltà, è altamente consigliata. Compresa l’esperienza fluida e decentralizzata del metaverso in ogni ambito dell’economia globale, sarà sempre più necessaria una corrispondente e quanto più uniforme possibile disciplina giuridica». (101) Dopo la crisi di Facebook, con il Metaverso Mark zuckerberg vuole portare la sua azienda in un’area di business senza confini, un nuovo modello di economia; v. M. DAL CO E A. LONGO, “metaverso, nuovo business della rete? Ecco gli scenari” su agendadigitale.eu. Si tratta di mondi digitali in cui non c’è limite agli acquisti, in cui il denaro è la criptovaluta, poiché la finanza nel Metaverso è alimentata dalla blockchain; mondi virtuali in cui chiunque può comprare o scambiare arte, musica, case, terreni o Token Non Fungibili (NFT) -definiti dal dizionario Collins parola dell’anno -che rappresentano «un certificato digitale unico, registrato in una blockchain, che viene utilizzato per registrare la proprietà di un bene come un’opera d’arte o un oggetto da collezione». Inoltre, sono sempre più comuni le transazioni di immobili nel Multiverso. V. anche E. ROTOLO, “Sarà metaverso in mille settori: ecco tutte le possibilità di business”, su agendadigitale.eu. Per non parlare dei matrimoni virtuali: lo scorso ottobre, una coppia si è sposata con una doppia celebrazione, una reale e un’altra virtuale, con i loro avatar che si sono scambiati gli anelli. I matrimoni nel metaverso non sono ancora riconosciuti ufficialmente e gli invitati per partecipare hanno dovuto scaricare un programma sul computer e creare il proprio avatar. Nel frattempo, come alternativa al Metaverso di Facebook, anche Microsoft sta creando una sorta di metaverso, chiamato mesh. Tuttavia, N. PATRIGNANI, “metaverso, rischio di un nuovo medioevo digitale”, su agendadigitale.eu, ci mette in guardia dai pericoli del Metaverso, esaminando gli aspetti più controversi di questa innovazione, che un po’ come Lucignolo di Collodi, rischia di spingerci verso il “nuovo paese dei balocchi”, dove rischiamo di diventare tutti asini. Si pensi alla «promessa di giochi e intrattenimenti senza fine, unita all’offerta speciale di caschi, visori e Smartglasses per entrare nel nuovo mondo, un mondo virtuale con intrattenimenti senza limiti (“sei giovedì e una domenica” come dice Lucignolo)»: si tratta di un’attrazione irresistibile, soprattutto per i più giovani. Il primo aspetto controverso del Metaverso è quello riferibile alla mancanza di interoperabilità e di standard, perché se ognuno costruisce il suo Metaverso, avremo «tanti “giardini recintati” non-comunicanti, ciascuno dominato dal “barone” di turno, un nuovo medioevo digitale». Un altro aspetto critico è il seguente: quali conseguenze fisiche provoca l’uso di tutti questi nuovi dispositivi? Si pensi ai problemi agli occhi che queste tecnologie possono portare, oltre alla nausea e alle vertigini. Non c’è sincronizzazione tra gli stimoli “percepiti” sensorialmente e l’esperienza fisica “vissuta” dal corpo (chinetosi). Altro aspetto controverso è quello sociale: riusciremo LEGISLAzIONE ED ATTUALITà loce rispetto alla regolamentazione globale. Per tale motivo, Viktor Mayer- Schonberger, docente di internet e di governance presso l’Università di Oxford, ha pubblicato un libro dal titolo “Fuori i dati!”, sostenendo che occorre rompere i monopoli sulle informazioni per rilanciare il progresso. Negli ultimi vent’anni, i colossi del settore digitale sono progressivamente riusciti a concentrare sui loro server una quantità di dati impressionante. Questi monopoli di informazioni, se possono far bene agli azionisti di Facebook, di Amazon e di Google, fanno invece molto male al progresso umano. Tale autore, insieme a Thomas Ramge, avanza una tesi sui generis: aprire a tutti l’accesso ai dati non è solo possibile, ma è fondamentale per rilanciare il progresso. E l’Europa, oggi schiacciata nella morsa della “guerra fredda tecnologica” tra Stati Uniti e Cina, può e deve giocare un ruolo da protagonista nella costruzione di un nuovo ecosistema digitale, fondato sulla libera circolazione delle informazioni, dando così inizio a una rivoluzione in grado di scardinare i monopoli che attualmente frenano le potenzialità di sviluppo di buona parte del pianeta. Il primo passo per riuscirci? Secondo Thomas Ramge e Viktor Mayer- Schonberger, superare il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) con un nuovo Regolamento generale sull’uso dei dati. I tempi sarebbero maturi per obbligare le “superstar digitali” a condividere il loro tesoro: una rivoluzione che non potrebbe partire né dagli Stati Uniti della Silicon Valley, né dalla Cina, impegnata a raggiungere lo status di prima superpotenza digitale del globo (102). a distinguere, tra le persone intorno a noi, chi è reale/fisico e chi è invece semplicemente connesso? Secondo Zuboff, docente della Harvard Business School, urge un intervento normativo: «Internet come mercato auto-regolante si è rivelato un esperimento fallimentare», per cui la domanda da porre al legislatore è «Come dovremmo organizzare e governare gli spazi di informazione e comunicazione del secolo digitale in modo da sostenere e promuovere valori e principi democratici?» (S. zUBBOF, 2021, 12 Novembre, “You Are the object of a Secret Extraction operation”, The New York Times). Insomma, come nel mondo fisico le sostanze che creano dipendenza sono strettamente regolamentate, così nel mondo virtuale i servizi digitali che creano dipendenza dovrebbero essere limitati e il digitale dovrebbe essere utilizzato con molta saggezza e responsabilità «per aiutare l’umanità ad affrontare le immense sfide dell’Antropocene come il cambiamento climatico e le pandemie». (102) Come è noto, la Cina è ormai decisa a modificare gli standard di internet; è dal 2019 che il paese spinge per una proposta di riforma, nota come New Ip, all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), l’agenzia delle Nazioni Unite che fissa gli standard del settore. La proposta è stata bocciata il 17 e 18 dicembre 2020 da Stati Uniti, Canada ed Europa, che accusano Pechino di voler spezzare la rete globale in tante parti soggette a un maggiore controllo governativo. Eppure, il modello oggi in vigore, il Tcp/Ip, è considerato dalla Cina inadeguato per le sfide future del web (l’esplosione dell’internet delle cose, i servizi dallo spazio, la realtà virtuale del c.d. metaverso), per cui il paese è tornato alla carica con il New Ip all’Internet governance forum (IGF), la conferenza delle Nazioni Unite sul futuro del web, svoltasi tra il 6 e il 10 dicembre 2021 a Katowice, in Polonia. Secondo Alain Durand, responsabile tecnologico dell’Internet corporation of assigned names and numbers (ICANN), l’ente che assegna gli indirizzi Ip all’IGF, un modello centralizzato come quello del New Ip «sarebbe un passo indietro e farebbe rallentare l'innovazione»: spingendo per una centralizzazione RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Il compito, quindi, spetterebbe a un’Europa che, se da un lato ha posto il tema della “sovranità digitale” e dell’innovazione tecnologica come una delle principali sfide da affrontare per rilanciarsi (103), dall’altro deve confrontarsi con una “versione quasi religiosa della protezione dei dati”, che sta contribuendo a generare una disponibilità sempre più scarsa di questi ultimi. Integrando il GDPR con un nuovo Regolamento generale sull’uso dei dati, l’Europa potrebbe inaugurare un sistema che renda obbligatoriamente accessibili le informazioni, non soggette a vincoli di riservatezza, (da quelli personali ai segreti industriali), in base a parametri ben definiti e progettati per favorirne la condivisione dai soggetti più grandi ai più piccoli. 7. Algoritmi, neuroscienze e neurodiritti. L’algoritmo e l’adolescenza. Quando il 28 gennaio del 1981 fu firmata a Strasburgo la Convenzione n. 108, non si aveva idea di come l’intelligenza artificiale potesse acquisire una tale forza invasiva e pervasiva, fino a condizionare lo stesso pensiero umano. Gli algoritmi ci hanno allertato sui rischi del dominio della tecnica con un processo di mimesi e superamento della razionalità umana. Le neuroscienze aprono scenari inimmaginabili nel binomio “coscienza e identità”. simile a quella delle reti telefoniche, si metterebbe a repentaglio il modello permissionless che è alla base di Tcp/Ip, con rischi di frammentazione. Il rischio maggiore, infatti, è quello di spezzare internet (c.d. splinternet): «la decisione di tutti di usare uno spazio comune dei nomi di dominio e del sistema di indirizzi di Ip e di aderire alle stesse specifiche del protocollo centrale sono stati i fattori critici per consentire il successo di un’internet globale negli ultimi 30 anni», ha osservato l’ICANN, mentre con il modello cinese «una legge nazionale o regionale, che può essere anche basata su buone intenzioni, rischia di compromettere le fondamenta dell’infrastruttura di internet». Secondo un recente report sulla visione cinese sul cyberspazio del centro studi Australian strategic policy institute, sotto il presidente Xi Jinping il Partito comunista cinese ha una precisa strategia: «raggiungere lo status di una superpotenza cyber, fondamentale per il Partito comunista cinese per radicare con successo la sua linea di governo condiviso e lo sviluppo di un’internet con la Cina al centro», strategia perseguita dando assistenza a Paesi, come quelli africani, che hanno bisogno di aiuto per governare i problemi del web. V. https://www.wired.it/article/cina-internet-controllo-rete/. (103) Un altro campo in cui l’Europa vorrebbe eccellere è quello dei semiconduttori. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, presentando il disegno di legge sui semiconduttori, ha affermato che con lo “European Chips Act” si vuole fare dell’Unione europea un «leader industriale in questo mercato strategico», con l’obiettivo di «avere nel 2030 qui in Europa il 20% della quota di mercato globale della produzione di chip», aumentando quella attuale del 9%. Si veda l’articolo pubblicato dalla redazione ANSA l’8 febbraio 2022, “Von der Leyen lancia il piano per i chip, «Ue diventerà leader»”. È sicuramente una grande ambizione, per cui sono stati investiti 15 miliardi di euro in ulteriori investimenti privati e pubblici entro il 2030, «che si aggiungono ai 30 miliardi di euro che abbiamo già pianificato, finanziati dal Next Generation Eu, dal programma Horizon e dai bilanci nazionali». Secondo von der Leyen, l’Europa può essere la patria della prossima rivoluzione industriale. Il Chips Act europeo si concentrerà su cinque aree: la ricerca, l’innovazione industriale, la creazione di impianti di produzione avanzati, il sostegno pubblico agli impianti di produzione europei “primi nel loro genere”, la sicurezza delle catene di approvvigionamento. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Se Parmenide affermava “il pensiero è essere”, “il cogito ergo sum” di Cartesio oggi diventa “digito, videor ergo sum”, lo strumento digitale diventa lo strumento identificativo del sé, del proprio essere. Tale processo di identificazione diventa più evidente con i progetti di neurolink, utilizzati nell’ambito medico con l’installazione nel cervello di chip per bloccare patologie cerebrali neurodegenerative. In questo modo, la tecnologia può agire sulla formazione del pensiero e dei ricordi (104). Si stanno, però, nel contempo sviluppando tecniche di “brain reading”, interpretazione funzionale del pensiero, che pongono, però, il limite del rispetto dell’autodeterminazione individuale. Un riferimento normativo è rinvenibile nel codice di procedura penale e precisamente nell’art. 189 c.p.p., spesso richiamato per l’utilizzo di materiale probatorio volto ad accertare la colpevolezza dell’imputato, come ad esempio il c.d. siero della verità. L’art. 189 c.p.p. rubricato “Prove non disciplinate dalla legge”, recita espressamente: «Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona». Tale riferimento normativo in materia penale ci induce a considerare senz’altro auspicabile l’utilizzo terapeutico della neurotecnologia per recuperare le funzionalità cerebrali perdute, più arduo è perimetrare gli ambiti di intervento per il c.d. potenziamento ricognitivo, il c.d. Brain enhancement. Viene, in tal caso, in rilievo il rapporto tra neuroscienza e capitalismo digitale, dando origine al c.d. neurocapitalismo (105). La mediazione tecnologica è da sempre parte integrante del rapporto degli uomini con la natura e la società ed è a sua volta una costruzione sociale continuamente attraversata da conflitti e biforcazioni. La razionalità economica del Neurocapitalismo tende a plasmare le produzioni tecnologiche del “comune”, come il free software, trasformandole in dispositivi di mercificazione, di controllo automatico del pensiero umano, andando ben oltre “il principio di precauzione” per non ingenerare discriminazioni. Ciò è reso ancora più evidente dal ruolo crescente delle produzioni autonome del General intellect tra (104) Sul tema, si veda l’opera “Principi di neuroscienze”, 2015, del premio Nobel ERIK R. KANDEL, uno dei maggiori neuroscienziati del XX secolo, che afferma che «ad un certo punto dell’evoluzione i cervelli erano divenuti troppo complessi per governarsi da soli». Si veda anche l’opera del noto scienziato ANTONIO DAMASIO, “L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano”, Adelphi, Milano, 1995 e “Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello”, Adelphi, Milano, 2003, che spiega come la psiche si sia sviluppata per regolare la vita biologica e gli adattamenti in modo più raffinato ed efficace. V. anche l’ultimo libro del premio Nobel ELIzABETH BLACKBURN, “La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri”, 2017, in cui l’autrice sostiene che i vissuti psicologici modulano l’attività del DNA e che ognuno di noi è soprattutto ciò che c’è nella sua psiche, è la dimensione psicologica che ci rende felici o ci rende tristi, al di là dei fatti del mondo. (105) G. GRIzIOTTI, “Neurocapitalismo: mediazioni tecnologiche e linee di fuga”, 2016. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 mite lo sviluppo dei commons della conoscenza e degli usi alternativi e antagonisti delle nuove tecnologie. Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile, è giuridicamente ed eticamente possibile. Occorre tener presente il catecòn, il limite di Prometeo, che è il limite dell’ammissibilità etica, giuridica e sociale delle innovazioni tecnologiche. Viene in rilievo il profilo della trasparenza e della visibilità del pensiero, che attiene al foro interno dell’uomo sotto diversi profili: il diritto al silenzio dell’imputato, la segretezza del voto, il principio di materialità del comportamento sanzionabile. Si pone il problema della libertà cognitiva come presupposto dell’autodeterminazione individuale, capacità di discernimento e imputabilità penale ben oltre la suitas, ossia la partecipazione psicologica del fatto a lui ascritto. Vi è allora da chiedersi: le neuroscienze saranno idonee a rimodulare il diritto penale? (106). Si pensi al caso Albertani -vicenda giudiziaria del 2009 svoltasi a Cirimido (Como) -primo caso di riconoscimento in Italia, e fra i primi al mondo, della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità: fu accertata la lesione della corteccia prefrontale come base dell’infermità mentale, attraverso indagini di “imaging cerebrale e di genetica molecolare”, accertamenti genetici per verificare se la perizianda presentasse “gli alleli” che, secondo la letteratura scientifica internazionale, sono significativamente associati ad un maggior comportamento impulsivo, aggressivo e violento. I reati commessi da Stefania Albertani erano gravissimi: quest’ultima uccise sua sorella maggiore, segregandola in casa e costringendola ad assumere psicofarmaci in dosi tali da causarne il decesso. Successivamente diede fuoco al cadavere. Indiziata per la morte della sorella e tenuta sotto controllo dalla polizia, durante un diverbio con la madre, tentò di strangolarla con una cintura. L’arrivo della polizia salvò la madre e portò all’arresto di Stefania. In seguito, emerse un complesso disegno criminoso per cui l’imputata fu chiamata a ri (106) Sul tema v. A. TRAVERSI, “Intelligenza artificiale applicata alla giustizia”, 2005; S. GABORIAU, “Libertà e umanità del giudice: due valori fondamentali della giustizia. La giustizia digitale può garantire nel tempo la fedeltà a questi valori?”, in Questione Giustizia, fasc. 4, 2018; G. zARA, “Tra il probabile e il certo. La valutazione del rischio di violenza e di recidiva criminale”, in Diritto penale contemporaneo, 20 maggio 2016; C. BAGNOLI, “Teoria della responsabilità”, 2019; U. PAGALLO, S. QUATTROCOLO, “The impact of AI on criminal law, and its two fold procedures”, in W. BARFIELD, U. PAGALLO (a cura di), “research Handbook on the Law of Artificial Intelligence”, Edward Elgar Pub, 2018; D. LIMA, “Could AI Agents Be Held Criminally Liable? Artificial Intelligence and the Challanges for Criminal Law”, in South Carolina Law review, 2018; T. KING, N. AGGARWAL, M. TADDEO, L. FLORIDI, “Artificial Intelligence Crime: An Interdisciplinary Analysis of Foreseeable Threats and Solutions”, in Science and Engineering Ethics, 2019; S. GLEB, E. SILVERMAN, T. WEIGEND, “If robots cause harm, who is to blame? Self-driving cars and criminal liability”, in New Criminal Law review, 2016; P. ASARO, “A body to Kick, but Still No Soul to Damn: Legal Perspectives on robotics”, in P. LIN, K. ABNEY, G.A. BEKEY (a cura di), “robot Ethics”, mIT Press, 2012. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà spondere del sequestro di persona e poi dell’omicidio della sorella, omicidio preceduto dalla somministrazione di benzodiazepine, che aveva indotto la vittima in uno stato di confusione mentale e di incapacità reattiva, nonché dei reati di soppressione e distruzione di cadavere, di quello di utilizzo indebito delle carte di credito, del padre attraverso la somministrazione di medicinali che ne procurarono il ricovero in ospedale, di tentato omicidio di entrambi i genitori, avendo cercato di farne esplodere l’autovettura e del tentato omicidio della madre attraverso strangolamento. Il Gip di Como condannò Stefania a venti anni di reclusione, riconoscendole un vizio parziale di mente per la presenza di «alterazioni, in un’area del cervello che ha la funzione di regolare le azioni aggressive e, dal punto di vista genetico, di fattori significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento» (107). Si pone, allora, la questione del comportamento criminale in bilico tra libero arbitrio e determinismo. Ora, presupposto del sistema penale è che l’individuo sia dotato di libero arbitrio, ossia in grado di distinguere il bene dal male e di decidere se agire in un senso o nell’altro. Su tale presupposto si basa il principio dell’imputabilità, da non confondere con la non-punibilità. Ma cosa succede se ci si accorge che il crimine compiuto non è stato idealizzato e voluto consciamente dall’autore dello stesso, bensì frutto di una serie predeterminata di cause innestata da processi algoritmici? Che succede se la genetica carica il fucile, la psicologia mira e l’algoritmo che incide sul percorso decisionale tira il grilletto? Bisogna, quindi, dare una breve definizione di neuroscienze, intese queste come un gruppo eterogeneo di discipline scientifiche, accomunate dall’obiettivo di spiegare come le connessioni neuronali sovrintendano lo svolgimento di tutte le attività umane, non solo quelle estrinsecantesi in semplici movimenti corporei, ma anche più complesse (la volizione, le emozioni, persino la formulazione di giudizi morali), tradizionalmente attribuite al dominio della mente e considerate inaccessibili all’indagine sperimentale. Oggi esistono diversi tipi di neuroscienze (molecolari, cellulari, comportamentali, integrative), ma per la nostra analisi è opportuno illustrare il filone del c.d. Neurodiritto, ovvero le più aggiornate scoperte neuroscientifiche applicabili all’ordinamento normativo. La sfida della prova neuroscientifica in ambito processuale penale, ai fini dell’attribuzione di responsabilità, è quella di: (107) C. GRANDI, “Neuroscienze e responsabilità penale: nuove soluzioni per problemi antichi”, 2016; L. ALGERI, “Neuroscienze e testimonianza della persona offesa”, 2012; F. CASASOLE, “Neuroscienze, genetica comportamentale e processo penale”, 2012; A. LAVAzzA, L. SAMMICHELI, “Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto”, 2012; D.M. WEGNER, “The illusion of conscious will”, 2002; B.J. FEIJOS SANCHEz, “Derecho Penal y Neurosciencias, Una relaciòn tormentosa?”, 2011; G. VELLAR, F. BASILE, “Diritto penale e neuroscienze”, 2016. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 a) identificare i circuiti cerebrali necessari alla formazione della consapevolezza e delle intenzioni; b) dimostrare se e in che misura i circuiti cerebrali dell’imputato fossero difettosi al momento di pianificare l’azione e di controllare un impulso; c) valutare quanto l’eventuale deficit possa aver influito sul compimento dell’azione illecita. Le neuroscienze, avendo come oggetto di analisi qualcosa di molto complesso come il cervello e i vari e articolati meccanismi di funzionamento cerebrale e neuronale, suscitano molti interrogativi e dubbi, non solo di carattere strettamente scientifico, ma, per quanto ci riguarda, essendo operatori di diritto, dubbi di natura giuridico-etico: è il tema affrontato già da Lombroso nell’ambito dell’antropologia criminale, ma l’ambito dell’analisi deve essere circoscritto al criterio dell’imputabilità da distinguere dalla non-punibilità. Tra le varie problematiche che sono state affrontate, ci si è chiesti se l’avvento delle neuroscienze possa in qualche modo rimodulare alcuni capisaldi del diritto penale, quali il concetto di libero arbitrio, coscienza, volontà e responsabilità. Secondo i fautori del c.d. determinismo, ogni comportamento umano è solo l’esito meccanicistico di un processo cerebrale. La rimodulazione del diritto penale su basi deterministiche è una strada percorribile, con la naturale conseguenza che si dovrebbe operare una completa rimodulazione delle sanzioni, sganciate da qualsiasi nucleo retribuzionistico e proiettate esclusivamente in funzione di cura e di controllo del soggetto predisposto al crimine. Tale conclusione, però, suscita molte perplessità e avanza due critiche. La prima è che la concezione deterministica potrebbe voler solamente fornire una spiegazione unicausale della criminalità. In passato si è sempre sostenuto che la causa della criminalità è da rinvenirsi in vari fattori quali la povertà, la razza, il ceto sociale, il livello di istruzione, la conformazione del cranio. Ora la causa si individua nella conformazione cerebrale e nelle interconnessioni neuronali dell’individuo. Le teorie unicausali della criminalità -compresa la teoria neuroscientifica -oscurano, insomma, altri possibili fattori, di natura personale (che vanno dal- l’indole all’educazione) e/o ambientale (che a loro volta variano dalla cultura alla società, alla famiglia alla scuola, ecc.), i quali esercitano indubbiamente un ruolo importante, per lo meno in funzione di creazione dell’occasione o di innesco del comportamento criminale: ammesso, quindi, che le neuroscienze riescano davvero a mappare una predisposizione neuronale al crimine, non disponiamo ancora di alcun elemento per affermare se e quando tale predisposizione si trasformerà effettivamente in realizzazione concreta. La seconda critica ad una possibile rimodulazione del diritto penale si basa sul fatto che, almeno ad oggi, le acquisizioni dei neuroscienziati non giu LEGISLAzIONE ED ATTUALITà stificano alcun cambiamento della legge penale, obiettivo che, peraltro, la comunità neuroscientifica nemmeno si pone, puntando, invece, essa solo a mettere a disposizione del diritto penale metodi e tecniche atti a meglio valutare aspetti come l’imputabilità, la pericolosità sociale, la eventuale falsità delle dichiarazioni processuali. Se le neuroscienze non possono incidere oltre un certo limite sul concetto di imputabilità, l’algoritmo può rappresentare l’elemento di eterodeterminazione della volontà umana, ponendo la questione della legittimità di un intervento eteronomo sul processo cognitivo e volitivo dell’uomo. Si pensi al programma di interfaccia cervello-computer elaborato da Facebook nel 2018 (il c.d. neuromarketing) con parametri psicometrici basati sulla profilazione predittiva a carattere neuroscientifico (c.d. brainreading), con sfruttamento a scopi commerciali. In tal caso occorre distinguere tra persuasione, suggestione e soggezione psichica. Il codice penale, pur non prevedendo più il reato di plagio, sanziona la manipolazione psicologica quando presenta gli estremi della violenza privata. Ma può oggi l’algoritmo plagiare la mente umana? Si ricorderà il caso di Aldo Braibanti, scrittore, fine intellettuale, accusato di aver plagiato un giovane, Giovanni Sanfratello, inculcandogli le sue idee e soggiogandolo da un punto di vista psicologico: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 96 del 9 aprile 1981, dichiarò illegittimo il reato di plagio di cui all’art. 603 c.p. per indeterminatezza della fattispecie. In tale sentenza la Corte precisò: «Per la configurazione del reato e per l’analisi oggettiva dell’attività illecita e degli effetti di questa la recente letteratura ha anche fatto ricorso e si è avvalsa di dati forniti da moderni trattati di neurologia e psichiatria, cercando di individuare a fini giuridici, i concetti medici, peraltro non ancora pacifici, di suggestione, convincimento, di persuasione, di soggezione, di determinismo, di annientamento della volontà e di trasferimento della personalità umana da parte di un soggetto ad altro soggetto. Ciò al fine di determinare oggettivamente quale sia in realtà il totale stato di soggezione indicato nella norma, di indicare i possibili mezzi per accertarlo concretamente e di fissare i confini della sfera giuridica entro cui manifestarsi. La varietà delle numerose opinioni avanzate e i mutamenti della dottrina costituiscono anch’essi una conferma dell’indeterminatezza della norma e dell’impossibilità di dare ad essa un’univoca applicazione concreta. L’analisi del testo dell’art. 603 e i vari tentativi di distinguere il reato dagli altri delitti contro la libertà individuale, quale figura autonoma, non hanno permesso di precisare in modo razionalmente sicuro le sue caratteristiche specifiche. Formalmente appare come un reato a condotta libera che dovrebbe essere diverso dalla riduzione in schiavitù o in condizione analoga. …Questo RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 potrebbe essere attuato con mezzi psichici, cioè attraverso un’attività psichica del plagiante esercitata direttamente sul plagiato. L’effetto dell’attività psichica del plagiante dovrebbe essere non già quello di ridurre un individuo in stato di incapacità di intendere o di volere (previsto espressamente nell’art. 613 c.p.), bensì quello di ridurre la vittima da persona capace a persona in totale stato di soggezione. Questo totale stato di soggezione indicato dall’art. 603 c.p. annienterebbe il determinismo della vittima, sostituendo il determinismo del plagiante a quello del plagiato in guisa da ridurre questo ultimo nello stato di cosa che pensa e agisce come pensa e agisce il plagiante. In altre parole, sarebbe il plagiante a formare la volontà sua e del plagiato, questi essendo solo un mezzo fisico per compere le attività volute dal plagiante. Non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si può effettuare l’azione psichica del plagio, né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica tale reato, né se per l’esistenza di questo sia necessaria la continuità dell’azione plagiante nel senso che, se la volontà del plagiante non si dirige più verso il plagiato, cessi lo stato di totale soggezione di questo. Non è dato, pertanto, conoscere se l’effetto dell’azione plagiante sia permanente e duraturo o se può venir meno in qualunque momento per volontà del plagiante o anche perché non persiste l’attività di questo o per altre cause. Nemmeno si conosce se il risorgere della facoltà di determinismo del plagiato possa essere la conseguenza di un mutamento del determinismo del plagiante o di una diversa direzione data al determinismo di questo. Quanto all’elemento psichico si tratta di un delitto a dolo generico… La scienza medica ha accuratamente indagato intorno alla formazione e al meccanismo della persuasione, della suggestione e della soggezione psichica. Fra individui psichicamente normali, l’esternazione da parte di un essere umano di idee e di convinzioni su altri essere umani può provocare l’accettazione delle idee e delle convinzioni così esternate e dar luogo ad uno stato di soggezione psichica dell’agente e, pertanto, una limitazione del determinismo del soggetto. Questa limitazione, come è stato scientificamente individuato ed accertato, può dar luogo a tipiche situazioni di dipendenza psichica che possono raggiungere, per periodi più o meno lunghi, gradi elevati, come nel caso del rapporto amoroso, del rapporto fra il sacerdote e il credente, fra il maestro e l’allievo, fra il medico e il paziente ed anche dar luogo a rapporti di influenza reciproca. ma è estremamente difficile se non impossibile individuare sul piano pratico e distinguere a fini di conseguenze giuridiche l’attività psichica di persuasione da quella anche essa psichica di suggestione. Non vi sono criteri sicuri per separare e qualificare l’una e l’altra attività e per accertare l’esatto confine fra esse. L’affermare che nella persuasione il soggetto passivo conserva la facoltà di scegliere in base alle argomentazioni rivoltegli ed è pertanto, in grado di rifiutare e criticare, mentre nella suggestione la convinzione avviene in maniera diretta e irresistibile, profittando dell’altrui LEGISLAzIONE ED ATTUALITà impossibilità di critica e scelta, implica necessariamente una valutazione non solo dell’intensità dell’attività psichica del soggetto attivo, ma anche della qualità e dei risultati di essa. Quanto all’intensità, dai testi psichiatrici, psicologici e psicoanalitici e dalle ampie descrizioni mediche di condizionamento psichico risulta che ogni individuo è più o meno suggestionabile, ma che non è possibile graduare ed accertare in modo concreto sino a qual punto l’attività psichica del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad altri il libero esercizio della propria volontà. Quanto alla qualità non è acquisito sino a qual punto l’attività del soggetto attivo non riguardi direttive e suggerimenti che il soggetto passivo sia già disposto ad accettare. Quanto alla valutazione dei risultati essa non potrà che essere sintomatica e concludere positivamente o negativamente a seconda che l’attività esercitata sul soggetto passivo porti a comportamenti conformi o a comportamenti devianti rispetto a modelli di etica sociale e giuridica. L’accertamento se l’attività psichica possa essere qualificata come persuasione o suggestione con gli eventuali effetti giuridici a questa connessi, nel caso di plagio non potrà che essere del tutto incerto e affidato all’arbitrio del giudice. Infatti, in applicazione dell’art. 603 c.p., qualunque rapporto sia amoroso, sia di professione religiosa, sia di partecipazione a movimenti ideologici, sia di altra natura, se sorretto da un’aderenza «cieca e totale» di un soggetto ad un altro soggetto e sia considerato socialmente deviante, potrebbe essere perseguito penalmente come plagio. Anche sotto questi profili risulta, pertanto, l’indeterminatezza della norma e della sua interpretazione. La formulazione letterale dell’art. 603 c.p. prevede, pertanto, un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel risultato, non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente qualificabile questo stato, la cui totalità, legislativamente dichiarata, non è mai stata giudizialmente accertata. Presupponendo la natura psichica dell’azione plagiante è chiaro che questa, per raggiungere l’effetto di porre la vittima in stato di totale soggezione, dovrebbe essere esercitata da persona che possiede una vigoria psichica capace di compiere un siffatto risultato. Non esistono, però, elementi o modalità per poter accertare queste particolari ed eccezionali qualità né è possibile ricorrere ad accertamenti di cui all’art. 314 c.p.p., non essendo ammesse nel nostro ordinamento perizie sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche. Né è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze, che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici l’asservimento totale di una persona». Così si esprimeva la Corte Costituzionale nell’anno 1981: ma oggi non sono gli esseri umani a porre in essere attività di persuasione e suggestione, bensì le grandi piattaforme digitali che, utilizzando gli algoritmi e software sofisticati, hanno una straordinaria forza invasiva e persuasiva sulla psiche umana. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Se leggiamo la parte finale di tale nota sentenza, altre riflessioni sorgeranno spontanee in noi. A pag. 40 di tale storica pronunzia la Corte Costituzionale afferma: «Dinanzi alla perplessità che ha dato luogo l’unica sentenza di condanna per il delitto di plagio pronunziata nel nostro ordinamento in oltre 50 anni dall’emanazione del codice penale, parte della dottrina ha tentato di rinvenire connotazioni tipiche di tale figura criminosa, richiamandosi anche ad elementi tratti da ipotesi psichiatriche. Alcuni, infatti, interpretando limitativamente la norma nel senso che il suo scopo sarebbe quello di proteggere da fenomeni ossessivi o da psicosi indotta, vorrebbero ravvisare tale delitto nella concorrenza di altri elementi. Uno esteriore consistente nell’allontanamento dai terzi del plagiato ad opera del plagiante anche attraverso un sequestro di persona o fatti simili. Uno interiore consistente nel senso di deprivazione psichica in cui deve versare il plagiato una volta interrotto il rapporto con il plagiante, deprivazione che, secondo l’ipotesi prospettata, mostrerebbe come il soggetto passivo era stato ridotto ad uno stato di soggezione totale… Va osservato che il concetto di «deprivazione psichica» che si identifica con il senso di aver bisogno di qualcuno, è essenzialmente quantitativo, instaurandosi in qualsiasi rapporto affettivo una sorta di quello che gli psicologi chiamano «transfert» o anche di rapporto psicologico reciproco. ma per valutare se l’interruzione del rapporto con altri faccia arguire la preesistenza di uno stato di «totale soggezione», è necessario conoscere l’intensità dolorosa del- l’interruzione. Quesito questo a cui può darsi solo una risposta soggettiva e quindi, di per sé convalidante l’arbitrarietà di una simile soluzione concettuale. D’altra parte, l’elemento esteriore consistente nell’allontanamento da terzi, se non sorretto dall’elemento interiore o se sorretto da un elemento interiore non determinato, quale la deprivazione di cui si è detto, perde ogni connotazione significativa ai fini di una tipizzazione del delitto. L’art. 603 c.p., in quanto contrasta con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 Cost., deve, pertanto, ritenersi costituzionalmente illegittimo». Tale pronunzia ci illustra il concetto di «deprivazione psicologica», ossia la dipendenza da un soggetto plagiante: ma oggi, se pensiamo soprattutto agli adolescenti, tale fenomeno di dipendenza, c.d. addiction, si registra nel rapporto con il cellulare e in genere con lo strumento digitale. Con il Metaverso verranno introdotti degli avatar virtuali per interagire sulle varie piattaforme in internet e si passerà ad una realtà virtuale ancora più avanzata di quella già presente nei vari social network. Tuttavia, bisogna porre attenzione al modo in cui questa esperienza virtuale potrebbe influenzare il modo di percepire i nostri corpi. Il rischio paventato è quello di acuire le problematiche relative alla tossicità di Instagram e Facebook, già parzialmente affrontate e non ancora ri LEGISLAzIONE ED ATTUALITà solte, anzi bypassate. Per capire meglio di cosa si parla, bisogna avvicinarsi agli studi sulle neuroscienze (108). Ad affrontare questo argomento, ad esempio, è stata la Dottoressa Barbara Collevecchio, psicologa ad orientamento junghiano, autrice de “Il male che cura”, che ci dice che «oggi grazie alla grande evoluzione delle ricerche scientifiche che sono state portate avanti soprattutto in questo ultimo decennio, dove le neuroscienze hanno addirittura aperto un nuovo filone che si chiama neuro psicanalisi, sappiamo che il corpo è fondamentale; il corpo e il cervello sono alla base del collegamento che c’è tra gli esseri umani». Partendo dall’origine della percezione corporea di sé, la psicologa illustra le cause profonde del rischio di c.d. dismorfofobia o dismorfismo, ossia il rischio che corrono oggi gli adolescenti quando passano (quotidianamente) dal reale al virtuale: «Sappiamo addirittura che la giunzione temporo-parietale destra è preposta alla percezione che il soggetto ha del proprio corpo ed è all’origine della sensazione corporea del sé e dipende dallo sviluppo delle aree corticali e subcorticali che sono influenzate dalle relazioni primarie. Le relazioni primarie sono quelle con il nostro care giver, quindi con i nostri familiari, soprattutto nei primi due anni, la mamma… La relazione madre -bambino, crea un network implicato nell’integrazione multisensoriali delle esperienze di sé e degli altri e quindi questo network e questa capacità di interrelazionarsi con gli altri crea anche la capacità di mentalizzare del bambino e quindi una primaria sintonizzazione intersoggettiva». Ciò significa che «c’è un’interrelazione molto importante tra natura, corpo e società e quindi innanzitutto le nostre relazioni primarie sono mediate dal corpo, cioè quanto la mamma e quanto i care giver primari sono capaci di relazionarsi a noi e di mediare le esigenze, i bisogni e le pulsioni che derivano dal corpo, che ci arrivano dal corpo. Se questa intermediazione e interrelazione c’è stata e questa sincronizzazione è stata sana, allora noi avremo anche una regolazione degli affetti sana. Se questo non avviene, abbiamo disregolazioni emotive che si riversano sul corpo, e purtroppo lo vediamo in tanti pazienti borderline o con problemi di dismorfofobia eccetera, dove ci sono somatizzazioni e addirittura dei veri e propri attacchi sul corpo». Un ruolo fondamentale lo rivestono il narcisismo e la spettacolarizzazione del proprio corpo: «È stato lanciato anche un allarme dal primario di neuropsichiatria dell’ospedale Bambin Gesù di roma: abbiamo veramente un (108) Il nuovo metaverso di zuckerberg, con i suoi avatar, potrebbe peggiorare la situazione di tossicità dei social, aumentando il problema del dismorfismo, un problema serio nei ragazzi che vivono nella realtà virtuale. Le alterazioni di immagini con filtri e modifiche virtuali alterano la percezione del nostro corpo creando dismorfofobia. Ce ne hanno parlato, preoccupati, due esperti, B. COLLEVECCHIO (autrice del libro “Il male che cura”) e G. RIVA (autore del libro “Selfie. Narcisismo e identità”) su https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/noi-e-il-corpo-un-rapporto-in-crisi-nel-metaverso-chedicono- gli-psicologi/. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 aumento incredibile di giovani adolescenti che hanno questo problema e appunto le nuove ricerche ipotizzano che siano dovute ad un problema di regolazione degli affetti e dalle disfunzioni delle cure primarie di attaccamento, ma le ricerche ci dimostrano anche che appunto il corpo è legato anche al concetto di cultura perché la cultura e i mass-media di un periodo storico raccontano e immaginano un ideale di corpo e anche questo influenza come noi percepiamo il nostro corpo. Quindi non a caso in questo periodo di grande narcisismo e di spettacolarizzazione del corpo è possibile che queste continue visioni e narrazioni di corpi perfetti, postati sui social media anche dagli adolescenti, tutti questi filtri che possono modificare parti del corpo e deformare l’immagine, insomma tutto questo può acuire e portare ad una dis-percezione del proprio corpo e alla dismorfofobia e nei casi più gravi anche un attacco al corpo, vissuto come non all’altezza degli standard che ci sono». Secondo la psicologa Collevecchio, dunque, è fondamentale «rendersi conto che alla base delle nostre relazioni c’è anche il corpo e le nostre relazioni non possono non essere mediate da una corporeità vera, dove deve esserci un corpo vero, non uno idealizzato o disincarnato» (109). Ecco che invece ciò su cui punta il Metaverso con i suoi avatar è proprio l’opposto, un corpo virtuale, perfetto, idealizzato. Nell’era dei social ciò potrebbe avere conseguenze a vari livelli. Come ha sottolineato Giuseppe Riva (110), professore di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano, autore del libro “Selfie. Narcisismo e identità”, «il successo dei filtri di Instagram sottolinea il desiderio di moltissimi utenti di mostrare sui social un corpo perfetto» e la «capacità del metaverso di mostrare corpi esteticamente perfetti, che non sono soggetti all’invecchiamento, potrebbe spingere molti soggetti a decidere di apparire online solo con un corpo digitalmente ritoccato». Ed ecco che il pericolo è dietro l’angolo, dal momento che, con il Metaverso che sostituisce Instagram e Facebook, gli utenti potrebbero cominciare a desiderare, più che una copia di sé stessi, una rappresentazione idealistica. Si potrebbe arrivare ad avatar completamente diversi dalle persone fisiche, che giocano il ruolo di chi, a tutti i costi, vuole apparire perfetto agli occhi degli altri, con buona pace delle tendenze body positivity che, almeno negli ultimi tempi, facevano sperare in una presa di coscienza delle diversità che caratterizzano i corpi degli esseri umani. Il rischio è che alterare la propria identità digitale possa sfociare nella dismorfofobia (111). (109) Il testo intero dell’intervista è riportato da M. CASTIGLI, “Come il metaverso ci cambia il rapporto col corpo: nuovi rischi psicologici”, su agendadigitale.eu. (110) Sempre su agendadigitale.eu, M. CASTIGLI, “Come il metaverso ci cambia il rapporto col corpo”, cit. (111) Sul tema, vedi anche L. RINALDI, “Sul cibo, sul corpo e sul divenire della forma”, 2021. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Si verifica sia l’elemento esteriore, ossia l’isolamento dal mondo esterno, che l’elemento interiore, la stretta dipendenza dallo strumento digitale, fino a configurare il c.d. effetto dopamina sul cervello. In altre parole, lo strumento digitale crea una totale dipendenza, come se un adolescente assumesse droga all’interno del suo organismo. Ma vi è di più: l’uso eccessivo del cellulare crea il c.d. effetto pruning, ossia la potatura neuronale. In altre parole, il cervello degli adolescenti, privo ancora della corteccia cerebrale ancora in formazione, si presenta caratterizzato dalla c.d. plasticità, basata sul modello experience dependent, ossia si forma in base alle esperienze che vive. L’uso del cellulare non consente di sviluppare la parte del cervello preposta alla riflessione e alla meditazione, stante la velocità delle informazioni che l’adolescente riceve in tempi brevissimi. Per tale processo, non sviluppando determinate facoltà cognitive di rielaborazione concettuale, le perde progressivamente: è il principio dont’use it, lose it (se non usi una facoltà cognitiva, la perdi). L’incidenza sulla mente dell’adolescente è ancora più significativa se solo si pensa ai possibili attacchi ramsonware, che mettono in luce tutta la debolezza dei sistemi di sicurezza dei nostri computer. Molto spesso gli adolescenti, ma anche i sistemi informatici della Pubblica Amministrazione o di grandi società, sono attaccati da hacker che chiedono un riscatto per poter superare il blocco e per poter restituire tutti i dati rubati e conservati nella loro interezza. Oltre all’attacco ramsonware, nel caso in cui un utente o una società si rifiuti interamente di pagare, il passo successivo è un attacco DDoS, distributed denial of service, un sistema che blocca gli accessi, facendo collassare il sito web con un fenomeno susseguente che prende il nome di digital shaming: dominio. rip, una nuova modalità di estorsione del cyber-crimine. In pratica i cyber criminali, iniziando a inviare e-mail a tutti i contatti di chi è stato colpito, preannunciando l’imminente pubblicazione dei dati online, quando la vittima non vuole collaborare, mettono in atto una doppia estorsione, la prima per sbloccare i dati, la seconda per non divulgarli. Ciò che incide in maniera ancora più negativa sugli adolescenti è che queste organizzazioni prendono anche in giro le vittime che non pagano il riscatto. Nel caso di attaccati che rifiutano qualsiasi contatto e che resistono ad attacchi DDoS, pubblicano tutti i dati su un sito uguale a quello ufficiale, ma con suffisso differente, il soprarichiamato digital shaming, pubblicandolo poi sul sito web visibile, così che sia verificabile da tutti: il danno reputazionale diventa ancora più grave di quello dei dati persi. La beffa nasce dal fatto che questi siti hanno un dominio.rip, così da ridicolizzare chi ha subito questo ricatto pesantissimo. Nell’età evolutiva dell’adolescenza, i danni sulla psiche dei giovani scaturenti da tali eventi possono raggiungere un certo livello di gravità. Nell’adolescenza, infatti, è in corso un processo di soggettivazione che si snoda sul RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 campo edipico e sul campo narcistico secondo la psicologia dell’età evolutiva più accreditata. Patologia e normalità si pongono in un rapporto antinomico nella duplicità dei modelli familiari che si dividono in famiglia etica (in cui prevale il primato di regole e norme) e famigli affettiva (in cui l’affetto genitoriale prevale sul criterio della regola educativa). Una quota di emozioni negative è parte integrante del processo di crescita dell’adolescente, ma la crisi della genitorialità, e il c.d. lutto narcistico, possono presentare segnali di difficoltà nel processo di separazione-individuazione che i social network accentuano negli individui in età evolutiva, causando sempre più spesso sintomi depressivi, ansiosi, e reazioni aggressive. L’ansia stimolata dai social network, per i continui input scaricati sul cervello adolescenziale, privo della corteccia prefrontale, non è un’ansia adattiva, positiva e propulsiva, volta a far superare le difficoltà della crescita, ma è un’ansia di stato che si riversa sulle aree relative ai circuiti della ricompensa, regolazione e relazione. Tale incidenza sulla c.d. plasticità del cervello in formazione può avere degli effetti negativi lungo il percorso verso l’autonomia, l’individuazione e la soggettivazione in età adulta. La formazione, infatti, della corteccia prefrontale nel sistema limbico può avvenire in tempi diversi: infatti, si distingue tra prima adolescenza, media adolescenza e tarda adolescenza (112). Nella nostra epoca digitale noi assistiamo all’anticipo dell’inizio dell’adolescenza e allo sfumare del momento della sua conclusione. La contrapposizione famiglia affettiva versus famiglia etica (113). Gli adolescenti attuali vivono il passaggio da un’infanzia privilegiata al- l’età adulta con grande intensità emotiva, la dittatura del presente (114), l’angoscia legata al “furto del futuro”, la scomparsa del principio di autorità-anteriorità (115); l’indebolimento della funzione regolativa esercitata (112) Vedi il libro dello psicologo D. KAHNEMAN, “Pensieri lenti e veloci”, 2012, sul tema del- l’intelligenza, razionalità e formazione del pensiero. (113) G. PIETROPOLLI CHARMET, uno dei più importanti psichiatri e psicoterapeuti italiani (primario in diversi ospedali psichiatrici e docente di Psicologia dinamica all’Università Statale di Milano e al- l’Università di Milano Bicocca) nella sua opera “I nuovi adolescenti”, 2000, afferma che il clima affettivo in cui si dipana l’adolescenza è radicalmente cambiato, perché è mutato il modo in cui gli adulti si trovano a esercitare il mestiere di padre e madre. (114) P. CARBONE, “Adolescenza e disagio”, 2001. (115) M. BENASOYAG, filosofo e psicanalista di origine argentina, in “La tirannia dell’Algoritmo”, 2020, afferma che siamo marionette in mano ai coach e agli smartphone, che occorre una visione modulare dell’uomo, con il recupero dell’agency, la possibilità di iniziare un’azione accesa dall’interno; critica la tirannia degli algoritmi, riflessione sull’espulsione del conflitto o la confusione esiziale tra desideri generativi e voglie seriali del niente; v. le sue opere “La responsabilità della rivolta”, una riflessione critica in relazione alla pandemia, come anche “Cinque lezioni di complessità”, 2020, in dialogo con Teodoro Cohen, parla della pandemia come di un “attraversamento sfibrante”, è un’esperienza del trauma prolungato e anche di una trasformazione che ci riguarda tutti, continuiamo a confondere la com LEGISLAzIONE ED ATTUALITà dagli adulti nel porre dei limiti (116) e nel modulare la distanza ha determinato, insieme alla cultura della dimensione digitale, un mutamento della crisi adolescenziale, potenziandone gli aspetti patologici. P. Jeammet, psicologo e psicoterapeuta, propone un modello psicopatologico dell’adolescenza basato su diversi elementi: la complessità che in senso operativo si esplica nell’utilizzo dei contributi dell’approccio ecologico, della teoria sistemico-relazionale, della teoria dinamica dei sistemi; la prospettiva life span; “la visione biografica” della psicopatologia in adolescenza. Ma come è cambiata la funzione educativa dei genitori nella dimensione digitale in cui si trovano a vivere gli adolescenti? (117). Secondo Laurence Steinberg (118), uno dei più importanti esperti di adolescenza al mondo, i genitori di figli adolescenti devono essere 1) affettuosi, 2) risoluti, 3) incoraggianti nei confronti delle loro potenzialità. Sembra ovvio, eppure la parola educare deriva dal latino ex duco, “tirare fuori”, ossia estrarre le capacità innate dei figli, far evolvere la loro autostima secondo le loro propensioni naturali per farne degli adulti felici. Don Bosco diceva che la migliore educazione è data dall’esempio, eppure le figure genitoriali durante l’adolescenza non sono sufficienti: occorre che alcune funzioni educative siano svolte dai c.d. terzi, ossia il gruppo dei pari, che rappresenta la nascita sociale dell’adolescente e il contesto scolastico, definito come “ambiente mentalizzante”, dove la doxa diventa episteme e trust, ossia fiducia nella comunità. Nell’era post-moderna, definita liquida con la crisi dei valori e la crisi della trasmissione dei saperi, la scuola insegna il valore del limite e della regola tendente ad evitare una società adolescentizzata e una precoce adultizzazione. Ma il potere invasivo e pervasivo dei social mette a dura prova tale processo c.d. di contenimento. Pensiamo al fenomeno del c.d. “vamping”: molti ragazzi restano connessi tutta la notte senza orari e regole, con un decremento potenziale delle loro capacità cognitive e del loro rendimento scolastico, acquisendo molte informazioni, ma poca “conoscenza”. Secondo Federico Toniani, psichiatra del Policlinico Gemelli, che ha creato un primo ambulatorio in Italia per la dipendenza da internet e dal cellulare, da plessità con la linearità dell’Antropocene, il futuro è una virtualità del presente, la sfida dell’atto, “clinica del legame e legame del comune”, parla degli effetti psicologici della pandemia come depressione di massa: “Deleuze diceva che la tristezza è reazionaria, sembra un ammonimento troppo severo, ma lo diceva pensando a Spinoza quando avvertiva sulla perdita della capacità di agire non facendo lavorare la gioia”. Tra le sue opere, “L’epoca delle passioni tristi”, 2004 con G. SCHIMIT, “Il cervello aumentato, l’uomo diminuito”, 2016. (116) P. JEAMMET, “Psicopatologia dell’adolescenza”, 2019. (117) V.L. RINALDI, “Sul nascere madri e padri. L’abisso, le sue insidie e le sue possibilità”, 2019. (118) L. STEINBERG, “Age of opportunity: Lessons from the New Science of Adolescence”, 2015; “You and your adolescent”, 2011; “The 10 Basic principles of Good parenting”, 2005; “Adolescence”, 2010. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 vanti allo schermo il bambino e l’adolescente perde il c.d. “rispecchiamento emotivo”. Si perde, cioè, la capacità di attendere e la capacità di restare da solo. È il fenomeno degli Hikikomori: l’iperconnessione è una nuova normalità, un nuovo modo di affrontare le sfide della crescita oppure un segnale di una dipendenza patologica, diffusa a livello pandemico tra le nuove generazioni? Il Dott. Lancini (119) ha approfondito il c.d. Internet addiction disorder, attraverso un suo inquadramento nosografico, spiegandone le cause e le metodiche di analisi. L’adolescenza è il punto di snodo della traiettoria evolutiva, del processo della “soggettivazione”: il ruolo della mente adulta che dovrebbe fungere da guida è svolto dallo strumento digitale, che può incidere in modo negativo sul bambino e sull’adolescente in un periodo in cui la neuroplasticità del cervello è massima. Si pensi al caso Tik Tok dello scorso 21 gennaio 2021: gli organi di informazione riportarono la notizia del decesso di una bambina di 10 anni a Palermo, avvenuto in relazione ad un gioco definito “black challenge” condiviso sulla suddetta piattaforma. Tale triste avvenimento ha confermato, purtroppo, in maniera tragica, l’assenza di controlli sull’età degli utenti e sulla pericolosità dei contenuti veicolati tramite social network (120). Per la prima volta, il Garante per la Privacy italiano ha attivato la procedura di urgenza, ai sensi dell’art. 66 del GDPR, in applicazione del criterio del local case, derogatoria rispetto al meccanismo di cooperazione, di coerenza e del principio dell’one stop shop, pretendendo da parte di Tik Tok con sede legale (119) Psicologo, psicoterapeuta, Presidente della Fondazione Minotauro di Milano, docente presso il Dipartimento di psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, autore di numerose pubblicazioni sull’adolescenza, le più recenti: “Adolescenti navigati, Come sostenere la crescita dei nativi digitali” (Erickson, 2015); “Abbiamo bisogno di genitori autorevoli. Aiutare gli adolescenti a diventare adulti” (Mondadori, 2017); “Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa” (Raffaello Cortina, 2019), “Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti” (Utet, 2020). (120) Sul tema della privacy, della gestione dei dati personali e della sicurezza, si pensi anche al recente “caso Alexa”, che ha visto coinvolti l’assistente vocale di Amazon e una bambina di appena 10 anni: lo strumento di IA, probabilmente per un errore di programmazione, ha suggerito alla bambina di mettere una moneta in una presa elettrica. La vicenda, raccontata dalla madre su Twitter, mette in luce i limiti degli strumenti di IA: l’assistente vocale, alla richiesta della bambina di proporle una sfida, ha ricercato e trovato sul web una sfida ai limiti della follia. Questo è il messaggio che Alexa ha dato alla bambina: «Secondo ourcommunitynow.com la sfida è semplice: collegare un caricatore del telefono a metà in una presa a muro, quindi toccare con un centesimo i poli esposti». L’azienda produttrice del dispositivo Echo ha da subito dichiarato di voler sistemare il problema, per evitare che cose del genere possano accadere in futuro. La sfida era spopolata su Tik Tok all’inizio del 2020, ed era stata successivamente bandita per ovvi motivi. Il problema degli assistenti vocali e degli strumenti di IA in generale è quello relativo al “buon senso”, elemento che troppo spesso manca, come è venuto in rilievo in questo caso che risale a dicembre 2021. Secondo il ricercatore mayank Kejriwal, della University of Southern California, il traguardo è possibile ma «estremamente impegnativo», in quanto «il buon senso delle macchine è un problema di intelligenza artificiale dei nostri tempi, che richiede collaborazioni concertate tra le istituzioni per molto tempo». Un esempio di ciò è il programma quadriennale “machine Common Sense” lanciato nel 2019 dall’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata della difesa degli Stati Uniti. Sono molti i progetti di ricerca finanziati da questo programma. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà in Irlanda di introdurre, come sistema di blocco dell’account, un algoritmo denominato “age verification”, che consente di impedire l’accesso alla piattaforma i minori di anni 14 (121). Occorre ricordare che il Considerando 38 del GDPR stabilisce che i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia, nonché dei loro diritti. Per tali ragioni, l’art. 8 del GDPR è da considerarsi una disposizione speciale che prevede, come ipotesi privilegiata per il trattamento dei dati dei minori in relazione ai servizi del- l’informazione, il consenso, stabilendo che questo possa considerarsi lecito, ove sia stato prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale, ovvero il minore abbia almeno 16 anni, limite ridotto a 14 anni dall’art. 2quinquies del Codice della Privacy, D.lgs. 101/2018. L’individuazione dell’età minima, ai sensi dell’art. 8 del GDPR, in Italia fissato a 14 anni, rispetto ai 16 del GDPR dall’art. 2-quinquies del codice privacy, in attuazione della clausola di flessibilità introdotta dall’art. 8, par. 1, ultimo capoverso, integra una tipica ipotesi di legislazione nazionale derogatoria ai principi stabiliti dal Regolamento. Come autorevole dottrina ha avuto modo di osservare (122), l’art. 8 del Regolamento, ispirato al Coppa statunitense, nel prevedere una disciplina specifica sul trattamento dei dati personali dei minori d’età, lungi dal rendere più agevole la sottoscrizione di servizi online, ha colmato un vuoto di tutela per coloro i quali sono tra i maggiori fruitori dei servizi della c.d. ICT society, ma anche tra le maggiori vittime. La disciplina dell’art. 8 è di primaria importanza, non solo perché il consenso (espresso, libero, specifico, informato ed inequivocabile) diventa l’unica valida base giuridica per il trattamento dei dati dei minori, ma anche per la correlata speciale disciplina accordata ai minori dall’art. 17, par. 1, lett. f), in tema di diritto alla cancellazione ed all’oblio. Ma oggi, possiamo dire che il consenso prestato da un quattordicenne che naviga per ore in internet sia veramente libero da subdoli condizionamenti? Il codice civile ci parla, all’art. 1426 c.c. (123), di malitia supplet aetatem, (121) In merito al procedimento di consistency and cooperation, si segnala l’articolo di GAETANA NATALE, “La Grande Sezione della Corte di Giustizia si è pronunciata sui poteri delle Autorità Nazionali nell’ambito del rGDP a fronte della gestione dei dati da parte dei colossi del web (C. giust. UE, Grande Sezione, sentenza 15 giugno 2021, C-645/19)”, pubblicato sulla rassegna dell’Avvocatura dello Stato Gennaio-Marzo 2021, pp. 39 ss. (122) A. ASTONE, “L’accesso dei minori d’età ai servizi della c.d. “società dell’informazione”: l’art. 8 del reg (UE) 2016/679 e i suoi riflessi”, in Contratto e Impresa, 2019, 2, 614; G. BIANCHEDI, “Il consenso dei minori per i servizi della società dell’informazione sotto il profilo giuridico e informatico”, in Ciberspazio e diritto, vol. 20, n. 63 (3-2019), pp. 389-413. (123) Art. 1426 c.c.: “Il contratto non è annullabile, se il minore ha con raggiri occultato la sua minore età; ma la semplice dichiarazione da lui fatta di essere maggiorenne non è di ostacolo all'impugnazione del contratto”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 ma oggi nella dimensione digitale sono i continui input e immagini di internet a costituire il concetto di “malitia”, intesa come artifizi e raggiri che incidono sulla capacità di discernimento del minore. I concetti di capacità giuridica e di capacità di agire non sono delineati nei sistemi di common law, che parlano di legal capacity, prescindendo dai concetti di soggettività, centro autonomo di imputazione di effetti giuridici, e di capacità giuridica. L’età è graduata in relazione agli atti da compiere: pertanto, per i c.d. necessaries, atti di acquisto minori per i beni necessari di modico valore, il minore è considerato pienamente capace di stipulare contratti validi. Fino a che punto, però, il minore può essere considerato in grado di capire cosa sta operando con un click sul computer: egli dovrebbe essere istruito e formato per accedere al computer o allo smartphone, che è una vera e propria finestra sul mondo: senza un’adeguata formazione sui pericoli occulti è come se si desse ad un minore una macchina da guidare senza avergli dato la patente. Ricordiamo che il filosofo Karl Popper, il campione della società aperta e libera, chiedeva, ancor prima che si sviluppasse la c.d. infosfera, che soltanto pochi potessero andare in tv, muniti di una patente ottenuta dopo speciali esami. Già allora si dibatteva molto sull’influenza degenerativa della televisione, sulla passività di chi se ne sta seduto, catatonico, davanti al magico schermo. Ma erano tutte opinioni arbitrarie, nulla di scientifico basato sul test di Stroop, test elaborato negli anni ‘30 dallo psicologo statunitense Ridley Stroop, tuttora utilizzato per verificare con il riconoscimento di parole e colori il funzionamento corretto del cervello. Adesso uno studio della prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora è lapidario: «Per ogni ora e quaranta minuti di visione è come se il cervello fosse un anno più vecchio. Le cause: sedentarietà e passività. Al contrario, il movimento contrasta questo processo di invecchiamento», così dice l’autore principale della ricerca, Ryan Dougherty. Chi da giovane guarda più televisione, si troverà con meno materia grigia da adulto, e proprio in quelle aree cognitive-corteccia frontale e corteccia entorinale del cervello, responsabili dei processi più importanti. Il rapporto causale tra esposizione alla tv e diminuzione di “cellule grigie” è stato stabilito in virtù di esami di risonanza magnetica su 599 soggetti seguiti per 25 anni, i quali, all’inizio del- l’esperimento, avevano un’età media di 30 anni. Stiamo parlando, dunque, di uno studio molto importante e rigoroso. Alcune delle cause della diminuzione del volume cerebrale sembrano essere solo indirettamente legate alla tv, ad esempio la sedentarietà. Secondo Dougherty, gli studi dimostrano che chi fa attività fisica mantiene il volume cerebrale invariato anche con l’avanzare degli anni. E addirittura alcuni studi mettono in rapporto una vita sedentaria a un maggior rischio di sviluppare l’Alzheimer. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Il problema della sedentarietà sembra essere collegato a un deterioramento cardiovascolare e dunque a un minor afflusso di sangue al cervello, che provoca una minore ossigenazione neuronale, che, per così dire, fa gradualmente appassire il cervello stesso. Non tutte queste nuove attività (non tutte le sedentarietà) sono uguali: in particolare deleterie sono, come la televisione, quelle in cui il soggetto subisce passivamente il messaggio, o meglio, un abbondante flusso di informazioni che lo bersagliano senza dargli possibilità di interagire, a differenza di altre attività come le parole crociate, gli scacchi o la lettura. Ma poiché la televisione oggi sta sempre più diventando un accessorio superfluo, superato dagli smartphone e dai tablet, e la classica programmazione televisiva è sostituita da fruizioni molto diverse, come lo streaming e, soprattutto, ci sono i social, che sono il nuovo punto dolente della comunicazione di massa, che accade al cervello in tutte queste nuove attività? Su questo, lo studio americano non ci sa dare una risposta, tranne che, anch’esse, sono attività sedentarie e quindi, a rischio. Ma per sapere se usare Instagram o Facebook, almeno sul piano scientifico, sia cognitivamente dannoso, bisognerà forse aspettare altri 25 anni. Noi, però, sulla base di quello che vediamo attorno, e anche di quanto personalmente ci riguarda, un’ipotesi l’avanziamo: i social network, tutti, nessuno escluso, sono di gran lunga peggiori della televisione, almeno dal punto di vista della salute mentale dei loro fruitori. In confronto, gli effetti inebetenti della tv sono di gran lunga meno pericolosi. Basti pensare al fenomeno dei suicidi, alle “challenge”, le sfide social, il “cutting”, ossia l’invito all’autolesionismo, o i veri e propri linciaggi attuati su queste piattaforme, da cui la vittima, se ne esce, resterà profondamente segnata (124). Solo in piccola parte i social sono comunicazione, in larga parte sono esibizionismo, vanità, merchandising e sfoghi aggressivi. Senza considerare i c.d. hype, distopie e montature giornalistiche che alterano la realtà e le informazioni. In questa dimensione, dominata da “atopia e anomia”, come afferma il Professore Natalino Irti, occorre integrare la biosfera con l’infosfera: il Professor Floridi, partendo dalla distinzione on-line e off-line, ha coniato il termine onlife, neologismo che sta ad indicare la necessità di collegare la nostra conoscenza alla dimensione della vita reale con l’introduzione dei filtri del nostro senso critico. Ma tale senso critico e capacità di riflessione sono duramente messi sotto attacco da nuovi espedienti ingannatori della tecnologia, (124) Sul tema del pericoloso rapporto tra digitale e minori, si veda anche M. MARTORANA, “minori sui social: educhiamoli per difenderli”, su agendadigitale.eu, che ci mette in guardia sulla necessità di agire contro i pericoli del digitale, prima che con la legge, con l’educazione dei minori a scuola e in casa. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 che rubano i nostri dati e la nostra identità digitale senza una nostra vera e propria consapevolezza. Si pensi al fenomeno del c.d. “Flubot”: è uno spyware, ovvero un software che, a nostra insaputa, può essere installato sullo smartphone per rubare password e altri dati riservati. Flubot invia un banale messaggio di testo che notifica, ad esempio, il ritardo di una consegna da parte di aziende di trasporto. L’utente legge il messaggio ed inconsapevolmente consente l’accesso ai propri dati riservati. Certamente la tecnologia non ha solo aspetti negativi, può assicurare livelli di sicurezza. Si pensi all’utilità della Blockchain (125): un registro decentrato in forma digitale basato su un linguaggio crittografico hash e in grado di contenere una serie infinita di dati. Esso è composto da più blocchi, legati l’uno all’altro, nei quali sono registrate le informazioni, distribuiti all’interno da una rete composta da più nodi. Una volta registrati, tali blocchi non sono più modificabili senza invalidare l’intera struttura e sono così costantemente controllati da tutti i nodi della rete. Questo significa che una blockchain garantisce un livello di sicurezza e trasparenza assoluta assicurando, ad esempio, che una transazione sia sempre tracciabile. Si pensi alla tutela del diritto d’autore tramite blockchain (c.d. tokenizzazione), cioè la conversione dei diritti di un bene in un token digitale delle varie identità degli autori che verranno poi associate alle varie opere mediante database contenenti tutti i dati registrate dalla SIAE, c.d. NFT, “non fungible token”. Viene in rilievo, in questi esempi, il concetto di “sicurezza funzionale” della tecnologia. Il sociologo tedesco Ulrich Deck parlava della “società del rischio”, risikogesellschaft, cultura dell’incertezza e rischio residuale: tale dimensione del rischio è dovuta all’accelerazione tecnologica che stiamo vivendo, non solo sotto il profilo sanzionatorio, ma anche sotto il profilo culturale. Di qui l’importanza delle Autorità regolatorie, quali arbitri che non devono indicare soluzioni, ma valutare la correttezza di quelle adottate nel rispetto del principio dell’accountability. La Commissione Europea sollecita gli Stati membri non con regole, ma (125) W. NONNIS, “Blockchain, il suo contributo durante la pandemia”, in www.blockchain4innovation. it, 19 aprile 2021; A. BELLO, “Blockchain e privacy: soluzioni per la compliance alle norme”, 15 maggio 2019, in agendadigitale.eu; M. IASELLI, “Blockchain e privacy, bisogna lavorare ancora molto”, in federprivacy.org, luglio 2020; N. BOLDRINI, “Blockchain e GDPr: le sfide (e le opportunità) per la protezione dei dati”, in blockchain4innovation.it, 2018; V. PORTALE, “Quanto è legale la Blockchain? La compatibilità tra Blockchain e normativa GDPr”, in www.blog.osservatori.net, 31 luglio 2020; A. GAMBINO, C. BOMPREzzI, “Blockchain e titolare del trattamento dei dati personali: il nodo rimane irrisolto”, in www.iaic.it, 20 gennaio 2020; D. MARCIANO, G. CAPACCIOLI, “La blockchain ed il problema del trattamento dei dati personali”, in www.affidaty.io, 4 giugno 2019; R. BATTAGLINI, M. GIORDANO (a cura di), “Blockchain e smart contract. Funzionamento, profili giuridici e internazionali, applicazioni pratiche”, 2019; M. BELLINI, “La blockchain per le imprese. Come prepararsi alla nuova «internet del valore»”, 2019; A. BASILE; “Blockchain: La Nuova rivoluzione Industriale”, 2019. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà con obiettivi nella regolamentazione delle piattaforme digitali, cercando di affermare uno “standard europeo regolatorio” per la definizione del nuovo “capitalismo digitale”, basato in primis sulla c.d. “igiene informatica e informativa”. La sicurezza delle piattaforme poggia essenzialmente sul controllo dei dati e sulla loro trasparenza, in una configurazione preliminare e predefinita: è il concetto di privacy by design e by default. Non una privacy per la privacy, ma la protezione dei dati come nuovo paradigma e nuovo asset per uno sviluppo tecnologico sostenibile, teso al rispetto della persona umana che vada aldilà della figura dei followers. Il Professore Franco Pizzetti (126) affermava che le Autorità regolatorie hanno il compito di affiancare e sollecitare i governi nell’adottare nuove politiche digitali per raggiungere gli obiettivi europei. Più di recente, il Professore Oreste Pollicino (127) ha affermato che «la nuova sfida non è solo la tutela dei diritti fondamentali, ma la governance dei dati, non solo di quelli personali e il loro riutilizzo per i software di intelligenza artificiale». La proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale presentata lo scorso 21 aprile 2021 dalla Commissione ha, infatti, distinto 4 livelli di rischio: 1) Unacceptable risk (ad esempio, quelli relativi ai dati biometrici per i quali si esclude l’applicazione dell’intelligenza artificiale); 2) High risk (si ammette l’IA con opportune cautele); 3) Limited risk (AI systems with specific transparency obligations); 4) minimal risk. Tale proposta non prevede, però, la questione della responsabilità civile che, come annunciato dalla Commissione su Agenda Digitale, sarà oggetto di un testo diverso e separato che dovrebbe essere presentato all’inizio dell’anno 2022. Si tratta di un altro fondamentale tassello nel percorso verso una “trustworthy AI”, ossia un’intelligenza artificiale che generi fiducia negli utenti. Ci vorranno 2 anni per approvare il testo definitivo e altri 2 anni prima che diventi operativo. Visti gli enormi interessi in gioco, che toccano tutti i settori industriali ed economici, non solo le big tech, non sarà un confronto facile. Il fatto che poi stiamo parlando di norme che andranno a regolare un qualcosa che per sua natura è in continua evoluzione, rende la sfida ancora più difficile. (126) F. PIzzETTI, “Intelligenza artificiale, protezione dei dati personali e regolazione”, cit.; ID., “Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali. dalla direttiva 95/46 al nuovo regolamento europeo”, 2016; ID., “Protezione dei dati personali in Italia tra GDPr e codice novellato”, 2021. (127) O. POLLICINO, “Diritto dell’informazione e dei media”, 2019; ID., “Parole e potere. Libertà di espressione, hate speech e fake news”, 2017; ID., “Codice della comunicazione digitale”, 2015. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Si pensi alle società che utilizzano i sistemi di riconoscimento facciale, operando il c.d. scraping di dati in rete, ovvero automatizzando l’attività di raccolta di dati anche biometrici: riescono a stoccare nei loro database i volti di cittadini anche senza il loro consenso, assegnando ad ogni volto un hash. Tali società creano dei veri e propri archivi di dati biometrici, che, per esempio, in America vengono utilizzati dalle forze dell’ordine per individuare i criminali, anche se alcuni dipartimenti come quello di Los Angeles ne hanno sospeso l’utilizzo, poiché si realizza una forma di sorveglianza elettronica massiva ed invasiva. Si pensi ancora alla pratica di “Sim swapping”, una tecnica di attacco che consente di avere accesso al numero di telefono del legittimo proprietario e violare determinate tipologie di servizio online che usano il numero di telefono come sistema di autenticazione. Alcune piattaforme, come Google, si stanno organizzando per evidenziare i c.d. “Privacy Labels”, ossia le etichette della privacy che permetteranno agli utenti di conoscere in dettaglio i dati utilizzati dalle app pubblicate su Playstore. Nei sistemi aziendali alcuni vendor introducono nelle infrastrutture iperconvergenti anche sistemi embedded di backup e disaster recovery, garantendo il miglioramento della protezione dei dati e il minimo rischio di perdita dei dati stessi. Ciò avviene grazie all’incorporazione di tecnologie di rilevamento della corruzione dati e self-healing, che agiscono durante l’operatività standard e nelle fasi di back-up automatizzato. Per il raggiungimento di tali obiettivi il preemptive-remedy, ossia il rimedio preventivo, trova un suo completamento nel potere sanzionatorio delle Autorità regolatorie tenuto conto dei principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni. A tal riguardo, si è posta la questione del rapporto tra il consenso ed il legittimo interesse quale base giuridica del trattamento dei dati. L’Opinion WP29 n. 6/2004 ha escluso che il legittimo interesse ex art. 6, par. 1, lett. f) (128) possa surrogare il consenso espresso, libero ed inequivocabile sul proprio trattamento dei dati. (128) Art. 6 GDPR (Liceità del trattamento): “1. Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Il consenso assume ancora più importanza in relazione alla prospettiva del futuro non troppo lontano dei c.d. “Computer quantistici”. La mit Technology review, di recente, ha messo in evidenza i rischi di chi oggi raccoglie dati sensibili anche crittografati, dunque, di fatto, al momento inservibili perché blindati, ma con la speranza di poterli sfruttare e decrittare in futuro. Come? Adoperando l’enorme potenza di calcolo dei “computer quantistici” che lavorano in modo ben diverso da quelli attuali con ogni bit quantistico (o qubit) (129) in grado di assumere diversi valori nello stesso momento, e, dunque, moltiplicare il potere computazionale (130). La complessità dei computer quantistici potrebbe renderli molto più rapidi per certi compiti, consentendo loro di risolvere problemi oggi impossibili da sciogliere (131). che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore. La lettera f) del primo comma non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei loro compiti”. (129) Se le informazioni memorizzate nei computer “normali” sono assimilabili a una lunga sequenza di zero e uno, i bit, nella meccanica quantistica le informazioni sono memorizzate in bit quantistici, i c.d. qubit, che assomigliano di più a un’onda piuttosto che a una serie di valori discreti. Quando i fisici vogliono rappresentare con precisione le informazioni contenute nei qubit, usano quindi le funzioni d’onda. Di recente, un gruppo di fisici dell’Università di Bonn e del Technion -Israel Institute of Technology hanno effettuato un esperimento per capire quali fattori determinano la velocità con cui un computer quantistico può eseguire i suoi calcoli, e sono stati testati i limiti di velocità dei computer quantistici, ossia il limite di mandelstam-Tamm e quello di margolus-Levitin, che mettono in relazione la velocità massima di evoluzione di uno stato con l’incertezza energetica del sistema e l’energia media. I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Science Advances. V. https://www.media.inaf.it/2021/12/30/limiti-computerquantistici/. (130) Secondo Erminio Polito Minsait, responsabile Energy & Utilities di Minsait in Italia, l’utilizzo del Quantum Computing, ossia del calcolo quantistico, potrebbe fare la differenza anche nel settore dell’energia, riducendo i tempi di elaborazione delle scelte strategiche e migliorando la performance degli algoritmi predittivi. È stato affermato che «da un lato, l’aumento esponenziale della potenza di calcolo offerto dai computer quantistici sarà cruciale per la costruzione di un nuovo orizzonte energetico basato su ecosistemi collaborativi gestiti in una logica “platform-based”, dall’altro, anche le tecnologie già in uso nei sistemi energetici più avanzati, come IoT, Intelligenza Artificiale e Blockchain, ne trarranno beneficio. Vi sono però vantaggi più immediati, come quelli che può offrire attualmente al trading di energia dove avere a disposizione una tecnologia quantistica rappresenta un miglioramento decisivo in termini di velocità delle transazioni». Adottando il calcolo quantistico, dunque, si potrà prevedere con maggiore accuratezza il rendimento della rete elettrica in un dato momento, così da migliorarne la produzione, anche per una maggiore sostenibilità ambientale. Per quanto riguarda il settore della cybersecurity, Minsait ha sostenuto che «ad oggi, non esistono computer quantistici in grado di mettere a repentaglio la sicurezza della crittografia tradizionale, tuttavia, ci sono già le prime opportunità di business per prepararsi per un futuro di decrittazione quantistica: il potenziale dell’informatica quantistica non decreterà la fine della crittografia, bensì un cambiamento nelle pratiche come, ad esempio, chiavi crittografiche più lunghe e complesse. In un futuro con milioni di transazioni energetiche decentralizzate, simultanee e certificate tramite smart contract e blockchain, la crittografia quantistica sarà un pilastro centrale del nuovo sistema». (131) È recente la notizia relativa alla sperimentazione dei c.d. cristalli temporali, strutture peculiari che si ripetono regolarmente nel tempo invece che nello spazio, teorizzati dai fisici negli ultimi anni e spiegati dalle leggi della meccanica quantistica. Come noto, i cristalli classici sono strutture solide, composte da atomi, molecole o ioni, che per definizione hanno una disposizione geometrica definita e RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 In questa classe di problemi c’è anche la capacità di scardinare gli algoritmi che al momento utilizziamo per proteggere database e server farm che custodiscono informazioni personali, segreti di Stato o importanti brevetti commerciali (132). 8. Strumenti normativi regolatori e prospettive future nella dimensione euro- unitaria e in quella nazionale. La Commissione Europea ha cercato di attivarsi per sviluppare un’attività che si ripetono nelle tre dimensioni spaziali. La recente notizia -che viene da un team dell’università di Stanford, di oxford e del max Planck Institute, insieme con Google Quantum AI Lab -riguarda, invece, il caso dei cristalli temporali, in cui la regolarità si manifesta e si dispiega nel tempo. Se l’ipotesi teorica era stata avanzata nel 2012 ad opera del fisico premio Nobel Franck Wilczek, docente al mit, il primo esperimento in laboratorio è avvenuto nel 2017, ed oggi gli scienziati hanno trasformato un gruppo di qubit in un cristallo temporale, mediante l’uso del computer quantistico di Google Sycamore: i risultati dell’esperimento sono stati pubblicati sulla rivista Nature. Si tratta di strutture diverse, che si modificano costantemente nel tempo e poi tornano sempre periodicamente nella configurazione iniziale. Sono catene di atomi che pulsano in assenza di energia, restando in movimento nel tempo senza richiedere l’azione di una forza esterna, la cui resistenza li rende interessanti per lo sviluppo dei potentissimi computer quantistici. In una recente sperimentazione pubblicata sulla rivista Science, gli scienziati sono riusciti a tenere in vita per alcuni secondi i cristalli temporali ottenuti utilizzando i qubit. Queste catene di qubit hanno di fatto dimostrato di avere una simmetria temporale (e non spaziale, come i cristalli classici), riprodotta durante tutta la sperimentazione. Il fisico V. Khemani dell’Università di Stanford ha commentato così l’esperimento: «I cristalli temporali sono un esempio lampante di un nuovo tipo di fase quantistica della materia al non-equilibrio». La ricerca sul tema, d’altronde, sta crescendo rapidamente, come dimostrano anche i recenti studi del 2021 sulle riviste Physical review Letters e Physical review B. (132) Si parla sempre più spesso del Metaverso, tuttavia è necessario anche chiedersi se le aziende dispongono effettivamente delle capacità computazionali necessarie e in generale dell’hardware di cui ci sarà bisogno. Sappiamo che il metaverso di zuckerberg sarà una specie di mondo 3D in cui ogni utente assumerà le sembianze di un avatar che, riproducendolo voce e movimenti della persona fisica, potrà interagire in tempo reale con altre persone dal salotto di casa. Secondo raja Koduri, senior vice president e general manager del team di Intel (Computing Systems and Graphics Group) una rete del genere necessiterà di un livello computazionale molto alto e di un’infrastruttura hardware/software che dovrà essere almeno 1000 volte più potente di quella disponibile oggi (es. petaflop, una potenza computazionale che dovrà essere disponibile in pochi 10 millisecondi per un uso in tempo reale). Non sarà facile digitalizzare caratteristiche come la pelle, le funzionalità vocali, il movimento delle persone, elementi che vanno inseriti in un dispositivo con sensori indossato dagli utenti. Secondo Koduri serve una banda molto larga con una latenza bassissima, che gli odierni server del cloud computing non posseggono, per cui è difficile che il sistema possa funzionare. Se si pensa a “Second Life”, “roblox” e simili, già creati ed utilizzati, essi sono molto lontani dal vero metaverso. Comunque, Intel sta lavorando seriamente a questo fine e in un comunicato stampa ha fatto presente che, tramite una “roadmap multigenerazionale”, vuole processare dati provenienti dal client e diretti verso il cloud con un’elaborazione zettascale. Lo zettascale computing si riferisce ai supercomputer che permettono prestazioni nell’ordine degli zettaflop. Uno zettaflop è uguale a circa un sestilione di operazioni in virgola mobile al secondo. Un sistema zettaflop può generare una marea di dati in virgola mobile in un secondo. Secondo gli scienziati dobbiamo aspettare il 2035 per avere un sistema zettascale perfettamente funzionante, e prima di arrivare ad un Metaverso completamente funzionante devono passare tanti altri anni. Ci sarà bisogno anche di algoritmi specializzati, di una nuova architettura (che Intel ha denominato Xe) e di nuovi software, tutto comunque alla nostra portata secondo Koduri. V. https://notiziescientifiche.it/metaverso-serviranno- potenza-computazionale-enorme-e-decenni-di -svil upp o/ ; https://www.punto-informatico.it/intel-potenza-di-calcolo-1000-volte-maggiore-per-il-metaverso/. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà regolatoria c.d. di contenimento: il 15 dicembre 2020, al fine di regolamentare i mercati digitali, ha presentato due proposte di Regolamento che compongono il c.d. “Digital markets Package”: il Digital Services Act e il Digital markets Act. Il primo modifica alcune disposizioni dell’attuale Direttiva e-commerce, regolamentando il regime di responsabilità delle piattaforme digitali. Il secondo, invece, introduce in capo ai c.d. “gatekeeper” -ossia le piattaforme che controllano l’accesso ai mercati digitali -una serie di obblighi volti a rendere i mercati digitali più equi e contendibili, arginando la tendenza alla creazione di monopoli, nei servizi o nella distribuzione, a cui si assiste oggi attraverso una procedura di “inspection” degli algoritmi. A completare il quadro delle nuove proposte legislative contribuiscono la bozza di Regolamento sull’Intelligenza Artificiale, nonché la proposta di Regolamento e-Privacy che andrà a regolare specificamente la protezione dei dati nelle comunicazioni elettroniche; il Regolamento 2018/1807 sui dati non personali e la Direttiva NIS per la cybersecurity (“Network and Information Security”), recepita nel nostro ordinamento attraverso il decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 65 (anche detto “decreto legislativo NIS”), in vigore dal 24 giugno 2018; la nuova direttiva SMAV del 2018, sui servizi media audiovisivi. Di recente, anche l’ONU ha pubblicato un report sull’intelligenza artificiale, mettendo in guardia sui pericoli insiti nell’utilizzo di dati biometrici. In Italia, sono state intraprese alcune iniziative, indotte dalla rilevanza sociale di alcuni fenomeni. Ad esempio, in contrasto al fenomeno del c.d. “revenge porn”, il c.d. “Decreto Capienze” (D.l. n. 139 dell’8 ottobre 2021, convertito in legge 3 dicembre 2021, n. 205) ha introdotto il nuovo art. 144-bis al Codice Privacy, con il quale si riconosce alle vittime la possibilità di godere di una tutela anticipata, rivolgendosi al Garante mediante reclamo o segnalazione, affinché questo intervenga, esercitando i poteri di cui gode ai sensi dell’art. 58 GDPR, nell’ipotesi in cui sussista il fondato timore che possa essere commessa una delle condotte descritte dall’art. 612-ter c.p., ossia la diffusione di contenuti sessualmente espliciti non realizzati a tale scopo. Si veda, in particolare, l’art. 9 del “decreto capienze”, che, se da un lato ha creato scalpore per quanto concerne l’adottata riduzione di alcuni poteri del Garante per la privacy, dall’altro ha, come accennato, introdotto disposizioni nuove e necessarie in tema di revenge porn. Per quanto concerne la prima questione, l’art. 9, co. 1, lett. b) del Decreto abroga interamente l’articolo 2-quinquesdecies del Codice Privacy, il quale stabiliva che “con riguardo ai trattamenti svolti per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico che possono presentare rischi elevati ai sensi dell’articolo 35 del regolamento, il Garante può, sulla base di quanto disposto dal- l’articolo 36, paragrafo 5, del medesimo regolamento e con provvedimenti di carattere generale adottati d’ufficio, prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad adottare”. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 In sostanza, dunque, la norma ha espunto dal Codice una disposizione che imponeva alla P.A. di consultare il Garante prima di porre in essere trattamenti ad alto rischio -come quelli relativi ai dati sanitari -nell’interesse pubblico affinché potesse intervenire a tutela del soggetto interessato. Il testo dell’art. 9, significativamente modificato in sede di conversione del decreto-legge nel corso dell’esame in Senato, reca disposizioni in materia di protezione dei dati personali. In particolare, il comma 1 novella il Codice della privacy (d.lgs. n. 196 del 2003): -prevedendo che il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico possa trovare fondamento e base giuridica, oltre che nella legge e -nei casi previsti dalla legge -nel regolamento, anche in un atto amministrativo generale (modifica dell’art. 2-ter del Codice) e che tale ampliamento della base giuridica valga anche per il trattamento dei dati particolari (sanità pubblica, medicina del lavoro, archiviazione nel pubblico interesse o per ricerca scientifica o storica o a fini statistici) disciplinato dall’art. 2-sexies del Codice e per il trattamento dei dati personali per fini di sicurezza nazionale o difesa, disciplinato dall’art. 58 del Codice; -consentendo il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o per l’esercizio di pubblici poteri, da parte di una serie di soggetti pubblici, anche per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri attribuiti ai suddetti soggetti pubblici (nuovo comma 1-bis dell’art. 2-ter del Codice); -introducendo una disciplina specifica per il trattamento di dati personali relativi alla salute quando gli stessi siano “privi di elementi identificativi diretti” (art. 2-sexies, comma 1-bis, del Codice); -abrogando l’articolo 2-quinquesdecies del Codice della privacy che, nel caso di trattamenti di dati personali svolti per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico, tali da poter presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche, consentiva al Garante di adottare d’ufficio provvedimenti di carattere generale, prescriventi misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato; -prevedendo che il trattamento dei dati relativi al traffico telefonico e telematico che devono essere conservati dal fornitore per finalità di accertamento e repressione di reati, sia effettuato nel rispetto delle misure e degli accorgimenti a garanzia dell’interessato prescritti dal Garante con provvedimento “di carattere generale” (modifica dell’art. 132, comma 5, del Codice); -potenziando la competenza del Garante al fine di prevenire la diffusione di materiali, foto o video, sessualmente espliciti (nuovo art. 144-bis del Codice, rubricato revenge porn). In particolare, la disposizione prevede che chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che immagini, audio, video o altri documenti informatici a contenuto sessualmente LEGISLAzIONE ED ATTUALITà esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione attraverso piattaforme digitali, senza il suo consenso, può rivolgersi, mediante segnalazione, al Garante, il quale, entro 48 ore può rivolgere avvertimenti, ammonimenti, imporre una limitazione provvisoria o definitiva al trattamento, ordinare la rettifica, la cancellazione di dati personali o la limitazione del trattamento e infliggere una sanzione amministrativa pecuniaria. In base al comma 6 dell’art. 9, i fornitori di servizi di condivisione di contenuti, ovunque stabiliti, devono entro 6 mesi dalla legge di conversione pubblicare il proprio recapito, ai fini dell’adozione dei provvedimenti da parte del Garante; -intervenendo sul parere che il Garante deve rendere al legislatore in vista dell’adozione di una disciplina relativa al trattamento dei dati, per circoscriverne i presupposti (modifica dell’art. 154 del Codice). Inoltre, quando il Presidente del Consiglio dei ministri dichiari che ragioni di urgenza non consentono la consultazione preventiva, e comunque nei casi di adozione di decreti-legge, si prevede che il Garante esprima il parere in una fase successiva, vale a dire in sede di esame parlamentare dei disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge o in sede di vaglio definitivo degli schemi di decreto legislativo sottoposti al parere delle Commissioni parlamentari; -consentendo l’omissione della previa notifica della violazione contestata nei confronti dei soggetti pubblici che trattano i dati quando il loro trattamento abbia già arrecato pregiudizio agli interessati (modifica dell’art. 166 del Codice); -introducendo la possibilità di applicare, a titolo di sanzione accessoria rispetto alle sanzioni amministrative pecuniarie comminate dal Garante, l’ingiunzione a realizzare campagne di comunicazione istituzionale di sensibilizzazione sulla protezione dei dati personali (modifica dell’art. 166 del Codice); -subordinando l’applicazione della fattispecie penale di inosservanza di provvedimenti del Garante (punita con la reclusione da tre mesi a due anni) al “concreto nocumento” dei soggetti interessati e alla querela della persona offesa (modifica all’art. 170 del Codice). Il comma 2 si pone come disposizione di coordinamento, conseguente all’abrogazione dell’articolo 2-quinquiesdecies del Codice della privacy. Il comma 3 modifica il d.lgs. n. 51 del 2018, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati, per: -confermare l’estensione agli atti amministrativi generali della base giuridica del trattamento; -sostituire, nella determinazione dei termini, delle modalità di conservazione, dei soggetti legittimati ad accedere ai dati nonché delle modalità e delle RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 condizioni per l’esercizio dei diritti dell’interessato, l’attuale riferimento a un regolamento governativo con quello a un decreto ministeriale; -circoscrivere, anche in questo caso, l’applicabilità del reato di inosservanza dei provvedimenti del Garante, alle ipotesi di concreto nocumento arrecato ad uno o più interessati e alla presentazione di querela della persona offesa. Il comma 4 interviene sull’art. 7 del decreto-legge n. 34 del 2020 per modificare ed integrare la disciplina concernente il trattamento di dati personali da parte del Ministero della salute. Tale disciplina, nella versione vigente, concerne i dati personali -anche relativi alla salute degli assistiti -raccolti nei sistemi informativi del Servizio sanitario nazionale ed autorizza il suddetto Ministero al relativo trattamento, al fine di sviluppare metodologie predittive dell’evoluzione del fabbisogno di salute della popolazione, demandando ad un decreto di natura regolamentare del Ministro della salute -adottato previo parere del Garante per la protezione dei dati personali -la definizione delle norme attuative. Le novelle in esame prevedono che il decreto sia invece di natura non regolamentare -fermo restando il parere del suddetto Garante -, estendono, con riferimento a dati personali non sanitari, l’ambito delle norme di rango legislativo in esame e del relativo decreto attuativo e pongono una norma transitoria, valida nelle more dell'emanazione del medesimo decreto. Il comma 5 introduce disposizioni di coordinamento relative alla previsione che ha esteso agli atti amministrativi generali la base giuridica del trattamento dati (v. sopra). Il comma 7 riduce a 30 giorni il termine per i pareri che il Garante renda su atti riconducibili al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), al Piano nazionale per gli investimenti complementari ed al Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030 e prevede che quel termine sia improrogabile (ed una volta decorso, si può comunque procedere, pur in assenza di parere). Il comma 8 interviene sugli articoli 1 e 2 della legge n. 5 del 2018, al fine di prevedere che i diritti dell’utente iscritto al registro pubblico delle opposizioni, nonché gli obblighi in capo agli operatori di call center operino indipendentemente dalle modalità in cui il trattamento delle numerazioni è stato effettuato, ovvero con o senza operatore con l’impiego del telefono, ma anche in via più generale mediante sistemi automatizzati di chiamata senza l’intervento di un operatore. I commi da 9 a 12 prevedono una sospensione (eccezion fatta per la prevenzione e la repressione dei reati) della installazione e utilizzazione di impianti di videosorveglianza con sistemi di riconoscimento facciale operanti attraverso l’uso dei dati biometrici in luoghi pubblici o aperti al pubblico, da parte di autorità pubbliche o soggetti privati. Tale moratoria è prevista “fino all’entrata in vigore di una disciplina legislativa della materia”, e comunque non oltre il 31 dicembre 2023. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà In ambito parlamentare si riscontra sensibilità verso il fenomeno del c.d. “hate speech”. Sebbene nel nostro ordinamento manchi ancora una legge ad hoc per i discorsi d’odio, diverse proposte sono giunte in discussione alle Camere. Le due più rilevanti sono il DDL Cirinnà e il DDL Boldrini, presentato lo scorso anno. Il Governo ha, inoltre, recentemente adottato il decreto legislativo 4 novembre 2021, n. 170, pubblicato il 25 novembre scorso, di attuazione della Direttiva 771/2019. Il decreto disciplina alcuni aspetti dei contratti per la fornitura di servizi digitali, introducendo nuove disposizioni nel Codice del Consumo (133), estendendo la tutela fornita da quest’ultimo anche ai contratti in cui professionista si obbliga a fornire un servizio o un contenuto digitale a fronte non della corresponsione di un prezzo, ma della cessione di dati personali da parte del consumatore. Il decreto interviene, dunque, sul dibattuto tema della patrimonializzazione e commercializzazione, c.d. monetizzazione dei dati personali, sempre più rilevante nell’economia moderna. Sotto altro profilo, ricordiamo che, in precedenza, con l’art. 8 ter del d.l. 135/2018 (c.d. Decreto Semplificazioni 2019), aggiunto in sede di conversione in legge, è stata introdotta nel nostro ordinamento la definizione di tecnologie basate su registri distribuiti (o blockchain) e di smart contract. Dalle linee evolutive della normativa si intravede la necessità di conciliare la digitalizzazione ed il concetto di interoperabilità dei sistemi con la tutela dei dati. Le nuove Linee Guida dell’Agid, con i relativi protocolli informatici ed il sistema Cloud PA (134), cercano di rispondere a tale esigenza secondo le indicazioni della Commissione Europea. Il 2 dicembre 2020, infatti, quest’ultima, in materia di giustizia, ha pubblicato la Comunicazione Digitalisation of Jiu (133) Il decreto legislativo modifica gli articoli da 128 a 135 del Codice del Consumo (introducendo anche gli artt. da 135-bis a 135-septies) ed entrerà in vigore il 1° gennaio 2022. Le modifiche concernono la vendita di beni tra il venditore e il consumatore, che non viene più limitata ai beni di consumo. Vengono inserite le nozioni di “bene con elementi digitali” e di “aggiornamento dei beni digitali”. Il Capo I del Titolo III, che prima era dedicato alla vendita di beni di consumo, è ora dedicato alla vendita di beni tout court, tra cui rientrano anche i beni con elementi digitali; parallelamente viene ampliata la nozione di venditore, che ora comprende anche il “fornitore di piattaforme se agisce per finalità che rientrano nel quadro della sua attività e quale controparte contrattuale del consumatore per la fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali”. Vengono inserite anche le definizioni dei contenuti digitali, del servizio digitale, della compatibilità, interoperabilità e del supporto durevole. Per quanto riguarda i contratti di fornitura di contenuti digitali o di servizi digitali, le nuove disposizioni vengono applicate ai contenuti digitali o ai servizi digitali incorporati o interconnessi con beni. Vengono previsti a carico del venditore appositi obblighi con riferimento agli aggiornamenti nel caso di beni con elementi digitali, con conseguente precisa responsabilità ex art. 133; il venditore è responsabile per ogni vizio di conformità del bene esistente al momento della consegna e che si manifesta entro due anni. Tuttavia, per quanto riguarda i beni con elementi digitali, vi è una possibile estensione della responsabilità nel caso in cui il contratto preveda la fornitura continuativa del contenuto digitale per più di due anni. (134) “Linee Guida Tecnologie e standard per la sicurezza dell’interoperabilità tramite API dei sistemi informatici”e“Linee Guida sull’interoperabilità tecnica delle Pubbliche Amministrazioni”, pubblicate in data 22 ottobre 2021 sul sito dell’Agid. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 stice in the in the European Union, A tool box of opportunities (Com (2020)710) e documento di accompagnamento (JWD (2020) 540), indicando le nuove linee di azione a cui attenersi: digital transformation e design dei processi. La Commissione ha affermato che “La Giustizia è una delle componenti strategiche per una società basata sui valori UE e per un’economia resiliente”. Nel settore della giustizia, così come in altri settori come la sanità, a scuola, i trasporti, prerequisito della digitalizzazione (che è un concetto diverso dall’informatizzazione, anzi una sua evoluzione, un suo salto quantico), è la re-ingegnerizzazione dei processi e del design dei sistemi di supporto, tenendo a mente le esigenze dei cittadini e delle imprese. La Commissione ha riscontrato diversi Tool IT, ma senza alcuna considerazione sulla interoperabilità. Quest’ultima rappresenta l’indice evolutivo dello sviluppo tecnologico per ottimizzare le risorse pubbliche: il passaggio dall’informatizzazione alla digitalizzazione si basa sulle c.d. “infrastrutture iperconvergenti”, rappresentate da componenti hardware estremamente “modulari”. La caratterizzazione delle architetture si deve al layer software, grazie al quale le risorse di computing e storage di ogni nodo sono combinate in un pool unico e messe a disposizione con i vantaggi dell’elasticità e della scalabilità. Significative sono risultate le proposte della Commissione per i tool IT di cooperazione giudiziaria cross-border. Piattaforme di comunicazione e scambi di dati, registri interconnessi dovrebbero essere una realtà già consolidata, ma sono poco sfruttati. Eurlex, il portale E-justice, il sistema Business registers Interconnession System (BRIS), il sistema ECLI (per la identificazione dei case law e della minima base di metadati), il sistema E-Codex, sistemi che facilitano l’accesso cross-border alle informazioni giudiziarie da parte dell’autorità e dei privati e anche quelli che facilitano la cooperazione giudiziaria dovranno diventare i “gold standard”, con un punto di accesso unico ad una rete europea. Ma cosa succede se lo scambio di dati deve avvenire con Paesi non europei? L’European Data Protection Board, la Commissione che riunisce le Autorità di Protezione dei dati personali nazionali che operano in tutta Europa, lo scorso anno ha lanciato una consultazione pubblica su uno schema di provvedimento che aveva un unico obiettivo dichiarato: quello di identificare rimedi e soluzioni, oltre alle attuali “general clauses” capaci di garantire il trasferimento dei dati personali dall’Europa agli Stati Uniti. Dopo la sentenza della Corte di Giustizia C-311/2018, ormai nota come Schrems II, i giudici di Lussemburgo hanno dichiarato a tal fine invalido il c.d. Privacy Shield, erigendo, così di fatto, un muro giuridico difficilmente penetrabile tra Europa e Stati Uniti in fatto di trasferimento di dati personali. La partecipazione alla consultazione pubblica da parte di tutti gli stakeholder pubblici e privati è preziosa, perché il trasferimento dei dati non è solo con gli USA, ma anche con altri paesi non europei. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza Schrems II, LEGISLAzIONE ED ATTUALITà ha accertato che le leggi americane non riconoscono agli interessati un livello di tutela equivalente rispetto a quello loro riconosciuti dalla disciplina europea in materia di protezione dei dati personali. Il draft di provvedimento posto in consultazione non supera la considerazione che occorre un intervento normativo che allinei gli ordinamenti. I rimedi contrattuali o tecnologici da soli non risolvono il problema. È necessario che la diplomazia europea e statunitense si mettano alla ricerca di una soluzione più definitiva attraverso uno strumento pattizio capace di garantire con sicurezza la libera circolazione dei dati. Si pensi al caso della disciplina FATCA (135) (Foreign Account Tax Compliance Act), che, come noto, è nata come disciplina unilaterale statunitense, salvo poi acquisire reciprocità sostanziale tramite i vari accordi intergovernativi sottoscritti ad hoc dai vari Paesi che intendono aderire alla disciplina. L’Italia vi ha aderito tramite l’“Iga” (accordo del gennaio 2014), che ha dato attuazione al FATCA traducendo la disciplina in uno scambio automatico annuale di informazioni tra le autorità fiscali dei due Paesi che interessa non più esclusivamente i cittadini statunitensi ma anche i conti correnti e assimilati detenuti in territorio statunitense da residenti italiani. Ebbene, la disciplina FATCA ha un impatto non solamente in ambito fiscale, ma incide gravemente anche sulle procedure di gestione interna dei dati (personali e finanziari). Infatti, gli istituti bancari devono monitorare tutti i rapporti finanziari riconducibili a persone fisiche ed enti fiscalmente residenti negli USA. L’elemento di maggiore impatto è, dunque, che gli istituti finanziari dell’Unione europea sono tenuti a divulgare informazioni, anche dettagliate, relative ai conti detenuti da presunti cittadini statunitensi. Evidente il problema che si pone nell’ambito della materia della protezione dei dati personali. Tra le questioni di maggiore rilevanza possiamo menzionare, da un lato, la posizione dei c.d. “Accidentals Americans” (136), cittadini europei che, a causa degli elevati compliance costs connessi al FATCA, si sono visti negare l’accesso a servizi bancari essenziali nell’UE, con conseguente violazione della direttiva sui conti di pagamento (direttiva 2014/92/UE) e della Carta dei (135) Il FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) è un accordo sottoscritto da Italia e Stati Uniti che prevede lo scambio di informazioni finanziarie per contrastare l’evasione fiscale internazionale, in particolare quella relativa a cittadini e residenti statunitensi attraverso conti correnti detenuti presso le istituzioni finanziarie italiane e quella relativa a residenti italiani tramite conti correnti presso le istituzioni finanziarie statunitensi. Le comunicazioni dei dati avvengono tra l’Agenzia delle Entrate e l’IRS statunitense, che nel 2016 hanno sottoscritto un accordo, concludendo così l’implementazione della normativa FATCA. (136) Sono i c.d. “americani accidentali”, o americani “per caso”, perché nati negli Stati Uniti o perché sposati con una statunitense, che, anche se non vivono negli Usa, sono tenuti a rispettare tutti gli obblighi dei cittadini del Paese, compreso quello di pagare le tasse; vi rientrano anche i cittadini con doppia cittadinanza europea/statunitense e i loro familiari non statunitensi. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 diritti fondamentali dell’UE (137); e dall’altro l’intervento del GDPR, entrato in vigore nel 2018, che riguarda i dati online di ogni tipo e si applica anche allo scambio automatico di informazioni in ambito fiscale, andando a bilanciare il diritto dei cittadini alla protezione dei dati personali nei confronti del preminente interesse degli Stati alla tutela del fisco. In particolare, il GDPR prevede che la trasmissione dei rilevanti dati personali dalla UE a stati terzi, come gli USA, possa avvenire solo se questi ultimi garantiscono un livello di sicurezza equivalente a quello previsto nell’Unione europea dal GDPR. Purtroppo, però, gli accordi tra gli Stati dell’Unione europea e gli Usa non operano in maniera effettiva sulla base del principio di reciprocità: gli Stati Uniti non trasmettono in Europa dati equivalenti, cosicché il sistema multilaterale che era stato inizialmente previsto dall’Ue e dagli Usa sta entrando in crisi (138). Si è reso, quindi, necessario un intervento da parte dell’Unione europea, affinché siano modificati o riavviati agli accordi che prevedono lo scambio di informazioni tra UE e Stati Uniti, per (ri)stabilire una vera simmetria nel trasferimento dei dati tra USA e UE. Il rischio paventato è quello di una possibile attuazione della c.d. blocking legislation, ossia una disciplina che, nelle more di una ridefinizione degli accordi attuativi dei FATCA, non permetterebbe la trasmissione dei dati oltreoceano fintantoché la reciprocità e le tutele del GDPR non vengano ristabilite. Nel frattempo, l’utilizzo delle Clausole generali (c.d. “clausole standardizzate approvate dalla Commissione Europea”) utilizzate da organizzazioni che aderiscono a programmi internazionali di protezione dati, probabilmente è l’unico modo attuale per il trasferimento dei dati dall’Europa agli Stati Uniti. Pertanto, le clausole contrattuali che garantiscono adeguate garanzie di protezione dei dati possono essere utilizzate come base per il trasferimento di dati e informazioni dall’Unione europea a paesi terzi, sebbene la Corte Europea abbia chiarito che l’autorità di controllo di ciascuno Stato membro è tenuta a sospendere o vietare il trasferimento di dati personali a un Paese extra UE quando, a causa di circostanze specifiche, si presume che le clausole stesse non siano, o non possano essere rispettate in quel Paese, e che la protezione dei dati trasferiti, prevista dal diritto dell’Unione, non possa essere garantita. Inoltre, l’esportatore europeo di dati personali e l’importatore extra UE, sono obbligati ad effettuare le proprie valutazioni sui singoli trasferimenti esi (137) Vedi, già nel 2018, l’interrogazione parlamentare del parlamento europeo sugli effetti negativi della normativa statunitense “Foreign Tax Compliance Act” (FATCA) sui cittadini dell’UE e in particolare sugli “americani casuali”, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/o-8-2018000053_ IT.html. (138) C. GARBARINO, “Applicazione del FATCA a livello europeo e protezione dei dati”, 2018, in https:// privatebank.jpmorgan.com/content/dam/j pm-wmaem/ documents/JPm%20Wealth%20Journal_Article_2019-04_Applicazione%20del%20FATCA.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà stenti entro le clausole standardizzate, e la possibilità di trasferire dati personali sulla base delle clausole contrattuali tipo dipenderà dal risultato della valutazione effettuata dall’esportatore sulle garanzie offerte nel paese importatore (in particolare, gli USA), nel rispetto dell’adeguatezza della tutela e del principio di proporzionalità. Inoltre, il loro utilizzo deve essere supportato anche dalla collaborazione diplomatica per preservare le relazioni tra i due Paesi. Anche il Comitato europeo per la protezione dei dati, nelle sue FAQs relative al caso Schrems II (139), ha riconosciuto espressamente che le clausole contrattuali standardizzate possono ancora essere considerate strumenti adeguati, se sono incluse misure aggiuntive per proteggere il trasferimento dei dati. È stato affermato che: “Il Comitato europeo per la protezione dei dati sta attualmente analizzando la sentenza della Corte per determinare il tipo di misure supplementari che potrebbero essere fornite in aggiunta alle clausole contrattuali tipo, siano esse misure legali, tecniche o organizzative, per trasferire dati a paesi terzi in cui le clausole standardizzate non forniranno da sole il livello sufficiente di garanzie. Il Comitato sta esaminando ulteriormente in cosa potrebbero consistere queste misure supplementari e fornirà ulteriori indicazioni” (140). Comunque, nel caso dei contribuenti, la trasmissione dei dati non deve eccedere la finalità fiscale (c.d. “limitazione delle finalità”), deve essere adeguata, pertinente e limitata a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati sono trattati (c.d. “minimizzazione dei dati”) (141). Se le richiamate garanzie non verranno rispettate, ci sarà il rischio che in Europa si possa propendere per la creazione di vere e proprie “black list” di Stati extra-UE che non garantiscono la tutela della privacy dei cittadini europei, e ciò avrà inevitabili conseguenze sul piano degli scambi e dei commerci internazionali. (139) Vedi “Privacy Shield: le FAQ dell’EDPB sulla sentenza Schrems II”, tradotte dal Garante della Privacy, https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9442415. (140) Si vedano le clausole contrattuali standard aggiornate ai sensi del GDPR emesse il 4 giugno 2021 dalla Commissione per i trasferimenti di dati da titolari o responsabili del trattamento nell’UE/SEE (o altrimenti soggetti al GDPR) a titolari o responsabili del trattamento stabiliti al di fuori dell’UE/SEE (e non soggetti al GDPR): queste clausole modernizzate sostituiranno i tre insiemi di clausole contrattuali tipo adottate ai sensi della precedente Direttiva sulla protezione dei dati 95/46. (141) Per quanto riguarda il trade-off tra privacy e interesse pubblico, è utile menzionare la recente giurisprudenza della Corte EDU, che nella sentenza 36345/16 del 12 gennaio 2021 nel caso L.B. v. Hungary, ha mostrato una certa apertura verso una “deroga” ai principi in materia di privacy in nome dell’interesse pubblico, contestando che in alcuni casi la privacy non può divenire un ostacolo al controllo fiscale. La Corte ha contraddetto il Garante della privacy ungherese, affermando che è ammissibile la pubblicazione sul sito dell’autorità fiscale dei dati dei contribuenti che non hanno pagato le tasse. Secondo la Corte, in un’opera di bilanciamento degli interessi, la riservatezza di questi dati (nome, indirizzo, morosità fiscali) può cedere il passo all’interesse pubblico alla trasparenza sul- l’affidabilità economica delle persone: prevale la considerazione che chi non adempie agli obblighi fiscali costituisce una minaccia per gli interessi di chi potrebbe entrarvi in contatto per stringere rapporti commerciali. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Come si è visto, i problemi e i temi sono molto trasversali: si sono spesso sovrapposte delle competenze in materia di supervisione e controllo attribuite alle diverse Autorità all’interno del nostro ordinamento, con difficoltà nell’attuazione della disciplina, e ciò potrebbe determinare un impatto negativo sull’efficacia delle misure adottate. Servirebbe maggiore chiarezza nel riparto delle competenze: si potrebbero usare meglio le risorse e l’applicazione della disciplina sarebbe più sicura. Nonostante il problema sia noto, non è ancora stato intrapreso un indirizzo per una soluzione unanime. Intanto, allora, si procede con una collaborazione fra le Autorità esistenti, ma non si esclude, in futuro, la nascita di un’unica Autorità con tutte le competenze necessarie. Le nuove proposte di Regolamento presentate dalla Commissione europea si limitano ad incoraggiare la collaborazione fra le Autorità esistenti, ed è rimesso agli Stati membri l’onere di disciplinare le modalità concrete. Il problema non è solamente teorico, in quanto ha effetto sull’effettività della disciplina e sull’efficacia della tutela che l’ordinamento intende garantire ai soggetti coinvolti. I dubbi in materia, nonché la concorrenza fra le diverse Autorità, incidono negativamente sull’applicazione della disciplina, inficiandone la portata. Il lavoro delle autorità dovrebbe essere sinergico già nella fase di indagine e analisi dei problemi, vista la complessità delle fattispecie che emergono. Si faccia l’esempio dell’Indagine conoscitiva sui Big Data (142), che è stata condotta insieme da Antitrust, AGCOM e Garante della Privacy, ed è stata pubblicata nel 2018: si tratta di un caso in cui, unendo le diverse prospettive, le Autorità sono riuscite ad avere un quadro completo del fenomeno che dovevano affrontare. Il problema sta, poi, nella fase di implementazione delle misure, perché si crea una situazione di confusione, per la quale più Autorità rivendicano la propria competenza, e così si rischia di pregiudicare i soggetti che chiedono la tutela prevista dall’ordinamento. Per fare un altro esempio pratico, si pensi alla Direttiva SMAV: con riferimento alle nuove disposizioni poste a tutela dei minori potrebbero sorgere problemi, perché si prevede che, per evitare la fruizione da parte di questi di contenuti pericolosi per il loro sviluppo fisico, mentale o morale, i fornitori di servizi media audiovisivi siano soggetti a misure introdotte dai singoli Stati (es. meccanismi volti a verificare l’età di chi accede ai servizi). Eppure, resta (142) Il testo dell’indagine conoscitiva è accessibile da https://www.garanteprivacy.it/documents/ 10160/0/Indagine+conoscitiva+sui+Big+Data.pdf/58490808-c024-bf04-7e4ee953b3d38a9a? version=1.0. Interessante, sul punto, G. BUSIA, L. FEROLA, “Il Garante per la protezione dei dati personali: le funzioni, i rapporti con le altre Istituzioni ed Autorità in Italia e in Europa”, in G. BUSIA, L. LIGUORI, O. POLLICINO (a cura di), “Le nuove frontiere della privacy nelle tecnologie digitali: bilanci e prospettive”, Aracne, 2016. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà fermo che i dati personali dei minori, così raccolti, non possono essere trattati a fini commerciali, né per finalità di marketing diretto, profilazione o pubblicità mirata sulla base dei comportamenti. Il problema è palese: si devono riunire tutte le competenze dell’AGCOM, dell’AGCM e del Garante della Privacy. L’Autorità Garante delle Comunicazioni deve vigilare sui servizi media audiovisivi, in particolare sulle piattaforme di condivisione video (anche social media). Per quanto concerne il rinvio al marketing e alla pubblicità, questo richiede una tutela dei consumatori, con conseguente competenza dell’Antitrust. Infine, il Garante della Privacy è necessario per la raccolta di dati personali, interventi già avvenuti per il controllo dell’età dei soggetti che accedono ai social, in risposta ai gravissimi episodi avvenuti su Tik Tok. Il Digital Services Act, dal canto suo, si limita a prevedere l’istituzione dei c.d. “coordinatori nazionali per i servizi digitali”, cioè autorità nazionali competenti per il controllo e l’attuazione della disciplina. Sicuramente tali poteri potrebbero essere attribuiti all’AGCOM, ma è solo una delle tante possibilità. Anche le altre Autorità, infatti, potrebbero rivendicare i poteri previsti dal DSA, specialmente perché il Regolamento esplicitamente prevede la possibilità di designare contestualmente più soggetti competenti. Oppure, si potrebbe istituire un’Autorità ex novo. Ancora, auspicabilmente, si potrebbe optare per l’accorpamento delle diverse Autorità, riunificando le competenze di quelle già esistenti. Ad ogni modo, sui singoli Stati incombe l’onere di determinare quali compiti siano attribuiti a ciascuna Autorità e le modalità di cooperazione fra le une e le altre. Si vedano le osservazioni formulate dell’EPDS nell’opinion 1/2021: data la trasversalità delle attività oggetto della regolamentazione, è quasi scontato che vi sarà la concorrenza di più autorità, soprattutto di quelle responsabili per la protezione dei dati personali, poiché queste vengono in rilievo ogni volta in cui le attività includano l’utilizzo di dati personali. Per questo motivo, il Comitato spera che la versione definitiva del Regolamento individui un criterio legale sul quale basare la cooperazione, strutturi la cooperazione fra le diverse Autorità e precisi con chiarezza le Autorità coinvolte nella cooperazione e le circostanze che prevedono tale cooperazione. Per quanto concerne il Digital markets Act, si richiamano ipotesi di concorrenza di diverse Autorità: diverse norme hanno ad oggetto lo sfruttamento dei dati personali da parte dei “gatekeepers”, ossia dei soggetti destinatari della disciplina, preannunciando il possibile intervento del Garante, oltre all’ovvia competenza dell’Antitrust. L’art. 32 della proposta prevede anche la creazione di un comitato consultivo per assistere la Commissione nello svolgimento delle funzioni. Su que RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 sto elemento si è pronunciato l’EDPS con l’opinion 2/2021 (143), secondo cui i membri dell’EDPB dovrebbero prendere parte a tale comitato consultivo e bisognerebbe strutturare al meglio la cooperazione fra le diverse Autorità competenti potenzialmente coinvolte (indicando la base giuridica idonea a giustificare lo scambio di informazioni fra le stesse). Si può affermare, in conclusione, che il quadro normativo vigente e le prospettive di riforma non sono rassicuranti per lo scopo qui analizzato: è, tuttavia, un elemento importante, per cui servirebbe, il prima possibile, riorganizzare il sistema (144). 9. Servizio civile digitale. Si parla di “servizio civile digitale” per indicare l’utilizzo del digitale nello svolgimento di attività di interesse pubblico. Il servizio civile digitale è teso, ad esempio, a combattere fenomeni devianti come quelli multiformi della corruzione. Per citare un’applicazione concreta, di recente si è proceduto alla c.d. Robustezza di piattaforme per le segnalazioni di whistleblowing al Responsabile della prevenzione, corruzione e trasparenza. Il portale utilizza un protocollo di crittografia in grado di garantire la riservatezza dell’identità del segnalante, del contenuto della segnalazione e della documentazione allegata. È curioso che, alla notevole attenzione sociale e politica, non corrisponda una proporzionale densità di casistica giurisprudenziale. I fenomeni in questione sembrano restare al di fuori della dimensione giudiziaria. Storicamente, in un primo tempo, l’esplosione del mondo digitale è avvenuta per gran parte addirittura al di fuori della stessa dimensione giuridica; talvolta in un vero e proprio far west. Oggi, questo non è più vero ma le regole del gioco sembrano applicarsi con molta difficoltà. Su un fronte, quello delle piattaforme social, sono queste stesse a dettare le regole e, almeno in parte o nelle intenzioni, costituiscono anche gli organi di giustizia. Sull’altro fronte, del c.d. “marketing digitale”, l’economia data driven sembra sottrarsi ad ogni regola, fatta eccezione per la disciplina della protezione dei dati personali, che sembra atteggiarsi talvolta ad ultima barriera ad una incontrollata libertà di azione. (143) Consultabile su https://edps.europa.eu/system/files/2021-02/21-02-10-opinion_on_digital_markets_act_en.pdf. (144) In conclusione, sul tema dei rischi che la condivisione dei dati così come regolata nelle nuove proposte EU (DGA, DSA, DMA), può far correre agli interessati, minacciando in tal modo di violare proprio il GDPR, si veda il commento dell’ex Garante della Privacy, F. PIzzETTI, “La nuova era digitale europea ha un problema privacy, bene EDPB-EDPS” su agendadigitale.eu, in cui si mette in luce l’importanza del parere dell’EDPB e dell’EDPS sulle proposte regolatorie della Commissione contenute nel DGA, nel DMA e nel DSA, parere reso pubblico il 18 novembre 2021 sul sito del Garante privacy italiano. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Il principale presidio di legalità è rappresentato dalle autorità garanti. Nelle pronunce del Garante della privacy (GPDP) si riscontra una particolare attenzione alla tutela dei dati personali nel processo in corso di costruzione dell’interoperabilità digitale basata sulle c.d. porte di dominio API, cercando di individuare sempre il titolare del trattamento, come centro di imputazione della responsabilità. È attiva l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), con riguardo alla protezione dei consumatori dei servizi digitali, sia nei confronti delle piattaforme social, sia con riguardo alle nuove dinamiche di promozione e pubblicità commerciale. L’Autorità garante delle comunicazioni (AGCOM) è particolarmente attenta, naturalmente, ai profili della comunicazione digitale, con particolare riguardo per le campagne di odio e di denigrazione. Va, peraltro, riscontrato che il riparto di competenze fra le diverse Autorità rappresenta un profilo sempre più incerto, data la trasversalità dei temi affrontati. È, comunque, utile analizzare il quadro generale delle questioni verso le quali queste hanno maggiormente posto la propria attenzione, anche nel tentativo di comprendere quali problemi siano maggiormente rilevanti, prevedendo anche quali tematiche potrebbero arrivare nelle aule dei tribunali. Il GPDP, ad esempio, si è pronunciato sulla necessità di rimuovere alcuni contenuti dai social media, nel caso di coinvolgimento di soggetti minori o di episodi che integrassero il reato di diffamazione. L’AGCM ha, invece, toccato ampiamente il tema delle pubblicità online, soprattutto con riguardo all’attività svolta dagli influencer, incrociando la propria attività all’introduzione di nuove regole -anche e soprattutto a livello europeo -volte a disciplinarne il comportamento. Parallelamente, vi è un’attività cospicua nel settore della tutela dei marchi, legata ai nuovi rischi di contraffazione e non solo sorti con l’avvento dell’economia digitale (145). (145) Tra i soggetti pubblici capaci di arginare lo strapotere delle piattaforme, l’Antitrust ha sempre svolto un ruolo fondamentale. Si pensi anche alle ultime vicende che hanno visto coinvolta la società fondata da Jeff Bezos. L’AGCM ha irrogato una sanzione di oltre 1 miliardo di euro ad Amazon per abuso di posizione dominante. La multa inflitta riguarda i comportamenti discriminatori posti in essere da Amazon nei confronti dei venditori che non si affidano alla sua logistica: praticamente il colosso americano ha creato un canale preferenziale per i commercianti che seguono le sue scelte logistiche (es. aderire a creare un negozio virtuale sul suo sito) ed ha dato preferenza agli acquirenti Prime a maggior capacità di spesa. L’azienda fondata da Jeff Bezos avrebbe sfruttato queste dinamiche per condizionare il mercato in termini distorsivi. L’azione è stata promossa per violazione dell’art. 102 del TFUE che, come noto, vieta “lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo”. Siccome durante il lockdown l’Italia è stata una delle nazioni dove Amazon è cresciuta di più (il 75% degli italiani ha fatto acquisti online), l’impresa ne ha approfittato per aumentare non solo le vendite di beni materiali, ma anche per collezionare dati e creare profilazioni dei consumatori (le merci sono uno strumento per arrivare ai dati degli utenti), crescendo sul mercato a un prezzo e con modalità che ne hanno distorto il meccanismo, penalizzando i concorrenti incapaci di stare al passo. Le conseguenze e gli effetti della sua posizione dominante hanno portato l’Antitrust italiana ad agire. Qui il testo del provvedimento: https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati- news/A528_chiusura%20istruttoria.pdf. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 L’AGCOM, infine, ha rivendicato su più fronti l’importanza del proprio ruolo, anche tenendo conto delle modifiche che saranno apportate dal recepimento della nuova Direttiva SMAV (Servizi Media AudioVisivi), che qualifica i servizi di video-sharing come media, facendo rientrare il controllo sui contenuti condivisi attraverso questi strumenti entro l’ambito di competenza dell’Autorità. Tornando a quanto detto prima in merito alla sempre maggiore sovrapposizione dell’ambito di intervento delle Autorità, può evidenziarsi una certa affinità fra alcune delle tematiche affrontate dall’AGCOM e dall’AGCM, con ad esempio per quanto riguarda appunto l’attività pubblicitaria e di sponsorizzazione portata avanti dagli influencer. La bassa densità di pronunce giudiziali è un indice significativo della inadeguatezza degli attuali strumenti giudiziali con riguardo a fenomeni caratterizzati dalla estrema rapidità e frequenza delle condotte; e da una notevole varietà degli effetti. Tuttavia, è per certi versi paradossale o comunque un segno dei tempi, che -mentre l’economia e le dinamiche sociali sono caratterizzate sempre più dalla digitalizzazione -la domanda di giustizia che deriva da queste dinamiche non trova risposte adeguate in ambito giudiziario. Il deficit di offerta di tutela è da imputare in primo luogo alla lentezza dei tempi delle decisioni, platealmente non sincronizzata alla velocità degli accadimenti; in secondo luogo, all’assenza di giudici specializzati; infine, ma non per importanza, all’assenza di strumenti di intervento efficaci e tempestivi. Non è un caso che i casi che sono stati più frequentemente portati all’attenzione dei giudici riguardano il diritto all’oblio o alla cancellazione dei dati, dopo un tempo rilevante; o, più di recente, la cosiddetta “eredità digitale”, ossia l’accesso dei familiari alle informazioni di un defunto nella disponibilità di una piattaforma digitale. Insomma, casi in cui la rapidità dell’intervento non è essenziale. Nell’era digitale cambia il concetto di proprietà: Rebecca Mardon, del- l’Università di Cardiff (146), ha scritto che oggi la proprietà è sostituita dal- l’accesso, “età dell’accesso”, in cui la proprietà non è più importante per i consumatori e diventerà presto irrilevante. Gli ultimi anni hanno visto l’emergere di una serie di modelli basati sull’accesso nel regno digitale”. In uno studio realizzato nel 2018 dalla Norton School of Family and Consumer Sciences dell’Università della Arizona, è emerso il concetto di proprietà psicologica che applichiamo ad un bene digitale che, in realtà, non ci appartiene. Ecco così che trasformiamo la non-proprietà di un bene digitale in percezione di possesso. Una percezione di proprietà che risponde principalmente a 3 fattori: la sensazione di avere il controllo sull’oggetto che si possiede, il (146) R. MARDON, “The relationship between ownership and possession: observations from the context of digital virtual goods”, 2016. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà ruolo che l’oggetto assume per definire chi siamo, l’aiuto che l’oggetto ci fornisce per migliorare il senso di appartenenza nella società. Il punto è che comprando un bene digitale -sia ebook, come un brano musicale o un film -in realtà otteniamo una licenza di utilizzo con restrizioni più o meno ampie. Non entriamo in possesso del bene come accade per i beni fisici. Non a caso, ci sono esempi di utenti che si sono trovati privati della possibilità di utilizzo di beni digitali, come nel caso di Microsoft che ha deciso di chiudere il suo servizio di ebook, portandosi dietro tutte le librerie dei clienti (anche se promettendo loro un rimborso). Il mondo digitale presenta nuove minacce alla proprietà a cui i nostri beni fisici non ci hanno preparato. Si parla di regolare il “patrimonio digitale” e la c.d. “successione digitale”, distinguendo beni digitali (c.d. digital assets)a contenuto patrimoniale, come Bitcoin, basata su tecnologia blockchain e beni a contenuto non patrimoniale, che dovrebbero essere esclusi da una successione ereditaria, ma così non è (147). Rientrano nella delazione ereditaria le opere creative dell’ingegno nell’ambito del digitale come i software, ma è anche l’account che può avere un valore patrimoniale spesso rilevante. La patrimonialità dell’account può derivare dal contenuto, come nel caso di account di pagamento automatizzato (Paypal, ecc.) o per trading on line (IQ option, markets, Binance, ecc.), dai contratti di sponsorizzazione, che lo corredano, dalle recensioni o valutazione degli utenti (Youtube, E-bay, Tripadvisor, ecc.) o semplicemente dal valore acquisito per essere divenuto per gli utenti di una community un punto di riferimento (si prendano ad esempio gli account social di personaggi famosi o c.d. influencer). A tal proposito, giova accennare alla nuova criptovaluta annunciata da Facebook per erogare servizi finanziari tramite il proprio social network: Libra. Attraverso Libra i titolari di un account Facebook, Whatsapp o messenger potranno inviare e ricevere pagamenti in criptovaluta, sulla base di una blockchain che, a differenza del sistema Bitcoin, sarà “permissioned”, dunque, solo un numero limitato di utenti sarà autorizzato a tener traccia del ledger, “libro mastro”, della rete blockchain. Libra avrà un valore predeterminato che la legherà al valore della moneta, forzandone gli equilibri di cambio, affinché in qualsiasi momento possano essere chiari i meccanismi ed il valore della somma inviata o ricevuta. Se il progetto Libra dovesse avere successo, l’account acquisterà anche un valore patrimoniale, essendo direttamente ad esso associato un patrimonio di cripto (147) G. MARINO, “La successione digitale”, in oss. dir. civ. e comm., 2018; A. MAGNANI, “L’eredità digitale”, in Notariato, 2014; A. SERENA, “Eredità digitale”, in AA.VV, “Identità ed eredità digitali, stato dell’arte e possibili soluzioni”, Aracne, 2016; C. CAMARDI, “L’eredità digitale. Tra reale e virtuale”, in “Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, 2018. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 valute riconducibile al defunto e assumerà ancora più rilevanza in caso di morte dell’utente. Alcuni gestori di posta elettronica, tra le condizioni generali di servizio (che spesso vengono frettolosamente accettate con un semplice click), prevedono la non trasferibilità dell’account. L’account mail Yahoo, ad esempio, non è trasferibile e qualsiasi diritto relativo all’ID o ai contenuti all’interno dell’account verrà meno in seguito al decesso del titolare dell’indirizzo di posta. Questo significa che il provider potrà essere contattato solo per richiedere, previa esibizione del certificato di morte, la cancellazione dell’account e tutto il suo contenuto. Così anche per Apple, Linkedin e Twitter. Anche se si decidesse di andare per le vie legali, sarebbero, comunque, applicabili leggi e giurisdizioni straniere, così come accade nel caso di problematiche con alcuni provider statunitensi. Vi è allora da chiedersi: oggi la nostra proprietà digitale, così come la nostra identità digitale legata ai dati (data mining, data driven economy), è nelle mani delle grandi piattaforme? L’avvento dell’era digitale non ha stravolto solamente il nostro modo di rapportarci con altre persone, ma ha dato vita ad un vero e proprio patrimonio digitale. Sebbene in molti casi il valore di quest’ultimo sia solamente perso- nale-sentimentale (foto digitali, messaggi Whatsapp, files), spesso accade che si presenti tuttavia di rilevanza economica tutt’altro che trascurabile. È evidente, allora, che prevedere disposizioni precise sul destino del proprio patrimonio digitale rappresenta, più che un’opportunità, una vera e propria esigenza. I concetti di proprietà, possesso e dominio nell’era digitale che stiamo vivendo, richiedono la rimodulazione dei principi generali di autodeterminazione individuale e di responsabilizzazione delle piattaforme: principi che costituiscono regole metagiuridiche con funzione normogenetica in grado di regolare la complessità del nostro tempo. Il meum esse risulta modificato nella dimensione digitale: dal territorio si passa al cloud ed anche la distinzione di Pugliatti (148) che, nello studio della proprietà invitata a spostare l’analisi dal concetto di “appartenenza”a quello della “funzione”, non risulta più in linea con una realtà multiversante, fluida e cangiante. Schmitt (149) parlava del “nomos della terra”, ma oggi nella dimensione digitale non è più dato distinguere il “dove di posizione”eil “dove di applicazione”: il diritto è scosso da due potenze atopiche che sono la tecnica e l’economia. (148) La distinzione tra le proprietà e la proprietà, S. PUGLIATTI, “La proprietà nel nuovo diritto”, 1964. (149) C. SCHMITT, “Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum »”, Adelphi, 2011. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Secondo il Professore Natalino Irti (150), tali potenze si sono alleate, divenendo potenze della sconfinatezza: non conoscono il dove, ma il “dovunque”. “Come può il diritto regolamentare la sconfinatezza della “tecnoeconomia”? Il diritto, se non lascia la genesi della terra, non può seguire tali potenze atopiche”. “Anomia e atopia”: sono questi i due termini che descrivono il mondo digitale. Non è un caso che i Trattati istitutivi dell’Unione Europea parlino non di territorio, ma di “spazio comune europeo”. “Il mio esterno” diceva Kant (151), precisando che il fondamento del diritto di proprietà non è di ordine empirico o sensibile, ma intellegibile e razionale scaturendo dalla stessa ragion pratica. Il “possesso intelligibile” distinto dal “possesso empirico”, “possessio phoenomenon”e“possessio noumenon”: la proprietà come esercizio spaziale, la presa di terra fattuale “landnahme” come base del diritto di proprietà. Il tema della proprietà privata era stato ampiamente dibattuto nella repubblica di Platone, che lo ricollegava alle questioni di giustizia e di stabilità sociale (funzione sociale della proprietà affermata anche nell’art. 42 della nostra Costituzione). Altra concezione della proprietà era quella di Aristotele legata al concetto di progresso. Ancora oggi, l’indice di sviluppo umano (Human Development Index), elaborato annualmente dalle Nazioni Unite, è strettamente correlato all’indice di proprietà privata (Property right Index). In una visione Neokeynesiana, quale è quella che si sta affermando nel periodo della pandemia in corso, il tema della proprietà, anche nella dimensione digitale, pone l’annosa questione dell’intervento pubblico nell’economia (si ricorderà la diversa concezione tra Weber e Schmitt) volto ad accompagnare gli assets strategici del paese attraverso provvedimenti in equity di uno Stato player che affianca ed aiuta la proprietà privata di tipo produttivo ed imprenditoriale. Se spostiamo tali considerazioni filosofiche sul piano dell’applicazione pratica del diritto, quale scienza storica e scienza applicata, ci rendiamo conto che la proprietà oggi non è strettamente correlata alla materialità, prevale la c.d. “cultura dell’immateriale e dell’adiacente possibile”. Di recente, il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi chi ha ricordato che anche la «materia è un fenomeno dinamico», definendo il concetto di caos e di “sistemi complessi” su scala atomica e planetaria. Oggi, il diritto deve confrontarsi con l’immateriale e regolarlo. Per poter regolare occorre, però, capire i fenomeni digitali: il giurista deve sviluppare oggi delle “competenze trasversali” che gli consentano di comprendere la complessità. Di seguito capiremo in che modo e in quali settori. (150) N. IRTI, “Il diritto nell’età della tecnica”, Editoriale Scientifica, 2007. (151) I. KANT, “Principi metafisici della dottrina del diritto”, 1797. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 10. Hate speech: un fenomeno incontrollabile? La tecnologia e gli strumenti digitali ci impongono ormai di riflettere su un nuovo orizzonte di senso dell’uomo, sullo stesso concetto di valore (Wertbegriff) della persona umana, che purtroppo viene colpito profondamente quando, tramite lo strumento digitale, le persone esprimono la c.d. negatività del pensiero e della parola. Come è noto, uno degli aspetti negativi e più diffusi della comunicazione digitale è la reiterazione di attività denigratorie o lesive di vario tipo, che se talvolta sono l’opera di un singolo soggetto, altre volte, invece, convergono in vere e proprie campagne di diffamazione digitale (152). Ne è un paradigma l’emergente fenomeno delle campagne d’odio (il c.d. hate speech), strettamente connesso a quello della diffamazione online (153). A questo riguardo, è rilevante come la diffusione delle piattaforme digitali stia determinando la frequenza e la pervasività di queste condotte. La necessità di strumenti di azione più efficaci ha determinato l’avvio di alcune iniziative del Parlamento. Eppure, gli unici risultati raggiunti sono stati quelli in materia di diffusione di immagini a contenuto sessualmente esplicito, inizialmente con l’introduzione nell’ordinamento dell’art. 612-ter c.p., e successivamente con la predisposizione del nuovo art. 144-bis del Codice Privacy. Il tema ricorrente nell’ambito della diffamazione online, presente anche nei casi di diffamazione in generale, è che la persona offesa è molto spesso più interessata, inizialmente, a ristabilire la verità dei fatti, piuttosto che al risarcimento dei danni e alla cessazione della condotta lesiva. Eppure, la verità dei fatti rimane spesso sullo sfondo: generalmente gli elementi di maggiore rilevanza e importanza, ai fini della decisione, insieme a quello della eventuale rilevanza pubblica della notizia diffusa, sono quello della continenza e quello della verità putativa. Insomma, la realtà dei fatti per come si sono realmente svolti, molto spesso, resta fuori dal processo e la relativa domanda di giustizia è destinata a non essere soddisfatta dal giudice. Si tratta di un profilo di grande interesse, (152) Il sociologo Georg Simmel nella sua oper “La socievolezza” evidenzia che nella dimensione digitale deve essere recuperata l’importanza del comportamento, che è la sintesi di un processo di razionalizzazione delle emozioni e dei sentimenti individuali. Il rispetto di tale galateo digitale realizzerebbe quello che Simmel definiva estetica che si fa etica. Allo stesso modo, Norbert Elias nella sua opera “La civiltà delle buone maniere” sottolinea l’importanza del rispetto dell’altro inteso come kindness, ossia come gentilezza delle forme comunicative. Il concetto della gentilezza comunicativa rientra nel più grande concetto di paideia digitale. (153) Si veda la recente opera di E. DHAWAN, “Digital body language. How to build trust & connection no matter the distance”, 2021, sull’importanza della correttezza e della misura del linguaggio digitale. L’autrice sottolinea l’importanza del linguaggio digitale nel mondo del lavoro per evitare il c.d. “distancing effect” e realizzare il c.d. “water cooler effect”, ossia un linguaggio informale collaborativo nel mondo del lavoro. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà che deve essere segnalato, da un lato, al fine di tenere sotto osservazione la casistica in materia, e dall’altro, allo scopo di favorire la ricerca di possibili soluzioni. Partiamo dal presupposto che il fenomeno del c.d. “hate speech” non è una novità degli ultimi tempi, anche se è inevitabilmente recente l’attenzione verso i c.d. “discorsi d’odio”. Infatti, il loro impatto sugli individui e l’introduzione di discipline e misure che consentano di arginare il fenomeno, sono cresciuti di gran lunga negli ultimi anni. La causa di ciò è da rinvenirsi certamente nell’avvento di Internet e dei social network (154), che hanno agito come amplificatori. Il tentativo di regolamentare questo fenomeno si scontra inevitabilmente con la necessità di garantire un equo e corretto trade-off tra gli interessi in gioco, i diritti e le libertà; vengono in rilievo l’onore, la reputazione, la dignità della persona, ma anche la libertà di espressione, di critica e di cronaca, fino ad arrivare alla libertà di iniziativa economica e di associazione. In ambito europeo, è già da qualche anno che si sono prese delle misure per arginare comportamenti illegittimi: l’intervento forse più rilevante è stato l’adozione, da parte della Commissione, insieme a diversi players del settore (primi fra tutti, Google e Facebook), di un Codice di Condotta, che impone ai gestori dei siti e dei social network di intervenire attraverso la rimozione dei contenuti illeciti. Per quanto riguarda l’ordinamento interno, invece, sono stati mossi soltanto i primi passi, tanto sul piano giurisprudenziale, quanto su quello legislativo. Per quanto riguarda il primo profilo, è fondamentale l’analisi delle due pronunce del Tribunale di Roma (155) -relative ad alcune controversie che hanno visto rispettivamente protagoniste le forze politiche Forza Nuova e Ca (154) Il 10 dicembre 2021, ricevendo il Premio Nobel per la pace, la giornalista filippina Maria Ressa ha lanciato un forte messaggio contro i colossi tecnologici americani, colpevoli, secondo lei, di aver lasciato che l’avidità alimentasse sentimenti negativi sui social network. La giornalista Ressa, cofondatrice del sito rappler, che ha vinto il premio insieme al collega russo Dimitry Muratov, ha attaccato le società di internet americane che «hanno permesso a un virus di bugie di infettare ognuno di noi, mettendoci l’uno contro l’altro, facendo emergere le nostre paure, la rabbia e l’odio. Ciò che accade sui social media non rimane sui social media. La violenza online è la violenza del mondo reale. I fatti e la verità sono al centro della risoluzione delle maggiori sfide che la società deve affrontare oggi. Senza fatti, non c’è verità. Senza verità non c’è fiducia. Senza fiducia non abbiamo realtà condivisa, nessuna democrazia e diventa impossibile affrontare i problemi esistenziali del nostro mondo: clima, coronavirus, battaglia per la verità». Ressa -il cui sito web è molto critico nei confronti del Presidente filippino Rodrigo Duterte -è oggetto di 7 cause legali nel suo paese che, secondo lei, rischiano di metterla in prigione per 100 anni. Attualmente in libertà vigilata, in attesa di appello dopo essere stata condannata per diffamazione lo scorso anno, ha dovuto chiedere a 4 tribunali il permesso di viaggiare e di ritirare di persona il suo Nobel per la pace. (155) Tribunale di Roma, ordinanza del 23 febbraio 2020, resa nell’ambito del procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. (R.G. 64894/2019) e Tribunale di Roma, ordinanza del 14 febbraio 2020, resa nell’ambito della causa n. 80961/19, entrambe commentate e reperibili su https://www.iusinitinere.it/liberta- di-espressione-facebook-e-movimenti-di-estrema-destra-provvedimenti-a-confronto-27066,“Libertà di espressione, Facebook e movimenti di estrema destra: provvedimenti a confronto”, di E. PALAzzOLO, 2020. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 sapound Italia contro Facebook -emesse successivamente alla decisione del famoso social network di chiudere alcune pagine ad esse collegate, nonché vari account personali riconducibili a loro militanti e gestori. Le due vicende hanno avuto esito diametralmente opposto: la prima si è conclusa con la conferma, da parte del Tribunale, della legittimità della decisione di Facebook; la seconda, invece, con l’accoglimento delle domande presentate dai ricorrenti. Questo duplice e diverso esito ci porta a fare alcune considerazioni. L’importanza e la delicatezza del tema emergono anche se si esamina l’interesse politico sull’argomento, interesse che ha portato alla presentazione di diverse proposte di legge al riguardo. Da ultimo, è stato presentato alla Camera il c.d. DDL Boldrini, ispirato anche dalla riforma tedesca, il cui aspetto più rilevante risiede nell’introduzione di diversi meccanismi volti sia alla responsabilizzazione dei gestori dei siti internet, sia a fornire agli individui degli strumenti concreti di difesa, soprattutto tramite l’attribuzione di nuove prerogative e poteri in capo al Garante per la privacy. E proprio quest’ultimo ha dimostrato di apprezzare la proposta, e ciò, congiuntamente all’impegno e alle azioni intraprese dall’AGCOM sul tema, dimostra l’importanza del ruolo svolto dalle Autorità garanti. Il nostro ordinamento, a differenza di altri, non ha una normativa completa e specifica finalizzata a disciplinare il fenomeno del c.d. “hate speech”. Secondo la definizione proposta dall’OCSE nel 2003, con questo termine si vogliono intendere le “manifestazioni di pensiero che esprimono disprezzo nei confronti di individui appartenenti a determinate categorie o nei confronti di determinate categorie di persone”; manifestazioni di pensiero da tenere comunque distinte dalla più grande e generale categoria degli “hate crimes” (i “crimini d’odio”), i quali ricomprendono tutti i reati che condividono la matrice del pregiudizio (156). Comunque, bisogna tenere a mente che, tuttora, manca un’unica definizione. Il tema è diventato centrale a causa all’avvento della rete e delle comunicazioni tecnologiche, ed in particolare a seguito della diffusione dell’utilizzo (156) Per una puntuale ricostruzione delle alternative definitorie concernenti gli hate crimes, v. da ultimo L. GOISIS, “Hate Crimes: perché punire l’odio. Una prospettiva internazionale, comparatistica e politico-criminale”, in rIDPP, 2018, 2021 s. Secondo B. PERRY «il crimine d’odio (...) comporta atti violenti ed intimidatori, generalmente diretti verso gruppi già oggetto di marginalizzazione e stigmatizzazione. Così inteso, è un meccanismo di potere e di oppressione, teso a riaffermare le precarie gerarchie che caratterizzano un dato ordine sociale (...)» in B. PERRY, “In the Name of Hate: Understanding Hate Crimes”, Londra, 2001, 1 e 10. Ancora, secondo N. CHAKRABORTI, i crimini d’odio vanno individuati in quegli «atti di violenza, intimidazione e ostilità diretti verso persone a causa della loro identità o della loro percepita diversità», in N. CHAKTABORTI, J. GARLAND, “Hate Crime. Impact, Causes, and responses”, Los Angeles-Londra, 2015, 5. Da ultimo, F. LAWRENCE definisce l’hate crime -o meglio il bias crime -come un «crimine commesso per un motivo di pregiudizio (bias) contro una “caratteristica protetta”, propria di un gruppo», in F.M. LAWRENCE, “Punishing Hate. Bias Crimes under American Law”, Cambridge, 1999, 9. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà dei vari social network, i quali ormai veicolano ininterrottamente messaggi, video, audio e immagini fra una moltitudine di persone, con tempi brevissimi e senza confini geografici. Si è fatta strada, così, la necessità di garantire maggiori tutele a favore degli utenti di internet, la cui dignità, nonché libertà personale, sono messe in serio pericolo dal continuo verificarsi di condotte illecite online. Il tema è, inevitabilmente, molto complesso. Anzitutto, per la necessità di contemperare ogni esigenza di tutela degli utenti online con il rispetto di altri diritti fondamentali che vengono ugualmente in rilievo, come, ad esempio, il diritto alla libertà di espressione, di cronaca e critica. E poi, per la mancanza di una vera e propria regolamentazione della rete: infatti, sia a livello interno che sovranazionale, si è posto il problema relativo al se e in che misura sia necessario introdurre nuove regole e norme valide per l’Internet, e quali obblighi debbano essere imposti ai principali attori del mondo digitale, ossia ai gestori delle grandi piattaforme. In risposta a tali quesiti, alcune delle maggiori piattaforme recentemente hanno sia introdotto strumenti di autoregolamentazione, che proposto alcune novità anche sul piano legislativo, sotto l’influenza dell’Unione Europea e di altri Paesi (come, ad esempio, la Germania) che si sono già mossi verso questa direzione. Inoltre, nel maggio del 2016, è stato adottato un Codice di Condotta dell’Unione Europea (157), tramite il quale non solo l’Unione e gli Stati Membri, ma anche i social media e le altre piattaforme digitali si impegnano a condividere “la responsabilità di promuovere e favorire la libertà di espressione nel mondo online”edi “vigilare affinché Internet non diventi un ricettacolo di violenza e odio liberamente accessibile”. Il Codice è stato presentato congiuntamente dalla Commissione europea e da quattro grandi piattaforme digitali (Facebook, microsoft, Twitter e You- Tube), cui si sono successivamente aggiunte Google+, Instagram, Snapchat, Dailymotion e Webedia. Il Codice impone ai gestori delle piattaforme di effettuare, entro 24 ore dalla segnalazione, una valutazione dei contenuti e di eseguire la rimozione di post o commenti discriminatori costituenti hate speech. In base alla Direttiva 2000/31/CE, relativa agli aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione (158), tuttavia, la Corte di Giustizia ha affermato che i prestatori di servizi di hosting non sono soggetti ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni trasmesse o memorizzate, né ad un obbligo di ricerca attiva di contenuti illeciti, tranne in alcuni casi specifici in cui l’host provider è obbligato a prevenire una violazione ed evitarne di nuove. (157) Accessibile da https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_805. (158) Su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:02000L003120000717& qid=1495727154628&from=IT. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Per quanto concerne il livello nazionale, la giurisprudenza si è tradizionalmente orientata nel senso di ritenere che l’hate speech non possa rientrare nell’ambito di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, dato che questa libertà non può estendersi andando a negare i principi fondamentali ed inviolabili dell’ordinamento (159), come appunto il rispetto della dignità umana e il divieto di ogni tipo di odio e discriminazione. A livello europeo, è maturata una certa consapevolezza sulla necessità di contrastare efficacemente il fenomeno dell’incitamento all’odio e sulla stretta correlazione esistente tra la sua diffusione e il ruolo preminente che viene oggi assunto dalle piattaforme digitali, consapevolezza che evidentemente si manifesta sia nelle norme contenute all’interno delle nuove proposte di regolamentazione dei mercati digitali presentate a dicembre 2020 dalla Commissione, che nel testo del Digital Services Act, ossia il Regolamento che ha come scopo quello di andare a modificare alcuni aspetti dell’attuale Direttiva e-Commerce. In particolare, il Considerando 12 del Regolamento chiarisce un elemento fondamentale, ossia che cosa debba intendersi per “contenuti illegali”, dato che, se è vero che le piattaforme digitali non hanno un obbligo generale di sorveglianza, esse sono comunque tenute a provvedere alla rimozione di tali contenuti qualora vengano loro segnalati o comunque ne abbiano conoscenza. Ebbene, il Regolamento espressamente include, tra i contenuti illegali, quelli qualificabili come “hate speech”. Il Comitato europeo per la protezione dei dati ha formulato un parere su questo profilo, in particolare in merito ai meccanismi di moderazione dei contenuti utilizzati dalle piattaforme. All’interno dell’Opinione 1/2021 (160) è, infatti, specificato che non tutti i meccanismi in questione presuppongono il trattamento di dati personali e che, per rispettare il principio di data minimisation, il Regolamento dovrebbe evidenziare in maniera più precisa e dettagliata le condizioni specifiche in presenza delle quali il trattamento dei dati personali nella moderazione dei contenuti risulta ammesso. Ad ogni modo, la piattaforma dovrà dimostrare la necessità e la proporzionalità delle misure adottate. È importante evidenziare che, comunque, oltre che per la tutela dei dati personali, l’implementazione di tali meccanismi rappresenta un rischio anche per la libertà di espressione. In quest’ottica, nella proposta di DSA è previsto che la Commissione eu (159) Per un approfondimento sulla ricostruzione dei reati di opinione come fattispecie consistenti nella manifestazione di un pensiero critico, dove la condotta comunicativa viene incriminata perché idonea a turbare i valori morali sovra-individuali riconducibili a un’intera collettività, si veda A. SPENA, “Libertà di espressione e reati di opinione”, in rIDPP, 2007, 692 ss. (160) Opinione 1/2021 accessibile da https://edps.europa.eu/system/files/2021-02/21-02-10opinion_ on_digital_services_act_en.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà ropea incoraggi e favorisca l’adozione, a livello europeo, di codici di condotta che aiutino a garantire una migliore applicazione del Regolamento e a gestire i rischi derivanti dalla diffusione di contenuti illeciti, tenuto conto soprattutto dei profili che riguardano la concorrenza e la protezione dei dati personali. Il nuovo orientamento giurisprudenziale italiano, legato ad alcuni casi di rimozione di contenuti online da parte di Facebook, e ispirato anche ai dettami della Corte Edu (161), si va ad inserire all’interno di questo quadro normativo, relativo ai limiti che possono, in maniera legittima, essere imposti alla libertà di espressione in relazione a messaggi d’odio o discriminatori. Per cominciare, la giurisprudenza della Corte è conforme nel ritenere che gli atti di istigazione all’odio non necessitino della presenza di violenza o delitti consumati. Bisogna soffermarsi anche sull’identificazione, in concreto, dell’incitamento alla violenza, che deve essere valutato basandosi su diversi elementi, tra i quali rientra il modo in cui viene effettuata una data comunicazione, il linguaggio in concreto utilizzato, il contesto specifico, il numero di persone a cui l’informazione è rivolta, la posizione e la qualità ricoperte dall’autore, nonché la posizione di debolezza o meno del destinatario della dichiarazione. In altri termini, si può ammettere una compressione della libertà di manifestare il proprio pensiero in rete solamente se le manifestazioni d’odio raggiungono un livello tale da dirsi funzionali alla compressione dei principi di uguaglianza e libertà (162). L’Unione Europea, d’altronde, già nel 2008 aveva adottato la decisione- quadro 2008/913/GAI (163) sulla lotta contro alcune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale, tramite l’inserimento, tra i reati di stampo razzista o xenofobo, dell’“istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica” e dell’“apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”, come sono definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. (161) Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. I, sent. 16 gennaio 2020 magosso-Brindiani c/ Italia, Ricorso 59347/11; Corte Europea Diritti dell’Uomo, sez. III, 22 giugno 2021, ric. n. 5869/17, Erkizia Almandoz c. Spagna. (162) Sul tema v. anche L. GOISIS, “Libertà di espressione e odio omofobico. La Corte europea dei diritti dell’uomo equipara la discriminazione in base all’orientamento sessuale alla discriminazione razziale”, in rIDPP, 2013, 418 ss.; L. GOISIS, “omosessualità, hate crimes e diritto penale”, in GenIus, 2015, 44 ss. Sul tema specifico, A. PUGIOTTO, “Aporie, paradossi ed eterogenesi dei fini nel disegno di legge in materia di contrasto all’omofobia e alla transfobia”; M. PELISSERO, “omofobia e plausibilità dell’intervento penale”; L. IMARISIO, “Il reato che non osa pronunciare il proprio nome. reticenze e limiti nel c.d. disegno di legge Scalfarotto”; M. CAIELLI, “Punire l’omofobia: (non) ce lo chiede l’Europa. riflessioni sulle incertezze giurisprudenziali e normative in tema di hate speech”; L. MORASSUTTO, “omofobia e medioevo italiano”, contributi pubblicati in GenIus, 2015, 6 ss. (163) Il testo della decisione quadro 2008/913/GAI su https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/ IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32008F0913&from=IT. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Sotto questo aspetto, il primo caso rilevante riguarda la chiusura di diverse pagine Facebook riconducibili ad alcune articolazioni territoriali del noto partito politico Forza Nuova, ed alla diretta sospensione degli account personali di alcuni suoi esponenti, amministratori delle pagine richiamate. In particolare, con l’ordinanza resa nell’ambito del procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. (R.G. 64894/2019) in data 23 febbraio 2020 (164), il Tribunale ha rigettato il ricorso presentato contro il social network Facebook, volto a contestare il su citato provvedimento di sospensione e chiusura delle pagine, aderendo quindi alla tesi della piattaforma social. Nella pronuncia romana, che si rifà alla definizione di “hate speech” predisposta dall’OSCE, i Giudici sottolineano la natura di Facebook quale soggetto privato, evidenziando che, nonostante la rilevanza sociale dell’attività svolta da quest’ultimo, il rapporto tra le due parti è comunque regolato dalle condizioni contrattuali a cui queste aderiscono al momento dell’iscrizione al social network. Tramite la sottoscrizione di tali condizioni, in effetti, l’utente assume il precipuo impegno di “non usare Facebook per scopi illegali, ingannevoli, malevoli o discriminatori” e di non “pubblicare ed eseguire azioni che non rispettino i diritti di terzi o le leggi vigenti”. Tra l’altro, nell’ipotesi di violazione delle suddette condizioni, Facebook si riserva, inoltre, il diritto di rimuovere tali contenuti e di interrompere la fornitura del suo servizio. Viene poi previsto che, nel caso in cui il fruitore del servizio digitale violi chiaramente, seriamente o reiteratamente le condizioni o normative -ed in particolare gli Standard della Community -Facebook potrebbe arrivare a sospendere o disabilitare in modo permanente l’accesso dell’utente al proprio account, fermo restando che le misure in concreto adottate dipendono, in ogni caso, dalla gravità della violazione e dalle precedenti condotte dell’utente-fruitore. Queste stesse regole si applicano anche alle “pagine social”, e l’utente è in tal senso tenuto a garantirne la conformità non solo rispetto agli Standard della Community, ma anche a leggi, regolamenti e altre normative vigenti. Gli Standard cui ci si riferisce riguardano in particolare i contenuti e le attività dell’utente su Facebook e prevedono specificatamente il divieto di divulgare contenuti che possano essere interpretati come discorsi di incitazione all’odio e che in alcuni casi possono addirittura portare ad incoraggiare episodi di violenza reale. (164) L’ordinanza è reperibile su https://www.questionegiustizia.it/data/doc/2345/ordinanza-rg648942019- forza-nuova-art700.pdf, ed è commentata da I.M. LO PRESTI, “CasaPound, Forza Nuova e Facebook. Considerazioni a margine delle recenti ordinanze cautelari e questioni aperte circa la relazione tra partiti politici e social network”, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020, accessibile da: https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/07/52-Lo-Presti-FQC-220. pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Facebook definisce i discorsi d’odio come “un attacco diretto alle persone sulla base di aspetti tutelati a norma di legge, quali razza, etnia, nazionalità di origine, religione, orientamento sessuale, casta, sesso, genere o identità di genere e disabilità o malattie gravi” e aggiunge che “forniamo anche misure di protezione per lo status di immigrato. Definiamo l’attacco come un discorso violento o disumanizzante, dichiarazioni di inferiorità o incitazioni all’esclusione o alla segregazione”. Al tempo stesso, viene vietata la divulgazione di contenuti che possano esprimere supporto o elogio ai gruppi o leader coinvolti nell’odio organizzato. Viene, inoltre, definita come organizzazione che incita all’odio “qualsiasi associazione di almeno tre persone organizzata con un nome, un segno o simbolo e che porta avanti un’ideologia, dichiarazioni o azioni fisiche contro individui in base a caratteristiche come razza, credo religioso, nazionalità, etnia, genere, sesso, orientamento sessuale, malattie gravi o disabilità”, specificando di non consentire “la condivisione sulla nostra piattaforma di simboli che rappresentano una delle organizzazioni o degli individui di cui sopra se non ai fini di condanna o discussione. Non consentiamo contenuti che elogiano le organizzazioni e gli individui di cui sopra o atti da loro commessi. Non consentiamo il coordinamento del supporto a qualsiasi organizzazione o individuo di cui sopra o agli atti da loro commessi”. Tornando al caso di specie, Facebook ha provveduto a risolvere il contratto, chiudendo poi le pagine riconducibili a Forza Nuova, qualificando la stessa come “organizzazione che incita all’odio” alla luce della definizione sopra riportata. L’organizzazione, infatti, svolge una serie di attività di propaganda razzista, xenofoba e antisemita, ostentando il fatto di essere un movimento neofascista e utilizzando simboli del fascismo nel corso delle proprie manifestazioni. Le pagine oggetto della decisione di Facebook -insieme ai profili privati dei loro amministratori -erano utilizzate per la divulgazione di contenuti di propaganda in favore dell’organizzazione, facendo uso di simboli fascisti e razzisti che, a parere di Facebook, incitavano all’odio e alla discriminazione. Nella parte motiva del provvedimento di rigetto del ricorso presentato da Forza Nuova nei confronti di Facebook, il Tribunale romano ha, per prima cosa, richiamato il programma politico dell’organizzazione, che risulta agli occhi di tutti in contrasto con alcuni principi del nostro ordinamento, primo fra tutti il divieto, valido per tutte le forze politiche, di rifarsi esplicitamente all’ideologia fascista o nazista, al razzismo, alla xenofobia e di proclamare idee discriminatorie (ad esempio, Forza Nuova vorrebbe espressamente l’abrogazione delle leggi Scelba e Mancino, definendo le stesse come leggi liberticide). Secondo il parere dell’organo giudicante, tenuto conto dei numerosi episodi che testimoniano la stretta vicinanza di Forza Nuova al fascismo, alla luce sia della normativa interna e sovranazionale, che del Codice di condotta RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 sottoscritto da Facebook insieme alla Commissione europea, è stata assolutamente legittima la decisione di addivenire alla risoluzione del contratto e alla sospensione del servizio, dal momento in cui è senza dubbio possibile ascrivere il partito entro la definizione di “organizzazione d’odio”. Ma i giudici si spingono oltre, asserendo che Facebook aveva il dovere giuridico di agire in tal senso, rischiando altrimenti di incorrere in responsabilità. A ciò devono essere aggiunti i diversi episodi in cui vari esponenti di Forza Nuova si sono resi protagonisti di veri e propri discorsi d’odio o hanno comunque supportato o elogiato l’attività del partito, circostanza che secondo la Corte legittima la contestuale sospensione dei loro account privati, in quanto tali comportamenti si pongono anche in aperto contrasto con gli Standard della Community sopra richiamati. Il Tribunale di Roma si è espresso anche in merito alla proporzionalità della misura adottata, asserendo che, poiché prima di giungere alla rimozione totale delle pagine e degli account, vi era stata reiteratamente da parte di Facebook la rimozione di singoli contenuti, la misura della sospensione si presentava come necessaria e adeguata. Segue lo stesso orientamento anche un’ordinanza del Tribunale di Siena (165), pronunciata nell’ambito di un ricorso ex artt. 669-bis e ss. e 700 c.p.c., anch’essa riguardo alla rimozione dell’account privato di un utente e della “pagina tematica” ad esso connessa. Anche in questo caso i contenuti divulgati erano attinenti allo svolgimento di attività politica e sono stati considerati in contrasto con gli Standard della Community, tanto da Facebook quanto dal Tribunale, che ha rigettato l’istanza del ricorrente. Risulta di diverso avviso, invece, il Tribunale di Roma -sia in prima fase che in sede di reclamo -nell’ordinanza resa in data 14 febbraio 2020 (nell’ambito della causa n. 80961/19) (166), a seguito del ricorso promosso da parte di Casapound Italia contro Facebook, che aveva rimosso la pagina dell’Associazione e del profilo personale di uno dei suoi esponenti. Il Collegio giudicante, sebbene abbia ritenuto -in difformità rispetto a quanto affermato dall’ordinanza reclamata -che il rapporto fra le parti vada inquadrato tra i contratti ordinari di diritto civile e che, di conseguenza, la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente debba essere valutata alla luce dell’accordo negoziale stipulato fra le stesse, ha tuttavia (165) Testo accessibile su https://dirittodiinternet.it/wp-content/uploads/2020/01/ordinanzaSiena. pdf. (166) Il testo è disponibile su https://media2-col.corriereobjects.it/pdf/2019/politica/sentenzacpifb. pdf, con nota di I.M. LO PRESTI, “CasaPound, Forza Nuova e Facebook. Considerazioni a margine delle recenti ordinanze cautelari e questioni aperte circa la relazione tra partiti politici e social network”, cit.; vedi anche il commento di P. VILLASCHI, “Facebook come la rAI?: note a margine dell’ordinanza del Tribunale di roma del 12.12.2019 sul caso CasaPound c. Facebook”, disponibile sul sito https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2020_2_24_Villaschi.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà puntualizzato che risulta preclusa all’autonomia privata la possibilità di limitare i diritti costituzionali di una delle parti. In altri termini, il rispetto dei diritti fondamentali -in questo caso, la libertà di iniziativa economica privata, ex art. 41 Cost. e la libertà di manifestazione del pensiero e di associazione, rispettivamente riconosciute dagli artt. 21 e 18 Cost. -si pone quale limite invalicabile dell’autonomia privata. Nello specifico, i giudici hanno respinto il reclamo presentato da Facebook sulla base dell’assunto che quest’ultimo, avente natura di soggetto privato, non sia legittimato ad esprimersi sulla liceità o meno dell’Associazione in quanto tale, potendo limitarsi esclusivamente a contestare la violazione delle regole contrattuali che ne disciplinano il reciproco rapporto. In particolare, l’organo giudicante ha evidenziato che Facebook aveva giustificato la chiusura delle pagine e la sospensione dell’erogazione del servizio nei confronti del singolo utente privato, sulla base di valutazioni concernenti il complesso dell’attività politica di Casapound, ed in particolare l’esplicito richiamo di questa all’ideologia fascista. A parere di Facebook, ciò costituiva, infatti, una forma di sostegno a “politiche incompatibili a quelle del Servizio Facebook”, sufficiente a legittimare la recessione dal contratto da parte dello stesso. Tuttavia, nonostante il Tribunale ammetta che la compatibilità dell’associazione con le condizioni contrattuali debba essere valutata anche alla luce della sua natura intrinseca, i Giudici sottolineano che la valutazione inerente alla liceità dell’organizzazione vada compiuta con riferimento alla disciplina pubblicistica, assumendo quale riferimento i limiti posti dall’art. 18 Cost., come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, e la successiva normativa a tutela del valore dell’uguaglianza. Per quanto concerne il richiamo all’art. 18 -a norma del quale la libertà di associazione dei cittadini incontra, quale unico limite, il perseguimento di fini vietati ai singoli dalla legge penale -potrebbe rilevare, nel caso di specie, in virtù del divieto di ricostituzione del partito fascista sancito dal nostro ordinamento. Senonché, la fattispecie in esame richiederebbe la sussistenza di un pericolo in concreto, attinente alle finalità specifiche e alle modalità di azione della forza politica, non essendo sufficiente il solo richiamo all’ideologia fascista. Secondo il Collegio, inoltre, nel caso di specie non rileverebbe nemmeno la disciplina che lega l’illiceità dell’associazione all’incitamento all’odio, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, poiché, nella prospettazione data da Facebook, tali elementi sarebbero riconducibili all’attività di Casapound esclusivamente sulla base dell’inscindibilità di questi aspetti dall’ideologia e dall’esperienza del fascismo. Questo è un criterio che, secondo il Tribunale, non può che dirsi arbitrario, costituendo un’inaccettabile estensione dell’applicazione della norma penale -come noto soggetta al principio di tipicità -e un’illegittima limitazione del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 In altre parole, gli elementi dedotti in giudizio non sono, secondo il Giudice, sufficienti a permettere di affermare che Casapound sia un’associazione illecita secondo l’ordinamento generale, tenuto conto che la valutazione svolta è limitata all’oggetto del giudizio in essere. Inoltre, nel valutare la sussistenza o meno del periculum in mora, il Tribunale ha evidenziato la rilevanza del servizio reso da Facebook in riferimento alla partecipazione al dibattito politico. La gravità del pregiudizio subito da Casapound viene, altresì, rapportata al numero di utenti della piattaforma. Dal punto di vista politico, la nascita di una Commissione parlamentare competente per il tema dell’incitamento all’odio e la proposizione, nel corso degli ultimi anni, di diversi disegni di legge finalizzati a colmare l’attuale lacuna dell’ordinamento, sono la piena testimonianza del fatto che anche dal punto di vista normativo c’è stata grande attenzione verso il tema dell’hate speech. Nel 2019, infatti, è stato presentato in Parlamento il primo disegno di legge DDL Cirinnà, volto a disciplinare e arginare il fenomeno dell’hate speech in Italia, denominato “misure per il contrasto del fenomeno dell’istigazione all’odio sul web” (167). All’interno della relazione introduttiva, vi è l’illustrazione del quadro normativo europeo e sovranazionale vigente, a dimostrazione del fatto che il legislatore italiano ha come obiettivo quello di garantire coerenza e continuità rispetto a quanto già fatto in materia. L’art. 1 della proposta di legge, nel definire le finalità del progetto, individuate nella volontà di “prevenire e sanzionare il fenomeno dell’istigazione all’odio sul web”, richiama espressamente la decisione quadro 2008/913/GAI e il protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informativa. I soggetti destinatari della proposta sono i c.d. “gestori informatici”, come vengono definiti dalla legge in materia di cyberbullismo, mentre invece, le condotte sanzionate coincidono con quelle previste in materia di discriminazione etnica, razziale e religiosa, ma con esplicito richiamo all’ambito della rete. Una delle novità più interessanti è quella prevista dall’art. 4, che vorrebbe introdurre, nel nostro ordinamento, lo specifico delitto di istigazione all’odio in rete. La fattispecie, di nuova introduzione, consentirebbe di sanzionare fenomeni che, sebbene rechino già pregiudizio agli utenti, non sono attualmente rilevanti per la disciplina penale. Se si prende in esame il tradizionale reato di diffamazione ex art. 595 c.p., infatti, si noterà che esso tutela la reputazione soltanto individuale, escludendo le ipotesi in cui espressioni offensive e lesive siano rivolte ad intere categorie o gruppi di persone, e non ad un soggetto specifico. (167) Accessibile da https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01124878.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà La nuova fattispecie, inoltre, troverebbe collocazione fra i delitti contro l’uguaglianza, al fine di garantire la piena tutela a tutte le categorie oggetto di fenomeni di istigazione all’odio. Si tenga presente che l’art. 5 introduce nuovi obblighi in capo ai gestori dei siti web, in materia di segnalazione e rimozione di post dal contenuto illecito. Per prima cosa, questi sono tenuti a mettere a disposizione degli utenti in rete una procedura che sia chiara, semplice e sempre attiva, idonea a formulare le proprie segnalazioni. Quest’ultime saranno, poi, valutate da un organismo di autoregolazione, composto da analisti e periti indipendenti, e, nel caso venga espresso parere positivo, il gestore dovrà provvedere alla rimozione del post nel termine di 24 ore dalla segnalazione, salvo che intervenga un diverso accordo con le autorità competenti. L’art. 6 sancisce, inoltre, l’obbligo per i gestori dei siti web di redigere un rapporto semestrale sulle segnalazioni ricevute, distinguendo le stesse a seconda dell’oggetto e del motivo ed indicando l’esito di ciascuna. Tale rapporto deve venire poi pubblicato sulla homepage del sito, affinché sia facilmente fruibile dagli utenti. Nel caso di violazione di tali obblighi da parte dei gestori dei siti, possono essere irrogate nei loro confronti delle sanzioni amministrative pecuniarie, la cui entità può variare a seconda del tipo di violazione, della gravità e dell’eventuale reiterazione della condotta. Si evidenzia che, da ultimo, è stato presentato alla Camera il c.d. DDL Boldrini, denominato “misure per la prevenzione e il contrasto della diffusione di manifestazioni d’odio mediante la rete internet” (168). Si parte, anche qui, dalla considerazione che la rete sia ormai diventata lo strumento di diffusione di idee e messaggi più potente di qualunque altro e che il suo utilizzo errato o distorto si possa concretizzare in severe forme di discriminazione di alcune categorie, soprattutto minoranze, sulla base del- l’orientamento sessuale, della razza o del genere. Nel seguire l’esempio di altri Paesi europei, che si sono già dotati di una normativa specifica in materia di hate speech (v. supra il riferimento alla Germania), lo scopo dichiarato è quello di andare a regolamentare questa fattispecie specifica, che presenta connotati ben diversi rispetto alla tradizionale figura dell’incitamento all’odio, proprio in ragione della maggiore invasività del web come strumento di diffusione. Il presupposto di tale ragionamento è che la regolamentazione di Internet sia divenuta non solo cosa possibile, bensì strettamente necessaria. Il DDL Boldrini, all’art. 1, dichiara in maniera esplicita lo scopo della proposta di legge, ossia la tutela delle dignità, libertà personale e salute psicofisica dei fruitori del web, messe a serio rischio da comportamenti che continuamente incitano, promuovono o incoraggiano l’odio. (168) Il testo del DDL è disponibile su http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera. 2936.18PDL0133410.pdf. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Per raggiungere tale precipua finalità, si è optato per una maggiore responsabilizzazione dei gestori dei siti, chiamati a contribuire alla prevenzione e al contrasto di tali fenomeni, anche limitando la diffusione di fake news. È un elemento che si ricollega alla tematica della diffamazione a mezzo social (169), di cui si parlerà più avanti. Il prevalente orientamento giurisprudenziale ritiene che sia sufficiente, affinché il diritto di cronaca/critica prevalga sull’interesse del soggetto diffamato, scriminando la condotta, che sia presente la c.d. verità putativa. Questo esplicito riferimento del progetto di legge alla verità dei fatti potrebbe contribuire a modificare tale orientamento nel senso di riconoscere maggiore rilevanza alla dignità della persona e al diritto di quest’ultima di ottenere l’accertamento della realtà. È anche prevista la modifica di diverse disposizioni del codice penale, allo scopo di favorire la rimozione di contenuti illegali dal web. Anche qui, come nel DDL Cirinnà, è riconosciuto agli utenti del servizio web il diritto di segnalare la presenza di contenuti manifestamente illeciti, per ottenerne la rimozione. Il gestore del sito web è obbligato a mettere a disposizione dei fruitori una procedura semplice, chiara e trasparente per effettuare la segnalazione. Anche in questo caso, inoltre, l’esame della segnalazione è rimesso ad un organismo di autoregolamentazione, di cui fanno parte “esperti dotati di ampie e diverse competenze e di esperienza, che non presentino cause di conflitto di interessi tali da comprometterne l’indipendenza del giudizio e delle decisioni prese”. Il gestore del sito internet deve farsi carico degli oneri di gestione del suddetto organismo, mentre la definizione dell’ambito e della struttura delle verifiche è rimessa a norme procedurali ispirate ad un codice etico di comportamento, trasparente e accessibile agli utenti. Se il parere dell’organismo risulta negativo, è ammesso il ricorso al Garante per la protezione dei dati personali. Il gestore del sito è, in ogni caso, legittimato a segnalare la presenza di un contenuto manifestamente illecito direttamente, in assenza di specifica segnalazione da parte dell’utente, ed è tenuto a garantire che il medesimo contenuto non venga nuovamente caricato o condiviso. I gestori dovranno, inoltre, redigere un resoconto delle segnalazioni pervenute, con specifici obblighi nel caso in cui il numero di queste ultime sia particolarmente elevato. Il Garante per la privacy può anche irrogare sanzioni (169) Sul tema v. anche M. PELISSERO, “La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso”, in QuestG, 2015, 38; L. ALESIANI, “I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale”, Milano, 2006; C. CALVERT -J. BROWN, “Video Voyeurism, Privacy and the Internet: exposing Peeping Toms in Cyberspace”, in Cardozo Arts Entertainment Law Journal, 2000, 469 ss.; J. CLOUGH, “Principles of Cybercrime”, Cambridge, 2010, 388 ss.; D. ORMEROD, “Voyeurism: Elements of offencePrivacy- reasonable Expectation of Privacy”, in CrimLawreview, 2008, 12 ss. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà -la cui entità è commisurata alla gravità della violazione -in caso di violazione degli obblighi in materia di segnalazione, oscuramento, rimozione o blocco di contenuti illeciti e resoconto da parte dei gestori. Per quanto concerne l’art. 8, esso interviene sul diritto all’oscuramento, alla rimozione o al blocco della diffusione dei propri dati o immagini personali nella rete, ampliandone la portata rispetto alle fattispecie di cui all’art. 167 del D.lgs. n. 196/2003 e includendovi anche ipotesi escluse dall’art. 4 del medesimo disegno di legge o da altre norme incriminatrici. È, infatti, riconosciuto a chiunque (ivi compresi i soggetti di minore età; se ultraquattordicenni, i minori possono agire personalmente) il diritto ad ottenere, in qualsiasi momento, l’oscuramento, la rimozione o il blocco di propri dati o immagini ritenuti offensivi o lesivi della propria dignità, identità e libertà personale, tramite istanza presentata al titolare del trattamento. Nel caso in cui questo dia tempestivamente seguito alla richiesta o non sia possibile identificarlo, l’istanza può essere presentata direttamente al Garante della Privacy. La legittimità della richiesta di rimozione del contenuto può altresì essere contestata innanzi al Garante, le cui decisioni sono suscettibili di ricorso innanzi al giudice ordinario. Il Garante ha il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti del gestore sul web, il cui ammontare può variare da 500.000 a 5.000.000 euro, sulla base della gravità e della reiterazione della condotta. Il meccanismo di tutela appena descritto coincide con quanto già previsto in materia di diritto all’oblio e cyberbullismo, ed è stato richiamato e lodato dal Presidente del Garante della Privacy, il Professor Pasquale Stanzione, nel corso dell’audizione tenutasi il 13 luglio 2021 (170), il quale lo ha definito un utile strumento di tutela dei diritti della personalità online, capace di conciliare l’esigenza di rimozione dei contenuti con la riserva all’autorità pubblica della decisione di ultima istanza, in linea con il difficile bilanciamento di interessi da svolgere secondo le indicazioni della CGUE e della Corte EDU. È interessante evidenziare che il coinvolgimento del Garante è funzionale al rispetto delle libertà fondamentali, sottratte a valutazioni compiute esclusivamente da soggetti privati, arginando il rischio di comportamenti arbitrari e abusivi. Il Presidente, inoltre, si è espresso in senso favorevole all’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’art. 167 del Codice Privacy, che si occupa del delitto di trattamento illecito di dati personali: si suggerisce la reintroduzione del consenso tra i requisiti di illiceità speciale (come prima della riforma di cui al D.lgs. 101/2018; la disciplina attuale ha infatti limitato la fattispecie alle sole attività di telemarketing). Si sta andando verso la stessa direzione di quella emersa in ambito europeo, come dimostrato dal c.d. Digital Services Act (171), la proposta di Rego (170) V. https://www.garanteprivacy.it/home/attivita-e-documenti/documenti/audizioni. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 lamento presentata dalla Commissione nel dicembre 2020. La proposta italiana va ad imporre, infatti, degli specifici obblighi in capo ai gestori delle piattaforme digitali, mirando alla responsabilizzazione di questi ultimi, proprio con riferimento alla rimozione di contenuti illegali, fra i quali rientrano senz’altro i contenuti di hate speech. Non è un caso, infatti, che già nel corso dei lavori di preparazione della bozza di provvedimento -anch’esso fortemente influenzato dalla nuova normativa tedesca -sia emersa la rilevanza di tali disposizioni nel contesto dell’hate speech. Per quanto concerne la responsabilità dei gestori e la prevenzione di comportamenti illeciti, è importante anche il parere espresso dall’AGCOM in merito all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale come strumento di monitoraggio. Viene, in tal caso, incoraggiato lo sfruttamento delle nuove tecnologie, che deve avvenire non in sostituzione dell’attività umana, bensì in suo supporto. L’approccio sin qui delineato potrebbe contribuire, senza dubbio, ad agevolare l’adempimento degli obblighi che s’intende imporre in capo ai gestori dei siti. L’Autorità garante delle comunicazioni ha già aderito al progetto ISmyPP (172), il quale vuole arrivare allo sviluppo di tecniche per la rilevazione automatizzata dei discorsi d’odio, che assume particolare rilevanza nell’ambito del recepimento della Direttiva (UE) 1808/2018 (Direttiva SMAV) (173), con la quale viene esteso l’ambito di applicazione delle norme in materia di contrasto all’hate speech anche alle piattaforme di video sharing. Tuttavia, poiché la rimozione di contenuti dal web costituisce comunque una limitazione del diritto alla libertà d’espressione, ammissibile solo in presenza di specifiche circostanze, si è diffusa la tendenza che vuole escludere che i processi di monitoraggio siano totalmente automatizzati, dovendo comunque essere garantito il controllo umano volto ad evitare errori eventuali. Una delle decisioni assunte dall’oversight Board istituito da Facebook, un Comitato interno alla società e preposto a valutare l’adeguatezza delle decisioni concernenti la rimozione dei post, è rilevate in tal senso. Trovatosi ad affrontare la questione a seguito della cancellazione di un post per la sensibilizzazione sul tumore al seno, raffigurante foto di donne che avevano subito operazioni, il Comitato ha sostenuto che la decisione assunta dall’algoritmo era sbagliata: non era stata rilevata correttamente la descrizione dell’immagine, nella quale si chiariva lo scopo del post. Il Comitato, dunque, si è espresso proprio nel senso di ribadire la necessità di un controllo umano rispetto alle decisioni algoritmiche, a tutela delle libertà fondamentali dell’individuo. (171) Accessibile da https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0825&from=en. (172) Disponibile su https://www.agcom.it/956. (173) V. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018L1808&from=pl. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Per quanto riguarda la partecipazione dell’AGCOM, bisogna segnalare che l’Autorità ha già approvato un proprio Regolamento, rivolto in primo luogo ai fornitori di servizi media audiovisivi e radiofonici (174), invitati a promuovere i temi dell’inclusione, della coesione sociale, della promozione della diversità e dei diritti fondamentali (175). Ebbene, l’AGCOM ha avviato delle interlocuzioni con le maggiori piattaforme (come Google e Facebook), proprio alla luce della crescente rilevanza della diffusione dei contenuti sulla rete e del potere riconosciuto all’Autorità di promuovere, mediante procedure di co-regolamentazione, l’adozione da parte delle piattaforme di misure volte a contrastare la diffusione sui social di contenuti lesivi della dignità umana. È evidente che l’Autorità punta a raccogliere informazioni sui criteri e le procedure già in essere per la segnalazione e la rimozione dei contenuti d’odio, volendo raggiungere l’obiettivo di favorire l’adozione di misure ulteriori (es. codici di condotta). Al fine di assicurare l’efficacia di tali misure, l’AGCOM ha anche avviato un’indagine conoscitiva (176), volta a valutare l’impatto delle piattaforme sull’economia e sulla società, classificando i servizi offerti da queste ultime e valutandone le potenzialità, le problematiche e gli effetti. 11. La figura degli influencer. Il mondo dei social media, e soprattutto il modo in cui questi vengono utilizzati dai c.d. influencer, sta avendo un grande impatto anche per quanto concerne la materia relativa alla tutela dei marchi e della pubblicità occulta. L’AGCM, consapevole della portata della questione, ha mostrato una grande attenzione verso quest’ultima fattispecie, scegliendo di modificare il proprio approccio nell’ultimo periodo. Piuttosto che limitarsi a pronunce di soft law (177), sono state recentemente avviate, infatti, vere e proprie indagini istruttorie nei confronti delle imprese digitali, con lo scopo di spronarle all’adeguamento alla disciplina vigente. Dal momento che l’attività del c.d. influencer marketing (178) ricade (174) Accessibile da https://www.agcom.it/documents/10179/539471/Delibera+607-10CoNS/ 13bf547f-48e6-4f22-94f4-b82a46bb41e3?version=1.0&targetExtension=pdf. (175) Si segnala che lo stesso impegno era già stato richiesto anche ai social media e ai servizi online, proprio in ragione dell’interazione fra i diversi mezzi di comunicazione; tuttavia, a differenza di quanto previsto per i media tradizionali, si trattava esclusivamente di un invito all’autodisciplina. (176) Disponibile su https://www.agcom.it/documents/10179/5041493/Delibera+309-16CoNS/ 7f6d711a-ac5d-48b1-9b30-faa27d6a1ecb?version=1.0. (177) Le prime pronunce di “moral suasion” dell’AGCM risalgono alle estati del 2017 e del 2018, con riferimento rispettivamente agli influencer più noti e ai c.d. micro-influencer. (178) Di influencer marketing si parla già in un articolo di G. SATELL, “3 reasons to Kill Influencer marketing”, su Harvard Business review, 2014; v. anche S. SARDELLA, “Influencer marketing e Fashion Law”, su iusinitinere.it, 19 aprile 2020. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 nell’ambito di applicazione del Codice del Consumo, non è raro che si vadano a configurare ipotesi di pubblicità occulta a danno del consumatore. Per ovviare a tale pericolosa situazione, è stato necessario l’intervento dello IAP, che ha reso pubblica la Digital Chart (179), che consiste in un documento -condiviso anche dall’AGCM -con cui sono fornite delle precise indicazioni per quanto riguarda le misure che gli influencer devono adottare al fine di rendere esplicita la finalità commerciale delle loro comunicazioni social (posts, stories), a seconda del tipo di contenuto che viene pubblicato e della natura del rapporto che lega l’influencer al titolare del marchio. Ed è sulla base di questa più limpida regolamentazione che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha iniziato ad intervenire. Si pensi ai casi che hanno coinvolto Alitalia e Barilla: sono la testimonianza dell’attenzione dell’Autorità anche verso le più recenti evoluzioni del fenomeno. Per quanto concerne la tutela dei marchi, invece, vengono in rilievo anzitutto le questioni legate all’utilizzo degli hashtag; si pensi, ad esempio, alla possibilità di applicare a questi ultimi la disciplina propria dei segni distintivi. Recentemente, la giurisprudenza si è espressa sui marchi celebri, in un caso che ha visto protagonista la Ferrari (180). La pronuncia in questione ha suscitato grande interesse, da un lato perché si tratta di una delle primissime applicazioni del Codice della Proprietà Industriale al nuovo e specifico contesto dei social network, dall’altro perché vi si trova una grande estensione della tutela riconosciuta al titolare del marchio, al di là della funzione distintiva propria dello stesso. Più in generale, la diffusione di casi in cui il marchio celebre altrui è utilizzato non in funzione distintiva, bensì di agganciamento, è un tema che sta suscitando molto interesse. In alcuni casi, addirittura, il marchio viene utilizzato in maniera occulta, in funzione della presentazione di prodotti di concorrenti (ad esempio nei marketplace e nei recommender system). Sul tema, per quanto concerne l’ambito europeo e la legislazione europea, il riferimento obbligato è al “Social media discussion paper”, rilasciato dal- l’Ufficio dell’UE per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), il quale ha evidenziato ed esaminato le violazioni di diritti IP in cui è possibile incorrere attraverso l’utilizzo dei social media; contestualmente, è stata suggerita l’adozione di al (179) Per la disciplina del Regolamento Digital Chart si veda M. RACO, “La Digital Chart: una prima regolamentazione dell’influencer marketing”, su iusinitinere.it, 5 maggio 2020; v. anche C. PAPPALARDO, “Influencer e Autodisciplina pubblicitaria -prime applicazioni della Digital Chart”, su De- Jure. (180) Il caso è sorto a seguito di un reclamo cautelare presentato dalla Ferrari S.p.A. contro un famoso stilista tedesco, accusato di aver pubblicato, sul suo profilo social di Instagram, numerosi post e stories pubblicizzando calzature accanto al cofano della nota auto di lusso che porta il marchio Ferrari. Il Tribunale di Genova, con ordinanza n. 15949 del 30 gennaio 2020, pubblicata il 4 febbraio, ha ritenuto che il marchio fosse da considerarsi notorio, e che lo stilista influencer lo abbia utilizzato in maniera scorretta (v. infra). LEGISLAzIONE ED ATTUALITà cune good practices allo scopo di impedire -o quantomeno arginare -gli effetti negativi che ne potrebbero derivare. Anche la Corte di Giustizia è intervenuta sul tema relativo alle regole procedurali applicabili nel caso di azioni civili promosse per la contraffazione di marchi europei e nazionali, in cui siano parti due o più Stati Membri. Non è una novità, dunque, che l’avanzare dell’utilizzo di Internet, e soprattutto la diffusione dei social network, stiano modificando, rivoluzionandolo del tutto, il mondo della pubblicità e della tutela dei marchi. Anzitutto, è necessario volgere lo sguardo alle problematiche poste dalla pubblicità occulta e dalla tutela degli utenti-consumatori. Nel nostro ordinamento, è in particolare il Codice del Consumo a fornire le direttive che devono essere seguite nell’ambito delle attività pubblicitarie. Le regole ivi contenute, infatti, tutelano il consumatore tramite la predisposizione di norme finalizzate a garantire la massima trasparenza; è necessario, come prima cosa, assicurarsi che il destinatario del messaggio pubblicitario sia posto nella facoltà di discernere la natura commerciale di una data comunicazione, attraverso l’inserimento di appositi disclaimer. Per applicare questa disciplina è stato inevitabile un confronto con l’evoluzione delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione, dapprima con riferimento alle opere audiovisive e, da ultimo, ai social network. Per quanto riguarda quest’ultimo profilo, con l’espressione “influencer marketing” (181) si intende -secondo una definizione condivisa dall’Autorità Garante per la Concorrenza e per il Mercato -“una modalità consolidata di comunicazione, consistente nella diffusione su blog, vlog e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, YouTube, Snapchat, myspace) di foto, video e commenti da parte di blogger e influencer che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario”. Differentemente dal caso dei tradizionali canali di pubblicità, l’AGCM ha rilevato che la condivisione da parte degli influencer, sul proprio profilo privato, genera nell’utente-consumatore la sensazione di una maggiore credibilità del messaggio, poiché questo è inserito “in un flusso che dà l’impressione di una narrazione privata della quotidianità dell’influencer, che coinvolge i destinatari nel proprio racconto”. Il fenomeno in esame è talmente diffuso che, ormai, si assiste anche ad una sua evoluzione, che può essere ravvisata nel coinvolgimento sempre maggiore di soggetti che non godono di un numero di followers così elevato (si tratta dei c.d. microinfluencer). (181) Per un’analisi del fenomeno dell’influencer marketing, v. anche J. CIANI, M. TAVELLA, “La riconoscibilità della natura pubblicitaria della comunicazione alla prova del digital: native advertising tra obbligo di disclosure e difficoltà di controllo”, in “Social media e diritto. Diritti e social media” della rivista Informatica e Diritto, 2017. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Analizzando la disciplina del Codice del Consumo, agli artt. 22 e 23 in materia di pubblicità occulta -che sicuramente trovano applicazione anche qui -notiamo che le norme impongono l’adozione di specifici accorgimenti che consentano al consumatore di identificare in maniera chiara la presenza di un messaggio pubblicitario. Nel caso specifico dei messaggi pubblicitari veicolati attraverso i social network, è interessante analizzare l’intervento dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). L’istituto ha pubblicato la “Digital Chart” (182), un importante documento che riporta le regole e le misure che tutti gli influencer sono obbligati a rispettare affinché l’attività di pubblicizzazione dei prodotti delle loro imprese digitali soddisfi il requisito della c.d. “riconoscibilità”. Si tratta della necessità che, al di là dello strumento utilizzato per porre in essere la comunicazione commerciale, se ne deve sempre garantire la piena riconoscibilità. La Digital Chart, che nell’ambito dell’accordo-quadro stipulato fra l’AGCM e l’Istituto (183) ha trovato anche l’approvazione dell’Autorità, distingue varie ipotesi, a seconda del tipo di contenuto condiviso sui social. La prima ipotesi analizzata è quella del c.d. “endorsement”, che si sostanzia nell’attività di chi accredita un prodotto per persuadere il pubblico al suo acquisto (184). All’interno di questa fattispecie, bisogna ulteriormente distinguere due casi: il caso in cui il rapporto fra il titolare del brand e l’influencer sia un rapporto di committenza e il diverso caso in cui il rapporto abbia natura meramente occasionale (es. invio gratuito di prodotti o dietro modico corrispettivo). Nel caso di rapporto di committenza, è necessario che la natura commerciale della comunicazione social sia resa esplicita tramite l’inserimento -nella caption che accompagna il post o le stories (in modo tale che la dicitura sia ben visibile rispetto agli elementi promozionali) -di diciture quali “Pubblicità/ Advertising”, o “Promosso da…brand/Promoted by…brand”o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand”, o “in collaborazione con… brand/In partnership with…brand”; e/o nel caso di un post entro i primi tre hashtag, purché di immediata percezione, una delle seguenti diciture: “#Pubblicità/# Advertising”, o “#Sponsorizzato da…brand/#Sponsored by…brand”, o “#ad” unitamente a “#brand”. (182) Regolamento Digital Chart sulla riconoscibilità della comunicazione commerciale diffusa attraverso internet, emanato nel 2016 dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, disponibile qui https://www.iap.it/wp-content/uploads/2016/05/Digital-Chart-IAP-VErSIoNE-oNLINE.pdf; sul tema vedi anche E. NUNzIANTE, “Influencer e pubblicità, quale trasparenza: che fare”, su agendadigitale.eu, 30 ottobre 2019; G. IOzzIA, “Influencer marketing e quadro normativo”, su altalex.com, 17 luglio 2019. (183) Il testo dell’accordo è disponibile su https://www.iap.it/wp-content/uploads/2018/06/Accordo- quadro_AGCom_IAP_amc.pdf. (184) Vedi anche R. MAzzUCCONI, “L’influencer marketing e il rapporto di endorsement tra aziende e influencers: profili giuridici e derive illecite”, su cyberlaws.it, 21 maggio 2020. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà Se il rapporto tra il brand e l’influencer ha natura meramente occasionale, invece, è sufficiente che l’influencer inserisca un disclaimer del tenore di “prodotto inviato da…brand”, o equivalente. La particolarità, qui, è che l’inserzionista è in ogni caso tenuto, al momento dell’invio del prodotto, ad informare l’influencer riguardo quest’ultimo obbligo. Allo stesso modo, anche nella seconda ipotesi, ossia nel caso in cui la comunicazione commerciale sia diffusa sul web mediante un video (185), bisogna distinguere a seconda della natura del rapporto giuridico esistente fra le parti. Se fra inserzionista e influencer esiste un rapporto di committenza, la Digital Chart richiede che sia la descrizione del video che le scene iniziali dello stesso debbano riportare delle avvertenze scritte che ne rendano chiara ed esplicita la natura commerciale; si precisa che, nei video in streaming, queste avvertenze devono essere ribadite nel corso della trasmissione. I disclaimer devono altresì comparire alla fine del video, nonché ogni volta che siano inquadrati in maniera specifica i prodotti inseriti a fini commerciali. Nel caso in cui, invece, le parti siano legate da un rapporto meramente occasionale, l’influencer può limitarsi ad inserire in apertura del video un disclaimer, che può essere sia in forma verbale che in forma scritta, del tenore di “questo prodotto mi è stato inviato da…”; in questo caso, resta ferma la responsabilità dell’inserzionista di informare l’influencer sull’esistenza di tale obbligo. A causa della violazione di queste ultime regole, l’AGCM potrebbe irrogare una sanzione nei confronti dei cantanti Fedez, Orietta Berti e Achille Lauro per il videoclip caricato su Youtube del brano musicale “mille” (186). Lo scorso settembre, infatti, è pervenuta una segnalazione del Codacons, e l’Autorità ha aperto un’indagine istruttoria per verificare la configurabilità di pubblicità occulta in favore del marchio Coca-cola. Secondo il comunicato stampa diffuso dal Codacons, il motivo della contestazione non sarebbe tanto il testo del brano musicale, libera espressione dell’artista, quanto il video promozionale dello stesso, che non reca indicazioni sufficienti a chiarire la natura commerciale della comunicazione, mostrando durante l’intero video, in più occasioni, il marchio della nota bevanda. Per quanto riguarda la terza ipotesi, si tratta della fattispecie in cui la promozione del prodotto avvenga esclusivamente mediante l’invito dell’influencer (185) Per un accurato approfondimento del Product Placement si veda M. RACO, “Product placement ai limiti della pubblicità occulta: Baby K e Chiara Ferragni per Pantene”, su iusinitinere.it, 3 gennaio 2021; P.F. CARBALLO -CALERO, “Pubblicità occulta e product placement”, Cedam, 2004; vedi anche V. D’ANTONIO e D. TARANTINO, “Il product placement nell’ordinamento italiano: breve fenomenologia di uno strumento pubblicitario”, in Comparazione e Diritto Civile, 2011. (186) V. “Pubblicità occulta alla Coca Cola nel video di “mille”: Fedez rischia una multa di 5 milioni dall’Antitrust”, su codacons.it, 5 settembre 2021; E. SIMIONATO e M.E. ORLANDINI, “Fedez, mille e Coca Cola: è davvero pubblicità occulta?”, su iusinitinere.it, 8 luglio 2021. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 a partecipare ad un determinato evento. Poiché la fattispecie dà luogo ad un rapporto occasionale, secondo la disciplina della Digital Chart l’influencer deve solamente informare il pubblico, dal momento in cui fa pubblicità dei contenuti riguardanti l’evento, che la propria partecipazione è legata ad invito da parte del professionista (il quale comunque rimane obbligato ad informare in tal senso). Per quanto concerne i contenuti generati dagli utenti (c.d. “user generated content”), è parimenti richiesta l’adozione di una delle misure su indicate per precisare la natura della comunicazione. A tal proposito, si segnala che l’Autorità Garante ha recentemente avviato un’indagine istruttoria (187) dopo che alcuni noti influencer avevano pubblicato post e stories chiedendo ai propri followers di ripubblicare (c.d. repost) loro contenuti con l’utilizzo di specifici tag e hashtag riconducibili alla promozione del prodotto Glo Hyper. In questo caso viene in rilievo, più che altro, il problema relativo all’attività pubblicitaria posta in essere indirettamente dagli utenti, e i quesiti che ci poniamo sono i seguenti: qual è la natura degli ulteriori post pubblicati dagli utenti? Qual è, inoltre, l’impatto che ne deriva sugli altri utenti? È normale che sia molto più complicato, in questo caso, riconoscere in maniera lampante la natura commerciale delle comunicazioni. Non a caso, nel comunicato stampa divulgato dall’AGCM il 21 maggio 2021, si legge: “L’intervento si inserisce nell’ambito di un filone di indagine che, seguendo le evoluzioni delle tecniche di marketing adottate sui social media, punta a colpire le comunicazioni apparentemente neutrali e disinteressate ma in realtà strumentali a promuovere un prodotto e, come tali, in grado di influenzare le scelte del consumatore”. Secondo la nuova disciplina, occorre inserire disclaimer anche in altri casi riconducibili alle seguenti ipotesi: “In-feed units” (ossia contenuti redazionali), “paid search units” (risultati di ricerca sponsorizzati), “in App advertising” (app con contenuto pubblicitario), “recommendation widgets” (contenuti raccomandati) e “advergame” (giochi promozionali). Bisogna ora porre l’attenzione sull’evoluzione che l’approccio adottato nei confronti degli influencer dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avuto negli ultimi anni. In passato, l’approccio dell’Antitrust si è sempre limitato all’adozione di decisioni di moral suasion: si trattava di strumenti di soft law, di meri inviti, diretti alle imprese digitali, volti a far adeguare gli influencer alle disposizioni della Digital Chart e del Codice di autodisciplina dell’IAP. Ultimamente, invece, l’Autorità ha avviato diverse indagini per pubblicità occulta, a causa dell’importanza assunta da questo fenomeno sul mercato e (187) Accessibile da https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2021/5/PS12009; v. E. SIMIONATO, “AGCm e pubblicità occulta: aperto il procedimento istruttorio nei confronti di BAT e Stefano De martino, Cecilia rodriguez e Stefano Sala”, su iusinitinere.it, 1° giugno 2021. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà sulla concorrenza. E proprio tramite varie pronunce adottate dall’Autorità nell’ambito di questi procedimenti, sono state elaborate vere e proprie linee- guida, che permettono ad aziende e influencer di avere un punto di riferimento per adeguarsi alle misure e per adottare i giusti accorgimenti, al fine di evitare l’insorgenza di violazioni e l’irrogazione di sanzioni. Uno dei primi casi in cui si è pronunciata l’Autorità è quello relativo al- l’indagine per pubblicità occulta scaturita dalla pubblicazione, sui profili Instagram di diversi influencer, di post raffiguranti immagini di capi firmati da Alberta Ferretti in cui appariva inquadrato il logo di Alitalia, indagine conclusasi con l’importante Provvedimento n. 27787/19 (188). Si è configurata, nel caso di specie, una possibile violazione degli artt. 22 e 23, comma 1, lett. m) del Codice del Consumo, in quanto nella pubblicazione dei post suddetti sembrava chiaro l’intento promozionale, sia considerando la proporzionalità della citazione dei marchi, sia valutando il contesto in cui erano inseriti i post. Nonostante ciò, non era possibile, per l’utente consumatore che avesse visionato detti post, identificare chiaramente la natura commerciale della comunicazione. A seguito dell’apertura delle indagini istruttorie, Alitalia ha inoltrato alle imprese digitali coinvolte la raccomandazione ad adeguarsi alla normativa sulle pratiche commerciali scorrette. A ciò si è aggiunto, da un lato, l’impegno ad adottare specifiche linee-guida per definire le regole di condotta che gli influencer devono seguire, poiché parte dell’accordo di collaborazione commerciale stipulato con la società, e dall’altro, l’introduzione -nei contratti di co-marketing per la concessione della licenza del marchio Alitalia e nei contratti di licenza del marchio a fini promozionali -dell’obbligo per i partner commerciali di adottare tutte le misure e le cautele necessarie per evitare che si verifichino fenomeni di pubblicità occulta. Se suddetto obbligo viene violato, si attiva una specifica procedura di avvertimento, che potrebbe anche concludersi con l’irrogazione di una penale. Anche la società di riferimento del marchio di Alberta Ferretti, Aeffe, ha assunto impegni simili. Per quanto riguarda gli influencer coinvolti, essi si sono specificatamente impegnati a rispettare quanto previsto sull’utilizzo di hashtag e diciture varie nella pubblicazione dei post, al fine di rispettare la disciplina contenuta nella Digital Chart. Dal momento che gli impegni assunti dalle parti coinvolte sono stati ritenuti idonei, l’istruttoria si è conclusa senza accertamento di infrazione; tuttavia, l’Autorità ha ritenuto di ordinare alle parti suddette di dare attuazione (188) Testo del provvedimento disponibile su https://www.agcm.it/dotcmsCustom/tc/2024/6/getDominoAttach? urlStr=192.168.14.10:8080/C12560D000291394/0/E6B624BBD0F6A573C1258415004 9D1EE/$File/p27787.pdf; v. B. MANCA, “L’Antitrust apre istruttoria su Alitalia e Aeffe di Alberta Ferretti: nel mirino anche le foto di influencer: “pubblicità non riconoscibile”, su ilfattoquotidiano.it, 15 dicembre 2018. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 alle misure proposte, avvertendo che, in caso di mancata ottemperanza, sarà applicata una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 5.000.000 euro, nonché la sospensione dell’attività per un periodo non superiore a trenta giorni se l’inottemperanza sarà reiterata. Il secondo caso interessante da prendere in considerazione è quello relativo alla pubblicizzazione degli integratori alimentari prodotti da JuicePlus+. Il procedimento istruttorio -che si è concluso con il Provvedimento n. 27612/2019 (189) -ha visto l’azienda protagonista porre in essere attività di divulgazione di informazioni sulle caratteristiche e la natura dei prodotti tramite gruppi segreti di Facebook; alcuni rivenditori dell’azienda portavano i consumatori ad entrare nei gruppi a fini promozionali. I post contestati dal- l’Autorità narravano l’esperienza personale di alcuni consumatori, mentre in alcuni casi l’amministratore della pagina Facebook condivideva esperienze di consumo personale o esperienze di terzi. I contenuti della pagina erano accomunati da una forte enfatizzazione delle proprietà degli integratori e dei risultati ottenuti. Nell’indagine condotta dall’Autorità è emerso che alcuni dei soggetti che si presentavano come consumatori erano, in realtà, i rivenditori del prodotto. Ciò avveniva anche attraverso i profili privati degli stessi o all’interno di chat private su Whatsapp. Non solo, è emerso anche che le informazioni divulgate erano fuorvianti e inesatte, sia sotto il profilo della qualità e delle proprietà dei prodotti venduti, sia sotto quello della modalità di utilizzo degli stessi. L’istruttoria ha evidenziato, inoltre, che era stata la stessa azienda ad invitare i venditori a diventare “brand di se stessi”, promuovendo l’uso dei prodotti attraverso i propri profili sui social network e proponendosi come esempi da seguire nel proprio stile di vita. Il problema è che nelle operazioni e indicazioni dell’azienda non vi era alcun riferimento alla necessità di identificarsi chiaramente dinnanzi agli utenti-consumatori come venditori della stessa. Poiché, dunque, la condotta tenuta dalla società integra una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 21, 22, comma 2 e 23, comma 1, lett. aa) del Codice del consumo, l’Autorità ha accertato la violazione ed ha irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria di 1.000.000 di euro. Il terzo caso da prendere in considerazione è quello relativo alla società Barilla (Provvedimento n. 28167/2020) (190), la cui vicenda pone in luce l’evoluzione del fenomeno dell’influencer marketing, facendo venire in rilievo il coinvolgimento dei c.d. microinfluencer. Anche in questo caso -relativo alla pubblicazione di post della linea di prodotti “Pan di Stelle” -la contestazione (189) Accessibile da https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11050_scorr-sanz_omi.pdf. v. anche l’articolo “Vendite segrete integratori su Fb, Antitrust multa Juice Plus” su adnkronos.com, 15 aprile 2019. (190) Testo accessibile da https://www.agcm.it/dotcmsdoc/bollettini/2020/11-20_all.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà dell’Autorità riguardava la violazione delle norme dettate dal Codice del Consumo in materia di pubblicità occulta (191). Ebbene, poiché tutte le parti coinvolte hanno formulato delle proposte di impegni concernenti l’adozione di misure volte a garantire maggiore trasparenza nella divulgazione dei contenuti di natura commerciale, l’istruttoria si è conclusa solamente con la disposizione dell’obbligo di dare attuazione agli impegni formulati, senza alcuna irrogazione di sanzione. Poiché in questo caso peculiare ad essere coinvolti sono stati i c.d. microinfluencer, le misure di cui si è proposta l’adozione differiscono leggermente da quelle oggetto del provvedimento di Alitalia, ma rispondono alla medesima ratio e alla necessità di trasparenza e tutela del consumatore. Nell’analisi delle problematiche relative al nuovo mondo digitale, quella relativa al reparto di competenze fra le diverse autorità garanti che operano nel nostro Paese è sicuramente di grande rilievo. Complice la natura intrinsecamente trasversale dei problemi affrontati, urge un approccio sempre più sinergico tra le autorità, anche a causa della difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere nettamente fra le competenze attribuite all’una o all’altra istituzione. Per quanto riguarda, dunque, il fenomeno dell’influencer marketing (192), si rileva che, pur riguardando prevalentemente il tema del consumo e ricadendo dunque entro l’ambito di competenza dell’AGCM, ci sono alcuni profili che rendono auspicabile -se non addirittura necessario -il coinvolgimento di altre autorità, prima fra tutte l’AGCOM. Il commissario dell’AGCOM, Laura Aria, ha analizzato il tema, esaminando quale potrebbe essere l’impatto della Direttiva SMAV (Servizi Media AudioVisivi) e delle proposte della Commissione Europea sui mercati digitali (DMA e DSA), se le stesse fossero approvate. È noto che la crescente importanza delle piattaforme online ha portato alla necessità di regolamentare più compiutamente un settore che, fino a poco tempo fa, non era stato adeguatamente studiato nelle proprie peculiarità. Per quanto riguarda la nuova Direttiva SMAV, essa riconosce, per la prima volta, l’equiparabilità delle piattaforme di video sharing rispetto ai media tradizionali, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di responsabilità. E non solo. Da tale equiparazione deriva, infatti, la legittimazione dell’AGCOM ad intervenire per svolgere la propria attività di controllo. Ma siccome la Direttiva volge la propria attenzione anche ai pericoli in cui incorrono i consumatori nell’utilizzo delle piattaforme video, l’ambito di competenza dell’autorità deve (191) G. DE CRISTOFARO, “Influencer marketing: caso ‘Crema Pan di Stelle’. Come nel caso Alitalia- Ferretti nessuna sanzione. L’Antitrust accetta gli impegni di Barilla e dei micro-Influencer. tanto rumore per nulla? Non si direbbe: altri spunti utili per inserzionisti e influencer”, su youmark.it, 17 marzo 2020. (192) Sul tema v. anche S. BARCO, “Il contratto di Influencer marketing: profili civilistici del rapporto tra brand ed influencer”, su iusinitinere.it, 28 maggio 2020. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 ritenersi esteso anche a questi profili, soggetti, come noto, al controllo da parte dell’AGCM. È un profilo molto innovativo; si pensi al fatto che la SMAV prevede anche l’introduzione di meccanismi di risoluzione extragiudiziale delle controversie e di indennizzo nel caso di disservizi a scapito dei consumatori, la cui definizione procedurale potrebbe ragionevolmente spettare proprio all’AGCOM. Si pensi anche alle proposte della Commissione europea per la regolamentazione dei mercati digitali: esse andrebbero senza dubbio ad incidere sul profilo suddetto. Il Digital Services Act interviene, infatti, sul regime di responsabilità delle piattaforme online, qualificate come servizi di hosting provider, alle quali verrebbe applicato un sistema che ricalca quello previsto attualmente dall’art. 17 della Direttiva e-commerce. Si prevede l’individuazione di una o più autorità competenti all’interno di ciascun Stato Membro, che garantiscano l’effettiva applicazione della disciplina e svolgano attività di controllo: ebbene, una delle possibilità sarebbe quella di attribuire tali poteri proprio all’AGCOM. Dal canto suo, il Digital markets Act pone, invece, il tema della potenziale concorrenza dell’AGCOM e dell’AGCM quali Garanti per l’applicazione del Regolamento, dato che si includono anche le piattaforme video fra i soggetti potenzialmente qualificabili come “gatekeeper” (ossia le piattaforme online che controllano gli accessi ai mercati) e quindi destinatari della disciplina ivi prevista. Oltre al profilo della pubblicità occulta, c’è un altro ambito in cui viene in rilievo l’attività degli influencer, ossia quello legato all’utilizzo dei marchi e alla tutela dei diritti di soggetti terzi. Si pensi, anzitutto, alla possibilità che la promozione dei prodotti mediante l’influencer marketing contrasti con il rispetto della disciplina sulla tutela dei dati personali, dal momento che l’immagine di una persona, tale da consentirne l’identificazione, viene considerata un dato personale e, perciò, non è ammissibile la sua divulgazione senza il consenso da parte dell’interessato. È lecito affermare, dunque, che l’utilizzo di un’immagine di un influencer a fini promozionali, se manca uno specifico accordo in tal senso, può integrare gli estremi di una violazione della suddetta disciplina. Si deve anche avere riguardo della necessità di tutelare i diritti di paternità dell’opera e di natura patrimoniale attribuibili al fotografo che ha realizzato l’immagine. Si devono considerare, inoltre, le ipotesi nelle quali l’immagine, che si usa per sponsorizzare un dato prodotto, presenti anche marchi ulteriori; in tale circostanza la condotta può portare ad una violazione dei diritti di esclusiva, che sono riservati al titolare del marchio, potendo anche integrare la fattispecie di concorrenza sleale. Un esempio di violazione della normativa che tutela il marchio da parte LEGISLAzIONE ED ATTUALITà di attività di influencer marketing è il caso deciso dal Tribunale di Genova che, con l’ordinanza n. 15949/2020 (193), ha applicato per la prima volta l’art. 20, comma 1, lett. c) del Codice della Proprietà Industriale allo specifico contesto dei social network. Si tratta di un caso in cui a venire in rilievo è stato un marchio notorio, e dunque l’articolo, in questi casi, prevede che l’utilizzo di tale marchio è illecito, anche per fini diversi da quello di distinzione di prodotti e servizi, se “senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio stesso”. Dunque, l’utilizzo del marchio notorio sui social network da parte di terzi è lecito soltanto se non è effettuato a fini commerciali o se è espressamente autorizzato dal titolare del marchio stesso. Nel caso di specie, l’influencer tedesco Philipp Plein aveva pubblicato numerose foto promozionali di un paio di calzature sul cofano di una delle autovetture della nota casa automobilistica Ferrari, inquadrandone chiaramente il marchio, senza godere di alcuna autorizzazione in tal senso. Il Tribunale, con l’ordinanza del 30 gennaio 2020, pubblicata il successivo 4 febbraio, ha evidenziato che nel caso di specie non fosse riscontrabile alcuno scopo ad esclusione di quello di favorire la pubblicizzazione delle calzature. I giudici hanno, pertanto, considerato illecita la condotta tenuta dall’influencer, che è stato condannato a rimuovere i post oggetto del contenzioso e, inoltre, è stata imposta l’inibizione a qualsiasi futuro utilizzo del marchio in questione (pena l’irrogazione di una sanzione pari a 20.000 euro per ogni violazione). Altro profilo che viene in rilievo nel caso di specie è quello che concerne il c.d. offuscamento (o diluition by tarnishment), ossia l’ipotesi in cui l’utilizzo da parte di terzi del segno/marchio rechi pregiudizio al titolare, poiché alternativamente rovina l’immagine dello stesso agli occhi del pubblico oppure viene inserito in un contesto che si pone in contrasto rispetto all’immagine promossa in precedenza, vanificando gli sforzi del titolare per promuoverla. Ebbene, in questo caso è stata contestata la pubblicazione sul social network di video ritraenti giovani donne in abiti succinti, intente nel lavaggio di un’autovettura della nota casa automobilistica, sul cofano della quale erano collocate le calzature oggetto di promozione commerciale. È necessario anche analizzare il profilo relativo all’utilizzo degli hashtag. Una domanda che ci si è posti è la seguente: è possibile qualificarli come marchi, riconoscendone la funzione di segno distintivo? (194). (193) L’ordinanza è commentata da S. GIANCONE, “Influencer e social network: quando l’uso di un marchio altrui è un atto illecito”, su iusinitinere.it, 8 ottobre 2020. (194) Sul tema, v. L. BERTO, “È possibile registrare un hashtag come marchio?”, su iusinitinere.it, 13 novembre 2017. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 Partiamo dal presupposto che la funzione degli hashtag è molto diversa: trattandosi di strumenti finalizzati a facilitare le ricerche da parte degli utenti, raggruppano prodotti e servizi simili sotto una stessa dicitura; dunque, gli stessi rispondono ad una ratio completamente diversa dai marchi. In più, bisogna considerare che applicargli la disciplina della tutela dei marchi, limitandone di conseguenza l’utilizzo, rischierebbe di limitare in maniera ingiustificata la libertà di espressione degli utenti. È anche vero, però, che in maniera sempre più diffusa si verificano sui social episodi di agganciamento a marchi noti, proprio tramite lo strumento dell’hashtag, che ricollega tramite un click un determinato marchio. Proprio per questo, è lecito chiedersi se un diritto di registrazione degli hashtag come marchi possa esistere, e se questi possano godere o meno dei requisiti necessari per poter essere qualificati come tali, primo fra tutti la capacità distintiva. Purtroppo, la normativa italiana, come la disciplina europea, non è chiara sul punto, e neanche la giurisprudenza è riuscita a dettare direttive da seguire, potendo essere considerate rilevanti sul punto soltanto le pronunce che sanciscono il divieto di utilizzo non autorizzato del marchio altrui come AdWords o keyword. Ebbene, su questo elemento si è espresso il Tribunale di Milano nel 2018 (195): i giudici hanno censurato l’utilizzo del marchio da parte di terzi al solo scopo parassitario, per sfruttare la rinomanza del nome del marchio per accreditare i propri prodotti. Bisogna ribadire, infatti, che il fine delle parole chiave è quello di fornire all’utente la possibilità concreta di scegliere tra le alternative commerciali presenti sul mercato. Comunque, nel silenzio del legislatore sul punto, in ragione della crescente importanza dell’utilizzo degli hashtag sul mercato, molti produttori hanno iniziato a registrarli insieme ai marchi. L’interesse verso i rischi legati alla tutela dei diritti di proprietà intellettuale, nel contesto emergente dei social network, è cresciuto anche in ambito europeo, dove si assiste ad una approfondita analisi della questione da parte dell’EUIPO, in particolare nel documento “Social media Discussion Paper” (196), il cui intento è quello di evidenziare le violazioni che, in particolare, avvengono attraverso i social, ma anche quelle violazioni riconducibili esclusivamente al particolare contesto dei social media. È anche riportato l’ambito concernente i casi in cui i social network non costituiscono di per sé il mezzo con cui avven (195) Tribunale di Milano, sentenza n. 830/2018 del 25 gennaio 2018, commentata da E. BADIALI, “Il caso Barilla e la tutela del marchio rinomato: commento alla sent. n. 830/2018 del Tribunale di milano”, su iusinitinere.it, luglio 2018. (196) Testo accessibile da https://euipo.europa.eu/tunnel-web/secure/webdav/guest/document_library/ observatory/documents/reports/2021_Social_media/2021_Social_media_Discussion_Paper_Full r_en.pdf. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà gono le violazioni dei diritti IP, ma piuttosto rappresentano lo strumento di divulgazione di informazioni concernenti siti che ne sono responsabili. Nella prima ipotesi, sono ricompresi i servizi come l’hosting, lo streaming e il live streaming. Inoltre, l’utilizzo dei social media può portare a sponsorizzare contenuti che violano i diritti di proprietà intellettuale, tramite sponsorizzazioni che rimandano gli utenti-consumatori ad altri siti e pagine esterne. È importante la distinzione tra questa categoria e quella, diversa, che riguarda più nello specifico l’attività degli influencer, che promuovono i prodotti attraverso i propri account social. L’EUIPO ha approfondito il profilo relativo ai possibili casi di contraffazione del marchio. Si fa l’esempio di influencer che incoraggiavano i propri utenti-followers ad acquistare la versione economica di prodotti noti. Un altro esempio interessante è quello dei c.d. “burner accounts”, account che vengono utilizzati al fine di attirare gli utenti di siti riconducibili ai legittimi titolari del marchio verso altre pagine, che invece divulgano contenuti illeciti. Quest’ultima fattispecie va tenuta distinta da quella degli “scam accounts” i quali, invece, sfruttano i marchi noti allo scopo di ingannare gli utenti, indirizzando loro verso siti illeciti o, addirittura, per sottrargli dati della carta di credito o simili. Sul tema della contraffazione del marchio sui social network, anche se relativamente ad un profilo diverso, si è espressa pure la giurisprudenza italiana. Il Tribunale di Milano, nell’ordinanza pubblicata il 15 ottobre 2019 (197), ha statuito che l’uso del marchio da parte di terzi sulle piattaforme social come Instagram e Facebook, anche se non in funzione distintiva, integri comunque la fattispecie di contraffazione del marchio, in quanto idoneo a creare negli utenti confusione, anche tenuto conto del fatto che le due imprese coinvolte operavano nel medesimo settore merceologico. All’esito del procedimento, l’organo giudicante ha ravvisato la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, disponendo nei confronti del resistente l’inibitoria all’utilizzo del marchio altrui su tutti i social network. Uno dei caratteri peculiari dei social network è la possibilità per gli utenti di comunicare su vari livelli, sia pubblicamente che attraverso gruppi chiusi e accessibili solo a specifici iscritti. Ebbene, secondo gli esperti, questa seconda funzionalità viene sfruttata allo scopo di eludere l’applicazione della disciplina sulla proprietà intellettuale. (197) Pronunciata nell’ambito del procedimento cautelare n. r.g. 23037/2019, disponibile su https://www.sistemaproprietaintellettuale.it/giurisprudenza/procedimenti-giurisdizionali/merito/17542tribunale- milano-ord-15-10-2019-marchio-registrato-inibitoria-all-uso-del-marchio-marchiofigurativo- uso-segno-distintivo-di-ramo-di-azienda-acquistato-contraffazione.html?title=Tribunale%20 milano%20(ord.),%2015/10/2019. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 I gruppi chiusi creati sui social divengono, quindi, strumenti finalizzati a condividere con gli utenti contenuti che violano i diritti IP, oppure link che li rimandano a siti parimenti illeciti, nascosti dall’occhio pubblico. In altri casi ancora, invece, viene sfruttata la criptazione delle chat private, grazie alla quale, per esempio, comunicazioni relative ai pagamenti dei prodotti sono protette. Il Social media Discussion Paper, nell’individuare le maggiori problematiche poste dalle violazioni dei diritti IP attraverso l’uso dei social media, esamina la disciplina vigente a livello europeo, ponendo in evidenza, fin da subito, che uno degli elementi che ne limita maggiormente l’efficacia è la circostanza che, attraverso i social network, gli utenti hanno a disposizione funzionalità molto diverse fra loro, tra cui rientrano la diffusione di vari dati e contenuti. Questo fa si che le regole applicabili divengono svariate, e tale frammentazione del quadro normativo si pone in contrasto con la garanzia di un intervento efficace. Nel documento, la prima grande distinzione prevista è quella fra contenuti disponibili pubblicamente e contenuti di natura privata. Nel caso di contenuti privati, si pongono le questioni relative alla normativa sulla protezione dei dati personali, con riguardo, da un lato, alla possibilità di divulgare i dati privati dei soggetti responsabili delle violazioni e, dall’altro, alla tutela della riservatezza delle comunicazioni. Nel caso di contenuti pubblici, invece, trova applicazione la Direttiva ecommerce, che limita, ai sensi dell’art. 14, la responsabilità dell’hosting provider, precisando che il suo obbligo, nel caso in cui pervenga una segnalazione, è solamente quello di rimuovere tempestivamente eventuali contenuti illeciti, non essendo tenuto ad effettuare alcun controllo preventivo. Questo è il quadro normativo vigente; eppure, ultimamente, la direzione verso cui si sta andando è quella di coinvolgere maggiormente le piattaforme, promuovendo la cooperazione fra queste e i titolari dei diritti di proprietà intellettuale, allo scopo di arginare il fenomeno della diffusione di contenuti illeciti. Lungo questa direzione si colloca anche il Digital Services Act, ossia la recente proposta di Regolamento presentata dalla Commissione al Parlamento europeo, che, ribadendo l’assenza di un generale obbligo di monitoraggio, vuole introdurre obblighi di due-diligence, per facilitare la rimozione dei contenuti illeciti, anche al fine di assicurare maggiore trasparenza. Si ricorda, peraltro, che la regolamentazione di queste nuove materie è particolarmente complessa, potendo essa incidere direttamente sui diritti e le libertà fondamentali degli individui. Bisogna ricordare, inoltre, che i social network sono soggetti all’applicazione di altre due fonti normative dell’Unione Europea, la Direttiva UE 48/2004 (198) sull’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale (IPrED) (198) Il testo della direttiva sull’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale (IPRED) è disponibile su https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32004L0048r(01):IT:HTmL. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà e la Direttiva UE 29/2001 (199) sull’armonizzazione di alcuni aspetti del copyright e altri diritti nella società dell’informazione (INFoSoC). Infine, nel caso in cui i social media siano utilizzati per la divulgazione di contenuti tutelati da copyright, si applica la Direttiva Copyright (200). Passando ai contenuti ed alle chat private, le maggiori perplessità sono sorte riguardo alla possibilità di qualificare le comunicazioni istantanee che avvengono attraverso i social media come comunicazioni elettroniche ai sensi della Direttiva e-Privacy (201), garantendo l’applicazione del relativo regime di tutela ivi previsto. In passato, infatti, i social erano rimasti esclusi da tale nozione, anche se vi erano state alcune pronunce discordanti della Corte di Giustizia, che avevano alimentato il regime di incertezza già presente. Il quadro è ancora più incerto da quando è entrata in vigore, il 21 dicembre 2020, la Direttiva UE 1972/2018 (202), contenente il c.d. Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche, che ha introdotto una nuova definizione di comunicazioni elettroniche, includendovi tutti i servizi di comunicazione interpersonale. Si attendono maggiori chiarimenti sull’applicazione della disciplina con l’entrata in vigore del Regolamento e-Privacy, che sostituirà l’attuale Direttiva. Nel documento, si prende in considerazione il problema legato alla nascita di nuovi social media, definiti come “decentralizzati”, in quanto basati su tecnologie peer-to-peer, come ad esempio la blockchain. La novità sta nel fatto che queste nuove realtà vanno a modificare la struttura tradizionale client-server, caratterizzata dalla circostanza che i dati e i contenuti degli utenti venissero gestiti e conservati in maniera centralizzata da una singola società. Sono anche evidenziate le principali good practices: misure che devono essere prese per arginare il rischio di violazioni e che possono essere distinte in preventive e reattive. Tra le misure preventive rientrano, anzitutto, le condizioni contrattuali, nonché le linee-guida adottate da ogni società per regolare l’utilizzo dei propri servizi da parte degli utenti. Ci si riferisce a quanto esaminato sull’emergente fenomeno dell’hate speech, in relazione al quale le principali difese di Face (199) Il testo della direttiva sull’armonizzazione di alcuni aspetti del copyright e altri diritti nella società dell’informazione (INFOSOC) è accessibile su https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/ IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32001L0029&from=IT. (200) Il testo della direttiva Copyright è disponibile su https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/ IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L0790&from=ro; v. anche L. SERRA, “Copyright e diritti nel mercato digitale: attuata la Direttiva UE”, su altalex.com. (201) Il testo della direttiva e-Privacy è accessibile da https://eur-lex.europa.eu/legalcontent/ IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002L0058&from=IT. (202) Su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018L1972; v. anche R. JACCHIA, M. STILLO, “Codice Ue delle comunicazioni elettroniche: la nuova normativa per un mercato più accessibile e sicuro”, su agendadigitale.eu, 30 aprile 2021. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 book si basavano proprio sulla violazione da parte degli utenti delle regole della Community. Per rendere più efficace l’applicazione delle policy, bisognerebbe differenziare queste ultime sulla base delle funzionalità e dei servizi a cui s’intende applicarle. È anche auspicabile che vengano introdotti e utilizzati sistemi di verifica degli account social, per garantire che questi corrispondano all’identità reale degli utenti-utilizzatori e per favorire l’identificazione dei soggetti che si rendono responsabili di atti illeciti. Oltre a questa misura, vi è anche l’introduzione, da parte di alcune piattaforme, di strumenti di identificazione più incisivi nei confronti di soggetti che sponsorizzano sui social, fornendo agli utenti informazioni utili sulla loro identità ed evitando così il rischio di violazione dei diritti di proprietà intellettuale attraverso l’attività di influencer marketing. Alcune piattaforme, inoltre, usano misure in grado di controllare l’eventuale utilizzo distorto degli account: i gestori dei social media possono introdurre sistemi che permettono di identificare gli utenti bannati ed impedire loro di creare nuovi account, limitando la reiterazione di atti illeciti. Bisognerebbe, inoltre, intervenire per impedire la creazione di molteplici profili riconducibili al medesimo utente, nonché introdurre dei sistemi di autorizzazione differenziati, precludendo determinate funzionalità (es. l’accesso ai servizi e-commerce) agli account di nuova creazione. Inoltre, i social media dovrebbero, da un lato, limitare l’utilizzo di parole chiave (compresi i marchi) all’interno del nome dell’utente; dall’altro, effettuare controlli circa l’identità dell’utente e il possesso da parte di quest’ultimo dei diritti e delle autorizzazioni necessarie all’utilizzo di un dato segno distintivo. Le misure reattive ricomprendono, invece, i cosiddetti meccanismi “notice and action”. Si tratta, ad esempio, di specifici canali messi a disposizione dei titolari di diritti di proprietà intellettuale o degli utenti per segnalare presunte violazioni. Tali strumenti possono risultare efficaci a seconda della presenza o meno di specifici elementi, che ne facilitano l’accesso e la comprensione (203). Tuttavia, affinché tali strumenti possano risultare pienamente efficaci, bisogna applicarli a tutte le funzioni dei social media, compresi i contenuti temporanei (“stories”) o gli hashtag che, come visto, possono essere utilizzati nella violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Non bisogna dimenticare che sono anche i titolari dei diritti IP a dover osservare alcune good practices, come ad esempio l’utilizzo appropriato dei meccanismi appena elencati. L’impiego delle nuove tecnologie (es. IA), inoltre, potrà essere utile per (203) Ad esempio, informazioni chiare sui soggetti legittimati ad effettuare la segnalazione, sugli elementi da includervi ecc.; possibilità di segnalare molteplici violazioni mediante un singolo report; informare tempestivamente il soggetto segnalante dell’avvenuta rimozione del contenuto illecito. LEGISLAzIONE ED ATTUALITà l’introduzione di nuovi e più rapidi sistemi per indagare eventuali violazioni. Tra le misure di carattere reattivo rientra anche la collaborazione con le autorità pubbliche, competenti ad intervenire per tali violazioni. Si faccia l’esempio fornito dall’operazione “Aphrodite”, condotta congiuntamente dall’EUROPOL, dalla Guardia di Finanza italiana e dalle forze di polizia di diversi Stati Membri, che ha portato al sequestro di 20.000 prodotti contraffatti e alla chiusura di oltre 1.000 conti. È un esempio concreto dell’effetto positivo derivante dalla collaborazione con le autorità, nonché dell’intervento sinergico fra queste ultime. Il comunicato stampa trasmesso da EUROPOL evidenzia proprio il ruolo giocato dai social media nella divulgazione delle offerte di prodotti contraffatti per raggiungere il pubblico. La tendenza di internet e dei social media ad abbattere i confini geografici ha creato non pochi problemi nell’applicazione della disciplina e nell’individuazione delle norme effettivamente applicabili. Sul tema della contraffazione del marchio, nel caso specifico di contraffazione attraverso l’uso di nomi a dominio e sulle piattaforme social, la Corte di Giustizia si è pronunciata in via pregiudiziale per risolvere una questione legata alla litispendenza di azioni civili simultanee, sulla base di marchi nazionali e dell’Unione Europea. Nel noto caso (causa C-231/16) (204) agiva merck KGaA, operante nel settore chimico-farmaceutico e titolare di vari marchi che tutelano il nome “merck”. La società ha intrapreso contestualmente due azioni diverse, una innanzi alla High Court of Justice ed un’altra innanzi al Landgericht Hamburg (Tribunale regionale di Amburgo). Nel primo caso, veniva in rilievo la contraffazione dei marchi nazionali ed internazionali protetti nel Regno Unito, a causa dell’utilizzo in rete del nome “merck”. Nel secondo caso, invece, si agiva a tutela del marchio UE merck, per il suo utilizzo non solo su internet, ma anche sulle piattaforme Facebook, Twitter e Youtube. Il giudice di Amburgo ha sollevato una questione sull’interpretazione dell’art. 109, par. 1, del Regolamento (CE) n. 207/2009, che dispone: “Qualora azioni per contraffazione siano proposte per gli stessi fatti e tra le stesse parti davanti a tribunali di Stati membri differenti, aditi rispettivamente sulla base di un marchio [dell’Unione Europea] e sulla base di un marchio nazionale: a) il tribunale successivamente adito deve, anche d’ufficio, dichiarare la propria incompetenza a favore del primo tribunale adito quando i marchi in causa sono identici e validi per prodotti o servizi identici. Il tribunale che do( 204) Accessibile da https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTmL/?uri=CELEX:62016CJ0231&from=it. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 4/2021 vrebbe dichiarare la propria incompetenza può sospendere il procedimento qualora venga eccepita l’incompetenza dell’altro tribunale; b) il tribunale successivamente adito può sospendere il procedimento quando i marchi in causa sono identici e validi per prodotti o servizi simili, nonché quando i marchi in causa sono simili e validi per prodotti o servizi identici o simili”. Con il primo quesito, è stato chiesto all’adita Corte di Giustizia se la locuzione “stessi fatti” debba essere intesa nel senso di includere il mantenimento e l’utilizzo in tutto il mondo -e quindi anche in tutta l’Unione Europea -di una pagina internet accessibile in modo identico da qualunque luogo, sotto lo stesso dominio, o, parimenti, di contenuti accessibili in modo identico di volta in volta con il medesimo username, sotto il dominio “facebook.com” e/o “youtube.com” e/o “twitter.com”. Con un altro quesito, è stato poi chiesto alla Corte se il “tribunale successivamente adito” avesse l’obbligo di dichiarare la propria incompetenza solo sul territorio dello Stato membro in cui un altro Tribunale era stato adito per primo -a fronte di una violazione commessa mediante una pagina internet accessibile da tutto il mondo sotto lo stesso dominio o attraverso contenuti accessibili da tutto il mondo sotto il dominio “facebook.com” e/o “youtube.com” e/o “twitter.com” con il medesimo username -o se, invece, la dichiarazione di incompetenza dovesse estendersi a tutto il territorio dell’Unione Europea. In primo luogo, la CGUE ha richiamato l’interpretazione relativa all’esistenza di domande aventi “il medesimo oggetto e il medesimo titolo”. La nozione di titolo ricomprende i fatti e la norma giuridica posta a fondamento della domanda. La Corte ha rilevato che, nel caso di specie, la norma fondante la domanda è coincidente ed individuabile nella tutela di diritti esclusivi derivanti da marchi identici. Non rileva, dunque, il fatto che la prima azione abbia quale fondamento la tutela di un marchio nazionale, mentre la seconda di un marchio europeo. Inoltre, può dirsi soddisfatto il requisito dell’identità dei fatti, dato che entrambe le questioni riguardano l’utilizzo del termine “merck” in nomi di domini e in piattaforme social accessibili da tutto il mondo. La nozione di oggetto, invece, coincide con lo scopo della domanda. Ebbene, mentre l’azione intentata davanti alla High Court of Justice mirava a precludere l’utilizzo del marchio sul territorio del Regno Unito, l’azione presentata al Giudice di Amburgo voleva vietarne l’utilizzo su tutto il territorio dell’Unione. In secondo luogo, sulla base di tali considerazioni, in risposta all’altro quesito, la Corte è giunta alla conclusione che le due azioni possono dirsi aventi il medesimo oggetto solo limitatamente alle contraffazioni avvenute nel medesimo territorio e, di conseguenza, è esclusivamente con riguardo a queste ipotesi che il Tribunale adito successivamente sarà tenuto a dichiarare la propria incompetenza. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà 12. La commercializzazione dei dati personali: il caso Facebook. La disciplina relativa alla tutela della privacy -che riveste ormai un ruolo centrale nel nostro ordinamento -sembra tuttavia porsi in contrasto rispetto allo sviluppo delle nuove tecnologie e dell’economia c.d. “data driven”. Ormai, lo sfruttamento dei dati è diventato il core business delle imprese e, conseguentemente, deve essere riconosciuto il valore economico dei dati personali. Tuttavia, bisogna tenere anche presente gli altissimi rischi per la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. La riflessione sulla c.d. commercializzazione dei dati personali si basa su queste due considerazioni. Vi sono due tesi fondamentali in contrapposizione tra loro, una favorevole e una contraria; entrambe richiamano argomentazioni di natura etica, economica e sociale. Il nucleo del dibattito, tuttora aperto, è la possibilità di utilizzare i dati personali come corrispettivo delle prestazioni. Sul tema, recentemente è intervenuto il D.lgs. di attuazione della Direttiva 770/2019, relativa ad alcuni aspetti dei contratti di fornitura di servizi digitali. La disciplina vuole estendere le tutele previste per i contratti di consumo anche alle ipotesi in cui il consumatore non si impegni a pagare una somma di denaro, ma si obblighi a cedere i propri dati personali. Eppure, il profilo economico non esaurisce il novero delle questioni legate alla tutela dei dati personali nel nuovo contesto digitale. Sono state sollevate diverse altre questioni. Si pensi alla pubblicazione di immagini in assenza del consenso dell’interessato: si tratta chiaramente di illegittima diffusione dei dati personali. Questo specifico tema ha sollevato grandi preoccupazioni, soprattutto con riferimento alla pubblicazione sui social e alla diffusione di dati riferibili a soggetti minori. La giurisprudenza che si è formata sul punto dimostra quanto la delicatezza dei temi che vengono in rilievo renda necessario l’attento bilanciamento degli interessi in gioco. Si pensi, poi, alla diffusione di immagini illegittima non soltanto perché l’interessato non vi ha acconsentito, ma anche per il contenuto delle immagini stesse, quando ad esempio si tratti di immagini a contenuto sessuale. È il noto -e purtroppo diffuso, soprattutto tra i giovani -fenomeno del c.d. revenge porn, contro cui le autorità e i titolari delle principali piattaforme coinvolte stanno cercando di trovare delle soluzioni concrete (v. infra). Le altre questioni interessanti riguardano gli elementi applicativi della disciplina sulla tutela della privacy, la corretta individuazione dei soggetti qualificabili come titolari o responsabili del trattamento in contesti innovativi, i problemi relativi alla c.d. eredità digitale e dunque all’applicazione della disciplina successoria in riferimento ai beni “digitali” del de cuius, e tante altre questioni che si pongono oggi al giurista. Nella nuova economia digitale, i dati hanno un nuovo ruolo di mercato, come d’altronde è stato dimostrato dal cambiamento dei business model delle società. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 Nell’economia guidata dai dati, infatti, questi sono diventati un vero e proprio asset strategico: grazie ai dati, le imprese possono fornire beni e servizi migliori, perché costruiti sulla base delle preferenze dei consumatori. I dati personali, dunque, giocano un ruolo fondamentale, dato che senza di essi le imprese non sarebbero in grado di acquisire il grande numero di informazioni utili sulle tendenze del mercato. Tuttavia, l’esigenza economica di sfruttare queste informazioni contrasta con il rispetto del diritto fondamentale alla protezione della privacy e dei dati personali, importante nel panorama europeo e italiano. Si arriva, addirittura, alla constatazione che l’applicazione della relativa disciplina è vista come un ostacolo allo sviluppo dell’economia. Eppure, tale conclusione appare paradossale se si considera che è lo stesso gDPR a perseguire il rafforzamento del mercato interno quale fine ultimo, come alla fine vale per tutta la legislazione europea. È conseguenza evidente, allora, che nelle intenzioni del legislatore non si vuole porre alcun limite all’esercizio delle attività economiche, bensì solamente evitare inaccettabili violazioni dei diritti fondamentali. Sulla base di quanto detto, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sul valore effettivo da dare ai dati personali: essendo diventati un vero e proprio mezzo di lucro, deve essere riconosciuto loro, anche dal punto di vista economico-giuridico, un valore diverso? La questione principale è quella relativa a quei servizi che vengono offerti ai consumatori apparentemente in maniera gratuita, ma che in realtà presuppongono la cessione di dati personali. L’esempio paradigmatico è quello dei social network: per accedere è necessario accettare uno specifico set di termini e condizioni e procedere alla comunicazione di una serie di dati personali quali nome, cognome, data di nascita, indirizzo e-mail, ecc. Non solo, ma durante la fruizione del servizio vengono generati dall’utente dati ulteriori, rilevatori delle proprie tendenze e preferenze; questi dati vengono spesso condivisi dalla società che gestisce i social con soggetti terzi, traendone profitto. Per questo motivo, da tempo si è fatta strada la tesi, per il vero opinabile, sull’equiparabilità dei dati personali alla valuta: l’acquisto di determinati beni o servizi potrebbe avvenire (o, meglio, di fatto avverrebbe già), dietro la “corresponsione” di dati personali. alcuni, di fronte a ciò, hanno parlato del cambio di dimensione dei dati dalla tradizionale dimensione “morale”a quella “negoziale”. Chi sostiene questa tesi, invero, pensa che gli individui godrebbero di una maggiore tutela, dal momento che troverebbero contestualmente applicazione tanto la disciplina sulla tutela dei dati personali che quella del consumo, così evitando che il singolo sia, da un lato, tratto in inganno dalla gratuità dell’offerta e perfezioni un acquisto inconsapevole dell’effettivo valore ceduto e, LEgISLazIONE ED aTTuaLITà dall’altro, sia privo della possibilità di usufruire dei mezzi di tutela messi a disposizione dall’ordinamento. Bisogna chiedersi: la strada della c.d. commercializzazione dei dati personali è davvero la via migliore? Sarebbe, da un lato, finalizzata a rendere l’interessato- consumatore maggiormente consapevole del valore dei propri dati personali (restituendogli un effettivo controllo su di essi come, d’altronde, auspicato dal gDPR). Dall’altro lato, lo scopo sarebbe quello di mettere a disposizione del- l’utente tutte le tutele e gli strumenti già previsti dal Codice del Consumo. Inoltre, per sostenere la percorribilità di questa strada, si fa generalmente un parallelismo con la disciplina della proprietà intellettuale, che riconosce contestualmente all’autore dell’opera diritti di natura morale (si pensi al riconoscimento della paternità) e diritti di sfruttamento economico (come il diritto di fare copie o riprodurre l’opera). La tesi contrapposta -tradizionalmente affermata sia a livello europeo che nazionale -sostiene, invece, che, essendo il diritto alla protezione dei dati personali un diritto fondamentale, questo abbia valore assoluto, indisponibile, intrasmissibile e imprescrittibile, non potendo ammettersi in alcun modo la loro commercializzazione. Insomma, si sostiene il contrario di quanto sopra detto, ossia che la commercializzazione dei dati personali -lungi dal garantire una maggiore tutela agli interessati -finirebbe con lo sminuire l’effettivo valore dei dati personali, esponendo gli individui al rischio di subire pregiudizi ulteriori. La Commissione, nella bozza della Direttiva sui contratti per la fornitura di servizi digitali, ha avanzato per la prima volta la proposta di ammettere l’utilizzo dei dati come corrispettivo. Sembrava opportuno, in particolare, riconoscere ai consumatori il diritto di scegliere tra le due alternative: acquistare un determinato bene mediante la cessione dei propri dati personali o facendo ricorso alla valuta ordinaria. Sul punto, però, ha espresso subito parere negativo il garante europeo per la protezione dei dati (EDPS) (205), che ha voluto escludere categoricamente la possibilità di equiparare i dati personali al corrispettivo o al denaro, seppur aprendo alla possibilità di applicare le regole di tutela previste per i consumatori anche nel caso di acquisto di servizi generalmente considerati gratuiti. In Italia, guido Scorza, membro del garante per la protezione dei dati, ha espresso le sue perplessità sul tema, evidenziando che in questo modo si creerebbe una discrepanza fra coloro che godono di una migliore condizione economica -e possono, quindi, scegliere effettivamente quale mezzo di acquisto utilizzare -e coloro che, invece, sarebbero maggiormente propensi a (205) accessibile da https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52017XX0623(01)&from=EL. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 cedere i propri dati personali, trovandosi in una situazione peggiore e ignorandone le conseguenze. La tesi contraria alla commercializzazione dei dati personali sostiene le sue ragioni anche per evitare l’eccessiva profilazione della popolazione, a cui è legato il rischio di possibili discriminazioni. L’obiettivo della tutela si estende, quindi, all’intera collettività. Di recente, sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che l’autorità garante della Concorrenza e del Mercato attraverso le sue pronunce, si sono posti in una posizione più aperta e favorevole all’introduzione di un approccio negoziale rispetto alla disciplina dei dati personali. Si può, preliminarmente, fare l’esempio dell’agCM che, dichiarando la vessatorietà di alcune clausole contrattuali poste da Whatsapp, ha affermato che non assumesse rilevanza alcuna il fatto che l’App di messaggistica istantanea venisse offerta agli utenti in maniera gratuita, ai fini della qualificazione del rapporto giuridico istauratosi fra gli stessi e la società come un rapporto consumeristico. La posizione dell’autorità poggia sulla considerazione che il valore economico dei dati personali degli utenti ceduti alla società per accedere al servizio di messaggistica dovesse ritenersi, da solo, sufficiente a far sorgere un rapporto consumatore/professionista (206). In realtà, però, l’esempio più lampante di questo nuovo approccio negoziale è da rinvenirsi nel caso che ha visto come parti contrapposte l’agCM e Facebook, e che è arrivato fino al Consiglio di Stato, davanti al quale le parti avevano presentato ricorso. La vicenda ha inizio il 29 novembre 2018, quando l’agCM, dopo aver contestato la violazione, da parte di Facebook Inc. e Facebook Ireland ltd, della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, irrogava nei confronti delle società una sanzione per un importo complessivo di 10 milioni di euro (207). Sono due le attività scorrette contestate dall’autorità. La pratica a), che è stata ritenuta in contrasto con gli artt. 21 e 22 del D.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo), consisteva nell’avere tratto in inganno gli utenti, enfatizzando la gratuità del servizio offerto, senza informarli adeguatamente e tempestivamente del fatto che i loro dati personali sarebbero stati utilizzati a fini commerciali. Secondo il parere dell’autorità, in questo modo gli utenti sarebbero stati “obbligati” ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbero preso. La pratica b), contestata per violazione degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo -che disciplinano le pratiche commerciali aggressive -è stata rite (206) Il testo del provvedimento è accessibile su https://www.agcm.it/dotcmsDOC/allegatinews/ IP278_ch.%20inott.%20%20sanz.pdf. (207) Il testo del provvedimento è accessibile su https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegatinews/ PS11112_scorr_sanz.pdf. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà nuta, come tecnica di acquisizione del consenso degli utenti, una forma di indebito condizionamento degli stessi: questi avevano, infatti, la sola possibilità di deselezionare la pre-impostazione effettuata da Facebook, tramite un meccanismo di opt-out. Così -secondo l’autorità -gli utenti si sarebbero ritrovati, di fatto, costretti a subire, senza avere prestato adeguato consenso in merito, la cessione dei propri dati personali a soggetti terzi per finalità commerciali. L’agCM, evidenziando la natura di vero e proprio corrispettivo attribuibile, nel caso di specie, ai dati personali degli utenti, fa espresso riferimento al business model della società sanzionata, il che consentirebbe -secondo la stessa autorità -di ritenere esistente un rapporto di consumo fra la nota società e gli utenti utilizzatori. Ebbene, da questo rapporto deriverebbe il dovere di dare attuazione agli obblighi di trasparenza e corretta informazione previsti dal Codice del Consumo. La società si è poi rivolta al TaR (208), il quale ha annullato la sanzione con riferimento alla pratica b), perché non ha ritenuto sussistenti elementi sufficienti a dimostrare la natura aggressiva della pratica commerciale; tuttavia, ha confermato il provvedimento dell’autorità rispetto alla pratica a). a quest’ultimo proposito, l’argomento portato da Facebook, secondo cui l’agCM non sarebbe stata competente a pronunciarsi su una questione concernente la disciplina sulla protezione dei dati personali, è stato totalmente respinto dal TaR, che ha motivato tale rigetto esprimendo in modo chiaro la propria posizione in merito alla patrimonializzazione dei dati personali. I giudici hanno spiegato che la tesi della società ricorrente, secondo cui i dati personali, in quanto oggetto di un diritto fondamentale, non potessero acquisire la funzione di corrispettivo di una prestazione, non terrebbe adeguatamente conto del valore commerciale degli stessi nel mercato digitale e nel modello di business della società stessa. Il TaR ha concluso, dunque, che debba trovare applicazione la disciplina del Codice del consumo, ed in particolare le norme che impongono i caratteri di chiarezza, competenza e non ingannevolezza delle informazioni fornite. La vicenda è arrivata al Consiglio di Stato che, nella recente pronuncia n. 2631/2021 (209), ha colto l’occasione per ribadire l’erroneità della tesi sostenuta da Facebook in merito alla necessità di netta separazione fra la disciplina sulla tutela dei dati personali e quella contrattualistica. (208) T.a.R. Roma (Lazio), sez. I, 10 gennaio 2020, n. 260, disponibile su dejure.it, commentata “Facebook, è scorretta la pratica che prevede la cessione a terzi dei dati degli iscritti senza un adeguato consenso”, su Diritto & Giustizia, 13 gennaio 2020. (209) Consiglio di Stato, sez. VI, 29 marzo 2021, n. 2631, disponibile su dejure.it; note a sentenza: I.M. aLagNa, “Abuso dati personali di utenti: respinto in appello il ricorso di Facebook contro l’Antitrust”, Diritto & Giustizia, fasc. 74, 2021, pag. 9; V. RICCIuTO, C. SOLINaS, “Fornitura di servizi digitali e prestazione di dati personali: punti fermi ed ambiguità sulla corrispettività del contratto”, GiustiziaCivile. com, 18 maggio 2021. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 I giudici del Supremo Consesso amministrativo hanno evidenziato che, dal momento che tutte le azioni umane implicano il trattamento di dati personali, è ammissibile che all’applicazione della relativa disciplina si accompagni contestualmente quella di altre branche del diritto, tra cui rientra sicuramente quella del consumo. Si è parlato, a tal proposito, di “tutele multilivello” garantite alle persone fisiche. Il Consiglio di Stato ha aderito alla posizione secondo la quale, nel caso di specie, le informazioni fornite agli utenti non fossero sufficientemente chiare e adeguate a permettere loro di assumere piena consapevolezza del fatto che i propri dati personali non vengono utilizzati esclusivamente per consentire la fruizione del servizio, ma vengono ulteriormente sfruttati a fini commerciali. Dunque, si conclude nel senso che la pratica è senz’altro da qualificarsi come ingannevole. Se è vero che nel business model di Facebook i dati vengono utilizzati per fini commerciali, è certamente discutibile la possibilità di attribuire loro la qualificazione giuridica di corrispettivo della controprestazione. Si consideri che i dati forniti dagli utenti-consumatori sono generalmente raccolti sulla base giuridica di cui all’art. 6, par. 1, lett. b) del gDPR, in quanto necessari all’esecuzione del contratto digitale. anche ammettendo che tutti i dati raccolti dalla società siano effettivamente indispensabili a tal fine, la loro dazione da parte degli utenti non potrebbe qualificarsi come corrispettivo della prestazione; piuttosto dovrebbe essere considerato come suo presupposto. allo stesso modo, se i dati raccolti fossero utilizzati per finalità diverse o ulteriori, non potrebbero comunque essere considerati come un corrispettivo, in quanto ciò presuppone che il versamento avvenga consapevolmente. Viene anche analizzata l’ipotesi del ricorso al consenso come base giuridica. Tuttavia, affinché il consenso sia libero, in assenza di esso non potrebbe comunque essere negata l’erogazione del servizio all’utente. Ciò porta ad escludere l’ammissibilità della tesi dei dati come corrispettivo. Si tenga presente che il governo ha adottato il decreto legislativo 4 novembre 2021, n. 170, pubblicato il 25 novembre scorso, di attuazione della Direttiva 770/2019, che introduce nel Codice del Consumo un nuovo Capo Ibis nella parte IV, Titolo III, volto appunto a regolamentare i contratti aventi ad oggetto contenuti e servizi digitali (210). (210) Il comma 2 contiene le definizioni, stabilendo che, per il Capo I-bis, per “contenuto digitale” si intendono i dati prodotti e forniti in formato digitale; per “servizio digitale” si intende un servizio che consente al consumatore di creare, trasformare, archiviare i dati o di accedervi in formato digitale; oppure un servizio che consente la condivisione di dati in formato digitale caricati o creati dal consumatore e da altri utenti di tale servizio o qualsiasi altra interazione con tali dati; per “beni con elementi digitali” si intende qualsiasi bene mobile materiale che incorpora o è interconnesso con un contenuto digitale o un servizio digitale in modo tale che la mancanza di detto contenuto digitale o servizio digitale impedirebbe LEgISLazIONE ED aTTuaLITà Il testo individua l’ambito di applicazione della nuova disciplina, includendovi le ipotesi in cui “il professionista fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali al professionista, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dal professionista ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale […] o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto l’operatore economico”. Viene qui richiamato quanto previsto dal Considerando 14 della Direttiva, il quale specifica che quest’ultima non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui il professionista sia entrato nella disponibilità dei dati senza che il consumatore glieli abbia forniti “attivamente” (ad es. mediante l’utilizzo di cookies). Le disposizioni di nuova introduzione intervengono, dunque, su un profilo specifico, e puntano ad estendere la tutela prevista dall’ordinamento in favore dei consumatori -quali noti soggetti deboli nel rapporto contrattuale -anche a quei contratti nei quali, pur non essendoci la corresponsione di una somma di denaro, sorge in capo al consumatore un’obbligazione, consistente appunto nella cessione dei propri dati personali. È essenziale comprendere, però, che ciò non è sufficiente ad affermare che i dati personali abbiano assunto il valore di controprestazione, con tutte le altre conseguenze in tema di sinallagma contrattuale. un altro passaggio interessante del decreto riguarda il rapporto fra la disciplina in esame e le disposizioni nazionali e dell’unione Europea in materia di protezione dei dati personali. Il nuovo Capo I-bis del Codice del Consumo -viene specificato -trova applicazione con riferimento a qualsiasi dato personale trattato in relazione a contratti in cui il professionista fornisce un contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e che, in caso di conflitto, prevalgano le norme in materia di protezione dei dati. Passando ad esaminare il diritto all’immagine, di rango di diritto fondamentale -ed in quanto tale inalienabile -si ammette la possibilità di cedere il diritto di riproduzione della stessa, previo consenso dell’interessato. alla regola del consenso fanno eccezione le ipotesi espressamente previste dalla L. n. 633 del 1941, tra cui vi è il caso dell’esercizio del diritto di cronaca -nel caso in cui la pubblicazione della foto risponda ad esigenze di pubblico interesse e sia comunque necessaria ai fini di completezza e chiarezza della notizia divulgata. Sul tema, la Corte di Cassazione (211) ha stabilito che è necessario che lo svolgimento delle funzioni del bene. L’intero testo è accessibile su http://documenti.camera.it/leg18/dossier/ pdf/TR0249.pdf. (211) Cass. Civ., sez. I, 9 luglio 2018, n. 18006, disponibile su dejure.it,“È censurabile la pratica delle interviste televisive con “riprese occulte”, ovvero tenendo la telecamera accesa all’insaputa del soggetto”, su Guida al diritto, 2018, 32, 35. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 vi sia uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze della persona ritratta. Con la sentenza n. 29583/2020 (212), inoltre, i giudici di legittimità hanno chiarito che la nozione di interesse pubblico deve essere intesa in senso ampio e che la sussistenza del diritto di cronaca, nonché della necessità di rappresentare l’immagine della persona protagonista della vicenda, deve essere comunque valutata alla luce del tipo di pubblicazione e della natura dell’attività giornalistica svolta. Nel caso che ha dato origine alla pronuncia, infatti, la Corte ha accolto il ricorso contro la sentenza del Tribunale di Milano, che riconosceva l’illiceità della pubblicazione, su un settimanale, di alcune fotografie, nello specifico sette, ritraenti un personaggio pubblico in vacanza alle Maldive. I ricorrenti lesi lamentavano la violazione degli artt. 136 e 137 del Codice Privacy, dell’art. 6 del codice deontologico dei giornalisti, e dell’art. 21 della Costituzione. La Suprema Corte ha riconosciuto la fondatezza delle argomentazioni addotte da chi faceva valere il suo diritto di cronaca, e ha ritenuto che le circostanze del caso concreto permettessero di applicare l’esimente del diritto di cronaca. Non poteva, infatti -ad avviso dell’organo giudicante -ravvisarsi alcuna lesione dei diritti fondamentali, dal momento che la pubblicazione delle foto era giustificata da vari elementi quali: la notorietà del soggetto, la tipologia di cronaca, il fatto che i soggetti si trovassero in un luogo pubblico e, soprattutto, la considerazione che la narrazione non avesse travalicato i limiti della continenza, non recando danno alcuno alla reputazione del soggetto ripreso. I giudici hanno, dunque, concluso nel senso di ammettere la liceità della pubblicazione, anche se mancava del consenso delle parti. Per quanto concerne il consenso (213), sono diversi gli aspetti da evidenziare, partendo dalle forme con cui può essere prestato, sino alle questioni concernenti la sua validità, alla luce anche di un’eventuale revoca dello stesso. La succitata legge non richiede che il consenso venga fornito in una forma specifica: infatti, la giurisprudenza (214) ha ammesso la sua rilevanza anche nelle ipotesi in cui questo fosse soltanto implicito. (212) Cass. Civ., sez. I, 24 dicembre 2020, n. 29583, disponibile su dejure.it, “Pubblicazione di foto a corredo di un articolo in assenza di consenso dell’interessato: condizioni di liceità”, su Giustizia Civile Massimario, 2021 e Rivista di Diritto Industriale, 2020, 6, III, 414. (213) Sul tema del consenso dell’avente diritto, v. F. BRaVO, “Il consenso e le altre condizioni di liceità del trattamento dei dati personali”, in g. FINOCChIaRO (diretto da), “Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali”, Torino, zanichelli, 2017; S. TORDINI CagLI, “Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto”, Bologna, 2008, 165. Più in generale, F. aLBEggIaNI, “Profili problematici del consenso dell’avente diritto”, Milano, 1995, 31. Per quanto concerne il dibattito dottrinale in germania, cfr. C. ROxIN, “Sul consenso nel diritto penale”, in “Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale”, a cura di S. MOCCIa, Napoli, 1996, 126; ID., “Über die mutmassliche Einwilligung”, in “Festschrift für Hans Welzel”, Berlino-New York 1974, 449 ss.; per un quadro di sintesi, g. FORNaSaRI, “I principi del diritto penale tedesco”, Padova, 1993, 289 ss. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà La forma scritta è necessaria, infatti, al solo fine di dirimere eventuali controversie concernenti la sussistenza del diritto alla divulgazione dell’immagine conteso fra soggetti diversi. ad ogni modo, il consenso alla pubblicazione può essere oggetto di specifico accordo contrattuale fra le parti, e la conseguenza è che una sua eventuale violazione fa insorgere il relativo regime di responsabilità. La Corte di Cassazione ha affrontato il tema del consenso prestato mediante accordo contrattuale nella sentenza n. 10957/2010, attinente al diritto di sfruttamento commerciale di alcune pose di nudo di un’attrice esordiente da parte di un fotografo. Dal canto suo, l’attrice sosteneva che non vi fosse alcun rapporto contrattuale intercorrente fra le parti, e l’autorizzazione a disporre delle foto fosse stata concessa mediante atto unilaterale recettizio, da intendersi revocato alla luce di una serie di emergenze istruttorie. Della revoca, poi, erano state rese edotte, mediante lettere di diffida, altre due società convenute in giudizio, responsabili dell’ulteriore diffusione delle immagini sulla base del diritto di disposizione delle stesse, acquisito dal predetto fotografo. La Corte di Cassazione, pronunciandosi sulla sussistenza e sulla validità o meno del consenso prestato dall’attrice, ha per prima cosa ribadito quanto detto sopra in merito alla rilevanza del consenso anche se prestato solo tacitamente. Inoltre, si è chiarita la disciplina del consenso, che sarà volto esclusivamente a delineare le condizioni e i limiti entro i quali il suddetto diritto potrà legittimamente essere esercitato -specificando che anche nell’ipotesi in cui il diritto di disporre dell’immagine divenga oggetto di un rapporto contrattuale fra le parti, il consenso rimane comunque elemento esterno rispetto a tale rapporto. Conseguenza di ciò è che il contratto ha il consenso quale suo presupposto e che, una volta stipulato, “questo non possa di norma essere revocato fino a che l’utilizzazione entro i limiti stabiliti dal rapporto contrattuale sia possibile e/o non sia ancora stata realizzata”. Nel caso di specie, questo rileva in quanto la cessione del diritto di disposizione delle immagini a soggetti terzi era stata oggetto di contestazione. Per giustificare la legittimità di tale condotta, si sarebbe dovuta dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto contrattuale, ma anche il fatto che questo disciplinasse il profilo della cessione a terzi del diritto. È necessario porre l’accento su quel “di norma” utilizzato dalla Corte nella succitata pronuncia, dal momento che un orientamento più risalente (215) aveva stabilito che il consenso alla pubblicazione della propria immagine, in (214) Cfr. Cass. Civ., sez. III, 6 maggio 2010, n. 10957, disponibile su dejure.it; con nota di a. NaTaLINI, “Diritto all’immagine e pubblicazione di foto non autorizzata: per essere risarcita è la parte lesa che deve provare il pregiudizio economico”, su Diritto & Giustizia, fasc. 0, 2010, pag. 193. (215) Si veda Cass. Civ., sez. I, 19 novembre 2008, n. 27506, disponibile su dejure.it; Giust. civ. 2009, 2, 313; Riv. dir. ind. 2009, 4-5, II, 466; Foro it. 2009, 10, I, 2728 NOTa (s.m.) con nota di L.C. uBERTazzI. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 quanto negozio unilaterale, fosse “revocabile in ogni tempo, anche in difformità di quanto pattuito contrattualmente salvo, in questo caso, il diritto del- l’altra parte al risarcimento del danno”. ultimamente, il tema della revoca del consenso è tornato a far discutere, perché una sentenza della Corte d’appello di Milano (216) ha ribaltato quanto stabilito dai giudici di primo grado, affermando la revocabilità del consenso in qualunque momento. Nel caso di specie, riguardante la pubblicazione delle foto di due attori, congiuntamente ad un’intervista sulla loro vita sentimentale, i giudici hanno richiamato il principio già affermato dalla Cassazione secondo cui la sussistenza del consenso alla pubblicazione della propria immagine, è sempre necessario ed imprescindibile anche al momento della pubblicazione stessa. Quindi, a prescindere dagli accordi contrattuali originariamente raggiunti fra le parti, l’intervento della revoca prima dell’avvenuta pubblicazione fa venire senz’altro meno il presupposto della sua legittimità. 13. La tutela dei minori e il diritto all’oblio. anche nei casi in cui l’immagine ritragga soggetti minori viene in rilievo la tutela della reputazione altrui, dovendosi comunque ritenere lecita, qualora sussista una delle ipotesi previste dalla legge e non sia recato pregiudizio alla persona, la pubblicazione in assenza di consenso. Ciò è stato affermato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 8880/2020 (217), che ha concluso che nel caso di specie “le fotografie che ritraevano le minori (…), le quali partecipavano ad una manifestazione di massa in occasione dell’inaugurazione di uno scivolo gonfiabile, di certo non era lesiva della reputazione o dell’onore, posto che non è disdicevole o disonorevole, o contraria a qualsivoglia disposizione di ordine pubblico o buon costume, l’utilizzo di uno scivolo”. Parimenti, può essere affermato che l’elemento dell’interesse pubblico giustifica la pubblicazione dell’immagine di un minore solo se vi è la necessità “di conoscere le fattezze dei protagonisti della vicenda narrata ai fini della completezza e correttezza della divulgazione della notizia (…)” (218). Tuttavia, la questione diventa più problematica quando, invece che avvenire su una testata giornalistica -trovando così pacificamente applicazione l’esimente del diritto di cronaca -la pubblicazione dell’immagine altrui abbia luogo sui social network. (216) Si veda la sentenza della Corte di appello di Milano, n. 21043 del 2021. (217) Cass. Civ., sez. III, 13 maggio 2020, n. 8880, disponibile su dejure.it, Guida al diritto 2020, 37, 64; Giustizia Civile Massimario, 2020; Rivista di Diritto Industriale, 2020, 4-05, II, 344. (218) Cass. Civ., sez. I, 19 febbraio 2021, n. 4477, disponibile su dejure.it, commentata da I.M. aLagNa, “L’interesse pubblico alla diffusione di una notizia non legittima la pubblicazione di immagini ritraenti un minore su testate giornalistiche”, su Diritto & Giustizia, fasc. 38, 2021, pag. 6. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà La Corte EDu ha ritenuto che “la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram” integri la violazione dell’art. 8 della Carta Europea sui diritti dell’uomo, posto a tutela del diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione. a Strasburgo si è infatti spiegato che la tutela alla reputazione deve essere garantita anche a coloro che subiscono diffamazione sui social, dovendosi garantire un equo bilanciamento fra il diritto alla libertà di espressione e la tutela della reputazione privata (219). Ovviamente, nei casi in cui ad essere ritratto è un minore, la situazione diviene più delicata; le sempre più numerose pronunce giurisprudenziali al riguardo sono accomunate dalla prevalenza della tutela del minore sulla libertà di espressione altrui. La questione è stata affrontata dal Tribunale di Rieti nel marzo del 2019 (220). I giudici si sono trovati a risolvere una controversia riguardante la liceità della pubblicazione di foto ritraenti soggetti di minore età, nel caso di specie figli di genitori divorziati, da parte della nuova compagna del padre. Con ricorso ex art. 700 c.p.c., il tribunale è stato adito dalla madre dei minorenni, affinché ordinasse alla nuova compagna del padre l’immediata rimozione dai social media delle immagini che ritraevano i propri figli, nonché inibisse la generale diffusione delle medesime foto. Il ricorso era giunto al Tribunale dopo una preliminare diffida, a seguito della quale il comportamento della convenuta era cessato solo temporaneamente, salvo poi riprendere, tanto che i genitori sono stati costretti a convenire in sede di divorzio che la pubblicazione delle immagini dei propri figli sarebbe stata consentita, sia ai genitori che ai terzi, soltanto previo consenso espresso di entrambi. L’intervento del tribunale è scaturito dall’inosservanza di tale accordo. Il collegio giudicante, nella propria argomentazione, ha ripreso il principio che subordina l’utilizzo di un’immagine ritraente un soggetto minorenne al previo consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale -richiamando sia le norme nazionali che quelle sovranazionali rilevanti in materia (tra cui rientrano l’art. 10 c.c., gli artt. 4, 7, 8 e 145 del Codice della Privacy e la Convenzione di New York del 20 novembre 1989) -e ha così condannato la convenuta alla rimozione dei contenuti esistenti sui social, vietandole altresì di pubblicare ulteriormente simili immagini. Elemento interessante della pronuncia è stata l’applicazione dell’art. 614bis c.p.c.: i giudici hanno fissato in 50,00 euro la somma dovuta per ogni (219) Corte Europea Diritti dell’uomo, sez. II, 7 novembre 2017, n. 24703, disponibile su dejure.it e Guida al diritto, 2018, 1, 42. (220) Tribunale di Rieti, sentenza del 7 marzo 2019, pronunciata nel procedimento avente r.g. n. 2008/2018, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di a. SIMEONE, “La nuova compagna del padre non può pubblicare le foto dei minori senza il consenso della madre”, su Ilfamiliarista.it, luglio 2019. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione e per ogni successiva violazione dell’inibitoria. anche altre pronunce più risalenti si sono espresse sul tema della diffusione di immagini di minori in assenza del consenso dell’esercente la responsabilità genitoriale, in particolare in casi di pubblicazione di immagini, da parte di uno dei due genitori, in assenza del consenso dell’altro. ad esempio, nel 2017 il Tribunale di Mantova (221), all’interno di un giudizio di separazione, aveva inibito alla madre la diffusione delle immagini dei figli in assenza del consenso del padre. Proprio nello stesso anno, il Tribunale di Roma (222) si è spinto oltre, ordinando contestualmente la rimozione dei contenuti già pubblicati e applicando l’art. 614-bis c.p.c. Tema interessante è anche quello del diritto all’oblio, riconosciuto agli interessati dall’art. 17 del gDPR, che ha rappresentato, sin dall’entrata in vigore del Regolamento, uno degli aspetti maggiormente problematici nella emergente realtà digitale. Ciò è causato, da un lato, dalla difficoltà di garantirne l’effettività, e dall’altro, dalla necessità di bilanciare correttamente tale diritto con gli altri interessi in gioco. Il diritto all’oblio può essere esercitato solo nei casi previsti dall’art. 17 e purché sussistano circostanze idonee a dimostrare che l’interessato si trovi in una situazione particolare. Tale diritto è venuto in rilievo nel caso Google Spain (223). La Corte di giustizia ha selezionato diversi elementi da tenere in mente quando si procede ad una tale valutazione, elementi che sono stati ampiamente condivisi anche dalla giurisprudenza interna, come emerge dall’analisi delle sentenze più rilevanti degli ultimi anni (es. l’interessato è un personaggio pubblico, i fatti riportati sono inaccurati ecc). Si badi che fra i suddetti elementi figura anche il caso in cui l’informazione riportata sia qualificabile come hate speech. anzitutto, secondo la Suprema Corte, il diritto all’oblio consiste “nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza” (224). La pronuncia rientra nell’ambito di quella che viene considerata, da parte della dottrina, la seconda accezione del diritto all’oblio, concernente la tutela (221) Tribunale di Mantova, 19 settembre 2017, disponibile su dejure.it, con nota a sentenza di S. MOLFINO, “Vietato pubblicare le foto dei figli sui social network senza il consenso dell’altro genitore”, su Ilfamiliarista.it, gennaio 2018. (222) Tribunale di Roma, sez. I, 23 dicembre 2017, disponibile su dejure.it, con nota a sentenza di g.O. CESaRO, “Genitore pubblica sui social network foto e notizie del figlio minore: interviene d’ufficio il Giudice”, su Ilfamiliarista.it, marzo 2018. (223) Vedi g. RESTa, V. zENO -zENCOVICh (a cura di), “Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain”, Roma Tre Press, Roma, 2015. (224) Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2020, n. 9147, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di M. COCuCCIO, “Deindicizzare per non censurare: il «ragionevole compromesso» tra diritto all’oblio e diritto di cronaca”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2021, pag. 175. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà dell’identità personale. In quest’ottica, il bene giuridico tutelato è più ampio rispetto al singolo dato personale, mirando a tutelare nel complesso la dignità della persona. Ne discende la necessità di contestualizzare le informazioni, valutando l’impatto di queste sull’individuo in relazione alla situazione nella quale egli si trova in un dato momento. Nella medesima pronuncia, i giudici affrontano il tema del complesso bilanciamento fra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca (e informazione), che rappresenta, forse, l’aspetto più delicato e problematico dell’attuazione di questa disposizione. a norma dell’art. 17, comma 3, lett. a), l’esercizio della libertà di espressione e di informazione costituisce una delle eccezioni che consentono di escludere l’esercizio del diritto all’oblio, configurando come necessaria un’analisi svolta caso per caso e finalizzata a valutare la prevalenza dell’uno o dell’altro diritto nelle circostanze concrete. Nel compiere tale valutazione, si deve anzitutto tenere in considerazione il lasso di tempo trascorso fra i fatti verificatisi e la persistenza della pubblicità della notizia. I giudici evidenziano, infatti, che il pregiudizio alla reputazione e alla riservatezza dell’interessato possa discendere dalla ripubblicazione “a distanza di un importante lasso temporale di una notizia relativa ai fatti del passato”. In un passo importante, la Corte afferma che il diritto all’oblio può dirsi garantito anche soltanto mediante la deindicizzazione di un articolo dai motori di ricerca, proprio perché il diritto dell’interessato va comunque posto in relazione a quello di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico- sociali. Il medesimo concetto è stato ribadito nella sentenza n. 7559 del 2020 (225), nella quale è riportato che la deindicizzazione di un articolo risalente nel tempo -nonostante la permanenza di quest’ultimo nell’archivio online del giornale -è idonea a garantire un corretto trade-off fra il diritto all’oblio del- l’interessato e l’interesse della collettività alla permanenza della notizia. Sul punto bisogna fare almeno due diverse considerazioni. La prima riflessione riguarda la valutazione di un “lasso di tempo idoneo” a far venir meno l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia. Tale criterio, infatti, sebbene possa sembrare chiaro nella teoria, non lo è nella pratica; sono moltissimi, infatti, i fattori che il giudice sarà chiamato a valutare nel corretto bilanciamento degli interessi. ad esempio, la Suprema Corte, nella sentenza n. 13161/2016 (226), ha affermato che il pe (225) Cass. Civ., sez. I, 27 marzo 2020, n. 7559, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di V. aMENDOLagINE, “Il diritto all’oblio tra rievocazione storiografica online e cronaca giudiziaria”, su GiustiziaCivile.com, 18 agosto 2020. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 riodo idoneo a far venir meno l’interesse per la divulgazione di un fatto di cronaca nera fosse individuabile in due anni mezzo. Tuttavia, ci si chiede come tale criterio possa dirsi indistintamente valido per qualunque circostanza, essendo comunque sempre necessario svolgere un’analisi concreta caso per caso. La seconda considerazione da fare concerne il fatto che limitare la portata del diritto all’oblio alla sola cancellazione dei dati, significherebbe snaturare ingiustamente la disposizione. Questa, infatti, anche alla luce dell’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza, ammette, fra le misure che ne permettono la piena attuazione, la deindicizzazione, l’anonimizzazione dei dati e la loro esatta contestualizzazione. Si tratta di elementi il cui riconoscimento assume particolare rilevanza proprio in virtù dell’avvento di Internet, dato che assicurare la cancellazione dei dati sul web risulta particolarmente complesso in molti casi, ma è ben possibile garantire la piena tutela dell’interessato all’oblio facendo ricorso a mezzi diversi. Questo concetto si ricollega anche al tema dell’ampliamento della portata del diritto all’oblio e alla configurabilità di un vero e proprio diritto all’identità, alla quale oggi parte della dottrina si riferisce con l’espressione “identità dinamica dell’individuo”. Si è compreso, in altri termini, che per garantire la tutela dell’interessato non basta prevedere la cancellazione dei dati, bensì è necessario provvedere all’attuazione di misure ulteriori, prime fra tutte il loro continuo aggiornamento e la loro contestualizzazione. Sul tema, si rimanda alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (227), che ha anzitutto riconosciuto all’interessato il diritto di rivolgersi direttamente al sito che manteneva la notizia disponibile online e non al motore di ricerca, affermando al contempo che al fine di garantire un corretto bilanciamento fra il diritto d’informazione e il diritto all’oblio, si sarebbe dovuto garantire l’aggiornamento delle notizie riportate. Tra gli elementi rilevanti nel bilanciamento fra il diritto all’oblio e quello al- l’informazione, è da tenere in considerazione la notorietà del soggetto interessato. a tal proposito, deve richiamarsi la pronuncia (228) con cui la Corte di legittimità, ribaltando la decisione della Corte d’appello, ha riconosciuto il (226) Cass. Civ., sez. I, 24 giugno 2016, n. 13161, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di D. BIaNChI, “Danno e oblio. Nesso di causalità, principio di proporzionalità e misure di sicurezza Data Protection”, su Ridare.it, 19 ottobre 2016. (227) Cass. Civ., sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di g. CI- TaRELLa, “Aggiornamento degli archivi online, tra diritto all’oblio e rettifica «atipica»”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 4, 2012, pag. 1155. (228) Cass. Civ., sez. I, 31 maggio 2021, n. 15160, disponibile su dejure.it; v. anche “Diritti alla riservatezza e all’identità personale e bilanciamento con il diritto della collettività all'informazione”, su Giustizia Civile Massimario, 2021. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà diritto di un imprenditore ad ottenere la deindicizzazione da un motore di ricerca di un articolo nel quale venivano riportate intercettazioni telefoniche di terzi che riferivano di una presunta vicinanza dello stesso a gruppi mafiosi. Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto prevalente il diritto all’oblio dell’interessato, dato che quest’ultimo non era un personaggio pubblico e godeva di notorietà solo a livello locale. a parere della Corte, negare la deindicizzazione avrebbe infatti comportato una lesione del diritto dell’interessato “a non vedersi attribuita reiteratamente una biografia telematica, diversa da quella reale e oggetto di notizie ormai superate”. La Corte di giustizia si è, altresì, focalizzata sull’elemento della natura della notizia, affermando che il diritto alla cronaca e all’informazione prevalgono, nonostante il trascorrere di un lungo lasso di tempo, nel caso di notizie relative a procedimenti penali. Il caso di specie esaminato dai giudici di Lussemburgo concerneva la condanna all’ergastolo per omicidio di due cittadini tedeschi: la Corte ha ritenuto che “gli archivi online di giornali e radio sono un bene da proteggere perché garantiscono il diritto della collettività a ricevere notizie di interesse generale, che non è attenuato dal passare del tempo” (229). La giurisprudenza della Cassazione si è pronunciata anche sul contenuto della domanda di deindicizzazione rivolta ai motori di ricerca, sottolineando che, in questo caso, si richiede la precisa individuazione dei risultati della ricerca che l’attore intende rimuovere (generalmente serve l’indicazione di indirizzi telematici o uRL). Non è escluso, comunque, che “una puntuale rappresentazione delle singole informazioni associate alle parole chiave” possa bastare a permettere al motore di ricerca di adempiere all’obbligo cui è soggetto (230). Sul tema della deindicizzazione da parte dei motori di ricerca su richiesta degli interessati, la Corte europea, nella causa C-136/2019, pur ribadendo la sussistenza di tale obbligo, ha evidenziato che questo ha valenza solo per quanto riguarda le versioni presenti negli Stati Membri e non tutte quelle sotto il dominio dei gestori. Ciò significa che il motore di ricerca sarà tenuto a deindicizzare solo i dati presenti nei server europei. Questo profilo ha assunto una rilevanza sempre maggiore, tanto che lo scorso 7 luglio l’EDPB ha adottato le linee-guida 5/2019 (231) relative proprio all’esercizio del diritto all’oblio nei casi relativi ai motori di ricerca. In relazione all’art. 17 comma 1, lett. b), (229) Corte Europea Diritti dell’uomo, sez. V, 28 giugno 2018, n. 60798, disponibile su dejure.it; v. anche “Il diritto all’informazione prevale su quello all’oblio se si tratti di notizie relative a procedimenti penali”, su Guida al diritto, 2018, 30, 24. (230) Cass. Civ., sez. I, 2 luglio 2021, n. 20861, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di R. SETTIMIO, “Deindicizzazione e diritto all’oblio al vaglio della Suprema Corte”, su GiustiziaCivile.com, 27 settembre 2021. (231) Su https://edpb.europa.eu/our-work-tools/our-documents/guidelines/guidelines-52019criteria- right-be-forgotten-search-engines_it. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 che riconosce il diritto dell’interessato di richiedere la cancellazione dei dati nell’ipotesi in cui abbia ritirato il proprio consenso al trattamento, il documento evidenzia il fatto che, normalmente, il consenso è dato al web publisher e non al motore di ricerca e, perciò, è al primo che sarà comunicata dall’interessato la volontà di ritirare il consenso. Secondo l’EDPB, in tal caso, è onere del web publisher informare tempestivamente il motore di ricerca e ottenere la cancellazione dei dati, ai sensi del comma 2 dell’art. 17 gDPR. L’interessato potrà, tuttavia, esercitare direttamente il proprio diritto, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. c). La norma consente all’interessato, infatti, di esercitare il diritto all’oblio altresì nell’ipotesi in cui abbia previamente esercitato il diritto di obiezione ex art. 21, comma 1 del gDPR. L’articolo pone a carico del motore di ricerca l’onere di provare la sussistenza di motivi legittimi prevalenti rispetto al diritto di obiezione. Il legame fra le due disposizioni richiamate -come messo in luce dall’EDPB -comporta che nel caso del diritto all’oblio, se il motore di ricerca non è in grado di fornire la prova richiesta, sarà obbligato ad esaudire la richiesta dell’interessato. Per quanto concerne la legittimazione ad agire per il riconoscimento del diritto all’oblio, nell’ipotesi di notizie riguardanti una persona deceduta, i giudici di legittimità hanno affermato che tale diritto non può essere fatto valere dal congiunto iure proprio, ma soltanto nella sua veste di erede (232). Come si configura il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all’oblio? La giurisprudenza è pacifica nel riconoscere la risarcibilità di tutti i danni, patrimoniali e non, riconducibili alla violazione di tale diritto, avendo il diritto all’oblio rango di diritto fondamentale della persona, per cui è azionabile il risarcimento per danno da fatto illecito ex art. 2043 c.c. Per vedersi riconosciuto il danno non patrimoniale, chi agisce in giudizio deve, tuttavia, allegare e provare tale danno (233). Sotto il profilo della quantificazione, il danno è calcolato perlopiù in via equitativa ex art. 1226 c.c. (234). 14. L’“eredità digitale”. Infine, molto interessante è anche il tema dell’accesso e del trasferimento (232) Si veda Cass. Civ., sez. I, 27 marzo 2020, n. 7559, cit. (233) Cass. Civ., sez. III, 19 luglio 2018, n. 19137, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di I. PIETROLETTI, “Nessun risarcimento per l’avvocato se non prova i pregiudizi concreti ricollegabili al- l’attività”, su Diritto & Giustizia, fasc. 128, 2018, pag. 10 e Cass. Civ., sez. I, 23 maggio 2018, n. 12855, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di F. VaLERINI, “La familiarità della minore con i social network non salva Yahoo.it dal risarcimento del danno per la pubblicazione della foto”, su Diritto & Giustizia, fasc. 92, 2018, pag. 21. (234) È utile richiamare la giurisprudenza della Cassazione relativa al risarcimento del danno da reputazione, la cui ratio trova applicazione anche nel contesto che qui interessa. a proposito, la Corte ha ribadito che il giudice è “tenuto a dare conto delle circostanze considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che lo ha condotto a quel determinato risultato” (Cass. Civ., n. 11039/2006, disponibile su dejure.it e Giust. civ. Mass. 2006, 5). LEgISLazIONE ED aTTuaLITà dei dati di una persona deceduta (c.d. “eredità digitale”), questione emersa con l’avvento e la diffusione della società digitale. L’esigenza principale che pone la questione è quella di stabilire quali sono i soggetti che abbiano -e a quali condizioni -il diritto di accedere ai dati personali online di una persona deceduta. Il fenomeno della c.d. “digitalizzazione” dell’economia ha comportato che i beni immateriali e gli asset intangibili sono entrati a far parte della massa ereditaria, creando il problema relativo all’individuazione delle regole di ripartizione della stessa. Inoltre, soprattutto a causa dell’avvento dei social media, un’enorme quantità di dati personali resta disponibile online sul web anche durante la fase post mortem, facendo sorgere anche la problematica concernente il controllo di tali dati. Il fulcro della questione è che i dati vengono affidati all’intermediario professionista (ossia la piattaforma), in virtù di accordi contrattuali che, tuttavia, in molti casi prevedono espressamente la loro intrasmissibilità mortis causa, in contrasto con la disciplina in materia di successioni. Inoltre, un altro problema è quello legato all’eterogeneità dei beni qualificabili come facenti parte dell’eredità digitale. Infatti, oltre ai dati presenti sui social media, vi rientrerebbero, ad esempio, i documenti digitali offline e quelli conservati grazie a servizi di cloud computing, i profili online, sia professionali che personali, i dati relativi a giochi virtuali, gli accounts, le cripto- valute, i nomi di dominio. Per fare chiarezza sulla questione, si possono suddividere tutti questi elementi in almeno due categorie. Da un lato, vi sono i beni a connotazione prettamente patrimoniale (es. le criptovalute) e dall’altro, quelli di carattere personale (es. profili social). Da questa distinzione deriverebbe l’applicabilità di regole diverse per l’una e l’altra categoria, individuate sulla base delle caratteristiche dei beni. È una distinzione apparentemente semplice in teoria, ma più complicata da effettuare nella pratica, dal momento che in molti casi vi è una sovrapposizione dei caratteri. Si aggiungono gli ormai noti problemi legati al carattere transnazionale delle questioni. Con il D.lgs. n. 101 del 2018, che ha novellato il Codice della Privacy, il legislatore italiano è intervenuto sul tema introducendo l’art. 2-terdecies (235). (235) art. 2-terdecies Codice Privacy (“Diritti riguardanti le persone decedute”) “1. I diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. 2. L’esercizio dei diritti di cui al comma 1 non è ammesso nei casi previsti dalla legge o quando, limitatamente all’offerta diretta di servizi della società dell’informazione, l’interessato lo ha espressamente vietato con dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest’ultimo comunicata. 3. La volontà dell’interessato di vietare l’esercizio dei diritti di cui al comma 1 deve risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata; il divieto può riguardare l’esercizio soltanto di alcuni dei diritti di cui al predetto comma. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 È una norma molto rilevante, anche perché il Considerando 27 del gDPR afferma chiaramente che il Regolamento non si applica ai dati delle persone decedute, lasciando agli Stati membri la possibilità di introdurre regole proprio su questo profilo. La norma non chiarisce se i soggetti legittimati all’esercizio dei diritti del de cuius agiscano in virtù di un acquisto mortis causa, oppure se godano di una legittimazione iure proprio. gli aspetti più rilevanti sono che, anzitutto, la norma include fra i diritti esercitabili post mortem dell’interessato anche il diritto alla portabilità dei dati. Poiché la ratio della norma risponde sia all’esigenza di garantire il pieno controllo sui dati personali che a quella di tutelare il mercato concorrenziale, si deve dedurre che la legittimazione all’esercizio di tale diritto deve essere riconosciuta solo ai soggetti che agiscono a tutela dell’interessato e non anche a chi vanta un proprio interesse. Il mandatario è incluso tra i soggetti legittimati all’esercizio dei diritti post mortem. Questo, per l’esigenza di prendere atto della prassi sempre più diffusa di affidare la gestione dei propri account e profili social, soprattutto professionali, a soggetti terzi. Il compimento da parte di tale soggetto di atti giuridici in nome dell’interessato -e per espressa volontà di quest’ultimo dopo la sua morte -è compatibile con il nostro diritto successorio solo nella misura in cui attenga a quei beni che sono stati definiti di carattere “personale”. In caso contrario, infatti, s’incorrerebbe nella violazione del divieto di patti successori. I commi successivi dell’articolo prevedono che l’esercizio dei diritti possa essere precluso per espressa volontà dell’interessato, consegnata o comunicata al titolare del trattamento, ma solo per quanto concerne l’ambito dei servizi della società dell’informazione. Tale volontà deve avere queste caratteristiche: risultare in modo non equivoco, essere specifica, libera e informata. La previsione deriva dalla consapevolezza dell’asimmetria informativa e dello squilibrio che caratterizza i rapporti contrattuali fra i soggetti privati e le grandi piattaforme e vuole tutelare l’integrità delle scelte compiute dai primi. ad ogni modo, i terzi non possono subire alcun pregiudizio rispetto ai diritti patrimoniali derivanti loro dalla morte dell’interessato, nonché rispetto al diritto di difendere in giudizio i propri interessi. Di questa disposizione, ha fatto di recente applicazione il Tribunale di Milano (236), con una sentenza in cui si è affermato che l’accesso e il trasferimento 4. L’interessato ha in ogni momento il diritto di revocare o modificare il divieto di cui ai commi 2 e 3. 5. In ogni caso, il divieto non può produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato nonché del diritto di difendere in giudizio i propri interessi”. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà dei dati delle informazioni memorizzate sull’account di una persona deceduta o sincronizzate online su iCloud è consentito, ai sensi dell’art. 2-terdecies del Codice, ai terzi legittimati, soltanto nell’ipotesi in cui sussistano ragioni familiari meritevoli di protezione e se non espressamente vietato dall’interessato. alla società di informazione, titolare del trattamento, è vietato frapporre ostacoli all’esercizio di tale diritto, se non in adempimento della disciplina nazionale ed europea. Con la pronuncia cautelare in esame, il giudice ha ordinato d’urgenza ad una società del gruppo Apple di consentire ai genitori di un ragazzo venuto a mancare in un incidente stradale di accedere ai dati dell’account i-cloud del figlio. L’intervento della società si è rivelato necessario, poiché il telefono del ragazzo defunto era andato distrutto. Ebbene, alla prima richiesta di accesso rivolta dai genitori alla società, questa aveva risposto che avrebbe provveduto in tal senso soltanto su ordine del Tribunale, avente specifici contenuti. gli interessati, dunque, si erano rivolti al Tribunale di Milano, affinché emettesse -con decreto inaudita altera parte o con ordinanza -i provvedimenti necessari in via cautelare, ex artt. 669-bis e 700 c.p.c. Quanto alla sussistenza del fumus boni iuris, i ricorrenti sostenevano la ravvisabilità dei requisiti previsti dall’art. 2-terdecies del Codice Privacy. Relativamente al periculum in mora, si faceva presente che l’Apple aveva comunicato loro che i dati dell’account sarebbero stati automaticamente distrutti una volta decorso un determinato periodo di inattività dello stesso. Il Tribunale, nel caso di specie, ha ritenuto che la richiesta dei genitori, giustificata dal tentativo di cercare di colmare il senso di vuoto e il dolore causati dalla perdita del figlio, integrasse perfettamente le “ragioni familiari meritevoli di protezione” richieste dall’art. 2-terdecies e che fosse altresì sussistente il requisito del periculum in mora, concludendo dunque con l’ordine rivolto ad Apple di consentire ai ricorrenti l’accesso all’account. altro elemento interessante dell’ordinanza è la considerazione fatta dai giudici sui requisiti che -ai sensi delle condizioni contrattuali previste da Apple - l’ordine del Tribunale dovrebbe possedere per vincolare la società. Secondo la Società, l’ordine dove specificare: a) che il defunto fosse proprietario di tutti gli account associati all’ID apple; b) che il richiedente fosse l’amministratore o il rappresentante legale del patrimonio del defunto; c) che questo agisse come “agente” del defunto e la sua autorizzazione costituisse un “consenso legittimo”; d) che l’ordine imponesse ad Apple di fornire assistenza nel recupero dei (236) Tribunale di Milano, sez. I, 9 febbraio 2021, disponibile su dejure.it; v. nota a sentenza di S. CIaRDO, “Privacy e tutela dei dati personali memorizzati nell’account della persona deceduta”, su Ridare.it, 20 aprile 2021. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 dati personali degli account, che avrebbero potuto contenere anche informazioni o dati personali di terzi. Il Tribunale di Milano ha, tuttavia, evidenziato alcune criticità della richiesta, dovute soprattutto al fatto che questa si basasse sul diritto statunitense, piuttosto che su quello italiano. ad esempio, è noto che nel nostro ordinamento non esiste la figura dell’amministratore, del rappresentante legale o dell’agente del de cuius. Parimenti, la disciplina interna non prevede alcuna autorizzazione o consenso legittimo all’attività di tali soggetti. alla luce di ciò, il Tribunale ha dichiarato illegittima la pretesa di Apple di subordinare l’esercizio di un diritto riconosciuto dall’ordinamento giuridico italiano a condizioni estranee a quest’ultimo. Infine, il Tribunale ha respinto la tesi di Apple che legittimava il proprio rifiuto ad accogliere la richiesta invocando la “sicurezza dei clienti”, affermando che ai sensi dell’art. 6, par. 1, lett. f) del gDPR il trattamento dei dati è possibile se necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare o di terzi. Secondo i giudici di Milano, essendo la richiesta avanzata dai genitori basata su “ragioni familiari meritevoli di protezione”, sussisterebbe in questo caso il legittimo interesse. 15. Il fenomeno del c.d. Revenge porn. Il fenomeno del c.d. revenge porn, concernente la diffusione di immagini a contenuto sessuale, senza il consenso della persona interessata è, purtroppo, sempre più frequente nell’era dei social media e della divulgazione online di foto e video (237), ponendosi in stretta correlazione con la tutela dei dati personali, poiché le immagini diffuse rientrano pienamente nella nozione di dato personale fornita dalla legge. Il garante per la Privacy, per contrastare la diffusione di questo fenomeno, ha cercato di fornire uno strumento specifico per tutelare le vittime di revenge porn, e così ha formulato un accordo con Facebook, introducendo un meccanismo di segnalazione, agevolmente accessibile attraverso il sito del garante, attraverso il quale chiunque abbia modo di temere che le proprie immagini possano essere illegittimamente diffuse attraverso i canali social forniti dal social network, può richiedere che la piattaforma intervenga in maniera preventiva, proteggendo le immagini mediante un codice hash ed impedendone così la divulgazione. Sul tema del revenge porn, è intervenuta la Corte di Cassazione, con la (237) Sul tema v. g.M. CaLETTI, “Revenge porn e tutela penale. Prime riflessioni sulla criminalizzazione specifica della pornografia non consensuale alla luce delle esperienze angloamericane”, in DirPenCont 2018, 65 ss.; D. CITRON -K. FRaNKS, “Criminalizing Revenge Porn”, in Wake Forest Law Review, 2014, 347; M. KaMaL -W. NEWMaN, “Revenge Pornography: Mental Health Implications and Related Legislation”, in The Journal of American Academy of Psychiatry and the Law, 2016, 362 ss.; B. SaNDYWELL, “On the globalisation of crime: The internet and the new criminality”, in “Handbook of Internet Crime”, a cura di Y. JEWKES -M. YaR, Milton, 2010, 46, che inserisce il “revenge porn” all’interno delle «traditional criminal activities that are generalised and radicalised by the internet». LEgISLazIONE ED aTTuaLITà pronuncia n. 3050/2020 (238), in particolare sull’argomento relativo all’applicabilità della disciplina dettata dal Codice della Privacy alle condotte ascrivibili a tale fenomeno in espansione. Nello specifico, è venuta in rilievo la continuità normativa fra il vecchio e il nuovo articolo 167, comma 2 del Codice, da cui discende la rilevanza penale o meno della condotta. La pronuncia trae origine da una vicenda che ha visto la diffusione -da parte dello stesso indirizzo riconducibile alla vittima -di diciotto e-mail, con allegati video raffiguranti atti e rapporti sessuali fra il soggetto che aveva divulgato i messaggi e la vittima di revenge porn, nonché foto intime ritraenti la figlia minorenne di quest’ultima. Il ricorrente lamentava la falsa applicazione dell’art. 167 del Codice della Privacy, ritenendo escluse, sulla base della nuova formulazione dell’articolo, le condotte di comunicazione e diffusione dei dati. Si sosteneva, pertanto, che il giudice dell’esecuzione, ritenendo sussistente la continuità normativa rispetto alla vecchia versione del codice, avesse fatto un’applicazione della norma in malam partem, data la mancanza dei presupposti normativi o giurisprudenziali in tal senso. I giudici della Cassazione hanno accolto tale tesi, sostenendo l’erroneità della conclusione formulata dal giudice dell’esecuzione, dato che, alla luce dell’intervenuta riforma del Codice Privacy, non si può ritenere che la condotta sia ascrivibile alla figura di reato a cui si era fatto riferimento. Leggendo la norma, infatti, si nota che essa si riferisce soltanto alle ipotesi in cui la condotta sia posta in violazione dell’art. 9, par. 1 del gDPR, concernente i trattamenti necessari per motivi di interesse pubblico rilevante, o degli artt. 2-septies, 2-octies e 2-quinquiedecies del Codice Privacy, concernenti rispettivamente le misure di garanzia per il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute, i principi relativi al trattamento dei dati relativi a condanne penali e reati e il trattamento che presenta rischi elevati per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico. Non vi rientrerebbe, dunque, la diffusione di dati appartenenti a categorie particolari, come nel caso di specie. I giudici di legittimità hanno rilevano che non è stata neanche posta la questione di continuità con l’art. 612-ter c.p., concernente, nello specifico, la condotta illecita di chi fa diffusione di immagini o video sessualmente espliciti. L’epilogo della vicenda ha visto l’annullamento dell’ordinanza, e ciò ci dà l’occasione per riflettere sull’importanza del corretto inquadramento giuridico delle fattispecie, sia ai fini della punibilità che del contrasto effettivo di fenomeni come quello esaminato. La Suprema Corte ha affermato il seguente (238) Cass. Pen., sez. V, 17 dicembre 2020, n. 3050, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di F. BRIzzI, “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti: tra tutela della privacy e revenge porn”, su Ilpenalista.it, 30 marzo 2021. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 principio: il giudice di merito, chiamato ad interpretare la portata dell’art. 167bis del Codice Privacy, deve interrogarsi circa la sussistenza di continuità normativa fra tale norma ed altre disposizioni normative, anche non appartenenti al Codice Privacy. Rilevante, sul tema, è stata la modifica al Codice prodotta dal recente D.L. n. 139/2021 (c.d. “Decreto Capienze”), il quale introduce l’art. 144-bis, rubricato, appunto, “revenge porn”, con cui viene riconosciuto alle vittime del reato, ivi inclusi i minori ultraquattordicenni, il diritto di presentare reclamo o segnalazione innanzi al garante della privacy nell’ipotesi in cui vi sia il fondato timore che una delle condotte descritte dall’art. 612-ter c.p. possa essere realizzata. Il potere di intervento del garante è quello ai sensi dell’art. 58 del gDPR: egli può, ad esempio, ordinare l’interruzione del trattamento o la rimozione dei contenuti illeciti. Lo scopo della norma è quello di anticipare la tutela riconosciuta alle vittime, dando loro la possibilità di invocare l’intervento del- l’autorità già prima che il reato sia effettivamente commesso; dunque, non viene ampliato il novero di strumenti correttivi di cui può servirsi l’autorità. gli strumenti che l’interessato può utilizzare sono il reclamo e la segnalazione, accessibili gratuitamente e meno onerosi dei classici rimedi giurisdizionali. La speranza è che l’introduzione di questa nuova disposizione, ossia la previsione di un sistema di tutela anticipato e parallelo rispetto a quello tradizionale, possa -se non eliminare -quanto meno arginare il più possibile il fenomeno. È fisiologico che il sistema giuridico si debba adattare alle nuove tecnologie, con un necessario ripensamento rispetto alle fattispecie esistenti, data la repentina diffusione dei mezzi di comunicazione di massa cui stiamo assistendo. Il mondo digitale, se da un lato moltiplica le occasioni di contatto, dal- l’altro aumenta in maniera proporzionale le incertezze in merito alla liceità del comportamento sul web, i cui limiti non sono ancora definiti. gli utenti pagano le più aspre conseguenze, e i loro diritti costituzionalmente tutelati rischiano seriamente di essere messi a repentaglio con una lesività maggiore rispetto al passato. I comportamenti illeciti sulla rete sono sempre più difficilmente identificabili, e anche gli eventuali rimedi sembrano essere spesso insufficienti. La Dichiarazione dei diritti in internet del 2015, tuttavia, precisa che i diritti fondamentali di ogni persona sono garantiti anche sul web, e devono essere interpretati in modo da assicurarne l’effettività, nel pieno rispetto della dignità, libertà, uguaglianza e diversità di ognuno (art. 1). Pertanto, il compito dell’ordinamento è quello di reinterpretare le norme esistenti in modo aperto e realizzare tale obiettivo. L’art. 9 della Dichiarazione, inoltre, riconosce il diritto a non veder rappresentata erroneamente la propria identità in rete. Questo tema è caro alla giurisprudenza, la quale si è pronunciata svariate LEgISLazIONE ED aTTuaLITà volte cercando di adattare il contenuto dell’articolo 595 c.p. al web e temperarlo con la tutela della libertà di cui all’art. 21 Cost. una delle domande che ogni giurista si è posto è quella relativa all’estensibilità della nozione di stampa ai periodici telematici, soprattutto allo scopo di accertare la legittimità, per questi ultimi, del sequestro preventivo a scopo cautelativo. Ci si è interrogati, inoltre, sulla possibilità di aggravamento della pena in caso di diffamazione tramite social network, forum e blog, in ragione della maggiore diffusività del mezzo. È stata considerata, inoltre, la responsabilità a carico a chi ha la possibilità di avere accesso ai contenuti in rete e sono state analizzate le politiche perseguite dalle piattaforme online in materia. I maggiori problemi sono legati al fatto che non è prevista una garanzia ex ante per gli utenti che usufruiscono della rete, i quali sono costretti a beneficiare unicamente di rimedi riparatori e mai di inibitorie preventive a causa dell’eccessiva onerosità che questo comporterebbe per i provider. Tuttavia, sarebbe auspicabile un equo bilanciamento tra gli interessi coinvolti e sarebbe opportuno adottare soluzioni tecniche, anche automatizzate, finalizzate alla prevenzione di quella maggiore lesività della condotta veicolata dalla rete. Lo sviluppo e la diffusione degli strumenti informatici hanno favorito l’utilizzo sempre più frequente di blog, chat rooms, forum, periodici online, social networks, mailing-list e newsgroup. Frequente è il superamento, da parte degli utenti che utilizzano queste piattaforme, dei confini della libertà di espressione, della critica ovvero della cronaca, ledendo il diritto all’altrui reputazione (es. hate speech). Come sostenuto da autorevole dottrina, i diritti della personalità di una persona corrispondono alle sue qualità, che devono essere tutelate nel rapporto con gli altri. Tra questi diritti personali assoluti di esclusione vi è anche il diritto all’onore; questi diritti trovano la loro fonte nella personalità dell’uomo ed alcuni sono “la causa prima” di tutti gli altri diritti particolari (239). Secondo la Corte Costituzionale, è l’art. 2 Cost. (240) a riconoscere il diritto all’identità personale, inteso come diritto ad essere se stessi con le proprie idee, esperienze, convinzioni ideologiche e religiose, tutti elementi che qualificano un dato individuo (241). Leggendo insieme tale disposizione con le altre norme che riconoscono (239) g. aLPa, “Alle origini dei diritti della personalità”, in Riv. Trim. di Dir. Proc. Civ., 3, 2021, p. 567. (240) art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. (241) Cfr. I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, 2006, p. 8., Corte Costituzionale, sent. n. 98/1979. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 e garantiscono le singole libertà dell’individuo, si possono desumere gli ulteriori diritti della personalità, come ad esempio il decoro e l’onore, la rispettabilità, la riservatezza, l’intimità e la reputazione. Per quanto riguarda la previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero, non si tratta di una tutela incondizionata, essendo essa temperata dall’esistenza di interessi diversi che sono ugualmente garantiti. Vi rientra l’onore, insieme al decoro e alla reputazione, in quanto diritti inviolabili della persona umana (242). Questi diritti ricevono tutela dall’ordinamento ai sensi dell’articolo 595 c.p., il quale punisce qualsiasi espressione diffamatoria dell’altrui onore e decoro, indipendentemente dal mezzo con cui la stessa sia perpetuata. Come noto, affinché il reato si configuri, è necessario che tale messaggio sia percepito come tale da una pluralità di soggetti. La diffamazione è punita più severamente in presenza di determinate aggravanti; si pensi a quella prevista nel comma 3, concernente l’utilizzo del mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità. La domanda che si è posta la giurisprudenza è quella relativa alla configurabilità o meno di tale aggravante nei casi di diffusione del messaggio diffamatorio tramite giornale online, blog, social networks e forum. Bisogna partire dal presupposto che, nel caso del giornale online, la sua configurabilità come “stampa” è stata storicamente esclusa da numerose pronunce della Cassazione (243). L’impossibilità di estensione era collegata alla definizione di “stampa” contenuta nell’art. 1 della l. 47/1948, che ricomprende le riproduzioni tipografiche o ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione. È chiaro che una tale interpretazione storica della norma limiti l’applicabilità delle garanzie riservate ai periodici unicamente alla “carta stampata”. Tuttavia, successivamente, le Sezioni unite della Cassazione (244) si (242) Idem. Tale limite è espressamente riconosciuto dall’articolo 10 della CEDu: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica […] alla protezione della reputazione o dei diritti altrui”. (243) Cass. Pen., sez. V, 16 luglio 2010, n. 35511, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di S. PERON, “Internet, regime applicabile per i casi di diffamazione e responsabilità del direttore”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2011, pag. 85; Cass. Pen., sez. V, 28 ottobre 2011, n. 44126, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di D. PETRINI, “Il direttore della testata telematica, tra horror vacui e prospettive di riforma; sperando che nulla cambi”, su Riv. It. Dir. e Proc. Pen., fasc. 4, 2012, pag. 1611; Cass. Pen., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, con nota di C. MELzI D’ERIL, “La Cassazione esclude l’estensione ai siti internet delle garanzie costituzionali previste per il sequestro di stampati”, in Dir. Pen. Uomo, 2014. (244) Cass. Pen., Sez. un., 17 luglio 2015, n. 31022, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di L. DIOTaLLEVI, “La Corte di cassazione sancisce l'“equiparazione” tra giornali cartacei e telematici ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di sequestro preventivo: un nuovo caso di “scivolamento” dalla “nomofilachia” alla “nomopoiesi”?”, su Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 3, 2015, pag. 1062. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà sono pronunciate sul tema del sequestro preventivo tramite oscuramento di una pagina telematica, in un caso che riguardava la diffamazione online sulla pagina di un noto quotidiano. Ebbene i giudici, dopo aver dichiarato l’idoneità di tale misura cautelare, hanno però chiarito che non è ammissibile il sequestro preventivo di un periodico online fuori dai casi previsti dalla legge poiché, sulla base dell’equiparazione, a certe condizioni, delle testate telematiche alla stampa cartacea, vi è la conseguente applicabilità delle garanzie costituzionali di cui all’art. 21 Cost. La Cassazione si è discostata dall’esegesi letterale del dettato normativo, privilegiando una interpretazione estensiva ed evolutiva dello stesso, consapevole che in senso figurato la definizione di stampa su richiamata, fa riferimento ai giornali come mezzo elettivo di informazione a prescindere dalla digitalizzazione di cui si ignorava l’esistenza quando una simile norma fu elaborata. La Corte ci dice che un prodotto editoriale propriamente inteso possiede dei requisiti ontologici e teleologici, quali una “testata”, la periodicità regolare delle pubblicazioni, la finalità informativa e diretta al pubblico, oltreché un generico interesse alla pubblicazione, ossia alla diffusione dell’informazione. C’è, inoltre, il requisito del direttore responsabile e quello relativo alla registrazione delle testate presso la cancelleria del competente Tribunale. alla luce di ciò è evidente che tali requisiti, pacificamente appartenenti alla stampa, non sono menzionati nell’articolo 1 della l. 47/1948, ancorata invece alle tecnologie dell’epoca. Comunque, la Corte ha sostenuto che non ci sono ostacoli alla possibilità di accreditare il giornale telematico come stampa alla luce dei progressi tecnologici e in presenza dei requisiti sopra elencati. Invero, l’elemento caratterizzante dell’attività giornalistica è il fine informativo, dunque, in presenza di esso, i periodici telematici possono essere assimilati ontologicamente e funzionalmente alla pubblicazione cartacea. Conclusione rilevante, soprattutto perché in tal modo alla testata telematica vengono applicate le disposizioni costituzionali e ordinarie che disciplinano l’attività di informazione diretta al pubblico e, nel caso di specie, non è attuabile il sequestro preventivo, poiché la diffamazione a mezzo stampa non rientra tra i casi al ricorrere dei quali la legge lo consente. La pronuncia, inoltre, chiarisce la differenza di trattamento ed inquadramento normativo tra testate e ulteriori mezzi di informazione quali blog, social network e forum, ugualmente rientranti nell’ambito dell’art. 21 Cost., quali strumenti attraverso cui manifestare liberamente la propria opinione, ma che non rientrano nel concetto di stampa. Infatti, nei vari siti, blog, forum ecc., diversi dai periodici online, ci sono pagine web che consentono uno scambio di opinioni e commenti, in forma sia privata che pubblica, che difettano dei requisiti di assimilabilità alla stampa. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 Per inquadrare correttamente il fenomeno è necessario che il giornale online possegga i requisiti di cui all’art. 2, l. 47/1948. Per parlare di “stampato” è necessario che siano indicati il luogo e l’anno di pubblicazione, il nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell’editore. Solo per quanto concerne i giornali, le agenzie di informazioni e i periodici è necessario aggiungere i dati identificativi del proprietario e del direttore (o vice) responsabile. Perché si possa parlare propriamente di giornale o periodico, bisogna inoltre registrare lo stesso presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione debba effettuarsi la pubblicazione, ai sensi dell’articolo 5, l. 47/1948. Ciò sia nel caso in cui l’editore intenda ottenere contributi statali ovvero preveda di avvalersi di giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti. Per i periodici web di piccole dimensioni, quest’ultimo obbligo non è imprescindibile, perché se si tratta di giornali realizzati unicamente su supporto informatico e diffusi unicamente per via telematica ovvero online, i cui editori non abbiano fatto domanda di contributi o agevolazioni pubbliche e che conseguano ricavi annui inferiori a 100.000 euro, questi non sono soggetti alla registrazione di cui all’art. 5 (art. 3-bis, l. 103/2012). al contrario, l’art. 3 della l. 103/2012 impone dei parametri per valutare la periodicità di testate giornalistiche di grandi dimensioni che offrano contenuti anche online, parametri che riguardano l’accessibilità online della testata, anche a titolo non oneroso, la garanzia di un’informazione quotidiana composta da informazione autoprodotta per almeno dieci articoli al giorno, con un aggiornamento pari ad almeno 240 giorni per i quotidiani, 45 per i settimanali e plurisettimanali, 18 uscite per i quindicinali e 9 per i mensili. In più, qualora la testata sia pubblicata sia in edizione cartacea sia in edizione digitale, con lo stesso marchio editoriale, l’impresa non è tenuta all’iscrizione di entrambe le testate, ma solo a dare apposita comunicazione al registro degli operatori di comunicazione (art. 3, l. 103/2012). Concludendo, per le testate giornalistiche online non è configurabile un obbligo di registrazione ai fini dell’equiparazione degli stessi alla nozione di stampa. La giurisprudenza successiva alle Sezioni unite del 2015 si è uniformata all’orientamento secondo cui i periodici online sarebbero assimilabili alla stampa, contrariamente ai social, forum, blog e newsletter i quali, pur essendo tutelabili ai sensi dell’art. 21 Cost., non godrebbero tuttavia delle garanzie costituzionali di cui ai commi successivi al primo, non essendo soggetti alla normativa e tutela accordata alla stampa. Per quanto riguarda l’applicabilità dell’aggravante di cui al comma 3 dell’articolo 595 c.p., si è scelto di ricomprendere nell’ambito del “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”i social network, blog o forum in cui si perpetuava il reato di diffamazione (245). LEgISLazIONE ED aTTuaLITà L’aggravante in questione si applica ai social network anche in virtù del costante orientamento volto a considerarli come strumenti idonei a raggiungere una pluralità di persone, determinando quella maggiore diffusività dell’offesa che giustifica un trattamento sanzionatorio più severo (246). Nulla osta, ai fini della configurabilità dell’aggravante, la pubblicazione del contenuto diffamatorio nella bacheca Facebook della persona offesa, poiché la maggiore diffusività è comunque configurabile. Da parte di alcuni, in effetti, era stato sostenuto che, nel caso in esame, non si integrasse la pubblicazione, con conseguente diffusione, del messaggio diffamatorio, poiché potevano agire i meccanismi di privacy impostati dalla persona sulla cui bacheca era pubblicato il messaggio. Contrariamente a questa tesi, la Cassazione ha deciso sia per l’applicabilità dell’aggravante sulla base dell’idoneità del mezzo (Facebook) a consentire un’ampia e indiscriminata diffusione della notizia, sia per l’idoneità della bacheca a tal fine, indipendentemente dalle impostazioni della privacy; e ciò “sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso), sia perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione” (247). (245) Cfr. Cass. Pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, disponibile su dejure.it e su Ilpenalista.it, 4 settembre 2015, con nota di V. SPazIaNI TESTa; Cass. Pen., sez. V, 25 gennaio 2021, n. 13979, disponibile su dejure.it e su Responsabilità Civile e Previdenza, 2021, 4, 1341. (246) Cfr. Cass. Pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, cit. (247) Cfr. Cass. Pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, cit. un’altra interessante pronuncia da prendere in considerazione è la recente sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021, con cui la Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte d’appello di Roma, ha rigettato definitivamente il ricorso contro un licenziamento di un ex dipendente TIM, statuendo che il lavoratore che insulta i propri responsabili sui social network può incorrere nel licenziamento per giusta causa. Il caso ha preso le mosse dalla diffusione -tramite tre e-mail e un post sulla propria pagina Facebook -di diverse frasi rivolte ai propri superiori, gravemente offensive e diffamatorie, cui è seguito il licenziamento del dipendente per giusta causa, in applicazione dell’art. 2119 c.c., per la grave insubordinazione posta in essere attraverso i mezzi di comunicazione citati. Secondo il lavoratore, i post sulla pagina Facebook erano da considerarsi riservati, in quanto la pagina era destinata alla comunicazione esclusiva con i propri “amici”. Tuttavia, secondo i giudici, la tutela della libertà e della segretezza della corrispondenza non può trovare applicazione dal momento che lo strumento utilizzato non integra le caratteristiche della corrispondenza o di “ogni altra forma di comunicazione”, ovvero l’attualità, la determinatezza o determinabilità del destinatario e la segretezza della comunicazione. Viene in questo caso in rilievo il concetto di “bacheca Facebook”, alla quale possono accedere gli utenti considerati “amici” dal titolare dell’account. Ebbene, se da una parte tale elenco di “amici” non comprende la totalità degli utilizzatori del social network, dall’altra parte l’elenco è sempre modificabile tramite l’accettazione o la rimozione di ulteriori “amicizie” da parte dell’utente, comportando perciò l’impossibilità di avere un numero di destinatari determi RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 Nel caso in cui la portata diffamatoria del messaggio non emerga direttamente, ma derivi da una discussione nei commenti ad un post all’interno di un gruppo Facebook, la Corte ha optato per un bilanciamento con il diritto di libera espressione del pensiero, escludendo la fattispecie nel caso dell’azione di chi abbia inteso condividere una critica nei confronti della persona offesa, ma nel farlo sia rimasto entro i limiti dell’esercizio del proprio diritto di manifestazione del pensiero, senza condividerne le forme illecite usate da altri. La Corte ha stabilito, infatti: “che l’imputato condividesse o meno i presunti insulti che altri avrebbero postato è infatti circostanza irrilevante nella misura in cui la sua condotta materiale non evidenzia oggettivamente alcuna adesione ai medesimi, rilanciandoli direttamente o anche solo indirettamente. […] La condotta contestata potrebbe assumere in astratto rilevanza penale soltanto qualora potesse affermarsi che con il proprio messaggio l’imputato aveva consapevolmente rafforzato la volontà dei suoi interlocutori di diffamare” (248). Dunque, i giudici di legittimità escludono che sia integrato il reato di diffamazione nel caso in cui il discorso o l’espressione configurino una semplice condivisione di un post nel suo complesso, e qualora il commento non abbia carattere esplicitamente diffamatorio. alla luce di quanto detto, non dovrebbe configurarsi la fattispecie in questione qualora il contenuto diffamatorio venga semplicemente condiviso o si esprima un gradimento allo stesso, attraverso i c.d. likes ai post o ai commenti. Questo perché, pur manifestando la persona un’adesione al contenuto offensivo, non ne si condividono le modalità illecite; dunque, la condotta non sarebbe manifestamente diffamatoria (249). nato o determinabile; emerge, quindi, l’elemento della pluralità, previsto nella fattispecie della diffamazione. V. a. DE LuCIa, “Offese su Facebook: la Cassazione conferma la legittimità del licenziamento”, su altalex.com. (248) V. Cass. Pen., sez. V, 29 gennaio 2016, n. 3981, con nota di a. aLì, “Diffamazione via Facebook: condividere post offensivi non è reato”, su altalex.com, 2016. (249) La Corte d’appello dell’aquila, con la sentenza 1659 del 9 novembre 2021, si è espressa sul rapporto contrattuale che si instaura tra utente e social network, concludendo che l’utente ingiustamente bannato da un social ha diritto di ottenere il risarcimento del danno subìto a causa della sospensione delle proprie relazioni sociali. La pronuncia ha preso le mosse dal ricorso presentato da un utente che, dopo aver pubblicato foto didascalie e commenti sulla figura di Mussolini, mostrando la propria appartenenza politica, era stato sospeso da Facebook per oltre quattro mesi per violazione degli «standard della comunità». I giudici di prime cure hanno condannato Facebook a un risarcimento di 15 mila euro a titolo di danno morale e il social network ha impugnato la decisione. La Corte d’appello, nel decidere la questione, è partita dal fatto che il contratto tra le parti è un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, dove il “prezzo” pagato dall’utente è rappresentato dalla concessione dei propri dati personali a fini commerciali. Dunque, se è vero che ogni social network può introdurre clausole con poteri di rimozione dei post degli utenti e di sospensione degli account, è anche vero che i social devono fare attente valutazioni prima di attivare poteri di sospensione o rimozione. Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto lecite le prime due sospensioni dell’account, effettuate per commenti lesivi dell’altrui LEgISLazIONE ED aTTuaLITà 16. La diffamazione tramite chat privata o mailing list. Quid iuris nel caso di un messaggio lesivo dell’onore e della reputazione di un soggetto, trasmesso tramite chat di gruppo o mailing list, ovvero posta elettronica indirizzata a più destinatari in cui partecipava la persona offesa? Si può configurare il reato di diffamazione? Partiamo dal presupposto la Cassazione (250) ha ritenuto che la mailing list rientri nell’alveo “dell’altro mezzo di pubblicità” di cui si è detto, poiché configura un mezzo di comunicazione in cui si condividono informazioni utili, ad un numero anche ampio di destinatari, circa le quali è possibile esprimere condivisione, commentare e discutere. Eppure, la questione principale sollevata dalla mailing list è quella relativa alla configurabilità stessa del reato di diffamazione, data la partecipazione del soggetto offeso alla conversazione diffamante. Di recente, nell’aprile del 2021, la Corte di Cassazione è stata investita della questione in un caso in cui il ricorrente lamentava l’errata qualificazione del fatto come diffamazione e la configurabilità, al contrario, della fattispecie depenalizzata di cui all’articolo 594 c.p. (ingiuria), poiché la persona offesa avrebbe partecipato “in tempo reale” alla conversazione. I giudici hanno respinto tale obiezione. Non è facile adattare le norme al contesto digitale: in effetti, è lecito il dubbio circa la “presenza” della persona offesa come circostanza che renderebbe applicabile l’illecito depenalizzato dell’ingiuria, al massimo configurabile come aggravato dalla comunicazione a distanza, ovvero dalla presenza contestuale di altre persone, come attualmente previsto dai commi 2 e 4 del- l’articolo, abrogato con il D.lgs. n. 7 del 2016. Tale norma consente di operare un discrimine con la diffamazione, che si configura allora, secondo la Corte, nel caso dell’offesa “a distanza” della comunicazione lesiva, qualora indirizzata anche ad altri soggetti oltre che all’offeso (fermo restando che l’offesa riguardante un assente comunicata ad almeno due persone, presenti o distanti, integra sempre la diffamazione). È quindi nata la necessità di riempire il significato di “presenza”, alla luce di mezzi quali mailing list, videoconferenze o audio conferenze. Negli ultimi due casi, e nelle situazioni equivalenti, in cui cioè ci si trovi alla presenza anche virtuale dell’offeso unitamente ad altri soggetti che possono interagire in audio, video o scrivere istantaneamente -quindi di fatto in una riunione virtuale - si configurerebbe l’ingiuria (251). reputazione (l’utente aveva definito “stupido” un altro utente); tuttavia, ha considerato che le successive sospensioni fossero illegittime, poiché «la mera pubblicazione di una foto con un commento che si limita all’espressione del proprio pensiero (…) non si ritiene sufficiente a violare gli standard della comunità». In appello si è quindi ridimensionato il risarcimento dovuto, in 3 mila euro. (250) Cfr. Cass. Pen., Sez. un., 17 luglio 2015, n. 31022, cit. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 Invece, nel caso di mailing list, è difficile -se non impossibile -parlare di presenza virtuale, perché le e-mail sono considerate delle lettere in formato elettronico, indirizzate a persone che non sono contestualmente presenti. Per tale ragione, nonostante il fatto si compia con un unico gesto, la trasmissione effettiva del messaggio si realizza attraverso una pluralità di atti di cui l’agente ha coscienza e volontà. In sostanza, la Corte (252) considera integrato il reato di diffamazione nel caso in cui il fatto è compiuto tramite l’invio di e-mail di contenuto offensivo, sebbene tra i destinatari del messaggio vi sia la persona offesa. Tale orientamento non è però pacifico: in altri casi, la “presenza”, da remoto o virtuale, dell’offeso, ha guidato i giudici verso un’interpretazione rigida del dettato normativo, e si è optato per l’applicazione dell’art. 594, ultimo comma c.p. (253) Passando ad esaminare l’esimente del diritto di critica, si può iniziare col dire che il diritto della persona a non veder leso il suo onore e la sua reputazione non è configurato come assoluto nel nostro ordinamento, potendo essere limitato dall’altrettanto legittima libertà di manifestazione del pensiero, anche in rete, di cui all’art. 21 Cost. Il diritto di critica, quindi, come il diritto di cronaca o di satira, può, a determinate condizioni, moderare la portata del diritto all’onore. La critica si esprime in un giudizio soggettivo, che non può certamente essere asettico o obiettivo, ma affinché si applichi l’esimente è necessario che il fatto di cui si stia trattando sia corrispondente a verità, per cui non dovrebbe essere arbitrariamente inventato o elaborato esorbitando da quello che è il nu (251) Cfr. Cass. Pen., sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905, disponibile su dejure.it e su Responsabilità Civile e Previdenza 2020, 4, 1306. Si veda anche la recente sentenza 2 dicembre 2021, n. 44662, della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, commentata da M. MaRTORaNa, “L’offesa su Facebook non è reato se l’insultato è online”, su altalex.com, febbraio 2022. Nel caso di specie, i giudici della Corte d’appello di Catanzaro avevano confermato la condanna di un soggetto per diffamazione per aver pubblicato commenti e insulti su una chat con la persona offesa. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha accolto il ricorso dell’imputato, che richiedeva di qualificare la fattispecie come ingiuria e non come diffamazione. In sostanza, la Corte ha ribadito l’importanza del requisito della presenza della vittima per la distinzione tra ingiuria e diffamazione, presenza che secondo i giudici può essere anche “virtuale” e non necessariamente fisica o telefonica. Poiché nel caso di specie il destinatario delle offese in chat era online e, dunque, riceveva i messaggi in tempo reale, la fattispecie che si è configurata è quella del- l’ingiuria, con esclusione del reato di diffamazione e della rilevanza penale della condotta. La Corte, richiamando la precedente sentenza n. 10905/2020, ha chiarito che anche laddove gli insulti fossero stati proferiti durante una riunione da remoto tra più individui compreso l’offeso si sarebbe trattato di ingiuria commessa alla presenza di più persone, anch’essa depenalizzata. (252) Cass. Pen., sez. V, 2 febbraio 2017, n. 12603, disponibile su dejure.it e su Cassazione Penale 2017, 9, 3312 e CED Cass. pen. 2017; Cass. Pen., sez. V, 6 luglio 2018, n. 34484, disponibile su dejure.it e su Diritto & Giustizia, 23 luglio 2018; Cass. Pen., sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252, disponibile su dejure. it; nota a sentenza di a. IEVOLELLa, “Offeso con una e-mail inviata a lui e ad alcuni colleghi: è diffamazione”, su Diritto & Giustizia, fasc. 73, 2021, pag. 7. (253) V. Cass. Pen., sez. V, n. 10905/2020, cit. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà cleo essenziale, come specificato dal Tribunale di Firenze con la pronuncia n. 1502 del 2019. Dunque, è necessario che la verità sia quanto meno putativa in ragione di una verifica sulle fonti da cui proviene o sul contesto all’interno del quale il fatto è avvenuto. Oltre a questo requisito della verità, devono sussistere anche la continenza espositiva e l’interesse sociale alla notizia. Quest’ultimo è connesso alla necessità che la critica soddisfi l’interesse di un pubblico alla notizia e alla sua interpretazione critica, che non sia, dunque, mera curiosità pur potendo riguardare la vita privata di un soggetto (c.d. principio di pertinenza). Per quanto riguarda la continenza espressiva, questa non esclude la possibilità di un linguaggio più colorito o pungente, purché esso sia strumentalmente collegato alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento preso di mira, tanto che, in ultima analisi, il giudizio in questione deve essere accompagnato da una motivazione in merito al disvalore attribuito, dato che la critica non può risolversi in una aggressione gratuita, come evidenziato dalla giurisprudenza (254). allorquando non possa trovare applicazione l’art. 51 c.p. -che esclude la punibilità nei casi in cui il fatto sia commesso nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di un diritto (chiaramente quello di cui all’art. 21 Cost.) -è possibile invocare l’exceptio veritatis, nei limiti di quanto previsto dall’art. 596 c.p. (255). Si tratta di una disposizione volta a considerare la verità dei fatti come causa di esclusione della punibilità qualora la stessa sia accertata per fatti determinati, nei casi di accordo tra offensore ed offeso per il deferimento del- l’accertamento ad un giurì d’onore, ovvero nei casi di cui al comma 3 dello stesso articolo. Per escludere la punibilità serve che la prova del fatto sia completa, e non parziale, ai fini di una perfetta aderenza dei fatti di causa con quelli realmente accaduti: non devono essere riportate inesattezze non marginali, idonee a modificare l’assetto sostanziale degli eventi (256). Comunque, anche qualora la (254) Si vedano le sentenze Tribunale di Firenze, 15 maggio 2019, n. 1502, disponibile su dejure.it e su Redazione Giuffrè 2019; Corte di appello di Taranto, 27 gennaio 2021, n. 84, disponibile su dejure.it e su Guida al diritto 2021, 23; Cass. Civ., sez. III, 26 ottobre 2017, n. 25420, disponibile su dejure.it; note a sentenza di I. aLagNa, “Diffamazione a mezzo stampa: il reato sussiste anche in assenza di esplicita indicazione del nome”, su Ridare.it, 18 dicembre 2017 e a. VILLa, “Il diritto di critica ancorché contenga giudizi soggettivi deve fondarsi su fatti che debbono corrispondere a verità perlomeno putativa”, su Diritto & Giustizia, fasc. 171, 2017, pag. 11; Tribunale di Milano, sez. I, 15 luglio 2020, n. 4250, disponibile su dejure.it e Redazione Giuffrè 2020; Cass. Civ., sez. III, 29 ottobre 2019, n. 27592, disponibile su dejure.it e Giustizia Civile Massimario 2019. (255) Vedi Cass. Pen., sez. V, 16 giugno 2016, n. 41414, disponibile su dejure.it e CED Cass. pen. 2016. (256) Cass. Pen., sez. V, 18 novembre 2019, n. 7008, disponibile su dejure.it e CED Cass. pen. 2020. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 verità sia provata, se i modi usati sono stati diffamanti, secondo una valutazione conforme al principio di continenza espositiva, non è automatica l’esclusione della punibilità per il reato di diffamazione. In realtà, sembrerebbe che una disposizione come quella esaminata voglia sancire il divieto dell’exceptio veritatis, che non si applica che nei casi previsti dall’art. 596 c.p. e nell’esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p. (all’interno del quale è pacificamente ricomprendibile il diritto di critica). In definitiva, dunque, in determinate circostanze, viene temperato il diritto a non veder leso il proprio onore con l’interesse alla verità oggettiva o putativa che sia, che si dimostra, però, inidonea, da sola, ad escludere la punibilità. Resta fermo che l’assenza di uno dei criteri richiamati (verità, interesse pubblico, continenza espressiva) determina la carenza dell’esimente del diritto di critica, per cui il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero non è giustificato ma punibile, e dunque risarcibile. Se accade il contrario, la condotta è da considerare lecita. Passando ad esaminare il profilo del danno, nel caso in cui la fattispecie si perfeziona, questo pregiudizio si può considerare, anzitutto, come una lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile; in secondo luogo, come un effetto economico negativo; in terzo luogo, come liquidazione pecuniaria dell’evento economico negativo (257). Il danno ex art. 2043 c.c. è un danno non iure e contra ius, perché generato da un comportamento non giustificato dall’ordinamento e che lede un interesse giuridicamente tutelato. Ovviamente, grava sulla parte che si dichiara lesa provare la sussistenza del nesso di causalità tra l’azione ed il danno ingiusto derivatone, nonché l’imputabilità soggettiva a carico del presunto offensore (258). È interessante notare che nei casi di diffamazione perpetuata in internet, è stato registrato che in luogo dell’azione penale si è preferita quella civile del risarcimento del danno (259) ed inoltre, stante la difficoltà di provare il danno patrimoniale, ai sensi dell’articolo 2043 c.c., si è preferito ricorrere al danno di cui all’articolo 2059 c.c. Molto spesso, infatti, il fatto illecito genera comunque un turbamento, una sofferenza interiore, con conseguenze pregiudizievoli risarcibili. al riguardo, deve essere illustrato brevemente il contributo delle Sezioni unite della Cassazione che, con le c.d. sentenze gemelle del 2008, hanno ridefinito i confini del danno non patrimoniale. La Corte ha, infatti, ricondotto ad unità fenomenica e giuridica il danno non patrimoniale, sancendo l’uni (257) M. BIaNCa, “Diritto civile”, Milano, 2011, 123. (258) Cass. Civ., Sez. un., 26 gennaio 1971, n. 174, in Resp. Civ. Prev., 1971, 67 ss. (259) Solo nel biennio 2011-2012, su un campione di 112 sentenze emesse dal Tribunale di Milano, sono state registrate richieste risarcitorie per un ammontare pari a € 766.511,93; cfr. New Tabloid, 3, 2013, 32 ss., come riportato da S. PERON, “Il risarcimento dei danni da diffamazione: analisi e riflessione sui criteri orientativi proposti dell’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano” (edizione 2018), in filodiritto.it, 2018. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà tarietà del pregiudizio le cui differenti denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) sono semplicemente descrittive. Se il fatto illecito si configura come reato, dunque, è risarcibile il danno non patrimoniale sofferto dalla persona offesa nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona, non connotati da rilevanza economica (260). Nel caso di diffamazione, quindi, qualora non si possano riscontrare degenerazioni patologiche della sofferenza, si verificherà il danno morale, ove sia allegato il turbamento dell’animo o il dolore intimo sofferti (261). Il giudice di merito deve accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. La prova del danno è a carico sulla parte lesa, che potrà però servirsi anche di mezzi di prova presuntivi che testimonino che lo scritto offensivo abbia ingenerato una ripercussione dolorosa nella sfera personale. I danni così provati non potranno che essere liquidati in via equitativa (262). Molteplici sono i parametri di quantificazione del danno adoperati dalla giurisprudenza con specifico riferimento alla liquidazione del danno da diffamazione a mezzo di comunicazione di massa. anzitutto rileva la diffusività della notizia, con riguardo alla notorietà del diffamante; poi è importante un’eventuale reiterazione della condotta; si guarda anche alla collocazione della notizia/commento (se in una posizione rilevante rispetto ad altre) (263); al mezzo (se sia o meno idoneo ad una più capillare diffusione); è importante, inoltre, la risonanza mediatica suscitata dalle notizie diffamatorie. Ma non solo. Si guarda anche alla posizione sociale ricoperta dal diffamato, senza però distinguere tra reputazione professionale e personale, poiché la rilevanza è data alla complessiva diminuzione del valore della persona. (260) Punto 2.1, Cass. Civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di M. ROSSETTI, “Post nubila phoebus, ovvero gli effetti concreti della sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 in tema di danno non patrimoniale”, su Giustizia Civile, fasc. 4-5, 2009, pag. 930. (261) Punto 4.8, Cass. Civ., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, cit. (262) In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno morale va necessariamente operata con criteri equitativi, il ricorso ai quali è insito nella natura del danno e nella funzione del risarcimento, realizzato mediante la dazione di una somma di denaro compensativa di un pregiudizio di tipo non economico (v. Cass. 5 dicembre 2014, n. 25739; v. anche Cass. 16 luglio 2002, n. 10268, secondo cui la liquidazione del danno morale conseguente alla lesione dell’onore o della reputazione è rimessa alla valutazione equitativa del giudice). (263) a tal proposito, è stato ritenuto che anche solo il titolo di un articolo giornalistico sia idoneo ad integrare la fattispecie, cfr. Cass. Civ., sez. III, 7 agosto 2013, n. 18769. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 Certamente rileva l’animus diffamandi, quindi la presenza o meno degli elementi esimenti richiamati. Infatti, pur bastando l’elemento della colpa, l’intensità dell’elemento psicologico certamente rileva nella quantificazione del danno. ancora rilevano le conseguenze dell’azione diffamatoria: in senso favorevole al diffamante acquisiscono importanza alcuni comportamenti quali la ratifica delle dichiarazioni ovvero la pubblicazione della sentenza in uno o più quotidiani. In base alle decisioni risarcitorie della giurisprudenza, sono state previste cinque categorie di diffamazione, sulla base del grado di lesività dell’offesa complessivamente considerata (264). Le fasce sono le seguenti: tenue gravità, modesta gravità, media gravità, elevata gravità ed eccezionale gravità; la collocazione del fatto di reato dipenderà certamente dalla posizione ricoperta dal diffamato, ma parimenti dal grado di diffusività della notizia. Ebbene, ci chiediamo se le categorie sopra rappresentate sono o meno idonee a trovare applicazione nel mondo di internet: nel grado di elevata gravità, oltre all’intensità dell’elemento soggettivo o alla gravità del discredito, si fa riferimento alla risonanza mediatica. Sulle piattaforme social è già intrinseca questa risonanza mediatica, indipendentemente dalla gravità dell’offesa o dall’intensità del dolo. Inoltre, se si guardano i rimedi risarcitori, solo una deindicizzazione della notizia o la rimozione della stessa possono dare “soddisfazione” all’offeso, ma neanche in quel caso si potrà avere la certezza che il contenuto sia rimosso dalla rete, o comunque che la condotta non sia reiterata. La domanda che ci si è posti è: la condotta diffamatoria tramite il web è da considerare sempre come di “elevata gravità”? (265). accogliendo questa interpretazione, si dovrebbero ridefinire tutte le altre categorie prospettate, perché al più elevato grado di lesività corrisponde un più elevato quantum risarcitorio (266): potrebbe allora sembrare sproporzionato un tale rimedio, nonostante la diffusività, rispetto, ad esempio, alla diffamazione tramite Facebook. Tema interessante è quello del locus commissi delicti: qual è il luogo di consumazione del reato in caso di diffamazione online? Ciò vale per tutti i reati informatici, per i quali bisogna chiedersi quale sia il luogo in cui si perfeziona la fattispecie -se il luogo in cui il contenuto è caricato in rete ovvero il luogo in cui si ha la percezione dello stesso. Partiamo dal presupposto che il reato di diffamazione si consuma nel momento della percezione del contenuto lesivo della reputazione altrui da parte di terzi, per cui rientra pacificamente tra i reati di evento. Sono, dunque, ipotizzabili due distinti momenti: da un lato, quello dell’immissione del contenuto (264) Elaborazione dell’Osservatorio per la giustizia civile di Milano nell’anno 2018. (265) Per completezza, l’Osservatorio di Milano ha stimato che l’importo medio matematico liquidato tra i casi analizzati sia pari a € 26.290. (266) attualmente prospettato intorno a € 40.000. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà sul web, dall’altro, quello della percezione dello stesso da parte di terzi. È pacificamente configurabile l’ipotesi del tentativo: si pensi al caso in cui il diffamatore scriva il messaggio ma questo non venga caricato correttamente per mancanza di rete o altre motivazioni. È anche configurabile il reato impossibile, quando l’azione risulti in concreto inidonea a produrre i suoi effetti in quanto, ad esempio, l’agente fa uso di uno strumento difettoso, che solo in modo apparente gli consente l’accesso ad uno spazio web, mentre in realtà il suo messaggio non è stato mai caricato in rete (267). Ne deriva che la giurisdizione appartiene al giudice italiano, ai sensi della c.d. teoria dell’ubiquità, sia che la condotta sia posta in essere nel territorio nazionale, sia che sia solo stata percepita da terzi nel territorio italiano (268). Il giudice territorialmente competente per i reati informatici è, invece, frutto di una presunzione: si ritiene che la percezione del contenuto lesivo si abbia nel luogo di residenza, domicilio o dimora della persona offesa, ossia il luogo dove il soggetto vive e, in quanto tale, in cui svolge la sua personalità. È un criterio elaborato dai giudici di legittimità, per evitare di rendere indefinito il luogo in cui è sorta l’obbligazione ovvero il luogo in cui il danno si è verificato. Non sostenibile appare, invece, la tesi di chi individua tale luogo in quello presso cui il contenuto sia stato caricato sulla rete, in primis, perché il soggetto agente ben potrebbe essere in movimento durante il caricamento, e poi perché i server dell’ISP potrebbero essere locati in qualsiasi luogo, rendendo così quasi impossibile per la vittima risalire al server su cui sia stata caricata la notizia. Non è plausibile nemmeno la tesi di chi sostiene che la lesione del diritto si possa verificare in tutti i luoghi in cui avviene la diffusione della notizia, poiché in tal modo si andrebbe ad incidere sulla situazione processuale dell’attore, per cui sarebbe impossibile dimostrare, per il risarcimento del danno, che il luogo da lui indicato sia quello della prima visita. Passiamo ad esaminare la posizione di garanzia online. Nel caso in cui vi sia una fonte di rischio che trovi la causa in un rapporto qualificato tra un soggetto e l’attività da questi esercitata, l’attribuzione di una posizione di garanzia è funzionale a tutelare l’interesse previsto dall’ordinamento. a fronte del recente incremento dei cybercrimes, tra cui rientra la diffamazione online appena esaminata, ci si chiede quale possa essere il soggetto cui viene affidata la posizione di garanzia e l’obbligo giuridico di attivarsi per prevenire la commissione di reati online. (267) Cass. Pen., sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741, disponibile su dejure.it; nota a sentenza di E. PERuSIa, “Giurisdizione italiana anche per le offese on line su un sito straniero”, su Cassazione Penale, fasc. 6, 2001, pag. 1835. (268) Cass. Pen., sez. V, 27 dicembre 2000, n. 4741, cit. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 È diffusa la consapevolezza della necessità di un controllo online, eppure è nota la difficoltà dello stesso per l’intrinseca natura del mezzo utilizzato. Si pensa, comunemente, che il legislatore, piuttosto che prevedere meccanismi di controllo preventivo non percorribili e che potrebbero porsi in contrasto con la natura libertaria della rete, dovrebbe valorizzare modelli di compliance e controllo successivo. D’altro canto, è pur vero che l’esigenza comunque sentita di prevenire i reati mette in dubbio questo orientamento. ultimamente, è stato il legislatore europeo a riconoscere un obbligo di attivazione in capo ai soggetti che hanno la possibilità di agire sui contenuti online, ossia gli Internet Service Provider (ISP) che, come noto, rappresentano i principali intermediari dell’offerta digitale (269). La Direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE), confluita poi nel Codice del commercio elettronico (D.lgs. 70/2003), ha introdotto gli artt. 14 ss., che consentono di configurare a carico degli ISP un obbligo di attivarsi qualora venissero a conoscenza della trasmissione di un contenuto illecito. gli ISP si configurano, dunque, come veri e propri tutori dell’ordine virtuale, collaborando nella attenuazione ovvero eliminazione delle conseguenze dei contenuti illeciti, senza però avere alcun obbligo di verifica preventiva intervenendo esclusivamente ex post. Resta ferma la possibile responsabilità per concorso attivo nel reato commesso dall’utente. Tale sistema di responsabilità indiretta in capo ai provider è stato, in parte, modificato dalla c.d. Direttiva Copyright (2019/790/uE) che, con riguardo ai contenuti protetti dal diritto d’autore, prevede che gli ISP debbano, in via preventiva, ottenere una licenza per caricare i contenuti, anche qualora condivisi dai propri utenti, costituendo, di fatto, una forma di controllo anche ex ante in capo agli ISP, e presupponendo un comportamento attivo degli stessi. Se questo obbligo di controllo preventivo in capo agli ISP fosse applicato ai contenuti diffamatori o d’odio, ciò sarebbe funzionale alla prevenzione della lesione esaminata fino ad ora. Tuttavia, la disciplina di cui sopra è applicabile unicamente alle violazioni in materia di Diritto d’autore. ai sensi dell’articolo 15, comma 1, della Direttiva e-commerce, infatti, è vietato agli Stati membri di imporre un obbligo generale di sorveglianza o di ricerca attiva tra i contenuti veicolati dagli ISP (270). Per cui, chi subisce una lesione del proprio onore e della propria reputazione in internet, ha la facoltà di chiedere la disabilitazione all’accesso dei singoli contenuti diffamatori, ma non ne può chiedere una disabilitazione preventiva o generalizzata indipendente dalla sua richiesta. (269) L’OSCE ha definito gli ISP degli intermediari che danno accesso agli utenti, ospitano, trasmettono, e indicizzano contenuti originati dai content provider o forniscono servizi basati su internet a terze parti, cfr. g.E. VIgEVaNI, O. POLLICINO, C. MELzI D’ERIL, M. CuNIBERTI, M. BaSSINI, “Diritto dell’informazione e dei media”, g. giappichelli Editore, Torino, 2019, p. 336. (270) Cfr. sul punto: Sabam c. Netlog, C-360/10; Scarlet Extended c. SABAM, C-70/10. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà Nel 2018, però, la Corte di giustizia è intervenuta con una sentenza rivoluzionaria in materia (271), perché, pur ribadendo quanto disposto dall’art. 15, ha riconosciuto la possibilità di intimare agli ISP di bloccare l’accesso alle informazioni di contenuto identico ed equivalente (272), anche qualora condivisi da utenti terzi. Tale riconoscimento deriva dall’applicazione del combinato disposto dell’art. 18 della medesima Direttiva e del Considerando 47, poiché il primo consente di intimare ai provider di tenere un comportamento attivo, teso a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa; mentre il secondo, nel rispetto del divieto di sorveglianza generale, ammette una tale possibilità unicamente con riguardo a casi specifici e ben determinati in sede di richiesta del provvedimento (273). Secondo quest’ottica, l’ingiunzione dovrebbe individuare sia il nome della persona interessata dalla violazione accertata, sia le circostanze in cui è stata accertata tale violazione, nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito. Le differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente, rispetto al contenuto dichiarato illecito, non dovrebbero, ad ogni modo, essere tali da costringere il prestatore di servizi di hosting interessato ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto, così che siano bilanciati l’interesse dell’offeso a non veder leso il suo onore, anche pro futuro, e la fattibilità tecnica (274) della misura inibitoria a carico degli Internet Service Provider. Seguendo quanto tracciato dalla giurisprudenza europea, si potrebbe pensare a strumenti di intelligenza artificiale in grado di discernere i contenuti caricati nelle piattaforme per ottimizzare le procedure di controllo e l’analisi dei contenuti, approccio non del tutto sconosciuto alle piattaforme (271) La causa C-18/18 ha ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla CguE dalla Corte suprema austriaca nel procedimento Eva Glawischnig Piesczek v. Facebook Ireland. Il caso trae origine da un commento diffamatorio ad opera di un utente della piattaforma, che ha accompagnato la condivisione di un articolo di un quotidiano austriaco con un commento lesivo dell’onore e della reputazione della ricorrente. Le domande proposte sono state tre: I) Se l’articolo 15, co. 1 della direttiva 2000/31/CE consenta di imporre ad un hosting provider di eliminare non soltanto il contenuto dichiarato illecito, ma anche contenuti identici, anche qualora pubblicati da altri utenti e a livello mondiale; II) In caso di risposta negativa al primo quesito, valga anche per i contenuti equivalenti; III) Se valga per i contenuti equivalenti, non appena il gestore sia venuto a conoscenza di tale circostanza. (272) Punto 39 della sentenza: “Dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio risulta che, con i termini «informazioni di contenuto equivalente», il giudice del rinvio intende riferirsi a informazioni che veicolano un messaggio il cui contenuto rimane, in sostanza, invariato e quindi diverge molto poco da quello che ha dato luogo all’accertamento d’illiceità”. (273) Con riguardo ai tempi, alle circostanze e al contenuto da bloccare o rimuovere. (274) In forma prettamente automatizzata, emblematica sul punto è la sentenza C 324/09, L’Oreal v. eBay. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 di grandi dimensioni che si servono già di elementi del genere (ma in via riparativa). Potrebbe allora essere ripensato l’uso dei sistemi automatizzati in funzione garantista dei contenuti veicolati, ma un tale approccio dovrebbe essere ponderato, sia per quanto riguarda il punto di vista etico che dal punto di vista della responsabilità e, in ultima analisi, anche dal punto di vista di un eventuale controllo umano sulle decisioni della macchina. Più di recente, la Commissione europea ha elaborato una proposta di regolamento sui servizi digitali, il c.d Digital Services Act (DSa), che si basa sui principi già affermati dalla Direttiva sul commercio elettronico, e tuttavia mira ad assicurare le condizioni migliori per la prestazione dei servizi digitali innovativi nel mercato interno. La proposta vuole contribuire alla sicurezza online e alla protezione dei diritti fondamentali, nonché creare una struttura di governance solida e duratura per una vigilanza efficace sui prestatori di servizi intermediari. La proposta di regolamento mantiene il sistema di esonero da responsabilità per i provider che non svolgano un ruolo attivo nella trasmissione dei contenuti, tuttavia ne modifica le condizioni, rendendole più rigide per i c.d. hosting provider. Si impongono, infatti, obblighi di comunicazione ed informazione più chiari e trasparenti; obblighi di moderazione dei contenuti e di azioni disincentivanti alla pubblicazione di contenuti illeciti; si introduce la possibilità di impugnare le decisioni; si istituisce un sistema interno di gestione dei reclami ed inoltre la proposta delinea degli speciali obblighi per le piattaforme di grandi dimensioni, soprattutto per quanto concerne i rischi sistemici. Rimane fermo il divieto di obbligo di controllo o di accertamento attivo, ma tale divieto deve essere rispettato seguendo i principi esaminati e, purché non si pongano a carico degli ISP oneri spropositati, si lascerebbe impregiudicata la possibilità, da parte delle autorità nazionali, di ordinare che vengano contrastati determinati contenuti illegali specifici o di fornire informazioni specifiche. Dunque, il legislatore europeo continua ad essere garante della libertà della rete e della libertà di opinione, operando però un bilanciamento con la possibilità di un intervento postumo, sottraendo le opinioni altrui ad un vaglio preventivo, con obblighi più rigidi di trasparenza e informazione. Per quanto concerne le singole policies adottate, si osserva che social network come Facebook, Instagram, Twitter stabiliscono linee guida per i propri utenti. Il discorso è legato anche al fenomeno dell’hate speech: le piattaforme social, nel condannare comportamenti come la lesione dell’onore e della reputazione, il cyberbullismo, ecc., stabiliscono un sistema di segnalazione interno che valuta il contenuto ed eventualmente lo rimuove. I contenuti, inoltre, quando violino le norme della community, possono essere moderati, retrocessi (deindicizzati), oppure può essere disabilitato l’ac LEgISLazIONE ED aTTuaLITà cesso agli stessi. Nei casi più gravi, le piattaforme possono anche inibire l’utilizzo del social per un periodo di tempo, oscurando il profilo oppure configurandolo come “sola lettura” (l’utente può effettivamente accedere al social ma non può in alcun modo interagire con gli altri utenti o pubblicare ulteriori contenuti). Twitter, in particolare, oltre ad attuare quanto appena detto, prevede la possibilità di etichettare il contenuto e renderlo visibile solo a chi lo desidera, avvertendo che dietro l’avviso si cela un contenuto che potrebbe includere informazioni errate o fuorvianti; ciò nei soli casi di covid-19, integrità civica e contenuti artificiosi e manipolati. Potrebbe accadere lo stesso anche nel caso di tweet in cui la piattaforma riscontri un interesse pubblico: si possono adottare accortezze che limitano la visibilità sul social. ancora, in caso di messaggi offensivi via conversazione diretta, lo stesso social può porre fine alla conversazione a seguito di segnalazione da parte dell’offeso. Facebook è la piattaforma più visitata online: vanta al 2020 il 77,5% del traffico totale rispetto alle altre piattaforme online in Europa, e oltre ad un sistema automatizzato di analisi dei contenuti segnalati, ha istituito dal 2020 un Oversight Board chiamato a giudicare la sorte dei contenuti contrari alle linee guida della community. Il comitato è stato soprannominato una Corte Suprema della libertà di parola digitale, è composto da venti membri scelti e chiamati a pronunciarsi su alcuni casi controversi, casi che sono stati considerati confliggenti con gli standard del social e a cui l’autore si è opposto. Il Board deve effettuare una sintesi tra i diritti fondamentali e le regole private del social, operando una valutazione anche di contesto che sfugge ai sistemi automatizzati. Lo stesso social network sarà poi vincolato a tali decisioni. La decisione di affidare ad un comitato le scelte in merito ai contenuti più controversi, secondo alcuni è da condividere e apprezzare, perché intesa come garanzia aggiuntiva di moderazione nelle scelte di oscuramento o rimozione dei contenuti. Secondo altri, invece, il comitato -composto da venti tra uomini e donne bianchi e occidentali -non potrebbe divenire fonte di uguaglianza, perché dimostrerebbe, nelle decisioni prese, il contesto culturale di provenienza. a ciò si aggiunga che gli standard sono univocamente decisi da Facebook, che “spaccia” per assoluti i parametri della piattaforma in un mondo culturalmente e socialmente variegato. È pur vero che, sottoscrivendo i termini e le condizioni d’uso del social, si accettano dichiaratamente le regole ivi decise. In conclusione, sicuramente si può dubitare che possano esistere delle linee guida che soddisfino tutti, in qualsiasi parte del mondo, ma si potrebbe pure dubitare che per favorire la libertà nella rete e garantire la libertà d’espressione, il parametro sia quello individuato dagli operatori del sistema. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 17. L’interoperabilità: il dialogo necessario tra il digitale e il diritto. Il termine “interoperabilità” esprime il concetto moderno, oggi sempre più applicato a molteplici settori, di permettere, mediante procedure tecniche unificanti e standardizzate, l’interscambio di dati e l’interazione dei sistemi nei campi dell’informatica, delle comunicazioni, della sanità, dell’istruzione, dei trasporti ferroviari ed aerei e dei sistemi di sicurezza di un Paese. Più precisamente, il Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. n. 82/2015, in prosieguo “CaD”) definisce l’interoperabilità come la “caratteristica di un sistema informativo, le cui interfacce sono pubbliche e aperte, di interagire in maniera automatica con altri sistemi informativi per lo scambio di informazioni e l’erogazione di servizi” (275). Questa definizione deve essere associata a quella di cooperazione applicativa, definita nel CaD come “la parte del Sistema Pubblico di Connettività finalizzata all’interazione tra i sistemi informativi dei soggetti partecipanti, per garantire l’integrazione dei metadati, delle informazioni, dei processi e procedimenti amministrativi” (276). In breve, la combinazione e l’applicazione dei due principi consente lo scambio dati tra PPaa e i soggetti interessati in modo standard, al fine di consentire lo svolgimento di procedimenti amministrativi complessi, ovvero che coinvolgono più amministrazioni, ovvero, ancora, più banche dati anche esterne alla Pubblica amministrazione. Sempre il CaD, in più punti, ribadisce il principio in forza del quale le pubbliche amministrazioni sono tenute a gestire i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (c.d. ICT). Lo specifico procedimento, dunque, deve fornire opportuni servizi di interoperabilità o integrazione/cooperazione a carico dell’amministrazione (277). Tali servizi devono risultare conformi alle Linee guida elaborate dall’agID (278) (autorità per l’Italia Digitale). (275) art. 1, comma 1, lett. dd) D.lgs. n. 82/2015. (276) art. 1, comma 1, lett. ee) D.lgs. n. 82/2015. (277) g. MaNCa, “Interoperabilità nella pubblica amministrazione: presente e futuro digitale”, in www.agendadigitale.eu, 6 settembre 2018. (278) L’art. 71 del CaD dispone che “1. L’AgID, previa consultazione pubblica da svolgersi entro il termine di trenta giorni, sentiti le amministrazioni competenti e il Garante per la protezione dei dati personali nelle materie di competenza, nonché acquisito il parere della Conferenza unificata, adotta Linee guida contenenti le regole tecniche e di indirizzo per l’attuazione del presente Codice. Le Linee guida divengono efficaci dopo la loro pubblicazione nell’apposita area del sito Internet istituzionale dell’AgID e di essa ne è data notizia nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Le Linee guida sono aggiornate o modificate con la procedura di cui al primo periodo. 1-ter. Le regole tecniche di cui al presente codice sono dettate in conformità ai requisiti tecnici di accessibilità di cui all'articolo 11 della legge 9 gennaio 2004, n. 4, alle discipline risultanti dal processo di standardizzazione tecnologica a livello internazionale ed alle normative dell’Unione europea”. Mentre, l’art. 72 del CaD -abrogato dal D.lgs. 179/2016 -forniva le definizioni di “d) “interoperabilità evoluta”: i servizi idonei a favorire la circolazione, lo scambio di dati e informazioni, e l’erogazione fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; e) “cooperazione applicativa”: la parte del LEgISLazIONE ED aTTuaLITà L’art. 71 del Codice dell’amministrazione Digitale, norma primaria, richiede che le Linee guida dell’agid debbano essere adottate su parere positivo rilasciato dal garante per la Privacy. I punti che rilevano sono: 1) nello scambio di dati tra Pa chi deve considerarsi titolare del trattamento?; 2) che tempo di durata deve avere la conservazione dei dati nell’attività di caching?; 3) chi è il responsabile del trattamento dei dati a cui il privato può rivolgersi per eventuali osservazioni o richieste di chiarimento?; 4) vi è una modulazione dei sistemi di sicurezza in relazione al grado di riservatezza dei dati, ad esempio quelli giudiziari?; 5) il principio di privacy by design and by default riguarda solo la fase di conservazione o anche la fase di gestione dei dati? Per cogliere gli aspetti problematici del rapporto tra interoperabilità e tutela dei dati personali, occorre chiarire il concetto di interoperabilità, strettamente connesso a quello di cooperazione applicativa. Le pubbliche amministrazioni, infatti, possono dialogare in via digitale non solo con i tradizionali mezzi di trasmissione telematica, ossia la posta elettronica e la posta elettronica certificata, ma anche tramite la cooperazione applicativa. La cooperazione applicativa, ai sensi del CaD, è quella parte del sistema pubblico di connettività (di seguito anche “SPC”) finalizzata all’interazione tra i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni al fine di garantire l’integrazione dei metadati, delle informazioni e dei procedimenti amministrativi. Il sistema pubblico di connettività (279) costituisce l’infrastruttura telematica abilitante della pubblica amministrazione, definita anche la c.d. «autostrada del sole digitale» (280); è l’insieme di infrastrutture tecnologiche e sistema pubblico di connettività finalizzata all’interazione tra i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni per garantire l’integrazione dei metadati, delle informazioni e dei procedimenti amministrativi”. L’art. 72, abrogato, recitava espressamente: “1. Ai fini del presente decreto si intende per: a) “trasporto di dati”: i servizi per la realizzazione, gestione ed evoluzione di reti informatiche per la trasmissione di dati, oggetti multimediali e fonia; b) “interoperabilità di base”: i servizi per la realizzazione, gestione ed evoluzione di strumenti per lo scambio di documenti informatici fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; c) “connettività”: l’insieme dei servizi di trasporto di dati e di interoperabilità di base; d) “interoperabilità evoluta”: i servizi idonei a favorire la circolazione, lo scambio di dati e informazioni, e l’erogazione fra le pubbliche amministrazioni e tra queste e i cittadini; e) “cooperazione applicativa”: la parte del sistema pubblico di connettività finalizzata all’interazione tra i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni per garantire l’integrazione dei metadati, delle informazioni e dei procedimenti amministrativi”. (279) Il Sistema Pubblico di Connettività e Cooperazione, istituito con D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 42 quale evoluzione della RuPa (Rete unitaria della Pubblica amministrazione), è confluito grazie al D.lgs. 159/2006 (che ha abrogato il D.lgs. 42/2005) negli artt. 72 ss. del D.lgs. 82/2005, modificato dal D.lgs. 179/2016, poi dal correttivo D.lgs. 217/17. Operativo dal 2007, un quadro consolidato si è avuto con il d.p.c.m. 1° aprile 2008, recante regole tecniche e di sicurezza per il suo funzionamento. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 di regole tecniche per lo sviluppo, la condivisione, l’integrazione e la diffusione del patrimonio informativo e dei dati dell’amministrazione pubblica, necessarie per assicurare l’interoperabilità di base ed evoluta e la cooperazione applicativa dei sistemi informatici (281) e dei flussi informativi, garantendo la sicurezza, la riservatezza delle informazioni, nonché la salvaguardia e l’autonomia del patrimonio informativo di ciascuna amministrazione (282). È il concetto della c.d. “infrastruttura immateriale” alla base dell’economia della conoscenza dei dati. L’art. 73 del Codice dell’amministrazione Digitale, riguardo al Sistema Pubblico di Connettività, afferma che “1. Nel rispetto dell’articolo 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione, e nel rispetto dell’autonomia dell’organizzazione interna delle funzioni informative delle regioni e delle autonomie locali il presente Capo definisce e disciplina il Sistema pubblico di connettività e cooperazione (SPC), quale insieme di infrastrutture tecnologiche e di regole tecniche che assicura l’interoperabilità tra i sistemi informativi delle pubbliche amministrazioni, permette il coordinamento informativo e informatico dei dati tra le amministrazioni centrali, regionali e locali e tra queste e i sistemi dell’Unione europea ed è aperto all’adesione da parte dei gestori di servizi pubblici e dei soggetti privati. 2. Il SPC garantisce la sicurezza e la riservatezza delle informazioni, nonché la salvaguardia e l’autonomia del patrimonio informativo di ciascun soggetto aderente. 3. La realizzazione del SPC avviene nel rispetto dei seguenti principi: a) sviluppo architetturale e organizzativo atto a garantire la federabilità dei sistemi; b) economicità nell’utilizzo dei servizi di rete, di interoperabilità e di supporto alla cooperazione applicativa; b-bis) aggiornamento continuo del sistema e aderenza alle migliori pratiche internazionali; c) sviluppo del mercato e della concorrenza nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. 3-bis. [Le regole tecniche del Sistema pubblico di connettività sono dettate ai sensi dell’articolo 71] (283). 3-ter. Il SPC è costituito da un insieme di elementi che comprendono: (280) L. aMaDEI, “Il codice dell’amministrazione digitale”, in L. DE PIETRO (a cura di), “Dieci lezioni per capire e attuare l’e-government”, definisce l’SPC una sorta di “framework” nazionale di interoperabilità. Per M. IaSELLI, “La raccomandata on line: disciplina normativa ed aspetti operativi”, in Diritto dell’Internet, n. 6, 2006, l’SPC costituisce “l’asse portante per l’applicazione del codice del- l’amministrazione digitale”. (281) L’art. 72 del D.lgs. 82/2005 abrogato forniva una serie di definizioni relative al sistema pubblico di connettività. In particolare, oltre alla cooperazione applicativa (lett. e), l’interoperabilità evoluta (lett. d). (282) art. 73, co. 2, D.lgs. 82/2005. (283) Il comma 3-bis è stato abrogato dal D.lgs. 179/2016, il quale ha modificato gran parte del- l’articolo, riportando nell’art. 57, “Modifiche all'articolo 73 del decreto legislativo n. 82 del 2005”. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà a) infrastrutture, architetture e interfacce tecnologiche; b) linee guida e regole per la cooperazione e l’interoperabilità; c) catalogo di servizi e applicazioni. 3-quater. Ai sensi dell’articolo 71 sono dettate le regole tecniche del Sistema pubblico di connettività e cooperazione, al fine di assicurarne: l’aggiornamento rispetto alla evoluzione della tecnologia; l’aderenza alle linee guida europee in materia di interoperabilità; l’adeguatezza rispetto alle esigenze delle pubbliche amministrazioni e dei suoi utenti; la più efficace e semplice adozione da parte di tutti i soggetti, pubblici e privati, il rispetto di necessari livelli di sicurezza”. Il SPC ha, quindi, il compito di assicurare la sicurezza e il buon esito della trasmissione dei dati, esito garantito dai fornitori del servizio, che possono svolgere questa attività solo laddove in possesso di determinati requisiti di qualità e sicurezza. Non si tratta, quindi, solo ed esclusivamente di una rete tecnologica, ma della condizione abilitante per il corretto funzionamento del- l’e-government, dal momento che influenza fortemente le scelte organizzative ed è volta a promuovere la collaborazione tra amministrazioni, finalità quest’ultima estremamente rilevante in un sistema pubblico articolato su molte istruzioni e livelli diversi (284). È proprio la cooperazione applicativa ad entrare in gioco nella trasmissione e nello scambio di dati e informazioni tra amministrazioni: le comunicazioni telematiche, in tal caso, si atteggiano in modo molto diverso rispetto alla posta elettronica e alla posta elettronica certificata che, si può dire, riproducono a livello informatico rispettivamente il meccanismo della posta ordinaria e della raccomandata. Nella cooperazione applicativa la comunicazione avviene, invece, attraverso l’interfacciamento fra le porte di dominio (285) delle amministrazioni pubbliche, in quanto si basa sulle capacità di esportare i propri servizi applicativi e di accedere ai servizi erogati da altre amministrazioni attraverso le porte di dominio, punto di contatto telematico fra amministrazioni che gestiscono i messaggi in entrata e in uscita. Le porte di dominio devono rispondere a determinati standard e regole di comunicazione definite; ciò le distingue dai (284) appare la traduzione della nozione, elaborata da Sabino Cassese, di “rete come figura organizzativa della collaborazione”. Così, C. D’ORTa, “Il sistema pubblico di connettività”, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, n. 7, riferendosi a S. CaSSESE, “le reti come figura organizzativa della collaborazione”, in ID., “Lo spazio giuridico globale”, Roma-Bari, 2003. (285) La porta di dominio rappresenta un elemento concettuale che ha la funzione di proxy per l’accesso alle risorse applicative del dominio. Fa parte del modello organizzativo di SPCoop e, come tale, trova naturalmente posto nella progettazione concettuale piuttosto che in quella logica o fisica. La PD può essere ricoprire due ruoli: Porta applicativa -Ruolo assunto da una porta di dominio di SPCoop nell’ambito di un episodio di collaborazione applicativa. assume tale ruolo la porta di dominio che, a seguito della ricezione di un messaggio di richiesta proveniente da un’altra porta di dominio (porta delegata) invia al mittente un messaggio di risposta; Porta Delegata -Ruolo assunto da una porta di dominio di SPCoop nell’ambito di un episodio di collaborazione applicativa. assume tale ruolo la porta di dominio che origina un messaggio di richiesta (di servizio) destinato ad un’altra porta di dominio (porta applicativa). RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 domini che sono invece l’insieme di risorse software, hardware e di comunicazione di una pubblica amministrazione, da intendersi come lo spazio di competenza di ciascuna amministrazione in relazione al proprio sistema informativo e informatico, che per questo possono conservare strutture autonome, dato che la funzione di adattamento è compiuta dalle porte di dominio (286). Di conseguenza, la cooperazione applicativa non si limita all’aspetto tecnologico, ma implica una vera e propria riorganizzazione e reingegnerizzazione dei processi all’interno delle pubbliche amministrazioni. Segna il passaggio concreto dall’informatizzazione alla vera e propria “digitalizzazione” in senso non solo formale, ma anche sostanziale nel rispetto del principio “once only”. Sebbene l’importanza del meccanismo di cooperazione si colga primariamente sotto il profilo dello scambio di informazioni e delle comunicazioni che intercorrono tra soggetti pubblici, più in generale la cooperazione costituisce l’asse portante delle relazioni tra amministrazioni e, in quanto tale, dovrebbe essere favorita ed implementata al fine di garantire semplificazione, efficacia e sicurezza nell’ottica di una profonda evoluzione e modernizzazione dell’intero sistema pubblico (287). Il comma 2 dell’art. 73 del CaD pone in rilievo la necessità che l’SPC garantisca “sicurezza” e “riservatezza” delle informazioni: la seconda è da intendere come direttamente -sebbene non unicamente -condizionata dalla prima: è del tutto evidente, difatti, che un sistema non sicuro è potenzialmente idoneo a pregiudicare anche la riservatezza delle informazioni trasmissibili ed acquisibili per il suo tramite. Più precisamente, un sistema non sicuro potrebbe esporre al rischio di data breach, al verificarsi dei quali il Regolamento uE gDPR (n. 676/16) fa discendere l’obbligo di relativa comunicazione all’autorità garante Privacy e al ricorrere di determinati presupposti, anche agli interessati cui i dati si riferiscono, in entrambi i casi entro tempi assai ristretti. Senza trascurare l’evenienza di possibili richieste risarcitorie. gli standard di sicurezza prescritti per l’SPC sono stati stabiliti, secondo quanto disposto dal comma 3-quater, dall’agID, attraverso lo strumento delle Linee guida di cui all’art. 71 del CaD (288). (286) In tal senso F. MaRTINI, “Il sistema informativo pubblico”, in “Quaderni del Dipartimento Pubblico”, università di Pisa, Torino, 2006. (287) Come rileva F. MaRTINI, op. cit., la cooperazione applicativa prospetta di dissolvere i confini di competenza fra amministrazione permettendo ad un’amministrazione di accedere con pieno valore giuridico ai servizi di un’altra. I concetti di interoperabilità e cooperazione applicativa sono considerati fattori chiave e ricevono impulso dalla normativa e dalle politiche dell’unione europea, anche dall’attuale agenda Digitale europea. Su interoperabilità e cooperazione applicativa cfr. B. Da RONCh -L. DE PIETRO, “Interoperabilità e cooperazione applicativa”, in L. DE PIETRO (a cura di), “Dieci lezioni per capire e attuare l’e-government”, cit. Sulla cooperazione applicativa e i suoi modelli, cfr. a. MaggIPINTO. (288) Proprio il 1° gennaio 2022 sono entrate in vigore le Linee guida dell’agID sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici -come disposto dalla proroga inserita nella determinazione n. 371/2021 del 17 maggio 2021 -che segneranno il salto quantico evolutivo dalla informatizzazione alla vera e propria digitalizzazione e porteranno l’azione amministrativa ad un altro livello digitale. Finalmente si attua, dunque, il processo di trasformazione digitale delineato nel CaD e nel LEgISLazIONE ED aTTuaLITà Tale aspetto viene ribadito anche dal Consiglio di Stato (289) che, con riferimento all’art. 73, precisa che il SPC (Sistema Pubblico di Connettività) deve garantire la sicurezza e la riservatezza delle informazioni, nonché la salvaguardia e l’autonomia del patrimonio informativo di ciascun soggetto aderente secondo le regole tecniche di cui all’art. 71 del CaD. Con essa ed i relativi allegati, l’agID ha definito la Linea di indirizzo sull’interoperabilità tecnica che tutte le Pubbliche amministrazioni devono adottare al fine di garantire l’interoperabilità dei propri sistemi con quelli di altri soggetti e favorire l’implementazione complessiva del Sistema informativo della Pa. In particolare, circolare ed allegati si occupano di individuare le tecnologie e gli standard che le PPaa devono tenere in considerazione nella realizzazione dei propri sistemi informatici, al fine di permettere il coordinamento informatico dei dati tra le amministrazioni nonché tra i gestori di servizi pubblici e i soggetti privati e l’unione Europea. TuDa (DPR 445/2000) che si attendeva da tempo. Erano state, infatti, già pubblicate con la determinazione n. 407/2020 del 9 settembre 2020, ma è stato dopo la correzione avvenuta con la determinazione del 17 maggio 2021 che sono iniziati i lavori finali per portare a compimento il documento: il gruppo di lavoro coordinato da agID e costituito da agenzia delle Entrate, Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti, assosoftware, aNORC e assoconservatori -con il supporto del Politecnico di Milano e di Sogei -ha concluso i lavori a dicembre 2021. Inoltre, con la determinazione n. 629/2021 l’agID ha modificato il Regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici relativo alla fornitura del servizio in favore delle Pa, adottato con la determinazione n. 455/2021. La nuova disciplina abroga, con delle eccezioni espresse, le regole tecniche precedentemente in vigore. Le Linee guida sono fondamentali per garantire il passaggio dall’informatizzazione, che costituisce la “mera” riproduzione sul supporto informatico, alla vera e propria digitalizzazione, che è la nascita del documento digitale, con tutte le regole tecniche necessarie per la forma scritta digitale, per la corretta fascicolazione informatica. Nonostante il lavoro sia stato portato a termine correttamente, Mariella guercio, in un intervento del 29 dicembre 2021 nel gruppo Facebook “Italian Digital Minions”, ha sostenuto che la parte relativa ai metadati contiene una «somma di informazioni obbligatorie prive di contesto temporale e di finalità esplicite (non è chiaro chi, quando, come debba acquisire queste informazioni e gestirle sia all’interno del sistema documentale sia nelle successive -sottolineo successive -fasi di conservazione ». È stato osservato che l’ambito della metadatazione andrebbe riportata nell’alveo originario della gestione documentale e non della formazione del documento, «infatti, se per una pubblica amministrazione l’utilizzo dei metadati resta assolutamente indispensabile per gestire le operazioni di registrazione e di segnatura, quindi di classificazione (e di corretta formazione dell’archivio digitale), in ambito privato, al contrario, non vi è alcun obbligo di gestione documentale e l’utilizzo dei metadati, specie nell’attuale configurazione, rischia di rimanere solo un inutile e periglioso esercizio di stile», v. a. LISI, “Come sarà il 2022 dei documenti informatici: nuove regole digitali e qualche polemica”, su agendadigitale.eu. Le nuove Linee guida, comunque, garantiscono un buon collegamento con il sistema delineato dal gDPR, soprattutto per quanto riguarda il ruolo dei conservatori dei documenti informatici. Infine, la legge n. 108 del 2021, che modifica il CaD, all’art. 18-bis prevede in capo all’agID poteri di vigilanza, verifica, controllo e monitoraggio simili a quelli dell’anac, nell’esercizio dei quali l’agenzia richiede e acquisisce presso tutti i soggetti pubblici, dati, documenti e altre informazioni strumentali e necessarie. Se non si ottempera alla richiesta di dati, documenti o informazioni, ovvero si trasmettono dati o informazioni parziali o non veritieri, si incorre in sanzioni amministrative pecuniarie nel minimo di euro 10.000 e nel massimo di euro 100.000. (289) Vedasi parere n. 785 del 23 marzo 2016. Più di recente, si segnala il parere del CdS del 26 novembre 2020, n. 1940 sull’e-procurement. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 L’agenzia per l’Italia Digitale è, del resto, l’autorità responsabile delle attività di governance con l’obiettivo di definire, condividere e assicurare l’aggiornamento continuo dei seguenti aspetti: -l’insieme delle tecnologie che abilitano l’interoperabilità tra Pa, cittadini e imprese; -i pattern di interoperabilità (interazione e sicurezza); - i profili di interoperabilità. Tutte le amministrazioni devono, dunque, aderire agli standard tecnologici ed utilizzare pattern e profili del nuovo Modello di interoperabilità, che consentirà di definire ed esporre Application Programming Interface (c.d. aPI) conformi agli standard consolidati anche in ambito Eu. Le aPI realizzate in conformità con il nuovo Modello di Interoperabilità garantiscono in particolare: -tracciabilità delle diverse versioni delle aPI, allo scopo di consentire evoluzioni non distruttive (versioning); -documentazione coordinata con la versione delle aPI (documentation); -limitazioni di utilizzo collegate alle caratteristiche delle aPI stesse e della classe di utilizzatori (throttling); -tracciabilità delle richieste ricevute e del loro esito (logging e accounting); -un adeguato livello di servizio in base alla tipologia del servizio fornito (SLa); - configurazione scalabile delle risorse. Il nuovo Modello di interoperabilità rappresenta un asse portante del Piano triennale per l’informatica nella Pa 2020-2022. Come stabilito nel Piano, l’agenzia per l’Italia Digitale: -fornisce un catalogo delle aPI e dei servizi disponibili con una interfaccia di accesso unica; -rende disponibili appositi strumenti di cooperazione per agevolare la risoluzione di problematiche relative alle aPI; - stabilisce e pubblica le metriche di utilizzo delle aPI. La Circolare n. 1 del 9 settembre 2020 aggiorna, altresì, il Sistema pubblico di cooperazione (SPCoop) proseguendo nel processo di aggiornamento avviato con la determinazione agID 219/2017. La messa in opera delle regole di interoperabilità, di integrazione e cooperazione per lo scambio di informazioni e l’erogazione di servizi nella Pa è un percorso che parte da lontano, ma presenta ancora molte criticità. Il tema dell’interoperabilità per lo scambio di informazioni e l’erogazione di servizi nella Pubblica amministrazione rappresenta, infatti, un tema tra i più importanti per lo sviluppo del digitale nella Pa insieme alla gestione dell’identità digitale anche in chiave anagrafica e di sicurezza dei dati e dei sistemi. Non è un caso che nell’ultima versione del “Recovery Plan” si citi, tra gli obiettivi di “digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, l’im LEgISLazIONE ED aTTuaLITà plementazione dell’interoperabilità nella Pubblica amministrazione, con uno sguardo costante ai dati personali (290). Non solo. Nel decreto cd. Semplificazioni (291), gli artt. 24 e 25 prevedono una valorizzazione dei sistemi di identificazione digitale Spid e Cie per l’accesso ai servizi on line, rafforzando il concetto di identità digitale anche attraverso il “punto di accesso telematico previsto dall’art. 64-bis”, ossia l’applicazione per smartphone IO, la piattaforma unica per tutte le Pubbliche amministrazioni integrata con le piattaforme abilitanti come pagoPa, Spid e Cie. allo stesso modo, l’art. 26 prevede una piattaforma unica per la notificazione digitale degli atti della Pubblica amministrazione, e il comma 15 dell’art. 26 prevede un’articolata procedura da adottarsi con uno o più DPCM, sentito il Ministero dell’Economia e il garante per la Privacy, nel termine ordinatorio di 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto con cui vengano stabilite le regole tecniche, l’infrastruttura tecnologia e le modalità di inserimento degli atti, nonché il piano test per la verifica del corretto funzionamento. ultimato il test, con atto del Capo della competente struttura presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri “è fissato il termine a decorrere dal quale le amministrazioni possono aderire alla piattaforma”. anche per l’elenco dei domicili digitali il comma 3-bis dell’art. 3-bis prevede che sia un DPCM, sentito agid, il garante per la Privacy e la Conferenza unificata, a fissare la data in cui le comunicazioni tra i soggetti non digitale e la Pa avvenga “esclusivamente in forma elettronica”, mettendosi a disposizione di tali soggetti un domicilio digitale o altre modalità per superare il Digital divide. Occorre precisare che più (290) Per uno studio più approfondito, si consiglia di consultare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) 2021, da pagg. 119 a 129, che, in tema di dati e interoperabilità, si esprime nei seguenti termini: “Il gap digitale della PA italiana si traduce oggi in ridotta produttività e spesso in un peso non sopportabile per cittadini, residenti e imprese, che debbono accedere alle diverse amministrazioni come silos verticali, non interconnessi tra loro. La trasformazione digitale della PA si prefigge quindi di cambiare l’architettura e le modalità di interconnessione tra le basi dati delle amministrazioni affinché l’accesso ai servizi sia trasversalmente e universalmente basato sul principio “once only”, facendo sì che le informazioni sui cittadini siano a disposizione “una volta per tutte” per le amministrazioni in modo immediato, semplice ed efficace, alleggerendo tempi e costi legati alle richieste di informazioni oggi frammentate tra molteplici enti. Investire sulla piena interoperabilità dei dataset della PA significa introdurre un esteso utilizzo del domicilio digitale (scelto liberamente dai cittadini) e garantire un’esposizione automatica dei dati/attributi di cittadini/residenti e imprese da parte dei database sorgente (dati/attributi costantemente aggiornati nel tempo) a beneficio di ogni processo/servizio “richiedente”. Si verrà a creare una “Piattaforma Nazionale Dati” che offrirà alle amministrazioni un catalogo centrale di “connettori automatici” (le cosiddette “API” -Application Programming Interface) consultabili e accessibili tramite un servizio dedicato, in un contesto integralmente conforme alle leggi europee sulla privacy, evitando così al cittadino di dover fornire più volte la stessa informazione a diverse amministrazioni. La realizzazione della Piattaforma Nazionale Dati sarà accompagnata da un progetto finalizzato a garantire la piena partecipazione dell’Italia all’iniziativa Europea del Single Digital Gateway, che consentirà l’armonizzazione tra tutti gli Stati Membri e la completa digitalizzazione di un insieme di procedure/servizi di particolare rilevanza (ad es. richiesta del certificato di nascita, ecc.)”. (291) D.L. n. 76 del 16 luglio 2020, convertito in legge n. 120/20. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 recentemente il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Colao ha annunciato il progetto di realizzazione di una Rete unica Digitale entro il 2026 con la necessità di un’unificazione dello Spid con la carta di identità elettronica. La tutela dei dati personali verrà a realizzarsi, anche in questo caso, con il rispetto delle procedure standardizzate contenute nelle Linee guida agid da aggiornarsi con l’evoluzione continua dei protocolli informatici grazie anche all’apporto tecnico di un apposito Dipartimento, il Dipartimento per la trasformazione digitale, struttura di supporto al Ministro per l’innovazione e la transizione digitale per la promozione il coordinamento delle azioni governo finalizzate alla definizione di una strategia unitaria in materia di trasformazione digitale e di modernizzazione del Paese. un campo in cui la tutela dei dati personali viene messa maggiormente in discussione è quello della tecnologia Blockchain (292) che si sta applicando in vari settori dell’agire pubblico, sanitario, appalti, transazioni. Tale tecnologia si scontra con i due principi cardini del gDPR (293): i dati inseriti nelle blockchain sono pubblici ed accessibili da chiunque partecipi alla catena e i dati presenti nelle blockchain sono conservati illimitatamente. Le parole chiave del gDPR, ossia centralizzazione, limitazione e rimovibilità, si pongono in contrasto con la tecnologia blockchain basata su decentralizzazione, distribuzione e immutabilità. La tutela del dato personale risiede sempre in un hash crittografato (294) e nella anomizzazione dei soggetti coinvolti. I servizi di gestione dei dati e l’architettura dei dati, progettati per conservare, utilizzare, riutilizzare e organizzare i dati, sono componenti decisivi della catena del valore dell’economia digitale europea (295). Per questo motivo, si pone l’attenzione sui costi e sulle competenze inerenti all’accesso e alla conservazione dei dati, che determinano la velocità, la profondità e la portata dell’adozione di infrastrutture e prodotti digitali, in particolare per le PMI e le start-up (296). Negli ultimi anni, infatti, si sono sviluppati tanto gli ecosistemi tecnologici (297) basati e sviluppati sul web, quanto, di conseguenza, i relativi pro (292) La blockchain è una particolare tecnologia di registro distribuito (DLT), in grado di registrare scambi e informazioni in modo sicuro e permanente, mediante la condivisione di un database che rimuove essenzialmente la necessità degli intermediari i quali, in precedenza, erano tenuti ad agire come terze parti di fiducia per verificare, registrare e coordinare i dati. (293) Regolamento CE del Parlamento europeo n. 679/2016 (General Data Protection Regulation). (294) una funzione hash crittografica fa parte di un gruppo di funzioni hash adatte per applicazioni crittografiche come SSL/TLS. Come altre funzioni hash, le funzioni hash crittografiche sono algoritmi matematici unidirezionali utilizzati per mappare i dati di qualsiasi dimensione su una stringa di bit di una dimensione fissa. Le funzioni hash crittografiche sono ampiamente utilizzate nelle pratiche di sicurezza delle informazioni, quali firme digitali, codici di autenticazione dei messaggi e altre forme di autenticazione. (295) g. D’aCQuISTO, “Blockchain e GDPR: verso un approccio basato sul rischio”, in www.federalismi. it, 18 gennaio 2021. (296) C. MORELLI, “Dallo spazio economico europeo allo spazio comune dei data UE”, in www.altalex. com, 22 marzo 2021. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà blemi in ambito di sicurezza e trattamento dei dati, non solo delle aziende o dei professionisti, ma di tutti gli utenti in generale. È chiaro che qualsiasi strumento, se usato in modo improprio, può causare danni, più o meno gravi. Spesso, quindi, non è tanto lo strumento in sé ad essere la causa del danno, bensì le modalità attraverso cui viene utilizzato, il che vale anche per gli strumenti più semplici. Tali problematiche investono naturalmente anche l’utilizzo della Blockchain. Molto spesso si è inclini a collocare la blockchain nell’ambito dei Bitcoin, delle criptovalute o delle transazioni finanziarie; ma la blockchain può dare risposte assolutamente innovative anche sul piano della creazione di un sistema di relazioni interamente basato su un nuovo concetto di fiducia. In questo caso, occorre trovare uno strumento di disintermediazione, che permetta di dare un indirizzo di vita quotidiana per creare ecosostenibilità e benessere attraverso il digitale. Il che tradotto significa che la blockchain nella Pa può e deve apportare dei benefici al cittadino e non la sola funzionalità (298). La blockchain di per sé è lo strumento che, se usato in modo inappropriato, può portare ad incorrere in situazioni contrarie alle normative nazionali e/o sovranazionali approvate a tutela del diritto alla riservatezza del cittadino. Il caso lampante è quello del trattamento dei dati personali (299). In merito all’adeguamento della blockchain al Regolamento uE 2016/679, lo scoglio apparentemente insormontabile è garantire i diritti dell’interessato, disciplinati al capo III, negli artt. 12-23 del Regolamento in oggetto. In particolar modo, la peculiarità intrinseca della blockchain della non modificabilità e cancellazione risulta essere in forte contrasto con il più noto (per il clamore datogli post gDPR) “diritto all’oblio” sancito nell’art. 17 del gDPR. Secondo lo studio condotto dalla “Queen Mary University” di Londra, sarebbe ipotizzabile una blockchain compliance al gDPR mediante la crittografia dei dati personali e la successiva eliminazione delle corrispettive chiavi decrittografiche, lasciando su blockchain solo i dati indecifrabili o mediante l’uso dei cosiddetti modelli di memoria “fuori catena” (300). Come sostiene N. Boldrini (301), infatti, le tecnologie Blockchain stanno rompendo molti schemi, soprattutto quelle di natura pubblica su cui si basa la circolazione delle criptovalute bitcoin ed ethereum, ed introducono nuovi paradigmi compresi quelli di natura legale. In quest’ottica, diventa interessante capire il binomio Blockchain e gDPR, ossia come la Blockchain potrà sup (297) R.D. CaRDENaS ESPINOSa e altri, “Ecosistemi tecnologici per la ricerca formativa nel contesto”, Ed. Sapienza, 2020. (298) W. NONNIS, “Blockchain, il suo contributo durante la pandemia”, cit. (299) a. BELLO, “Blockchain e privacy: soluzioni per la compliance alle norme”, cit.; M. IaSELLI, “Blockchain e privacy, bisogna lavorare ancora molto”, cit. (300) a. BELLO, “Blockchain e privacy: soluzioni per la compliance alle norme”, cit. (301) N. BOLDRINI, “Blockchain e GDPR: le sfide (e le opportunità) per la protezione dei dati”, cit. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 portare e rispettare le regole sulla protezione dei dati personali introdotte dal gDPR. La tecnologia Blockchain consente transazioni tra le parti senza dover rivelare la propria identità direttamente. Tuttavia, ogni transazione che viene eseguita viene pubblicata e collegata a una chiave pubblica che rappresenta perciò uno pseudonimo di un determinato utente. Sebbene la chiave pubblica non contenga informazioni direttamente riconducibili all’utente, l’utilizzo della medesima chiave per diverse transazioni e l’incrocio con altre informazioni potrebbero consentire di individuare gli autori di una determinata transazione. Ne consegue che la chiave pubblica, se associata a una persona, potrà eventualmente essere qualificata come dato personale ai fini della legislazione europea sulla protezione dei dati. Infatti, quando la chiave pubblica è ricondotta a un soggetto identificato, è possibile ottenere informazioni su tutte le transazioni che il soggetto ha compiuto sulla blockchain. Di conseguenza, le norme sulla protezione dei dati potrebbero essere applicabili ad almeno alcuni dei dati coinvolti nelle soluzioni Blockchain (302). Qualora si intenda utilizzare la blockchain come storage (303) di tutti i dati degli utenti, anziché, per esempio, creare una linea privata dove immagazzinare (c.d. storare) i dati sensibili accoppiandola ad una blockchain da usare in formato “notarile” è importante sapere che: -i dati archiviati in una blockchain sono a prova di manomissione: questo si traduce in un’impossibilità pura (derivante da codifica della blockchain) di cancellazione dei dati, una volta che essi verranno immessi nella catena distribuita; -le Blockchain sono distribuite, quindi nemmeno il controllo sui dati può essere centralizzato ed è demandato a tutti i partecipanti alla blockchain (304); -gli Smart Contract (contratti intelligenti) (305) sono creati per essere automatizzati sotto il profilo decisionale: questo può aprire quindi criticità comprensibilmente non banali sul fronte, per esempio, di casi di impugnazioni e contestazioni. In linea generale, ciò che si pone in contrasto con il gDPR, in questo caso, sono due dei principi che fino ad oggi hanno costituito il cardine su cui si sono affermati il valore ed il potere della Blockchain (306), ossia: (302) V. PORTaLE, “Quanto è legale la Blockchain? La compatibilità tra Blockchain e normativa GDPR”, cit. (303) Supporto di memorizzazione dei dati. (304) al più ai miners, che comunque non possono essere considerati dei Data Protection Officer come richiesto da gDPR. (305) Vedi parere Consiglio di Stato del 26 novembre 2020, n. 1940 sullo Schema di regolamento recante le modalità di digitalizzazione delle procedure dei contratti pubblici (c.d. e-procurement). (306) a. gaMBINO, C. BOMPREzzI, “Blockchain e titolare del trattamento dei dati personali: il nodo rimane irrisolto”, cit. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà -i dati inseriti nelle blockchain sono pubblici ed accessibili da chiunque partecipi alla catena; - i dati presenti nelle blockchain sono conservati illimitatamente (307). Viceversa, se volessimo riassumere in breve ciò che caratterizza il gDPR potremmo utilizzare tre parole chiave: centralizzazione, limitazione e rimovibilità (cancellazione), termini che ovviamente, anche solo ad una prima lettura, si pongono in netto contrasto con i fondamenti che, al contrario, costituiscono la base della blockchain, ossia decentralizzazione, distribuzione ed immutabilità. Come noto, il gDPR conferisce ai residenti nel territorio europeo una serie di diritti esecutivi in relazione al trattamento dei propri dati personali, i quali risultano comprensibili nel contesto di un database centralizzato controllato da un singolo controller di dati con un insieme finito di processori (308). Se partiamo dall’assunto che, in generale, le Blockchain si concentrano principalmente sulla protezione dell’identità più che sui dati ad essa associati, il parallelismo con la “Carta dei diritti digitali” delle persone appare evidente, dato che il gDPR nasce come volontà di restituire alle persone (309) il “potere” sui propri dati personali. In linea di principio, attraverso la Blockchain un utente è sempre in grado di controllare i propri dati personali, anzi, è l’unico a sapere a che informazioni corrisponde la propria chiave pubblica. Nonostante le sfide legate principalmente a immutabilità e replicazione siano indubbiamente delicate e sarà necessario attendere le interpretazioni del legislatore europeo per avere un quadro di diritto completo, ad oggi ci sono delle possibili “vie” di prevenzione (310), ossia di applicabilità della blockchain in conformità a quanto stabilito dal gDPR. Va, tuttavia, fatta un’ulteriore precisazione sulla sicurezza crittografica: «la crittografia non libera persone ed aziende dalle proprie responsabilità sul controllo dei dati perché -per dirla senza mezzi termini -tutta la crittografia può essere violata», avverte Rutjes (311). «Questo vale anche per gli hash crittografici che, nell’interpretazione del gruppo di lavoro di esperti tecnici dell’Unione Europea, è da considerarsi come dato personale. A mio avviso che un hash sia una stringa di codice ben progettata è sufficientemente sicura e anonima dal mettere al riparo i dati personali di chi possiede le chiavi crittografiche; tuttavia, sarà la Corte di Giustizia Europea a doversi pronunciare in merito». Per quanto riguarda i conflitti attorno alle caratteristiche uniche della (307) a garanzia e tutela dell’intero registro distribuito. (308) D. MaRCIaNO, g. CaPaCCIOLI, “La blockchain ed il problema del trattamento dei dati personali”, cit. (309) In una Blockchain diremmo quindi l’identità. (310) Come, ad esempio, la crittografia o i codici Qr, protocolli informatici che prevedano htpp cache control. (311) a. RuTJES, “Blockchain and GDPR: better safe than sorry”, 2018. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 blockchain, la soluzione è semplice, scrive Rutjes nel suo post: «memorizzare i dati personali al di fuori della blockchain, ad esempio in un database privato. In generale, è buona norma limitare la quantità di informazioni condivise nel libro mastro; ancora di più con informazioni personali o comunque sensibili». L’opportunità potenziale è l’abilitazione di un futuro in cui la fornitura di servizi pubblici sia più vicina alla persona e alle imprese, creando delle condizioni di maggior sviluppo e integrazione economica e sociale. I cosiddetti smart contract (312) si candidano quali strumenti adatti a portare miglioramenti sostanziali in termini di conformità, uniformità, standardizzazione ed implementazione della catena di responsabilità. Trattandosi di tecnologie ancora in fase di completamento del proprio ciclo di sviluppo, è fondamentale maturare degli elementi di valutazione delle diverse opzioni disponibili in quanto a paradigma di adozione, considerando gli specifici obiettivi dei relativi ambiti di applicazione. Temi quali privacy, sicurezza, solidità e scalabilità diventano ancor più centrali e strategici quando la loro contestualizzazione avviene in ambiti di investimento pubblico; è pertanto necessario comprendere come la tecnologia sia lo strumento di implementazione di un modello che porta un effetto di trasformazione con implicazioni etiche e sociali. In questa prospettiva va collocata l’iniziativa di creazione della European Blockchain Service Infrastructure (EBSI) (313), azione congiunta della Commissione europea e del partenariato europeo Blockchain (EBP) per fornire servizi pubblici transnazionali sicuri a livello dell’uE utilizzando le tecnologie blockchain. Periodi di difficoltà e di incertezza, come quelli che stiamo attraversando in questi mesi, possono essere trasformati in occasioni per introdurre degli elementi di discontinuità che si candidano quali fattori decisivi per una visione programmatica di ripresa e sviluppo (naturale appare un richiamo al PNRR). È necessario, quindi, affrontare resistenze culturali (e a volte ideologiche) che spesso ostacolano i processi di sviluppo per creare opportunità concrete di trasformazione attraverso delle progettualità di sistema volte a generare nuove prospettive di valore per cittadini e imprenditori (314). (312) Protocolli informatici che facilitano, verificano o fanno rispettare la negoziazione o l’esecuzione di un contratto, permettendo talvolta la parziale o la totale esclusione di una clausola contrattuale. gli smart contract, di solito, hanno anche una interfaccia utente e spesso simulano la logica delle clausole contrattuali. (313) alla base dell’avvio del progetto EBSI c’è l’European Blockchain Partnership (promossa nel 2018), ossia un’iniziativa voluta dall’unione europea che punta a favorire la collaborazione tra gli Stati membri per lo scambio di esperienze e di expertise, sia sul piano tecnico sia su quello della regolamentazione. L’Italia è entrata a far parte del partenariato il 27 settembre 2018. Secondo gli obiettivi del partenariato, lo sviluppo dell’infrastruttura permetterà di condividere in maniera sicura informazioni come, ad esempio, dati doganali e fiscali dell’ue, documenti di audit di progetti finanziati, certificazioni transfrontaliere di diplomi e sulle qualifiche professionali e le identità digitali (eIDaS). (314) P. ghEzzI, “Blockchain, quali prospettive per le politiche pubbliche”, in www.blockchain4innovation. it, 14 aprile 2021. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà Di recente, il Ministro per la transizione digitale ha annunciato che entro fine gennaio verrà emanato il bando di gara per il Piano Strategico Nazionale relativo alla realizzazione della rete unica digitale. La centrale di committenza per l’espletamento delle gare sarà Difesa Servizi, società in house del Ministero della Difesa, specializzata in acquisti ad altro contenuto tecnologico. Ciò è emerso durante un’audizione alla Camera nell’ambito di un’indagine conoscitiva sulla digitalizzazione e interoperabilità delle banche dati fiscali, durante la quale il Ministro competente ha aggiunto che «entro la fine del 2022 prevediamo il collaudo della infrastruttura, mentre tra la fine del 2022 e il 2025, prevediamo di completare la migrazione dei dati della p.a.» (315). Per garantire continuità in questo periodo, il Ministro ha chiarito che Sogei, società in house controllata al 100% dal MEF, potrà continuare ad erogare i servizi cloud che già eroga a diverse amministrazioni sulla base delle convenzioni in essere. anche l’agenzia Nazionale per la Cybersicurezza potrà avvalersi di Sogei per realizzare e gestire i propri sistemi informativi nelle more di realizzazione del piano. È opportuno che la gestione di tali processi di digitalizzazione resti nella “mano pubblica” e che vengano individuati i centri di imputazione delle responsabilità nell’attività di trattamento dei dati. È importante, altresì, che al centro di tale evoluzione digitale resti “il valore dell’uomo”, inteso sempre come fine, e mai come mezzo. a tal riguardo, è opportuno ricordare che il termine “robot” deriva etimologicamente dalla lingua serba e significa “lavoro forzato”. Viene in mente la “Fenomenologia dello Spirito” di hegel, nella dinamica servo-padrone: l’algoritmo è il nuovo padrone delle nostre vite. Se è vero che le “parole sono azioni”, come affermava Ludwig Wittgenstein, nel suo “Tractatus logico-philosophicus” del 1921, il linguaggio diventa strumento dinamico -e non statico -di descrizione dell’evoluzione culturale di una società. I termini che si utilizzano costituiscono l’espressione concreta di un’astrazione concettuale che si traduce nell’implicita accettazione di un comune sentire sociale e culturale. Non è un caso che John Langslaw austin, altro grande filosofo del Novecento, indicasse con il termine “speech act” il dinamismo descrittivo delle parole che innesta processi sociali e culturali in continuo divenire. (315) La memoria del Ministro Vittorio Colao del 24 novembre 2021 è reperibile al seguente link https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/ 000/006/683/Memoria_Ministro_Colao_prot.pdf; Per gli atti dell’indagine conoscitiva si rinvia al sito della Camera https://www.camera.it/leg18/1101?idLegislatura=18&idCommissione=&tipoElenco=indaginiConoscitiveCronologico& annoMese=&breve=c31_banche_dati&calendario=false&soloSten=fa lse&foglia=true&shadow_organo_parlamentare=3074. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 In questo senso, utilizzare nel linguaggio comune, sempre più frequentemente, termini come “decisioni robotizzate”, nel campo del diritto, della medicina e delle altre applicazioni, in ogni aspetto della nostra vita quotidiana, accende un alert, il campanello di allarme di elevata intensità sul graduale assoggettamento dell’uomo alla macchina. Come spiega l’autrice Kate Crawford nel suo ultimo libro (316), la tecnologia sta diventando sempre più promiscua: l’intelligenza artificiale non è solo un’invenzione di supporto di cui usufruire, ma è una vera e propria «idea, un’infrastruttura, un’industria, una forma di esercizio del potere e un modo di vedere le cose … un attore nella formazione della conoscenza, nella comunicazione e nel potere». I computer, le macchine, i robot, gli algoritmi non sono solo concetti astratti, bensì vere e proprie «infrastrutture fisiche che stanno rimodellando la Terra, modificando contemporaneamente il modo in cui vediamo e comprendiamo il mondo». Si tratta di una rivoluzione nel modo di concepire il mondo intorno a noi, e il nostro compito allora diventa quello di “rimanere con i piedi per terra” per osservare, studiare e comprendere le riconfigurazioni che si stanno verificando «a livello di epistemologia, principi di giustizia, organizzazione sociale, espressione politica, cultura, concezione del corpo umano, soggettività e identità: cosa siamo e cosa possiamo essere». Bisogna comprendere che l’intelligenza artificiale è politica condotta con altri mezzi; è arrivato il momento di confrontarci con l’Ia come forza politica, economica, culturale e scientifica. Come osservato da alondra Nelson, Thuy Linh Tu e alicia headlam hines, «le controversie in campo tecnologico sono sempre collegate a lotte più ampie per la mobilità economica, a questioni politiche e alla costruzione di comunità» (317) e come scrive ursula Franklin, «la fattibilità della tecnologia, come la democrazia, dipende alla fin fine dalla pratica della giustizia e dall’imposizione di limiti al potere» (318). La tutela della democrazia è basata sulla conoscenza, intesa come episteme e non come doxa, come opinione volatile, volendo usare termini del- l’antica grecia: la conoscenza si nutre di concetti, dal latino “cumcapio”, prendere insieme elementi della realtà per giungere al conceptus, al pensiero critico concepito e ragionato. Il giurista deve allora concepire il pensiero critico, osservando la realtà digitale con intelligenza (dal latino “intuslegis” leggere dentro le cose), saper (316) K. CRaWFORD, “Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA”, il Mulino, 2021. L’autrice ci spinge a riflettere, bisogna porsi le seguenti domande: “cos’è l’IA?”, “quali forme di politica propaga?” “quali interessi promuove e chi rischia il maggiore danno?”e“dove dovremmo limitare l’uso dell’IA?”. (317) a. NELSON, T.L. NguYEN Tu e a. hEaDLaM hINES, “Technicolor. Race, Technology, and Everyday Life”, 2001. (318) u.M. FRaNKLIN, “The Real World of Technology”, 1999. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà cogliere la complessità, le straordinarie opportunità, ma anche i pericoli del- l’intelligenza artificiale che sta invadendo le nostre vite, indicando le linee evolutive di un’equilibrata e lungimirante regolamentazione che sia capace di coniugare il progresso tecnologico con il concetto di “humanitas”. È questa la grande sfida che dovrà affrontare nel prossimo futuro. Bibliografia M. aDINOLFI, “L’intelligenza artificiale che Platone non si aspettava. Vinceranno gli algoritmi?”, su IlFoglio. it. 2021. I.M. aLagNa, “Abuso dati personali di utenti: respinto in appello il ricorso di Facebook contro l’Antitrust”, Diritto & Giustizia, fasc. 74, 2021. I.M. aLagNa, “Diffamazione a mezzo stampa: il reato sussiste anche in assenza di esplicita indicazione del nome”, su Ridare.it, 18 dicembre 2017. I.M. aLagNa, “L’interesse pubblico alla diffusione di una notizia non legittima la pubblicazione di immagini ritraenti un minore su testate giornalistiche”, su Diritto & Giustizia, fasc. 38, 2021. F. aLBEggIaNI, “Profili problematici del consenso dell’avente diritto”, Milano, 1995. L. aLESIaNI, “I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale”, Milano, 2006. L. aLExaNDRE, “La guerra delle intelligenze, intelligenza artificiale contro intelligenza umana”, ed. Torino, 2017. L. aLgERI, “Neuroscienze e testimonianza della persona offesa”, 2012. a. aLì, “Diffamazione via Facebook: condividere post offensivi non è reato”, su altalex.com, 2016. g. aLPa, “Alle origini dei diritti della personalità”, in Riv. Trim. di Dir. Proc. Civ., 3, 2021. g. aLPa, “La responsabilità civile. Principi”, Milano, 2018. L. aMaDEI, “Il codice dell’amministrazione digitale”, in L. DE PIETRO (a cura di), “Dieci lezioni per capire e attuare l’e-government”. V. aMENDOLagINE, “Il diritto all’oblio tra rievocazione storiografica online e cronaca giudiziaria”, su GiustiziaCivile.com, 18 agosto 2020. P. aSaRO, “A body to Kick, but Still No Soul to Damn: Legal Perspectives on Robotics”, in P. LIN, K. aBNEY, g.a. BEKEY (a cura di), “Robot Ethics”, MIT Press, 2012. I. aSIMOV, “Circolo vizioso”, 1942. a. aSTONE, “L’accesso dei minori d’età ai servizi della c.d. “società dell’informazione”: l’art. 8 del Reg (UE) 2016/679 e i suoi riflessi”, in Contratto e Impresa, 2019, 2. V. BaChELET, “L’attività tecnica della pubblica amministrazione”, 1967. E. BaDIaLI, “Il caso Barilla e la tutela del marchio rinomato: commento alla sent. n. 830/2018 del Tribunale di Milano”, su iusinitinere.it, luglio 2018. C. BagNOLI, “Teoria della responsabilità”, 2019. J.M. BaLKIN, “Information Fiduciaries and the First Amendament”, 49 u.C Davis L.REV.1183 (2015). S. BaRCO, “Il contratto di Influencer marketing: profili civilistici del rapporto tra brand ed influencer”, su iusinitinere.it, 28 maggio 2020. S. BaROCaS, “Accountable Algorithms”,165 u.Pa.L.REV. 633 (2017). a. BaSILE, “Blockchain: La Nuova Rivoluzione Industriale”, 2019. R. BaTTagLINI, M. gIORDaNO (a cura di), “Blockchain e smart contract. Funzionamento, profili giuridici e internazionali, applicazioni pratiche”, 2019. M. BELLINI, “La blockchain per le imprese. Come prepararsi alla nuova «internet del valore»”, 2019. a. BELLO, “Blockchain e privacy: soluzioni per la compliance alle norme”, 15 maggio 2019, in agendadigitale. eu. V. BELLOMIa, “Il contratto intelligente: questioni di diritto civile”, su judicium.it, 10 dicembre 2020. M. BENaSOYag, “Cinque lezioni di complessità”, 2020. M. BENaSOYag, “Il cervello aumentato, l’uomo diminuito”, 2016. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 M. BENaSOYag “La responsabilità della rivolta”, 2021. M. BENaSOYag, “La tirannia dell’Algoritmo”, 2020. M. BENaSOYag & g. SChIMIT “L’epoca delle passioni tristi”, 2004. L. BENNET MOSES, J. ChaN, “Algorithmic Prediction in Policing: Assumptions, Evaluation, and Accountability”, in Policing and Society, 2016. a. BENVEgNù, “Alexa, unica testimone di un omicidio. E (legittime) domande sulla nostra privacy”, su Nera-Mente, 2020. F. BERgER, “Intelligenza artificiale, rileggere la storia per evitare un nuovo inverno”, su formiche.net. L. BERTO, “È possibile registrare un hashtag come marchio?”, su iusinitinere.it, 13 novembre 2017. M. BIaNCa, “Diritto civile”, Milano, 2011. g. BIaNChEDI, “Il consenso dei minori per i servizi della società dell’informazione sotto il profilo giuridico e informatico”, in Ciberspazio e diritto, vol. 20, n. 63 (3-2019). D. BIaNChI, “Danno e oblio. Nesso di causalità, principio di proporzionalità e misure di sicurezza Data Protection”, su Ridare.it, 19 ottobre 2016. E. BLaCKBuRN, “La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri”, 2017. N. BOLDRINI, “Blockchain e GDPR: le sfide (e le opportunità) per la protezione dei dati”, in blockchain4innovation.it, 2018. M. BORgOBELLO, “Acquisizione di tabulati telefonici: che cambia col nuovo decreto-legge”, su agendadigitale. ue, 4 ottobre 2021. F. BRaVO, “Il consenso e le altre condizioni di liceità del trattamento dei dati personali”, in g. FINOC- ChIaRO (diretto da), “Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali”, Torino, zanichelli, 2017. F. BRIzzI, “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti: tra tutela della privacy e revenge porn”, su Ilpenalista.it, 30 marzo 2021. E. BuCCI, “Anche all’intelligenza artificiale può essere attribuito un brevetto”, 2021, su IlFoglio.it. C. BuRChaRD, “L’Intelligenza Artificiale come fine del diritto penale? Sulla trasformazione algoritmica della società”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2019, Vol. 62. g. BuSIa, L. FEROLa, “Il Garante per la protezione dei dati personali: le funzioni, i rapporti con le altre Istituzioni ed Autorità in Italia e in Europa”, in g. BuSIa, L. LIguORI, O. POLLICINO (a cura di), “Le nuove frontiere della privacy nelle tecnologie digitali: bilanci e prospettive”, aracne, 2016. M. CaIELLI, “Punire l’omofobia: (non) ce lo chiede l’Europa. Riflessioni sulle incertezze giurisprudenziali e normative in tema di hate speech”, in GenIus, 2015. g.M. CaLETTI, “Revenge porn e tutela penale. Prime riflessioni sulla criminalizzazione specifica della pornografia non consensuale alla luce delle esperienze angloamericane”, in DirPenCont, 2018. C. CaLVERT -J. BROWN, “Video Voyeurism, Privacy and the Internet: exposing Peeping Toms in Cyberspace”, in Cardozo Arts Entertainment Law Journal, 2000. C. CaMaRDI, “L’eredità digitale. Tra reale e virtuale”, in “Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, 2018. E. CaPaCCIOLI, “Manuale di diritto amministrativo”, Padova, 1983. P.F. CaRBaLLO - CaLERO, “Pubblicità occulta e product placement”, Cedam, 2004. P. CaRBONE, “Adolescenza e disagio”, 2001. R.D. CaRDENaS ESPINOSa e altri, “Ecosistemi tecnologici per la ricerca formativa nel contesto”, Ed. Sapienza, 2020. P. CaRETTI e a. CaRDONE, “Diritto dell’informazione e della comunicazione nell’era della convergenza”, Bologna, Mulino, 2019. F. CaSaSOLE, “Neuroscienze, genetica comportamentale e processo penale”, 2012. a. CaSSaTELLa, “La responsabilità funzionale nell’amministrare. Termini e questioni”, in Dir. Amm., 2018. S. CaSSESE, “Le reti come figura organizzativa della collaborazione”, in ID., “Lo spazio giuridico globale”, Roma-Bari, 2003. J.L. CaSTI, W. DE PauLI, “Gödel. L’eccentrica vita di un genio”, Raffaello-Cortina Edizioni, Milano, 2001. M. CaSTIgLI, “Come il metaverso ci cambia il rapporto col corpo: nuovi rischi psicologici”, su agendadigitale. eu. C. CaSTRONOVO, “La «civilizzazione» della pubblica amministrazione”, in Europa e dir. priv., 2013. C. CaSTRONOVO, “Responsabilità civile”, Milano, 2018. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà C. CaTh, S. WaChTER, B. MITTELSTaDT, M. TaDDEO, L. FLORIDI, “Artificial Intelligence and the “Good Society”: the US, EU, and UK approach”, in Science and Eng. Ethics, 2018. N. ChaKRaBORTI, J. gaRLaND, “Hate Crime. Impact, Causes, and Responses”, Los angeles-Londra, 2015. V. CERuLLI IRELLI, “Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al Codice del processo amministartivo)”, in Dir. Proc. Amm., 2012. g.O. CESaRO, “Genitore pubblica sui social network foto e notizie del figlio minore: interviene d’ufficio il Giudice”, su Ilfamiliarista.it, marzo 2018. J. CIaNI, M. TaVELLa, “La riconoscibilità della natura pubblicitaria della comunicazione alla prova del digital: native advertising tra obbligo di disclosure e difficoltà di controllo”, in “Social media e diritto. Diritti e social media” della Rivista Informatica e Diritto, 2017. S. CIaRDO, “Privacy e tutela dei dati personali memorizzati nell’account della persona deceduta”, su Ridare.it, 20 aprile 2021. g. CITaRELLa, “Aggiornamento degli archivi online, tra diritto all’oblio e rettifica «atipica»”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 4, 2012. D. CITRON - K. FRaNKS, “Criminalizing Revenge Porn”, in Wake Forest Law Review, 2014. M. CLaRICh, “La responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto italiano”, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1989. J. CLOugh, “Principles of Cybercrime”, Cambridge, 2010. M. COCuCCIO, “Deindicizzare per non censurare: il «ragionevole compromesso» tra diritto all’oblio e diritto di cronaca”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2021. COMMISSIONE EuROPEa, “Libro Bianco sull’intelligenza artificiale -Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia”, Bruxelles, 19.2.2020 COM (2020) 65 final. T.M. COOLEY, “A Treatise on the Law of Torts or the Wrongs Which Arise Independent of Contract”, Chicago, 1888. M. CORRaDINO, “Intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: sfide concrete e prospettive future”, su www.giustizia-amministrativa.it, 10 settembre 2021. K. CRaWFORD & J. SChuLTz, “Big Data and Due Process: toward a Framework to Redress Predictive Privacy Harms”, 55 B.C.L. REV.93 (2014). K. CRaWFORD, “Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA”, il Mulino, 2021. a. CREa, “L’Intelligenza Artificiale sta rivelando una biologia sconosciuta”, su tomshw.it. E.J. CRIDDLE, P.B. MILLER & R.h. SITKOFF, “Oxford Handbook of Fiduciary Law”, Oxford, 2018. L. CuSaNO, “Tabulati telefonici: ulteriori ricadute della sentenza della CGUE del 2 marzo 2021 sul piano della utilizzabilità degli esiti di prova”, su ilpenalista.it, 25 maggio 2021. g. D’aCQuISTO, “Blockchain e GDPR: verso un approccio basato sul rischio”, in www.federalismi.it, 18 gennaio 2021. M. DaL CO e a. LONgO, “Metaverso, nuovo business della rete? Ecco gli scenari”, su agendadigitale.eu. a. DaMaSIO, “Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello”, adelphi, Milano, 2003. a. DaMaSIO, “L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano”, adelphi, Milano, 1995. M. D’aNgELOSaNTE, “La consistenza del modello dell’amministrazione invisibile nell’età della tecnificazione della formazione delle decisioni alla responsabilità per le decisioni”, in S. CIVITaRESE MaT- TEuCCI - L. TORChIa (a cura di), “La tecnificazione”. V. D’aNTONIO E D. TaRaNTINO, “Il product placement nell’ordinamento italiano: breve fenomenologia di uno strumento pubblicitario”, in Comparazione e Diritto Civile, 2011. J.W. DaWSON JR., “Dilemmi logici. La vita e l’opera di Kurt Gödel”, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. g. DE CRISTOFaRO, “Influencer Marketing: caso ‘Crema Pan di Stelle’. Come nel caso Alitalia-Ferretti nessuna sanzione. L’Antitrust accetta gli impegni di Barilla e dei Micro-Influencer. tanto rumore per nulla? Non si direbbe: altri spunti utili per inserzionisti e influencer”, su youmark.it, 17 marzo 2020. J. DELLa TORRE, “L’acquisizione dei tabulati telefonici nel processo penale dopo la sentenza della Grande Camera della Corte di Giustizia UE: la svolta garantista in un primo provvedimento del Gip di Roma”, su sistemapenale.it. a. DE LuCIa, “Offese su Facebook: la Cassazione conferma la legittimità del licenziamento”, su altalex.com. E. DhaWaN, “Digital body language. How to build trust & connection no matter the distance”, 2021. a. DI MaJO, “Profili della responsabilità civile”, Torino, 2010 L. DIOTaLLEVI, “La Corte di cassazione sancisce l'“equiparazione” tra giornali cartacei e telematici ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di sequestro preventivo: un nuovo caso di “scivo RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 lamento” dalla “nomofilachia” alla “nomopoiesi”?”, su Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 3, 2015. C. D’ORTa, “Il sistema pubblico di connettività”, in Giornale di diritto amministrativo, 2005. N. ELIaS, “La civiltà delle buone maniere”, 2009. a. FaLzEa, “Teoria dell’efficacia giuridica”, in “Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica”, vol. I, Milano, 1999. B.J. FEIJOS SaNChEz, “Derecho Penal y Neurosciencias, Una relaciòn tormentosa?”, 2011. P. FERRagINa - F. LuCCIO, “Il pensiero computazionale. Dagli algoritmi al coding”, Bologna, 2017. W. FERRI, “2,4 milioni per 500mq di cyber spazio: il Metaverso e la corsa all’oro digitale”, su lindipendenteonline. it. F. FERRONETTI, “Blockchain e smart contract, servono regole chiare: lo scenario”, su agendadigitale.eu, 14 ottobre 2021. L. FILIPPI, “La nuova disciplina dei tabulati: il commento “a caldo” del Prof. Filippi”, su penaledp.it, 1° ottobre 2021. L. FLORIDI, “Intelligenza Artificiale. L’uso delle nuove macchine”, Bompiani, 2021. E. FOLLIERI, “La tipologia delle azioni proponibili”, in F.g. SCOCa (a cura di), “Giustizia amministrativa”, Torino, 2017. g. FORNaSaRI, “I principi del diritto penale tedesco”, Padova, 1993. u.M. FRaNKLIN, “The Real World of Technology”, 1999. S. gaBORIau, “Libertà e umanità del giudice: due valori fondamentali della giustizia. La giustizia digitale può garantire nel tempo la fedeltà a questi valori?”, in Questione Giustizia, fasc. 4, 2018. a. gaMBINO, C. BOMPREzzI, “Blockchain e titolare del trattamento dei dati personali: il nodo rimane irrisolto”, in www.iaic.it, 20 gennaio 2020. C. gaRBaRINO, “Applicazione del FATCA a livello europeo e protezione dei dati”, 2018, su privatebank.jpmorgan.com. P. ghEzzI, “Blockchain, quali prospettive per le politiche pubbliche”, in www.blockchain4innovation.it, 14 aprile 2021. S. gIaNCONE, “Influencer e social network: quando l’uso di un marchio altrui è un atto illecito”, su iusinitinere. it, 8 ottobre 2020. M.S. gIaNNINI, “Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi”, Milano, 1939. S. gLEβ, E. SILVERMaN, T. WEIgEND, “If robots cause harm, who is to blame? Self-driving cars and criminal liability”, in New Criminal Law Review, 2016. K. göDEL, “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini”, in S.g. ShaNKER (a cura di), “Il teorema di Gödel”, trad. it. di P. PagLI, Franco Muzzio Editore, Padova, 1991. L. gOISIS, “Hate Crimes: perché punire l’odio. Una prospettiva internazionale, comparatistica e politico- criminale”, in RIDPP, 2018. L. gOISIS, “Libertà di espressione e odio omofobico. La Corte europea dei diritti dell’uomo equipara la discriminazione in base all’orientamento sessuale alla discriminazione razziale”, in RIDPP, 2013. L. gOISIS, “Omosessualità, hate crimes e diritto penale”, in GenIus, 2015. R. gOLDSTEIN, “Incompletezza. La dimostrazione e il paradosso di Kurt Gödel”, Codice Edizioni, Torino, 2006. C. gRaNDI, “Neuroscienze e responsabilità penale: nuove soluzioni per problemi antichi”, 2016. g. gRECO, “Dal dilemma diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale- interesse finale”, in Dir. amm., 2014. a. gRECO, “Il metaverso come il Monopoli: scatta la corsa al mattone virtuale”, su Repubblica.it. g. gRIzIOTTI, “Neurocapitalismo: mediazioni tecnologiche e linee di fuga”, 2016. g. haLLEVY, “The Criminal Liability of Artificial Intelligence Entities -from Science Fiction to Legal Social Control”, in Akron Intellectual Property Journal, 2010. a. hODgES, “Storia di un enigma. Vita di Alan Turing 1912-1954”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. M. IaSELLI, “Blockchain e privacy, bisogna lavorare ancora molto”, in federprivacy.org, luglio 2020. M. IaSELLI, “Consiglio di Stato: quando si può parlare di intelligenza artificiale? Palazzo Spada affronta una delicata questione tecnica sulla nozione di algoritmo, che assume notevole importanza anche per le necessarie conseguenze di carattere giuridico”, su altalex.it. M. IaSELLI, “La raccomandata on line: disciplina normativa ed aspetti operativi”, in Diritto dell’Internet, n. 6, 2006. a. IEVOLELLa, “Offeso con una e-mail inviata a lui e ad alcuni colleghi: è diffamazione”, su Diritto & Giustizia, fasc. 73, 2021. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà L. IMaRISIO, “Il reato che non osa pronunciare il proprio nome. Reticenze e limiti nel c.d. disegno di legge Scalfarotto”, in GenIus, 2015. g. IOzzIa, “Influencer marketing e quadro normativo”, su altalex.com, 17 luglio 2019. N. IRTI, “Il diritto nell’età della tecnica”, Editoriale Scientifica, 2007. N. IRTI, “Norme e fatti. Saggi di teoria generale del diritto”, Milano, 1984. R. JaCChIa, M. STILLO, “Codice Ue delle comunicazioni elettroniche: la nuova normativa per un mercato più accessibile e sicuro”, su agendadigitale.eu, 30 aprile 2021. P. JEaMMET, “Psicopatologia dell’adolescenza”, 2019. D. KahNEMaN, “Pensieri lenti e veloci”, 2012. M. KaMaL -W. NEWMaN, “Revenge Pornography: Mental Health Implications and Related Legislation”, in The Journal of American Academy of Psychiatry and the Law, 2016. E.R. KaNDEL “Principi di neuroscienze”, 2015. I. KaNT, “Principi metafisici della dottrina del diritto”, 1797. D. KEaTS CITRON, “Technological Due Process”, 85, Wash. un.L.Rev.1249. D. KEaTS CITRON & F. PaSQuaLE, “The Scored Society: Due Process for Automated Predictions”, 89 WaSh.L.REV. 1 (2014). T. KINg, N. aggaRWaL, M. TaDDEO, L. FLORIDI, “Artificial Intelligence Crime: An Interdisciplinary Analysis of Foreseeable Threats and Solutions”, in Science and Engineering Ethics, 2019. h.a. KISSINgER, E. SChMIDT, D. huTTENLOChER, “The Age of AI: And Our Human Future”, 2021. J. KROLL, “Accountable Algorithms”, 165 univ.Penn.L.Rev. 2017. M. LaNCINI, “Abbiamo bisogno di genitori autorevoli. Aiutare gli adolescenti a diventare adulti”, Mondadori, 2017. M. LaNCINI, “Adolescenti navigati, Come sostenere la crescita dei nativi digitali”, Erickson, 2015. M. LaNCINI, “Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti”, utet, 2020. M. LaNCINI, “Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa”, Raffaello Cortina, 2019. E. LaTIFah, a.h. BaJREKTaREVIC, M.N. IMaNuLLah, “Digital Justice in Online Dispute Resolution: The Shifting from Traditional to the New Generation of Dispute Resolution”, in Brawijaya Law Journal - Journal of Legal Studies, vol. 6, aprile 2019. a. LaVazza, L. SaMMIChELI, “Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto”, 2012. F.M. LaWRENCE, “Punishing Hate. Bias Crimes under American Law”, Cambridge, 1999. D. LEaVITT, “L’uomo che sapeva troppo. Alan Turing e l’invenzione del computer”, La Biblioteca delle Scienze, Milano, 2009. F. LEDDa, “Potere, tecnica e sindacato giudiziario”, in “Studi in memoria di V. Bachelet”, Milano, 1987. g. LEgaNza, “Luciano Floridi ci spiega cosa c’è di antico nell’intelligenza artificiale”, su IlFoglio.it. L. LESSIg, “Code.Version 2.0”, New York, 2006. I. LICaTa, “Complessità. Un’introduzione semplice”, Di Renzo Editore, 2018. I. LICaTa, “I teoremi di Gödel e l’intelligenza artificiale”, su Indiscreto.org. I. LICaTa, “La logica aperta della mente”, Codice Edizioni, Torino, 2008. I. LICaTa, “Piccole variazioni sulla scienza”, Dedalo, Bari, 2016. D. LIMa, “Could AI Agents Be Held Criminally Liable? Artificial Intelligence and the Challanges for Criminal Law”, in South Carolina Law Review, 2018. a. LISI, “Come sarà il 2022 dei documenti informatici: nuove regole digitali e qualche polemica”, su agendadigitale.eu. a.R. LODDER, J. zELEzNIKOW, “Artificial Intelligence and Online Dispute Resolution”, in a.R. LODDER, J. zELEzNIKOW, “Enhaced Dispute Resolution through the Use of Information Technology”, Cambridge University Press, 2010. I.M. LO PRESTI, “CasaPound, Forza Nuova e Facebook. Considerazioni a margine delle recenti ordinanze cautelari e questioni aperte circa la relazione tra partiti politici e social network”, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2020. J.R. LuCaS, “Mind, Machines and Gödel”, in Philosophy, 36, 1961. g. LuIgI, “La Corte di cassazione ritorna sull’acquisizione dei tabulati telefonici dopo le indicazioni della CGUE”, su Ilpenalista.it, 5 ottobre 2021. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 L. LuPaRIa, “Data retention e processo penale. Un’occasione mancata per prendere i diritti davvero sul serio”, in Diritto di Internet, 2019, 4. a. MaLaCaRNE, “La decretazione d’urgenza del Governo in materia di tabulati telefonici: breve commento a prima lettura del d.l. 30 settembre 2021, n. 132”, su Sistema Penale, 8 ottobre 2021. B. MaNCa, “L’Antitrust apre istruttoria su Alitalia e Aeffe di Alberta Ferretti: nel mirino anche le foto di influencer: “pubblicità non riconoscibile”, su ilfattoquotidiano.it, 15 dicembre 2018. g. MaNCa, “Interoperabilità nella pubblica amministrazione: presente e futuro digitale”, in www.agendadigitale. eu, 6 settembre 2018. a. MagNaNI, “L’eredità digitale”, in Notariato, 2014. D. MaRCIaNO, g. CaPaCCIOLI, “La blockchain ed il problema del trattamento dei dati personali”, in www.affidaty.io, 4 giugno 2019. R. MaRDON, “The relationship between ownership and possession: observations from the context of digital virtual goods”, 2016. F. MaRENghI, “Diritto alla presunzione di innocenza e nuovi strumenti di tutela”, su altalex.com, febbraio 2022. F. MaRENghI, “Riforma giustizia penale: il provvedimento di «deindicizzazione»”, su altalex.com. g. MaRINO, “La successione digitale”, in Oss. dir. civ. e comm., 2018. F. MaRTINI, “Il sistema informativo pubblico”, in “Quaderni del Dipartimento Pubblico”, università di Pisa, Torino, 2006. M. MaRTORaNa, “L’offesa su Facebook non è reato se l’insultato è online”, su altalex.com, febbraio 2022. M. MaRTORaNa, “Minori sui social: educhiamoli per difenderli”, su agendadigitale.eu. M. MaSSIMI, Art. 132, in R. SCIauDONE (a cura di) “Il Codice della Privacy”, Pacini, Ospedaletto, 2019. g. MaSTROBuONI, “Crime is Terribly Revealing: Information Technology and Police Productivity”, 2017. R. MazzuCCONI, “L’influencer marketing e il rapporto di endorsement tra aziende e influencers: profili giuridici e derive illecite”, su cyberlaws.it, 21 maggio 2020. V. MaYER -SChOENBERgER, K. CuKIER, “Big Data. Una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere”, garzanti, Milano, 2016. C. MELzI D’ERIL, “La Cassazione esclude l’estensione ai siti internet delle garanzie costituzionali previste per il sequestro di stampati”, in Dir. Pen. Uomo, 2014. L. MISChITELLI, “Intelligenza artificiale etica: ecco l’approccio “globale” Unesco (approvato anche dalla Cina)”, su agendadigitale.eu. S. MOLFINO, “Vietato pubblicare le foto dei figli sui social network senza il consenso dell’altro genitore”, su Ilfamiliarista.it, gennaio 2018. P.g. MONaTERI, “La responsabilità civile”, Torino, 2006. L. MORaSSuTTO, “Omofobia e medioevo italiano”, in GenIus, 2015. C. MORELLI, “Dallo spazio economico europeo allo spazio comune dei data UE”, in www.altalex.com, 22 marzo 2021. a. MORETTI, “Algoritmi e diritti fondamentali della persona. Il contributo del Regolamento UE 2016/679”, in “Diritto dell’informazione e dell’Informatica”, 2018 L. MuMFORD, “Technics and Civilization”, 1961. g. NaTaLE, “La Grande Sezione della Corte di Giustizia si è pronunciata sui poteri delle Autorità Nazionali nell’ambito del RGDP a fronte della gestione dei dati da parte dei colossi del web (C. giust. UE, Grande Sezione, sentenza 15 giugno 2021, C-645/19)”, su Rassegna Avvocatura dello Stato, gennaio- Marzo 2021. a. NaTaLINI, “Diritto all’immagine e pubblicazione di foto non autorizzata: per essere risarcita è la parte lesa che deve provare il pregiudizio economico”, su Diritto & Giustizia, fasc. 0, 2010. a. NELSON, T.L. NguYEN Tu e a. hEaDLaM hINES, “Technicolor. Race, Technology, and Everyday Life”, 2001. W. NONNIS, “Blockchain, il suo contributo durante la pandemia”, in www.blockchain4innovation.it, 19 aprile 2021. E. NuNzIaNTE, “Influencer e pubblicità, quale trasparenza: che fare”, su agendadigitale.eu, 30 ottobre 2019. D. ORMEROD, “Voyeurism: Elements of Offence-Privacy-Reasonable Expectation of Privacy”, in Crim- LawReview, 2008. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà P. OTRaNTO, “Decisione amministrativa e digitalizzazione della p.a.”, in federalismi.it. u. PagaLLO, S. QuaTTROCCOLO, “The impact of AI on criminal law, and its two fold procedures”, in W. BaRFIELD, u. PagaLLO (a cura di), “Research Handbook on the Law of Artificial Intelligence”, Edward Elgar Pub, 2018. E. PaLazzOLO, “Libertà di espressione, Facebook e movimenti di estrema destra: provvedimenti a confronto”, 2020. C. PaPPaLaRDO, “Influencer e Autodisciplina pubblicitaria -prime applicazioni della Digital Chart”, su DeJure. L. PaRDO, “Il metaverso spalanca nuove frontiere dell’economia. E delle regole”, su wired.it. C. PaRODI, “Sottratto al P.M. il potere di richiedere autonomamente i tabulati”, su ilpenalista.it, 1° ottobre 2021. C. PaRODI, “Tabulati telefonici e contrasti interpretativi: come sopravvivere in attesa di una nuova legge”, su ilpenalista.it, 3 maggio 2021. C. PaRODI, “Tabulati telefonici: la Suprema Corte si esprime dopo le indicazioni della CGUE”, su ilpenalista. it, 5 agosto 2021. L. PaSCuLLI, “Genetics, Robotics and Crime Prevention”. F. PaSQuaLE, “The Black Box Society. The secret Algorithms that Control Money and Information”, Cambridge - Ma 2015. N. PaTRIgNaNI, “Metaverso, rischio di un nuovo Medioevo digitale”, su agendadigitale.eu. F. PaTRONI gRIFFI, “La decisione robotica e il giudice amministrativo”, in giustizia-amministrativa.it. M. PELISSERO, “La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso”, in QuestG, 2015. M. PELISSERO, “Omofobia e plausibilità dell’intervento penale”, in GenIus, 2015. R. PELLICCIa, “Polizia predittiva”, Human Rights Data Analysis Group (Hrdag). R. PENROSE, “La Mente Nuova dell’Imperatore”, 1992. S. PERON, “Il risarcimento dei danni da diffamazione: analisi e riflessione sui criteri orientativi proposti dell’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano” (edizione 2018), in filodiritto.it, 2018. S. PERON, “Internet, regime applicabile per i casi di diffamazione e responsabilità del direttore”, su Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2011. B. PERRY, “In the Name of Hate: Understanding Hate Crimes”, Londra, 2001. E. PERuSIa, “Giurisdizione italiana anche per le offese on line su un sito straniero”, su Cassazione Penale, fasc. 6, 2001. g. PESTELLI, “D.L. 132/2021: un discutibile e inutile aggravio di procedura per tabulati telefonici e telematici”, su quotidianogiuridico.it, 4 ottobre 2021. D. PETRINI, “Il direttore della testata telematica, tra horror vacui e prospettive di riforma; sperando che nulla cambi”, su Riv. It. Dir. e Proc. Pen., fasc. 4, 2012. E. PICOzza, “Problems about enforcement”, in E. PICOzza, “Neurolaw. An Introduction”, Ed. Springer, 2016. I. PIETROLETTI, “Nessun risarcimento per l’avvocato se non prova i pregiudizi concreti ricollegabili al- l’attività”, su Diritto & Giustizia, fasc. 128, 2018. g. PIETROPOLLI ChaRMET, “I nuovi adolescenti”, 2000. F. PIzzETTI, “Intelligenza artificiale, protezione dei dati personali e regolazione”, Torino, 2018. F. PIzzETTI, “Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali. dalla direttiva 95/46 al nuovo Regolamento europeo”, 2016. F. PIzzETTI, “Protezione dei dati personali in Italia tra GDPR e codice novellato”, 2021. a. POLICE, “Il principio di responsabilità”, in M. RENNa, F. SaITTa, (a cura di) “Studi sui principii del diritto amministrativo”, Milano, 2012. O. POLLICINO, “Codice della comunicazione digitale”, 2015. O. POLLICINO, “Diritto dell’informazione e dei media”, 2019. O. POLLICINO, “Parole e potere. Libertà di espressione, hate speech e fake news”, 2017. V. PORTaLE, “Quanto è legale la Blockchain? La compatibilità tra Blockchain e normativa GDPR”, in www.blog.osservatori.net, 31 luglio 2020. R.a. POSNER, “The Right of Privacy”, 12 Georgia Law Review 393, 1977. a. PROTO PISaNI, “Appunti sulla c.d. tutela costitutiva e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali”, in Riv. dir. proc., 1991. a. PugIOTTO, “Aporie, paradossi ed eterogenesi dei fini nel disegno di legge in materia di contrasto all’omofobia e alla transfobia”, in GenIus, 2015. RaSSEgNa aVVOCaTuRa DELLO STaTO -N. 4/2021 S. PugLIaTTI, “La proprietà nel nuovo diritto”, 1964. M. RaCO, “La Digital Chart: una prima regolamentazione dell’influencer marketing”, su iusinitinere.it, 5 maggio 2020. M. RaCO, “Product placement ai limiti della pubblicità occulta: Baby K e Chiara Ferragni per Pantene”, su iusinitinere.it, 3 gennaio 2021. g.u. RESCIgNO, “L’esercizio dell’azione pubblica ed il pubblico ministero”, relazione dell’8 novembre 2004 al Convegno dell’associazione Italiana dei Costituzionalisti su “Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale”. F. RESTa, “Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna”, su Giustizia Insieme. g. RESTa, V. zENO -zENCOVICh (a cura di), “Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain”, Roma Tre Press, Roma, 2015. F. RESTa, “La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati”, su Giustizia Insieme, 2 ottobre 2021. N. REzENDE, “Dati esterni alle comunicazioni e processo penale: questioni ancora aperte in tema di data retention”, in www.sistemapenale.it. V. RICCIuTO, C. SOLINaS, “Fornitura di servizi digitali e prestazione di dati personali: punti fermi ed ambiguità sulla corrispettività del contratto”, GiustiziaCivile.com, 18 maggio 2021. L. RINaLDI, “Sul cibo, sul corpo e sul divenire della forma”, 2021. L. RINaLDI, “Sul nascere madri e padri. L’abisso, le sue insidie e le sue possibilità”, 2019. E. RINaLDINI, “Data retention e procedimento penale. Gli effetti della sentenza della Corte di Giustizia nel caso H.K. sul regime dell’acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: urge l’intervento del legislatore”, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 5. S. RIONDaTO, “Robotica e diritto penale (robot, ibridi, chimere, “animali tecnologici”)”, in D. PROVOLO, S. RIONDaTO, F. YENISEY (a cura di), “Genetics, Robotics, Law, Punishment”. S. RODOTà, “Il mondo nella rete. Quali diritti, quali vincoli”, Editori Laterza e la Repubblica, Roma- Bari, 2014. M. ROSSETTI, “Post nubila phoebus, ovvero gli effetti concreti della sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 in tema di danno non patrimoniale”, su Giustizia Civile, fasc. 4-5, 2009. E. ROTOLO, “Sarà metaverso in mille settori: ecco tutte le possibilità di business”, su agendadigitale.eu. C. ROxIN, “Sul consenso nel diritto penale”, in “Antigiuridicità e cause di giustificazione. Problemi di teoria dell’illecito penale”, a cura di S. MOCCIa, Napoli, 1996. C. ROxIN, “Über die mutmassliche Einwilligung”, in “Festschrift für Hans Welzel”, Berlino-New York 1974. u. RuFFOLO, E. aL MuREDEN, “Autonomous vehicles e responsabilità nel nostro sistema ed in quello statunitense”, in Giurisprudenza Italiana, 2019. u. RuFFOLO, a. aMIDEI, “Intelligenza artificiale e diritti della persona: le frontiere del transumane- simo”. u. RuFFOLO, “Intelligenza Artificiale, machine learning e responsabilità da algoritmo”, in Giurisprudenza Italiana n. 7/2019, utet giuridica, Torino. N. RuggIERO, “Quanto (e come) ci spia lo smartphone? Tutte le trappole che ignoriamo”, su agendadigitale. eu. a. RuTJES, “Blockchain and GDPR: better safe than sorry”, 2018. F. SaITTa, “Le patologie dell’atto amministrativo elettronico e il sindacato del giudice amministrativo”, in Riv.dir.amm.elettronico, disponibile on line, 2003. B. SaNDYWELL, “On the globalisation of crime: The internet and the new criminality”, in “Handbook of Internet Crime”, a cura di Y. JEWKES - M. YaR, Milton, 2010. S. SaRDELLa, “Influencer marketing e Fashion Law”, su iusinitinere.it, 19 aprile 2020. g. SaTELL, “3 Reasons to Kill Influencer Marketing”, su Harvard Business Review, 2014. C. SChMITT, “Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum»”, adelphi, 2011. F.g. SCOCa, “L’interesse legittimo. Storia e teoria”, Torino, 2017. a. SERENa, “Eredità digitale”, in aa.VV, “Identità ed eredità digitali, stato dell’arte e possibili soluzioni”, aracne, 2016. R. SETTIMIO, “Deindicizzazione e diritto all’oblio al vaglio della Suprema Corte”, su GiustiziaCivile.com, 27 settembre 2021. LEgISLazIONE ED aTTuaLITà g. SIaS, “La Nuova Sardegna”, 2 febbraio 2018. a. SIMEONE, “La nuova compagna del padre non può pubblicare le foto dei minori senza il consenso della madre”, su Ilfamiliarista.it, luglio 2019. E. SIMIONaTO, “AGCM e pubblicità occulta: aperto il procedimento istruttorio nei confronti di BAT e Stefano De Martino, Cecilia Rodriguez e Stefano Sala”, su iusinitinere.it, 1° giugno 2021. E. SIMIONaTO e M.E. ORLaNDINI, “Fedez, Mille e Coca Cola: è davvero pubblicità occulta?”, su iusinitinere. it, 8 luglio 2021. g. SIMMEL, “La socievolezza”, 2011. a. SIMONCINI, “L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà”, 2019. g. SPaNghER, “I tabulati: un difficile equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela di diritti fondamentali”, in Giustizia Insieme, 3 maggio 2021. a. SPENa, “Libertà di espressione e reati di opinione”, in RIDPP, 2007. L. STEINBERg, “Adolescence”, 2010. L. STEINBERg, “Age of opportunity: Lessons from the New Science of Adolescence”, 2015. L. STEINBERg, “The 10 Basic principles of Good parenting”, 2005. L. STEINBERg, “You and your adolescent”, 2011. S. STERRETT, “Bringing up Turing’s “Child Machine”, in “How the world computes” Turing Centenary Conference, Springer, 2012. F. TaRSITaNO, “Il diritto del lavoro alla prova degli algoritmi: la “tappa” della Procura di Milano nella corsa alla tutela dei riders”, su quotidianogiuridico.it, Marzo 2021. S. TORDINI CagLI, “Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto”, Bologna, 2008. a. TRaVERSI, “Intelligenza artificiale applicata alla giustizia”, 2005. P. TRIMaRChI, “La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, responsabilità civile”, 2021. a. TuRINg, “Le basi chimiche della morfogenesi”, Mimesis Edizioni, Sesto San giovanni, 2021. F. VaLERINI, “La familiarità della minore con i social network non salva Yahoo.it dal risarcimento del danno per la pubblicazione della foto”, su Diritto & Giustizia, fasc. 92, 2018. g. VELLaR, F. BaSILE, “Diritto penale e neuroscienze”, 2016. g.E. VIgEVaNI, O. POLLICINO, C. MELzI D’ERIL, M. CuNIBERTI, M. BaSSINI, “Diritto dell’informazione e dei media”, g. giappichelli Editore, Torino, 2019. a. VILLa, “Il diritto di critica ancorché contenga giudizi soggettivi deve fondarsi su fatti che debbono corrispondere a verità perlomeno putativa”, su Diritto & Giustizia, fasc. 171, 2017. P. VILLaSChI, “Facebook come la RAI?: note a margine dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 12.12.2019 sul caso CasaPound c. Facebook”, su osservatorioaic.it. F. VOLPE, “Discrezionalità tecnica e presupposti dell’atto amministrativo”, in Dir. Amm., 2008. S.D. WaRREN E L.D. BRaNDEIS, “The Right to privacy”, Harvard Law Review, 1890. D.M. WEgNER, “The illusion of conscious will”, 2002. L. WINNER, “Autonomous technology”, Cambridge, Mass., 1977. M. zaLNIERIuTE, L. BENNETT MOSES, g. WILLIaMS, “The Rule of law and Automation of Government Decision-Making”, in “The modern law review”, 2019. F. zaMBONIN, “Alexa testimone in un caso di omicidio”, su Il tuo legale, 2019. g. zaRa, “Tra il probabile e il certo. La valutazione del rischio di violenza e di recidiva criminale”, in Diritto penale contemporaneo, 20 maggio 2016. z. zENCOVICh, “The Datasphere, Data flows beyond control and the challenges for law and governance”, in European Journal of Comparative Law and Governance, V, 2019/162. S. zuBOFF, “Big other: surveillance capitalism and the prospects of an information civilization”, “Journal of Information Technology” (2015) 30. S. zuBOFF, “The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power”, London, 2019. S. zuBOFF, “You Are the Object of a Secret Extraction Operation”, The New York Times, 2021. CONTRIBUTIDIDOTTRINA Domanda riconvenzionale impropria e domanda trasversale: un possibile distinguo? Adolfo Mutarelli* Sommario: 1. ammissibilità della domanda tra coevocati -2. La domanda tra coevocati: natura ed effetti - 3. modalità e termini di proposizione. 1. ammissibilità della domanda tra coevocati. A poco meno di un anno la Suprema Corte (1), ribaltando un suo recente decisum (2), ha statuito che il convenuto che intenda formulare una domanda nei confronti di altro convenuto non ha l’onere di richiedere il differimento dell’udienza ai sensi dell’art. 269 c.p.c. ma è sufficiente che formuli la suddetta domanda nei termini e nelle forme stabiliti per la domanda riconvenzionale dall’art. 167, secondo comma, c.p.c. Ciò in quanto deve qualificarsi come riconvenzionale la domanda che il convenuto formula nei confronti dell’attore, quella che il convenuto formula nei confronti di altro convenuto che è già parte del processo e quella che il chiamato in causa formula nei confronti del chiamante ovvero di altri convenuti facenti parte del processo. Nel silenzio del codice di rito, che non offre una nozione di domanda riconvenzionale, la dottrina e la giurisprudenza ne hanno nel tempo elaborato i tratti connotativi nella provenienza soggettiva dal convenuto il cui contegno (*) Già Avvocato dello Stato. (1) Cass., ord., 23 marzo 2022, n. 9441. (2) Cass., 12 maggio 2021, n. 12662 secondo cui, a differenza di quanto sostenuto da Cass. 12 aprile 2011, 8315, non è necessario distinguere il caso in cui il titolo della domanda trasversale sia il medesimo o sia diverso rispetto a quello su cui si basa la domanda dell’attore dovendosi sempre nella comparsa di costituzione e risposta chiedere il differimento dell’udienza per la chiamata del coevocato/terzo. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 processuale non si limita ad invocare il rigetto della domanda di parte attrice chiedendo che il giudice, con accertamento idoneo a giudicato, prenda cognizione del diritto opposto alla domanda principale seppur ad essa collegato sul piano obiettivo (3). Nella riferita prospettiva rientra, pertanto, nella nozione di domanda riconvenzionale anche quella proposta dall’attore (art. 183, 4° comma c.p.c.) quale conseguenza delle domande riconvenzionali ed eccezioni proposte dal convenuto (reconventio reconventionis) (4). in tale contesto si innesta la problematica dell’ammissibilità della domanda (c.d. trasversale o riconvenzionale impropria) nei confronti di altro coevocato in giudizio e in particolare, ove ritenuta ammissibile, in ordine alle modalità di proposizione. il problema è sorto in quanto mentre il codice di rito, nel suo impianto originario, non concede appigli per consentire di qualificare come domanda riconvenzionale (solo) quella svolta dal convenuto nei confronti dell’attore (5) (artt. 36, 167, 2° comma, e 292 c.p.c.) gli interventi successivi sembrano militare proprio nel senso restrittivo sopra delineato. Così l’art. 418 c.p.c., introdotto con l. 11 agosto 1973, n. 533 per il processo del lavoro, secondo cui “il convenuto che abbia proposta una domanda in via riconvenzionale a norma del secondo comma dell'articolo 416 deve, con istanza contenuta nella stessa memoria, a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima, chiedere al giudice che, a modifica del decreto di cui (3) La distinzione tra domanda ed eccezione riconvenzionale non dipende dal titolo posto a base della difesa del convenuto, e cioè dal fatto o dal rapporto giuridico invocato a suo fondamento, ma dal relativo oggetto, vale a dire dal risultato processuale che lo stesso intende con essa ottenere, che è limitato, nel secondo caso, al rigetto della domanda proposta dall'attore. L'eccezione riconvenzionale consiste, a differenza della domanda riconvenzionale, in una prospettazione difensiva che, pur ampliando il tema della controversia è finalizzata esclusivamente alla reiezione della domanda attrice, attraverso l'opposizione al diritto fatto valere dall'attore di un altro diritto idoneo a paralizzarlo (Cass., 16 marzo 2021, n. 7292; in dottrina M. DiNi, La domanda riconvenzionale nel diritto processuale civile, Milano, 1978, 203 e passim). (4) Così M. CoMAStri, Commentario del codice di procedura civile, diretto da L.P. CoMoGLio, C. CoNSoLo, B. SASSANi e r. VACCAreLLA, torino, Vol. i, p. 487. (5) Per una ricostruzione storica della ammissibilità della domanda riconvenzionale da parte del convenuto è agevole il rinvio a i. Di CioMMo, anche la riconvenzionale tra convenuti va soggetta ad autorizzazione del giudice, in Dir. Proc. Civ. it. comp., 2021, p. 319 secondo cui “Nel diritto romano classico l’esistenza della riconvenzionale era dibattuta, almeno fino all’avvento della Nov. 96, con cui Giustiniano prescrisse l’obbligo per il convenuto di far valere ogni pretesa contro l’attore nello stesso giudizio, in tal modo evitando superflui dispendi per l’amministrazione della giustizia. Nel diritto intermedio e nel diritto canonico, la riconvenzionale era ammessa solo se relativa a causa connessa con quella originariamente introdotta dall’attore. Volgendo lo sguardo oltralpe, la legislazione statutaria francese vietava la riconvenzione fino alla Coutume de Paris del 1580. anche il code de procedure civile del 1806 conteneva appena tre riferimenti indiretti alla riconvenzionale, senza offrirne una specifica regolamentazione. Solo con le leggi del 1838 viene formalmente disciplinata la “domande incidentale”, poi recepita anche dal nuovo code de procedure civile”. CoNtriButi Di DottriNA al secondo comma dell'articolo 415, pronunci, non oltre cinque giorni, un nuovo decreto per la fissazione dell'udienza”. ed ancora l’art. 183, 4° comma c.p.c di cui alla (sempre meno) novella L. 26 novembre 1990, n. 353 (6) a mente del quale “Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto”. tuttavia, a ben riflettere, anche tali norme non possono essere interpretate nel senso di circoscrivere la nozione di riconvenzionale (solo) a quella proposta dal convenuto nei confronti dell’attore in quanto la loro ermeneusi va calata, per l’art. 418 c.p.c., nell’ambito delle esigenze specifiche del processo del lavoro in cui vi è ordinariamente contrapposizione tra due parti (7) ovvero, per l’art. 183, 4° comma c.p.c., nella fase processuale successiva al momento di dispiegamento delle domande tra le parti. Sicché costituirebbe forzatura ermeneutica quella di voler desumere (sol per questo) da tali norme l’esclusione dal novero della nozione di domanda c.d. riconvenzionale quella svolta dal convenuto nei confronti di altro coevocato in giudizio. Non sono pertanto rintracciabili sicuri indici normativi che circoscrivano la nozione di riconvenzionale alla sola domanda del convenuto nei confronti dell’attore, così come il codice di rito, non dedicando alcuna disciplina alla domanda del convenuto nei confronti del coevocato in giudizio, non può ritenersi ne escluda l’ammissibilità. il problema è, quindi, stabilire quale sia la disciplina applicabile. Va dato atto alla giurisprudenza di aver per prima ammesso e poi plasmato nel tempo (e nel silenzio del diritto positivo) i presupposti e la modalità di proposizione della domanda nei confronti del convenuto contro altro coevocato, facendo prevalere esigenze sostanzial-sistematiche in quanto “sarebbe rigido e vacuo formalismo negare a chi è chiamato in un giudizio la possibilità di far valere in quella medesima sede il diritto di cui è titolare e che avrebbe potuto sicuramente tutelare mediante l’intervento sol perché, maliziosamente o meno, gli è stata attribuita altra veste processuale” (8). in tal senso la giurisprudenza successiva e la dottrina che, in analoga prospettiva, ha opportunamente osservato che se al convenuto è dato ampliare l’oggetto del giudizio chiamando in causa un terzo non può poi essergli negato (6) B. SASSANi, il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Judicium.it. (7) M. GerArDo -A. MutAreLLi, il processo nelle controversie di lavoro pubblico, Giuffrè, Milano, 2012, p. 10 e passim. (8) testualmente da: Cass. 4 gennaio 1969, n. 9, in Giur. it., 1970, i, c. 810, con nota di G. tArziA, Sulla proposizione delle domande tra litisconsorti. in tal senso anche Cass., 26 marzo 1971, n. 894; Cass., 29 aprile 1980, n. 2848; Cass., 15 giugno 1991, n. 6800. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 il potere di proporre una domanda nei suoi confronti solo perché il terzo è già convenuto in lite (9). L’esistenza di un contraddittorio già così dispiegato dovrebbe infatti agevolare il riconoscimento di tale facoltà se non altro per il rispetto di palesi esigenze di concentrazione, celerità ed economicità del processo che, tuttavia devono pur sempre essere declinate e contemperate con il diritto di difesa del coevocato destinatario della domanda del litisconsorte. 2. La domanda tra coevocati: natura e effetti. Dall’ammissibilità della domanda nei confronti del coevocato consegue che la nozione di “riconvenzionale” andrebbe ridisegnata in senso ampliativo, ritenendo cioè tale ogni domanda proposta tra parti già evocate in giudizio. Mentre la riconvenzionale proposta dal convenuto nei confronti dell’attore richiede che tra le contrapposte pretese sia configurabile (art. 36 c.p.c.) un collegamento obiettivo tale da rendere opportuna la celebrazione del simultaneus processus a fini di economia processuale ed in applicazione del principio del giusto processo di cui all'art. 111, 1° co., Cost. (10) (ricomprendendo in tale ambito l’ammissibilità anche della c.d. riconvenzionale non connessa) (11), e la reconventio reconventionis, la connessione nei limiti in cui la sua proposizione sia giustificata dalle difese del convenuto (12), resta dubbio se qualsiasi domanda tra coevocati, possa qualificarsi sempre riconvenzionale o solo allorchè, come si ritiene preferibile, se fondata su medesimo titolo della domanda dell’attore principale. Senza negare lo iato concettuale tra domanda riconvenzionale in senso proprio (13) e domande tra litisconsorti, c’è da indagare se la domanda nei confronti del coevocato debba (sempre) parificarsi tout-court e quoad effectum alla domanda riconvenzionale (che definiremo, per comodità, riconvenzionale impropria) tra attore e convenuto nei suoi presupposti, nei termini e nelle modalità di proposizione (art. 36 c.p.c.) o se da tale ambito debbano enuclearsi le domande tra litisconsorti (che definiremo per comodità, trasversali) fondate (9) e. VuLLo, La domanda proposta dal convenuto contro l’altro: condizioni di ammissibilità, termini e forme, in Giur. it., 2002, p. 1779. (10) Cass., 24 gennaio 2018, n. 1752. (11) Così: Cass. ord., 15 gennaio 2020, n. 533. in dottrina, in senso positivo: CArNeLutti, istituzioni di diritto processuale civile, i, roma, 1950, 256; NAPPi, Commentario al codice di procedura civile, i, Milano, 1943, 124; FrANChi, Delle modificazioni della competenza per ragione di connessione, in Comm. c.p.c. ALLorio, i, torino, 1973, 352; LuiSo, Diritto processuale civile, i, 7a ed., Milano, 2013, 26865. in senso negativo: SAttA, Diritto processuale civile, Padova, 1973, 39; ANDrioLi, Commento al codice di procedura civile, i, Napoli, 1957, 125; zANzuCChi, Diritto processuale civile, i, Milano, 1975, 197; GioNFriDA, La competenza nel nuovo codice di procedura civile, Palermo, 1942, 363. (12) Cass., 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro it., i, c. 1037. (13) Cfr. A. roNCo, appunti sulla domanda di un convenuto contro l’altro, in Giur. it., 1999, pp. 2290 e ss. CoNtriButi Di DottriNA su diverso titolo e alle quali applicare il meccanismo che il codice di rito prevede per la vocatio del terzo estraneo per il quale (artt. 167 e 269 c.p.c.) si rende necessaria la chiamata in causa a tutela dell’integrità del diritto di difesa e di reazione processuale (artt. 3 e 24 Cost.). Nella prima pronuncia (14) successiva alla novella del 1990 viene pressoché dato per scontato che ogni domanda proposta nei confronti di altro convenuto sia parificabile tout-court alla domanda riconvenzionale. Ciò nell’avvertita esigenza, ritenuta prevalente, di agevolare il simultaneus processus nel dichiarato fine di privilegiarne celerità e concentrazione. in tal senso anche la prevalente giurisprudenza successiva (15) che ha posto l’accento sul rilievo che, diversamente opinando, dovrebbe autorizzarsi la chiamata in causa (art. 269 c.p.c.) di un terzo già evocato in giudizio cui è già noto il thema decidendum con differimento dell’udienza. e tutto ciò al limitato fine di far acquisire per tal via (al già evocato) la qualità di parte nei confronti della domanda del coevocato in giudizio. in analoga prospettiva anche l’ordinanza 23 marzo 2022, n. 9441 secondo cui “la domanda proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto non esige le forme per la chiamata del terzo” e, comunque, “non è necessario che la riconvenzionale “trasversale” sia fondata sui medesimi fatti posti dal- l’attore principale a fondamento della sua domanda” (16). tale pronuncia, in ragione di esigenze di semplificazione delle forme, parifica la disciplina della domanda tra litisconsorti alla ricovenzionale in senso proprio senza offrire alcuna proposta ricostruttiva (17). orbene è evidente che il coevocato dinanzi a una domanda non fondata su un legame oggettivo facente già parte del processo (si pensi a una domanda fondata su titolo diverso da quello posto a base del giudizio dall’attore, ad es. garanzia convenzionale) si trova nella medesima posizione di un terzo estraneo al giudizio senza, tuttavia, avere a disposizione i termini di costituzione ma solo la possibilità di replicare alla stessa nei termini di cui al 5° comma dell’art. 183 c.p.c. (18). Non sussiste, peraltro, alcuna assorbente ragione che possa autorizzare la sottrazione (al destinatario della domanda del coevocato) dei (14) Cass., 12 novembre 1999, n. 12558. (15) Cass., 16 marzo 2017, n. 6846; Cass., 26 ottobre 2010, n. 25415. (16) in tal senso nella disciplina ante novella 1990: Cass., 29 aprile 1980, n. 2848. (17) Ex plurimis: Cass., 6 luglio 2001, n. 9210; Cass., 26 marzo 1971, n. 894; Cass., 27 settembre 1999, n. 10605. (18) in tal senso Cass. 16 marzo 2017, n. 6846 che ha ritenuto non tempestiva la contro-riconvenzionale proposta da convenuto a fronte di domanda di coevocato in sede di memoria ex art. 183, Vi comma c.p.c. anzichè alle udienze di prima comparizione e trattazione (distinte al tempo della decisione). ed ancora Cass., 26 ottobre 2017, n. 25415 in imm. e propr., 2018, p. 54 che si segnala per aver, con riferimento al processo regolato dal “nuovo rito”, avallato l’indirizzo precedente che consentiva di proporre, con la comparsa di costituzione in giudizio, una domanda nei confronti di altro convenuto. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 termini a comparire nonché di godere dell’ordinario svolgimento del processo secondo la tempistica propria degli artt. 180 e 183 c.p.c. il simultaneus processus non può realizzarsi con sacrificio del diritto di difesa in quanto solo quest’ultimo è principio costituzionale. Né appare significativo che il terzo sia già convenuto nel processo in quanto rimane pur sempre terzo rispetto ad una nuova domanda fondata su titolo diverso da quello posto a fondamento dall’attore della propria azione. esigenza di celerità e concentrazione del processo non possono sacrificare il diritto di difesa del destinatario di domanda da parte di altro litisconsorte fondata su titolo autonomo rispetto al thema decidendum del giudizio per l’evidente ragione che, da un lato, non vi è alcuna norma che lo preveda e, dall’altro, che il sistema processuale non sembra consentirlo né, infine, appare costituzionalmente tollerabile. A prescindere dal dato testuale che l’art. 183, 5° comma c.p.c. (“... l’attore nella stessa udienza può proporre […] che sono conseguenza della riconvenzionale proposta dal convenuto”) contiene significativamente i termini di “attore” e“riconvenzionale” evocando le rispettive nozioni e, per quanto concerne la riconvenzionale (art. 36 c.p.c.), i limiti di ammissibilità (ancor più rigorosamente circoscritti per la reconventio reconventionis) non si ritiene che esigenze di concentrazione processuale possano far premio sull’integrità del diritto di difesa del terzo coevocato cui verrebbe riconosciuto il (ben più) ristretto termine processuale di reazione di 20 giorni a fronte di una domanda che non presenta, per dir così, connotati di connessione con il giudizio principale. Non sembra invero che in tali specifiche ipotesi la domanda tra coevocati possa ritenersi sottratta alla disciplina della chiamata del terzo in causa e, quindi, all’autorizzazione del giudice alla chiamata in causa con differimento dell’udienza (art. 269 c.p.c.). Si aggiunga inoltre che, secondo l’orientamento prevalente, la domanda nei confronti del coevocato farebbe perciò stesso di fatto sempre parte del processo (fino alla sua eventuale pronuncia di inammissibilità) in quanto ab initio non opererebbe il filtro dell'autorizzazione a chiamare in causa un terzo che, secondo la prevalente giurisprudenza, costituisce esercizio del potere discrezionale ed insindacabile del giudice in ordine alla sussistenza del requisito della comunanza (e convenienza) di causa (19). Potere riconosciuto proprio a tutela di ragioni di economia processuale e di garanzia della ragionevole durata del processo (20). (19) Cass. S.u., 23 febbraio 2010, n. 4309. Con riferimento al rito lavoro: Cass., 4 agosto 2004, n. 17218. (20) Deve tuttavia avvertirsi che, secondo il più recente orientamento, quando l'attore o il convenuto provveda alla chiamata di terzo senza il rispetto delle modalità di cui rispettivamente all'art. 269, 2° e 3° co., se il giudice di primo grado non rileva d'ufficio tale nullità, sempreché il chiamato si sia costituito senza eccepire la decadenza del chiamante, il vizio si sana, ove non dedotto come specifico motivo di impugnazione: Cass., 23 dicembre 2021, n. 41383. CoNtriButi Di DottriNA in relazione a quanto precede, sembra doversi prediligere l’orientamento, invero sin qui minoritario (21), che diversifica la domanda proposta nei confronti del coevocato che si fonda sul medesimo titolo posto a base della domanda dell’attore, (che preferiamo qualificare di c.d. riconvenzionale impropria) dalla diversa ipotesi della domanda non fondata sul medesimo titolo su cui si basa la domanda dell’attore fondata bensì su di un diverso rapporto (che preferiamo qualificare come c.d. domanda trasversale) per la quale sarà necessario ottenere l’autorizzazione alla chiamata in causa del terzo già evocato in lite. Alla domanda tra coevocati dovrebbe, quindi, applicarsi la disciplina della riconvenzionale se il legame obiettivo (rectius: titolo) è il medesimo di quello dell’attore, la disciplina della chiamata del terzo se il titolo è diverso. La prospettata soluzione, nel silenzio del diritto positivo, sembra costituire tollerabile bilanciamento tra esigenze di concentrazione del processo e diritto di difesa. La proposta diversificazione appare peraltro in linea con il principio, di recente confermato dalla Corte costituzionale, secondo cui non sussiste un diritto costituzionalmente tutelato al simultaneus processus la cui eventuale inattuabilità non può ritenersi ex se lesiva del diritto di difesa o di azione se “la pretesa sostanziale può essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa” (22). Nel caso di diversità di titolo deve pertanto ritenersi che l’esigenza della concentrazione propria della realizzazione del simultaneus processus debba cedere il passo dinanzi alle esigenze difensive e di reazione processuale del coevocato/terzo e ciò a tutto beneficio della “parità di armi” (23). 3. modalità e termini di proposizione. Nel codice di rito ante “novella 1990”, ai fini dell’ammissibilità della domanda tra coevocati era necessaria la mera proposizione nella comparsa di costituzione (art. 170 c.p.c.). Sulle parti evocate in giudizio gravava infatti un vero e proprio onere di vigilanza e controllo sull’attività processuale, dal cui adempimento conseguiva la possibilità di tempestiva reazione processuale e la scelta del contegno processuale da assumere. Peraltro nel sistema processuale previgente era meno avvertita la contiguità della domanda trasversale con la chiamata del terzo. il terzo, infatti, poteva essere chiamato alla prima udienza dal convenuto che, in alternativa, poteva chiedere di essere autorizzato dal giudice, il quale disponeva di ampio potere discrezionale nel valutare le ragioni che avevano impedito alla parte originaria l’immediata chiamata del (21) Così: Cass., 12 aprile 2011, n. 8315. (22) Giurisprudenza costituzionale costante: da ultimo: Corte Cost. 26 novembre 2020, n. 253 in Foro it., 2021, i, c. 19 ed ivi nota redazionale. (23) A. MutAreLLi, all’esame della Consulta il problema della revocabilità della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, in Corr. giur., 1996, p. 569. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 terzo (24). Sicché alla soluzione della problematica esaminata non era riservato particolare rilievo. il novellato art. 269 c.p.c. non consente più tale alternativa ed anzi impone che il convenuto manifesti la volontà di chiamare un terzo in causa nella comparsa di costituzione e risposta (art. 167 c.p.c.). Costituendo la richiesta in comparsa di costituzione e risposta l’unica possibilità di ampliare l’ambito della controversia, appare evidente che l’esistenza di parte già coevocata in giudizio non muti l’esigenza di conseguire l’autorizzazione alla chiamata in causa (almeno allorché) la domanda sia fondata su un diverso rapporto rispetto a quello su cui si fonda la domanda dell’attore (25). Nella diversa ipotesi in cui la domanda tra coevocati è fondata sul medesimo titolo sui cui si basa la domanda dell’attore potrà tollerabilmente ritenersi sufficiente che tale domanda sia formulata tempestivamente nella comparsa di costituzione e risposta senza alcuna necessità di notificazione della stessa ai sensi dell’art. 170 c.p.c. (26). Nell’ipotesi in cui il coevocato convenuto non si costituisca sarà necessario procedere alla notifica del verbale di udienza e della comparsa di costituzione nei suoi confronti quale parte contumace ex art. 292 c.p.c. Alla luce dell’illustrato dibattito, del silenzio del codice di rito e dell’inesistenza di un consolidato orientamento della giurisprudenza in subiecta materia, costituisce accortezza forense quella di proporre nella comparsa di costituzione e risposta, tempestivamente depositata, la domanda nei confronti del coevocato, richiedendo nel contempo che il tribunale, ove ritenuto necessario, disponga il differimento dell’udienza ex art. 269 c.p.c. per consentire la chiamata del coevocato/terzo nel rispetto dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. Del resto al giurista compete individuare ogni possibile insidia processuale, all’avvocato dribblarle (27). (24) Da G.P. CALiFANo, intervento di terzi e riunione di procedimenti, in Commentario del Codice di procedura civile, a cura di S. ChiArLoNi, Milano 2019, pp. 122 e ss. (25) in ordine all’intervenuto superamento della distinzione tra garanzia propria e impropria si rinvia, per evidenti esigenze di economia del presente lavoro, a r. tiSCiNi, Garanzia propria e impropria: una distinzione superata, in Dir. proc. civ., 2016, pp. 827 e ss. (26) Peraltro appare opportuno osservare che nel rito lavoro, caratterizzato dalla tassatività di rigide preclusioni, l’onere di chiedere al giudice l’emissione di un nuovo decreto di fissazione udienza ex art. 418 c.p.c., a pena di decadenza, sussiste a carico del convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale, si applica anche nei confronti del terzo chiamato in causa che, con la memoria difensiva, abbia proposto autonoma domanda riconvenzionale nei confronti di una delle parti in giudizio. in tal senso Cass., Sez. Lav., 22 luglio 2008, n. 20176. (27) Per un veloce censimento delle insidie processuali, cfr. M. MiNArDi, Le trappole nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2010. CoNtriButi Di DottriNA Controversie relative ai rapporti di lavoro. Questioni processuali tipiche del processo del lavoro pubblico Carlo Buonauro e Michele Gerardo* Sommario: 1. aspetti generali delle controversie relative ai rapporti di lavoro -2. Giurisdizione sulle controversie assunzionali di lavoro pubblico -3. Controversie escluse dalla cognizione del giudice ordinario: il c.d. scorrimento della graduatoria -4. Peculiari questioni processuali nel processo del lavoro pubblico -5. identificazione della parte pubblica, ossia: capacità di essere parte dell’ente pubblico (c.d. legitimatio ad causam) -6. Legittimazione passiva nei processi di lavoro pubblico, ossia: capacità processuale dell’ente pubblico ex art. 75, comma 3, c.p.c. (c.d. legitimatio ad processum) -7. rapporti tra i poteri dell’aGo e quelli della P.a. -8. Notifica dell’atto introduttivo -9. Difesa delle amministrazioni pubbliche -10. Competenza per territorio. 1. aspetti generali delle controversie relative ai rapporti di lavoro. L’art. 63 D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 (c.d. tuPi, testo unico sul pubblico impiego) devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (1). (*) Carlo Buonauro, Giudice del tar emilia romagna. Michele Gerardo, Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. (1) “1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo. 2. il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. 2-bis. Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 La cognizione attribuita al giudice ordinario si caratterizza per il requisito della generalità. i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, devoluti alla cognizione del Giudice ordinario, comprendono anche i rapporti a tempo determinato. Dal tenore letterale della disposizione affermativa della giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie di pubblico impiego privatizzato ed, altresì, dai connotati propri dei poteri datoriali nel rapporto di lavoro è dato desumere che la cognizione del giudice del lavoro non costituisce una giurisdizione esclusiva di diritti soggettivi ed interessi legittimi ma una ordinaria giurisdizione su diritti. Difatti al giudice ordinario non è riconosciuto alcun potere demolitorio/sostitutivo/modificativo dell’atto amministrativo come, viceversa riconosciuto in altre ipotesi tra cui l’art. 6, comma 12, D.L.vo 1 settembre 2011, n. 150 in tema di ordinanze ingiunzioni. La cognizione del giudice ordinario abbraccia anche gli atti amministrativi presupposti -ossia, una species bene individuata nel genus degli atti di macro- organizzazione ex art. 2 tuPi -con previsione che quando questi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica incidenter tantum, se illegittimi. La cognizione del giudice ordinario in funzione del giudice del lavoro concerne non solo le controversie relative ai rapporti di lavoro individuali con la P.A. ma altresì le due specifiche tipologie di controversie collettive descritte all’art. 63, comma 3, tuPi, ossia quelle a) relative a comportamenti antisindacali delle PP.AA. (2); b) promosse da oo.SS. o dalle PP.AA. e relative alle procedure di contrattazione collettiva. Nei confronti della P.A. possono essere adottati tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. È irrilevante il profilo dell’insuscettibilità di esecuzione forzata che condiziona, eventualmente, solo l’esecuzione. 3. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall'araN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto. 4. restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi. 5. Nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui all'articolo 64, comma 3, il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all'articolo 40”. (2) A seguito della sopravvenuta abrogazione dei commi 6 e 7 dell'art. 28 Stat. lav. -legge n. 300/1970 -ad opera della legge 11 aprile 2000, n. 83, art. 4, la giurisdizione ordinaria sussiste ai sensi del tuPi, art. 40, pur se la denunciata condotta antisindacale, oggetto del giudizio promosso dalle associazioni sindacali, afferisca ad un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato qual è quello intercorrente tra la Banca d'italia ed i suoi dipendenti (così Cass. S.u., 24 settembre 2010, n. 20161). CoNtriButi Di DottriNA Affermato tale principio, con il comma secondo dell’art. 63, va precisato che lo stesso trova significativi limiti normativi, a garanzia dell’imparzialità e buon andamento della P.A. Difatti: -sono inammissibili pronunce costitutive di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per violazione di norme imperative (art. 36, comma 5, tuPi); -sono altresì inammissibili pronunce di accertamento del diritto al superiore inquadramento in relazione all’esercizio di fatto di mansioni superiori (art. 52, comma 1, tuPi); -per le sentenze di condanna della P.A. al pagamento di somme di danaro per crediti di lavoro vi è -in deroga all’art. 429, comma 3, c.p.c. -il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione (art. 22, comma 36, L. 23 dicembre 1994, n. 724, secondo cui l'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (3) -disponente: “L'importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito” -si applica anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale spettanti ai dipendenti pubblici in attività di servizio o in quiescenza). Le indicate disposizioni costituiscono sintomo che, a differenza che nel lavoro privato, nel lavoro pubblico in talune individuate ipotesi la tutela effettiva del lavoratore è di fatto subordinata all’interesse organizzativo del datore di lavoro. 2. Giurisdizione sulle controversie assunzionali di lavoro pubblico. i principi generali in tema di riparto di giurisdizione, con specifico riguardo al momento assunzionale/reclutativo (4), sono stati più volte affermati (3) L'importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito. (4) Al di fuori di tale ambito, nuovi profili problematici sembrano profilarsi in relazione al riparto di giurisdizione in tema di accertamento della violazione dell’obbligo vaccinale e riflessi sul rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Nella recentissima giurisprudenza del G.A. sembrano infatti delinearsi due antipodici indirizzi: da un lato, l’opzione ermeneutica cd. panpubblicistica, che attrae l’intero contenzioso (a monte sull’accertamento della violazione dell’obbligo vaccinale ed a valle sui relativi riflessi sulla gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni), sulla base della duplice motivazione per cui il primo implica esercizio di poteri autoritativi ed il secondo ne viene attratto in quanto effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante. Cfr., da ultimo, Cons. St., sez. iii, ord., 22 dicembre 2021, n. 6790, secondo cui sussiste in materia la giurisdizione del giudice amministrativo sul rilievo che la giurisdizione sull’atto di accertamento circa la inosservanza dell’obbligo vaccinale si trascina la giurisdizione sull’atto di sospensione del rapporto, data la sua natura di atto meramente consequenziale e vincolato: infatti la spendita di poteri amministrativi sull’accertamento circa la inosservanza dell’obbligo vaccinale giustifica la giurisdizione del giudice amministrativo e la giurisdizione del giudice amministrativo si estende automaticamente anche alla comunicazione di sospensione dal servizio, atteso che una simile evenienza costituisce effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante; ulteriori indicazioni anche in tar Lazio, sez. iii quater, sent. breve, 4 gennaio 2022, n. 37, secondo cui rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 dalle Sezioni unite della Suprema Corte (5), sul fondamentale asse ermeneutico per cui in tema di impiego pubblico contrattualizzato, ai sensi dell’art. 63, comma 1, tuPi e sulla base dei principi elaborati dalla Corte costituzionale a proposito dell’art. 97 Cost., sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro (incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro); la riserva alla giurisdizione amministrativa delle controversie relative alle “procedure concorsuali” (per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), prevista dall’art. 63, comma 4, è del tutto residuale-eccezionale. in base a tale interpretazione, ex artt. 12-14 preleggi c.c.: a) al termine “concorsuale” è stato attribuito un significato restrittivo, riferito alle sole procedure caratterizzate: dall’emanazione di un bando, da una successiva fase di svolgimento delle prove e di confronto delle capacità, dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria di merito, cioè alle procedure conformi ai principi indicati nell’art. 35, comma 3, tuPi; b) di contro, il lemma “assunzione” (contenuto nel comma 4 cit.) è stato inteso in senso da comprendervi non solo i concorsi aperti agli esterni ma anche quelli riservati agli interni e finalizzati a “progressioni verticali novative” ovvero verso un’area o una categoria superiore; c) posto che la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa, sul piano della giurisdizione, il sistema delineato dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021 prevede uno specifico segmento procedimentale propriamente amministrativo e pubblicistico diretto ad accertare, mediante l’esercizio di un potere discrezionale ed autoritativo, se il sanitario abbia ricevuto o meno la somministrazione del vaccino contro il SArS-CoV-2, in conformità all'obbligo sancito dal comma 1, e soprattutto se la documentazione prodotta in caso di omissione dell’obbligo possa ritenersi idonea al fine di essere esonerati da siffatto obbligo. Di qui la ridetta spendita di poteri amministrativi e dunque la giurisdizione di questo giudice amministrativo. Giurisdizione che si estende automaticamente anche alla comunicazione di sospensione dal servizio, atteso che una simile evenienza costituisce effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante; dall’altro un indirizzo di segno opposto che, in disparte la complessità di forme di deroghe alla giurisdizione per motivi di connessione, evidenzia in radice come nella specie non viene in rilievo nessun provvedimento amministrativo autoritativo e come tale idoneo ad incidere sulle posizioni soggettive dei ricorrenti che mantengono la consistenza di diritti soggettivi (cfr. in termini, tar Liguria n. 983/2021, n. 984/2021, n. 985/2021, n. 986/2021, n. 987/2021, n. 991/2021; inoltre tar Valle d’Aosta, sez. unica, sent. 20 dicembre 2021, n. 72), per cui i provvedimenti del datore di lavoro pubblico conseguenti all’accertamento dell’inottemperanza all’obbligo vaccinale, afferendo alla posizione lavorativa dei ricorrenti, sono ricompresi nella giurisdizione del giudice ordinario, mentre nel solo caso di sanitario dipendente pubblico avente rapporto di pubblico impiego non privatizzato, quale ad esempio sanitario militare ovvero sanitario della Polizia di Stato, potrebbe sussistere, sotto questo profilo la giurisdizione, esclusiva, del giudice amministrativo. (5) Particolarmente paradigmatici i riferimenti nelle ordd. nn. 29462, 29463, 29464 del 2019, da ultimo ribaditi con ord. del 13 marzo 2020 n. 7218 e ripresi da Cassazione civile, sez. lav., sent. 16 novembre 2020, n. 25986 quest’ultima anche sul rilievo che il Collegio è delegato a trattare la questione di giurisdizione in virtù del Decreto del Primo Presidente in data 10 settembre 2018, in quanto essa rientra, nell’ambito delle materie di competenza della sezione lavoro, tra le questioni, indicate nel richiamato decreto, sulle quali si è consolidata la giurisprudenza delle Sezioni unite. CoNtriButi Di DottriNA contenuta nel comma 4 del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., le quali possono essere anche interne, purché configurino "progressioni verticali novative", diversamente si torna alla previsione generale di cui al comma 1 (e quindi alla giurisdizione dell’AGo) in presenza di progressioni meramente economiche oppure comportanti, in base alla contrattazione collettiva applicabile, il conferimento di qualifiche più elevate, ma comprese nella stessa area, categoria o fascia di inquadramento e, come tali, caratterizzate, da profili professionali omogenei nei tratti fondamentali, diversificati sotto il profilo quantitativo piuttosto che qualitativo. Quanto poi ai concreti sintomi della concorsualità nella procedura assunzionale, gli stessi vengono declinati lungo una triplice direttrice così schematizzabile: a) sul piano strutturale, rileva la presenza ovvero la mancanza di una fase di presentazione delle candidature, valutazione comparativa e formazione di una graduatoria di merito; b) sul piano funzionale, la presenza ovvero l’assenza di spazio di discrezionalità amministrativa, che ben può esaurirsi nel momento iniziale della pianificazione della strategia assunzionale (i.e. scelta di avvalersi di forme di impiego flessibili) per cui occorre esaminare il petitum sostanziale fatto valere in giudizio (6): se attiene, dunque, ad un ambito di discrezionalità amministrativa ovvero ad un diritto soggettivo alla assunzione (i.e. formazione di liste di idonei sulla base di criteri oggettivi, quali: il precedente impiego a termine; l’inserimento tra gli idonei delle graduatorie dei concorsi per la assunzione a tempo indeterminato); c) sul piano temporale, rileva il momento della approvazione della graduatoria finale con la conseguente proclamazione dei vincitori (7). (6) in tale ottica rileva l’intrinseca natura della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e ricostruita dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, non assumendo valenza la prospettazione delle parti e cioè il tipo di pronuncia chiesta al giudice (Cass. 28 febbraio 2019 n. 6040; Cass. 26 giugno 2019 n. 17140; Cass. 20 febbraio 2020 n. 4318). Ne discende che, indipendentemente dal fatto che la parte abbia instaurato un giudizio prospettando al giudice una richiesta di annullamento dell’atto adottato dalla pubblica amministrazione, dirimente ai fini del riparto della giurisdizione è pur sempre la situazione giuridica soggettiva che si vuole far valere in giudizio. Se il ricorrente è titolare di una posizione di diritto soggettivo, la giurisdizione sarà attribuita al giudice ordinario, mentre se il ricorrente è portatore di un interesse legittimo, la giurisdizione spetterà al giudice amministrativo. Va peraltro ricordato come in ogni caso venga assicurata la pienezza e l’effettività della tutela giurisdizionale, anche per le controversie devolute alla giurisdizione del G.o.: il secondo comma dell’art. 63 tuPi conferisce, infatti, al giudice del lavoro il potere di adottare “tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi, o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”. (7) Cfr. Cass. 13 novembre 2018 n. 29081 e Cass. 13 marzo 2020 n. 7218: l’ambito della giurisdizione amministrativa copre l’intero “iter” attinente al reclutamento, dal suo avvio (generalmente coincidente con la determinazione adottata dall’organo competente di ricorrere alla procedura stessa) sino all’approvazione della graduatoria finale con la proclamazione dei vincitori, la quale pertanto costituisce lo spartiacque del criterio di riparto. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 in base al suddetto criterio del “petitum sostanziale” -da determinare all’esito dell’indagine sull’effettiva natura della controversia in relazione alle peculiarità del singolo rapporto fatto valere in giudizio -si accerta che la controversia attiene alla lesione di un diritto soggettivo derivante da un atto o comportamento posto in essere dalla P.A. con i poteri del privato datore di lavoro, la giurisdizione compete al giudice ordinario senza che rilevi che la pretesa giudiziale sia stata prospettata come richiesta di annullamento di uno o più atti amministrativi o che comunque nel giudizio vengano in questione “atti amministrativi presupposti” illegittimi incidenti direttamente o indirettamente sulle situazioni giuridiche soggettive di cui si tratta, come tali disapplicabili da parte del giudice ordinario (8). 3. Controversie escluse dalla cognizione del giudice ordinario: il cd. scorrimento della graduatoria. Per converso, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando la controversia ha come oggetto principale la contestazione della legittimità degli atti amministrativi autoritativi con i quali l’Amministrazione ha operato circa le modalità di copertura dei posti vacanti ovvero di attribuzione di incarichi direttivi e quindi siano “principaliter” impugnati gli atti organizzativi mediante i quali le Amministrazioni pubbliche definiscono secondo i principi generali fissati da disposizioni di legge le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuando gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferi (8) La sicurezza di tali coordinate ermeneutiche potrebbe vacillare con riferimento ai nuovi meccanismi assunzionali previsti dal cd. “Decreto reclutamento Pa” (Decreto-Legge 9 giugno 2021, n. 80 “misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNrr) e per l’efficienza della giustizia”, conv. L. 6 agosto 2021, n. 113), che regola le procedure per assumere a tempo determinato nella P.A. gli esperti e i funzionari che lavoreranno ai progetti del PNrr e per conferire incarichi di consulenza con sistemi più rapidi ed efficaci; inoltre investe nei dipendenti pubblici già in servizio, favorendo progressioni di carriera più fluide, osmosi con il settore privato, valorizzazione del merito e prevede il potenziamento di enti come Sna e Formez, per rafforzare la formazione dei lavoratori pubblici e l’assistenza tecnica alle amministrazioni. Se, infatti, minori problematiche, quanto al riparto di giurisdizione sulle relative controversie, presenta il profilo delle regole per il reclutamento dei tecnici PNrr con contratti a tempo determinato e concorsi in 100 giorni (ivi applicandosi la riforma dei concorsi pubblici contenuta all’art. 10 del D.L. n. 44/2021 con la valutazione dei titoli per le figure a elevata specializzazione tecnica e la previsione di una sola prova scritta digitale, trattandosi con relativa certezza di procedura concorsuale ex art. 63, co. 4, tuPi), diversamente è da dirsi per le procedure speciali per il reclutamento “alte specializzazioni”: trattasi invero dei profili in possesso di dottorato di ricerca o master universitario di secondo livello, oppure della sola laurea magistrale o specialistica ma con esperienze documentate, qualificate e continuative di lavoro subordinato almeno triennali in organismi nazionali, internazionali e dell’unione europea, per i quali è prevista l’iscrizione in un apposito elenco sul Portale del reclutamento, a seguito di una procedura di selezione organizzata dal Dipartimento della Funzione pubblica e basata anch’essa sulla valutazione dei titoli e su un esame scritto. una volta iscritti nell’elenco, i profili ad alta specializzazione potranno essere direttamente assunti dalle amministrazioni che necessitano di personale, sulla base della graduatoria e senza ulteriori selezioni. CoNtriButi Di DottriNA mento della titolarità dei medesimi (art. 2, comma 1, tuPi), mentre l’eventuale pretesa di accertamento dell’invalidità del provvedimento di conferimento del- l’incarico e della stipulazione del contratto, in questi casi, ha carattere consequenziale rispetto a quella afferente la legittimità degli atti amministrativi impugnati; in quest’ultimo caso la posizione fatta valere in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo -al quale spetta il controllo sulle modalità di esercizio del potere amministrativo ai sensi dell’art. 103 Cost. -perché nel giudizio non si contro- verte del diritto soggettivo all’assunzione o all’incarico direttivo, bensì delle modalità di esercizio di poteri autoritativi dell’Amministrazione, nella fase antecedente alla pubblicazione della graduatoria del concorso oppure all’esito della selezione per l’incarico direttivo, anche se i relativi effetti si sono poi riverberati sulla singola assunzione, ma in senso derivato. in simili controversie, in caso di illegittimità degli atti impugnati (anche generali o di macro-organizzazione), non può operare il potere di disapplicazione del giudice ordinario, che presuppone la deduzione di un diritto soggettivo direttamente inciso da un provvedimento amministrativo e non una situazione giuridica suscettibile di assumere la consistenza di diritto soggettivo solo all’esito della rimozione del provvedimento amministrativo di macro-organizzazione impugnato. Con particolare riferimento alla opzione strategica circa le modalità di copertura di posti vacanti, rileva quindi l’alternativa tra contestazione sull’an ovvero sul quomodo dello scorrimento della pregressa graduatoria. ed, invero, nella prima eventualità rientra l’ipotesi del candidato che agisca in giudizio innanzitutto al fine di contestare l’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione, la quale abbia deciso di non coprire affatto i posti resisi vacanti, oppure, per coprire i posti resisi vacanti, abbia indetto un nuovo concorso anziché procedere allo scorrimento della graduatoria. in questo caso il ricorrente tende in primo luogo a conseguire una dichiarazione di inefficacia/ declaratoria di annullamento del comportamento/provvedimento con cui l’Amministrazione abbia assunto una delle predette decisioni, e solo consequenzialmente a vedere riconosciuto il proprio diritto all’assunzione mediante lo scorrimento della graduatoria. Pertanto, allorquando il ricorrente contesti il potere autoritativo dell’amministrazione, si trova dinanzi a quest’ultima nella posizione di titolare di un interesse legittimo, rispetto al quale sussiste, ancora una volta alla stregua del criterio del petitum sostanziale di cui sopra, la giurisdizione del giudice amministrativo (9). (9) Cfr. Cass., S.u., 22 agosto 2019 n. 21607 in relazione alla domanda proposta dinanzi al tar avente ad oggetto, a monte, l’accertamento dell’illegittimità della decisione assunta dall’Amministrazione di coprire solo in parte i posti resisi vacanti, pur in presenza di scoperture di organico maggiori, e di conseguenza, a valle, il loro diritto allo scorrimento della graduatoria per un numero di posti supe rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 Diversamente è da dirsi quando la contestazione involge il quomodo dello scorrimento: si pensi al candidato utilmente collocato nella graduatoria finale che agisca in giudizio al solo fine di far valere un diritto allo scorrimento della graduatoria, contestando le modalità di suo utilizzo. Si riespande in tal caso la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto il ricorrente si limita a far valere, al di fuori dell’ambito della procedura concorsuale, un proprio diritto soggettivo all’assunzione, diritto perfezionatosi nel momento in cui l’Amministrazione ha deciso di coprire i posti vacanti mediante tale scorrimento (10). 4. Peculiari questioni processuali nel processo del lavoro pubblico. il processo del lavoro pubblico costituisce un rito speciale nell’ambito dello già speciale rito del lavoro disciplinato negli artt. 409 e ss. c.p.c. La presenza di una parte pubblica comporta delle regole peculiari non solo sostanziali, come sunteggiate nel primo paragrafo, ma anche processuali. in questo studio si evidenzieranno le principali regole peculiari al processo del lavoro pubblico rispetto al modello generale del processo del lavoro. 5. identificazione della parte pubblica, ossia: capacità di essere parte dell’ente pubblico (c.d. legitimatio ad causam). La c.d. legitimatio ad causam è il riflesso della capacità giuridica nel processo. riore rispetto a quelli stabiliti dalla P.A. Per le Sezioni unite, si contesta la determinazione dell’Amministrazione di non coprire tutti i posti vacanti, con la conseguenza che, dinanzi a questa scelta discrezionale, i ricorrenti sono titolari di un interesse legittimo, rispetto al quale la giurisdizione è amministrativa. Né potrebbe essere diversamente, posto che, a fronte dell’esercizio di un potere discrezionale, il giudice ordinario è sprovvisto del potere di disapplicare la delibera con cui la P.A. ha deciso la copertura di un numero di posti inferiore rispetto alle esigenze di organico. in definitiva, ove si intenda far valere il solo diritto allo scorrimento della graduatoria, e quindi un diritto all’assunzione, la giurisdizione è del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro; ove si voglia contestare la determinazione autoritativa della P.A., la quale abbia deciso di non procedere allo scorrimento, o di procedervi in misura inferiore rispetto alle esigenze di organico, la posizione giuridica che si fa valere è di mero interesse legittimo, rispetto al quale la giurisdizione è amministrativa. (10) Così Cassazione 3 gennaio 2019 n. 29: la ricorrente aveva agito in giudizio contestando le modalità con le quali era avvenuto lo scorrimento delle graduatorie, e chiedendo al giudice l’accertamento del suo diritto a che la P.A. procedesse allo scorrimento prioritario della graduatoria più risalente nel tempo, nella quale ella era utilmente collocata, prima di attingere alle graduatorie successive. in questo caso la Corte ha ritenuto che la lavoratrice avesse correttamente instaurato il giudizio dinanzi al giudice del lavoro, intendendo la lavoratrice far valere un proprio diritto soggettivo all’assunzione. La posizione da ultimo descritta appare in linea con il consolidato orientamento del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. Vi, del 20 maggio 2011 n. 3014) che riprende tale dicotomia e ripropone la distinzione tra le due fattispecie, precisando che spetta al giudice ordinario la controversia instaurata dal candidato idoneo che aspiri allo scorrimento della graduatoria senza porre in discussione lo svolgimento della procedura concorsuale. La giurisdizione è del giudice amministrativo solo se la pretesa allo scorrimento della graduatoria sia consequenziale alla contestazione della decisione dell'amministrazione di indire un nuovo concorso invece di procedere con lo scorrimento della graduatoria. CoNtriButi Di DottriNA Nel processo del lavoro pubblico relativo alle controversie individuali dinanzi all’A.G.o., in funzione del giudice del lavoro, è parte necessaria del giudizio una P.A. È noto che non esiste una definizione di P.A. valida a tutti gli effetti: in date materie (contratti pubblici, accesso ai documenti, contabilità pubblica, ecc.) vale una specifica nozione normativa, in altri ambiti vale una nozione diversa. Nel processo del lavoro pubblico la nozione è delineata nell’art. 1, comma 2, tuPi, ossia: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (araN) e le agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CoNi”. La nozione che emerge è ristretta in quanto non abbraccia gli enti pubblici economici (ancorché questi sono in fase di dissoluzione). La questione processuale della individuazione della P.A. -solitamente convenuta in giudizio -può essere complessa attesa la numerosità degli enti, la loro eterogeneità, le frequenti vicende organizzative che li riguardano (soppressione mera; incorporazione di enti in altri enti; accorpamenti di enti; creazione di nuovi enti puramente e semplicemente o per distacco, gemmazione da enti preesistenti). Questo è un tema rilevante atteso il problema della imputazione di atti e responsabilità. tenuto conto di ciò si esamineranno i profili relativi alla individuazione dei principali enti pubblici non economici e altresì peculiari aspetti della vicenda. amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. Lo Stato è una struttura non unitaria, ma disaggregata, sicché non può essere evocato nella sua unità, ma tramite articolazioni aventi una soggettività autonoma ed una legittimazione (sostanziale e processuale) separata. il concetto di “amministrazioni dello Stato”, abbraccia i soggetti riconducibili non solo allo Stato-amministrazione, ma anche i soggetti riconducibili allo Stato- ordinamento (sempreché, in quest’ultimo caso, i soggetti esplichino un’attività sostanzialmente amministrativa e siano soggetti di procedura giudiziaria; per es. Camera dei deputati e Senato per i contratti da essi stipulati). tra tali soggetti riconducibili allo Stato-amministrazione, citiamo: rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 -Presidenza del Consiglio dei Ministri e organi alla stessa riconducibili, come gli organi delegati dell'Amministrazione centrale dello Stato quali i Commissari delegati in materia di protezione civile ex art. 25, comma 7, D.L.vo 2 gennaio 2018 n. 1 ed i Commissari Straordinari del Governo ex art. 11 1. 23 agosto 1988, n. 400; - Ministeri. Spesso il ricorso è proposto contro la Dirigenza amministrativa del Ministero o una Commissione di concorso. Ciò è erroneo. Sicché, ad esempio, l'ufficio Scolastico regionale (uSr) ed il suo dirigente sono sì organi del Ministero dell’istruzione, muniti di poteri di rappresentanza di esso verso l'esterno, ma non di un'autonoma soggettività; di conseguenza, parte in causa, ove si tratti di contenzioso riconnesso ai contratti di lavoro di docenti ed amministrativi, dovrà essere comunque il Ministero dell’istruzione, per quanto rappresentato dall'uSr e non l'uSr in quanto tale (11). in queste evenienze, ove non venga evocato in giudizio il Ministero competente, il giudizio dovrà concludersi con una sentenza in rito, di inammissibilità dell’azione. Molto ricorrente -attesa la massività del contenzioso -è la problematica della legittimazione nella materia della scuola. Al Ministero dell'istruzione sono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in ordine al sistema educativo di istruzione e formazione di cui all'art. 2 della legge 28 marzo 2003, n. 53, e di cui all'art. 13, comma 1, del D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, conv. L. 2 aprile 2007, n. 40 (art. 49 D.L.vo 30 luglio 1999, n. 300). L’art. 15 D.P.r. 8 marzo 1999, n. 275 dettaglia le competenze statali con riguardo allo stato giuridico del personale: a) formazione delle graduatorie permanenti riferite ad ambiti territoriali più vasti di quelli della singola istituzione scolastica; b) reclutamento del personale docente, amministrativo, tecnico e ausiliario con rapporto di lavoro a tempo indeterminato; c) mobilità esterna alle istituzioni scolastiche e utilizzazione del personale eccedente l'organico funzionale di istituto; d) autorizzazioni per utilizzazioni ed esoneri per i quali sia previsto un contingente nazionale; comandi, utilizzazioni e collocamenti fuori ruolo; e) riconoscimento di titoli di studio esteri. Corollario della indicata disciplina è che il personale intrattiene il rapporto di lavoro con il Ministero dell'istruzione, che è a tutti gli effetti datore di lavoro, e non con i singoli istituti -presso i quali presta servizio - pur se dotati di autonomia amministrativa (12). (11) Conf. da ultimo, Cass. 9 novembre 2021, n. 32938. (12) Conf., ex plurimis, Cass. 28 luglio 2008, n. 20521, secondo cui nelle controversie relative al- l'applicazione della normativa sui congedi parentali e sull'assistenza a congiunto portatore di handicap, venendo in considerazione diritti, di sicuro rilievo costituzionale, che possono essere esercitati qualunque sia l'istituzione scolastica ove il docente esplichi le sue funzioni e il cui riconoscimento va operato nei confronti del soggetto che ricopre la qualità di datore di lavoro, sussiste la legittimazione passiva del- l'Amministrazione centrale, mentre difetta quella del singolo istituto. in senso analogo Cass., 10 maggio 2005, n. 9752 secondo cui il personale docente degli istituti statali di istruzione superiore (nella specie, CoNtriButi Di DottriNA -Amministrazioni dello Stato organizzate con ordinamento autonomo. tra cui Fondo edifici di culto (artt. 56 e ss. L. 20 maggio 1985, n. 222), i Conservatori di musica e le istituzioni scolastiche, ossia gli istituti e Scuole Statali di ogni ordine e grado e le istituzioni educative (le controversie afferenti al rapporto di lavoro vedono quale controparte, come descritto innanzi, il Ministero dell’istruzione, datore di lavoro ex art. 15 D.P.r. n. 275/1999; per quelle diverse, ad es. repressione della condotta antisindacale, vi è autonoma legittimazione dei singoli istituti). Va precisato che le istituzioni scolastiche statali, alle quali è stata attribuita l'autonomia e la personalità giuridica a norma dell'art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59, sono compenetrate nell'amministrazione dello Stato, in cui sono incardinate -sono organi dello Stato con persona giuridica -e conservano il patrocinio legale dell'Avvocatura dello Stato, come risulta dalla espressa previsione dell'art. 1, lettera b), del D.P.r. 4 agosto 2001, n. 352 (13). Corollario di ciò, ad esempio, è che il singolo istituto scolastico non è titolare di un'autonoma legittimazione a sindacare in via giudiziale l'organizzazione della rete scolastica come disciplinata dagli organi periferici ministeriali, in quanto il rapporto tra l'istituto scolastico ed Amministrazione statale centrale è da considerarsi di natura interorganica e non intersoggettiva, per cui ogni eventuale contrasto va risolto in sede amministrativa, difettando un'autonoma posizione azionabile in sede giurisdizionale (14). una capacità autonoma si ha nelle controversie diverse da quelle individuali di lavoro (procedimento ex art. 28 Statuto dei lavoratori per condotta antisindacale; procedimento avente ad oggetto controversie sui contratti collettivi; controversie in materia di appalti, ecc.). tra tali soggetti riconducibili allo Stato-ordinamento, citiamo gli organi costituzionali, ossia: Presidenza della repubblica, Camera dei Deputati e Senato della repubblica, Corte Costituzionale (per questi quattro soggetti vi è l’autodichia, sicché la cognizione delle controversie individuali di lavoro spetta agli stessi organi costituzionali); Consiglio di Stato; Corte dei Conti; un istituto Professionale di Stato) -che costituiscono organi dello Stato muniti di personalità giuridica ed inseriti nell'organizzazione statale -si trova in rapporto organico con l'Amministrazione della Pubblica istruzione dello Stato e non con i singoli istituti, che sono dotati di mera autonomia amministrativa per la realizzazione dei fini di istruzione pubblica. in senso analogo altresì Cass., 21 marzo 2011, n. 6372, secondo cui anche dopo l'estensione della personalità giuridica, per effetto della legge delega n. 59 del 1997 e dei successivi provvedimenti di attuazione, ai circoli didattici, alle scuole medie e agli istituti di istruzione secondaria, il personale AtA e docente della scuola si trova in rapporto organico con l'Amministrazione della Pubblica istruzione dello Stato, a cui l'art. 15 del d.P.r. n. 275 del 1999 ha riservato le funzioni relative al reclutamento del personale, e non con i singoli istituti, che sono dotati nella materia di mera autonomia amministrativa; ne consegue che, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro, sussiste la legittimazione passiva del Ministero, mentre difetta la legittimazione passiva del singolo istituto. (13) Conf. Cons. Stato, 27 novembre 2019, n. 8081. (14) Così Cons. Stato, 20 marzo 2018, n. 1769. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 Consiglio nazionale dell’economia e del Lavoro; Consiglio Superiore della Magistratura. Enti pubblici non economici diversi dalle amministrazioni dello Stato. tra gli enti pubblici non economici diversi dallo Stato citiamo: - regione (15); - Province, Comuni ed altri enti locali; - università Statali; -Aziende ospedaliere universitarie; -Agenzie ex art. 8 D.L.vo 30 luglio 1999, n. 300 con personalità giuridica di diritto pubblico (Agenzia industrie difesa, Agenzia per la protezione del- l'ambiente e per i servizi tecnici, Agenzia dei trasporti terrestri e delle infrastrutture), anche fiscali. Estinzione degli enti. Spesso, con una particolare intensificazione negli ultimi anni, si assiste a rilevanti fenomeni di accorpamento di enti, loro disaggregazione o estinzione, in funzione della efficienza e razionalizzazione della P.A. Va esaminata la ricaduta nella ipotesi in cui il fenomeno avvenga nella pendenza di un giudizio. in assenza di specifiche previsioni legislative, occorre rifarsi ai principi generali: a) se, con previsione espressa o dal complesso della disciplina, è statuito che l’ente subentrante succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo all’ente estinto, la successione è a titolo universale (in universum ius). L’ente subentrante, pertanto, per i principi risponde dei debiti anche ultra vires. inoltre i processi civili pendenti al momento della successione subiscono l’interruzione (artt. 110 e 299-304 c.p.c.), a tutela del contraddittorio e del diritto di difesa, con la possibilità della prosecuzione o riassunzione pena l’estinzione del giudizio; b) se, l’ente subentrante succede solo in determinati rapporti giuridici facenti capo all’ente estinto, la successione è a titolo particolare (in singulas res). Questo è quello che di solito accade quando vi è il procedimento liquidatorio. i processi civili pendenti al momento della successione particolare non subiscono l’interruzione, ma sono sottoposti alla particolare disciplina di cui all’art. 111 c.p.c. sulla successione a titolo particolare nel diritto controverso. (15) Nella regione Sicilia -sulla falsariga dell’Amm.ne statale -il Presidente e gli Assessori ex art. 20, comma 1, dello Statuto, sono autonomi organi-soggetti di diritto, da evocare pertanto distintamente in giudizio. CoNtriButi Di DottriNA 6. Legittimazione passiva nei processi di lavoro pubblico, ossia: capacità processuale dell’ente pubblico ex art. 75, comma 3, c.p.c. (c.d. legitimatio ad processum). La c.d. legitimatio ad processum è il riflesso della capacità di agire nel processo ed è fissata dall’art. 75 c.p.c. (16). La legitimatio ad processum è sempre attribuita, con salvezza di diverse specifiche disposizioni, all’organo di vertice dell’ente (il comma 3 dell’art. 75 c.p.c. prescrive: “Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto”). Solitamente il rappresentante è dotato di un potere di rappresentanza sia sostanziale che processuale (e sottoscrive la procura). Si passeranno in rassegna le questioni sul punto riguardanti i più rilevanti enti pubblici. amministrazioni dello Stato. “Tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle amministrazioni dello Stato presso l'ufficio dell'avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del ministro competente” (art. 11, comma 1, r.D. 30 ottobre 1933, n. 1611) (17). La previsione de qua è eccentrica rispetto alle regole ordinarie in tema di agire delle PP.AA. e, nel- l’attuale assetto ordinamentale, ha una rilevanza eminentemente formale in quanto tale legittimazione è avulsa dai poteri di rappresentanza sostanziale spettanti non più al Ministro, ma ai dirigenti. infatti, in virtù del principio della separazione tra politica ed amministrazione (art. 4, comma 2, tuPi; art. 107 D.L.vo 18 agosto 2000, 267, testo unico enti Locali-tueL), la decisione di promuovere o resistere alle liti, in quanto attinente alla gestione amministrativa, spetta alla dirigenza (art. 16, comma 1, lett. f, tuPi). in pratica tutti i poteri, tranne quello della mera presenza in giudizio, spet (16) “Sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto. Le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli articoli 36 e seguenti del Codice civile”. (17) i cui commi 2 e 3 così dispongono: “ogni altro atto giudiziale e le sentenze devono essere notificati presso l'ufficio dell'avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza. Le notificazioni di cui ai commi precedenti devono essere fatte presso la competente avvocatura dello Stato a pena di nullità da pronunciarsi anche d'ufficio”. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 tano ai dirigenti. ed è per questo che la legittimazione processuale del Ministro in giudizio ha via via acquistato una connotazione spiccatamente formale. L’ultima disposizione citata, nel disporre che i dirigenti di uffici dirigenziali generali (o strutture sovraordinate) “promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto disposto dall'articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979, n. 103”, precisa il riparto di competenze tra organi di gestione e organi di governo, ma non modifica certamente il criterio di individuazione dell’organo che rappresenta legalmente l’amministrazione, rientrando nell’ambito delle competenze dirigenziali i soli poteri sostanziali di gestione delle liti (18). Non condivisibile è, quindi, quell’orientamento, talora diffuso nei giudici di merito, secondo il quale vi sarebbe la legitimatio ad processum in capo ai dirigenti di uffici dirigenziali generali (art. 16, comma 1, lett. f , tuPi); norma questa -secondo tale orientamento -cui dovrebbe riconoscersi natura derogatoria, solo per la materia di pubblico impiego, dell’art. 11 r.D. n. 1611/1933 in quanto la scelta della difesa del datore di lavoro sarebbe ritenuta partecipe della funzione amministrativa ma non di quella politica (19). (18) Conf. Cass. S.u. 6 luglio 2006, n. 15342 precisante altresì che lo Stato agisce ed è chiamato in giudizio in persona del Ministro competente o in persona del Presidente del Consiglio, mentre le strutture interne ai Ministeri non sono dotate di soggettività sul piano dei rapporti esterni. Analogamente Cass., 26 marzo 2008, n. 7862, Cass., 13 aprile 2012, n. 5885 (“Questa Corte ha avuto già occasione di affermare che il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 16, lett. f), laddove dispone che i dirigenti di uffici dirigenziali generali (o strutture sovraordinate) "promuovono e resistono alle liti ed hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto disposto dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 12, comma 1", precisa il riparto di competenze tra organi di gestione e organi di governo, ma non modifica certamente il criterio di individuazione dell'organo che rappresenta legalmente l'amministrazione, rientrando nell'ambito delle competenze dirigenziali i soli poteri sostanziali di gestione delle liti. Pertanto è il rettore legale rappresentante dell'Università il solo legittimato ad agire in giudizio ed a rappresentare l'Università stessa in giudizio (confr. Cass. 26 marzo 2008 n. 7862”); in applicazione del principio, la S.C. ha affermato che unico legittimato ad agire in giudizio per conto dell'università è il rettore, suo legale rappresentante, e ha cassato la decisione di merito che aveva attribuito la legittimazione al direttore amministrativo. in senso analogo altresì Cass., 13 settembre 2006, n. 19558: nelle PP.AA., la funzione di promuovere e resistere alle liti rientra tra quelle affidate dal tuPi ai dirigenti di uffici dirigenziali generali. tale attribuzione, che comporta anche il potere di conferire procura alle liti, non è derogata in difetto di qualsiasi previsione in tal senso -dalla successiva istituzione dell'ufficio per la gestione del contenzioso del lavoro e dalla attribuzione a tale ufficio (ai sensi dell'art. 12 del d.lgs. citato) di detta funzione (e del connesso potere), sia pure limitatamente al contenzioso del lavoro. Né, allorquando la procura provenga dal dirigente di uffici dirigenziali generali, sussiste alcun limite relativo alla sede in cui presta servizio il dipendente delegato a rappresentare l'amministrazione -sia pure limitatamente al giudizio di primo grado -nelle controversie relative ai rapporti di lavoro privatizzati e come tali devoluti alla giurisdizione del giudice ordinario (fattispecie relativa a procura alle liti rilasciata a un dirigente in servizio presso la Procura della repubblica di un distretto diverso da quello del tribunale innanzi al quale si celebrava la controversia di lavoro instaurata contro il Ministero della Giustizia con difesa ex art. 417 bis c.p.c.). (19) in questi termini, tribunale di Pisa, sentenza 21 marzo 2002 evidenziata nella nota di B. Si- MoNi, La legittimazione sostanziale e processuale delle istituzioni scolastiche nelle controversie di lavoro, in Lavoro P.a., 2002, p. 798. CoNtriButi Di DottriNA Va rilevato che dalla normativa emerge uno specifico caso -avente riflessi nel contenzioso in esame -nel quale, nell’ambito del Ministero, la legittimazione processuale spetta non al Ministro, ma ad un organo amministrativo: quello -nelle cause che vedono parte processuale il Ministero dell’istruzione -del dirigente generale dell’ufficio Scolastico regionale in luogo del Ministro dell'istruzione. Difatti, in conseguenza dei regolamenti relativi alla definizione dell'organizzazione e della disciplina degli uffici periferici del Miur -sulla base degli artt. 13 e 21, comma 18, L. n. 59/1997 -il dirigente generale del- l’ufficio Scolastico regionale può essere evocato in giudizio rispetto al contenzioso con il personale della scuola pubblica non in proprio ma in rappresentanza processuale, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., del Ministero dell’istruzione (20). Convenuta in giudizio una amministrazione dello Stato, l’errore di identificazione del Ministro competente eventualmente commesso dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio non dà luogo a pregiudizi per l’interessato. All’uopo, l’art. 4 L. 25 marzo 1958, n. 260 dispone che l'errore di identificazione della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, ossia del Ministro competente, deve essere eccepito dall'Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona, ossia del Ministro, alla quale l'atto doveva essere notificato. La disposizione citata prevede un meccanismo di sanatoria con efficacia retroattiva, in quanto la rinnovazione dell’atto introduttivo della lite fa salvi gli effetti dell’atto originario, impedendo che il ricorrente, a causa dell’errore, possa incorrere nella prescrizione dei propri diritti o in decadenze. Se il difetto concernente l’individuazione del Ministro competente non è tempestivamente sollevato dal difensore, si determina una decadenza e la legittimazione passiva del Ministro erroneamente evocato in giudizio non può essere ulteriormente contestata dalla difesa dell’amministrazione. La norma sull’errata identificazione (art. 4 L. n. 260/1958) si riferisce al solo tema della legittimazione processuale, ossia alla individuazione nel- l’ambito di ogni amministrazione dello Stato interessata, dell’organo processualmente legittimato (ad esempio in luogo del Ministro titolare si indica altra persona preposta ad un ufficio del medesimo Ministero), non invece al diverso problema della legittimazione ad causam e quindi dell’errore di individuazione dell’amministrazione interessata che si avrebbe ove si evocasse in giudizio un Ministero non legittimato al posto del Ministero competente (a questo caso non possono applicarsi le norme agevolatrici dell’art. 4 L. n. 260/1958). il giudice di legittimità è di contrario avviso. Con orientamento consolidato la Cassazione (21) pone sullo stesso piano legitimatio ad causam (20) Cass., 9 novembre 2021, n. 32938. (21) ex plurimis: Cass., 3 marzo 2021, n. 5819; Cass., 20 ottobre 2020, n. 22802; Cass., 24 gennaio rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 e legitimatio ad processum applicando la medesima disciplina (art. 4 L. n. 260/1958) anche all’errore nell’individuazione del Ministero competente. tanto sulla base del rilievo che la detta equiparazione è pienamente compatibile con il complessivo dato letterale e si rivela il solo idoneo a soddisfare la ratio legis, identificabile nell'intento di agevolare l'effettività del diritto alla tutela giurisdizionale delle pretese vantate nei confronti della pubblica amministrazione, in rapporto alla circostanza che l'esercizio di tale diritto, condizionato dal rispetto di rigorosi termini di decadenza, rischia di essere vanificato nelle non infrequenti ipotesi in cui la concreta individuazione del- l'organo investito della rappresentanza dell'amministrazione convenuta ovvero quella del soggetto pubblico passivamente legittimato al giudizio risulti particolarmente ardua. tale orientamento, costituente diritto vivente, non è condivisibile perché contrasta con la portata della norma e con le norme sulla contabilità dello Stato rendendo possibile la condanna di un determinato Ministero per affari la cui spesa è prevista nel bilancio di Ministeri diversi. un ulteriore orientamento del giudice di legittimità conduce ad estendere un segmento della disposizione di cui al citato art. 4 L. n. 260/1958 -quello relativo al recupero della presenza in giudizio della “vera” amministrazione avente capacità di essere parte con la previsione che l'errore di identificazione della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato deve essere eccepito dall'Avvocatura dello Stato nella prima udienza con la contemporanea indicazione della persona alla quale l'atto doveva essere notificato e il giudice deve concedere un termine entro il quale l'atto deve essere rinnovato -ad ulteriori due fattispecie sempre inerenti alla capacità di essere parte, alla corretta evocazione in giudizio dell’ente pubblico: -l'errore d'identificazione riguardante distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato (ad esempio Agenzia delle entrate -non compresa nel concetto di “Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo” -in luogo del Ministero competente) (22); -l’erronea evocazione in giudizio di una articolazione del Ministero, in luogo del Ministero; ossia l'azione viene dispiegata direttamente nei confronti di un ufficio o di un organo privo di soggettività autonoma. Ad esempio viene convenuto in giudizio l’ufficio Scolastico regionale -come tale privo di autonoma capacità di essere parte - in luogo del Ministero dell’istruzione (23). 2020, n. 1583; Cass., 9 maggio 2019, n. 12322; Cass., 21 marzo 2019, n. 8049; Cass., S.u., 27 novembre 2018, n. 30649; Cass., S.u., 14 febbraio 2006, n. 3117; Cass., 19 novembre 2003, n. 17546; Cass., 26 giugno 2001, n. 8697. (22) Cass., 6 marzo 2018, n. 5314; Cass. 4 marzo 2016, n. 4266 e Cass. 17 dicembre 2014, n. 26501. (23) Cass., 9 novembre 2021, n. 32938 e Cass., 5 novembre 2021, n. 32166. CoNtriButi Di DottriNA Per il citato orientamento, l'operatività della disposizione l'art. 4 della L. n. 260/1958 è circoscritta al solo profilo della rimessione in termini; è esclusa -atteso il rispetto del principio dell'effettività del contraddittorio -ogni stabilizzazione degli effetti dell'atto giudiziario (e del conseguente giudizio) ove sia stato evocato ad altro soggetto. Sicché, in mancanza dell'eccezione da parte dell'Avvocatura o dell'indicazione di pertinenza dell'Avvocatura, oppure nel caso del mancato adeguamento della parte o mancanza del provvedimento del giudice non denunciata in sede di impugnazione o non coinvolta dagli effetti dell'impugnazione, la sanatoria non ha corso; l'azione resta inammissibile in quanto proposta nei confronti di entità priva di soggettività e quindi di titolarità delle situazioni oggetto di giudizio. Anche quest’ultimo orientamento estensivo -applicare un segmento dell’art. 4 L. n. 258/1958 -non deve ritenersi condivisibile. Peraltro agli stessi risultati si perviene con l’applicazione delle regole generali sul controllo d’ufficio degli aspetti relativi alla capacità processuale, ossia con l’applicazione dell’art. 182 c.p.c. istituzioni scolastiche. il dirigente scolastico, legale rappresentante dell’istituzione scolastica (art. 25, comma 2, D.L.vo n. 165/2001), é l’organo dotato della capacità processuale (24). agenzie Fiscali. il potere di rappresentanza generale, e quindi anche processuale, spetta in assenza di diverse previsioni statutarie -al direttore il quale “rappresenta l'agenzia e la dirige, emanando tutti i provvedimenti che non siano attribuiti, in base alle norme del presente decreto legislativo o dello statuto, ad altri organi” (art. 68, comma 1, D.L.vo n. 300/1999). regioni. La legittimazione processuale, per le regioni, è attribuita al Presidente della Giunta regionale (art. 121, comma 4, Cost.). Per la regione Sicilia, ove parte in causa sia l’Assessorato, ciascun assessore è legittimato a stare in giudizio (in rappresentanza dell’ente) nelle controversie relative a materie di sua competenza. Per la regione -per un principio valevole per tutti gli enti i cui organi di ver (24) in senso contrario, Cass. 17 marzo 2009, n. 6460 secondo cui ai dirigenti delle istituzioni scolastiche competono, in base all'art. 25 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, funzioni decisamente più ridotte rispetto a quelle spettanti ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, e limitati all'ambito dell'autonomia organizzativa, didattica e finanziaria, con la conseguenza che ai primi non spetta il potere di promuovere e resistere alle liti, che è, invece, esplicitamente previsto (dall'art. 16 del citato d.lgs. n. 165 del 2001) per i dirigenti di uffici dirigenziali generali. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 tice siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica l’attribuzione ex art. 4, comma 2, tuPi ai dirigenti della funzione di gestione amministrativa comprende l’attribuzione agli stessi del potere di determinazione circa l’opportunità di promuovere o resistere alle liti (ma non di stare in giudizio). Comuni e Province. Per gli enti locali la legittimazione processuale spetta -ex artt. 6, prima parte del comma 2, e 50, incipit del comma 2, tueL (25) -al sindaco ed al presidente della provincia, cui compete, in via esclusiva, il potere di conferire al difensore la procura alle liti, senza la necessità di una delibera di autorizzazione della Giunta; analogamente allo Stato, anche per gli enti locali l’attribuzione al dirigente della funzione di gestione amministrativa (ai sensi dell’art. 107 tueL) comprende l’attribuzione al medesimo del potere di determinazione in ordine all’opportunità di promuovere o resistere alle liti (ma non di stare in giudizio), atteso che tale provvedimento assume il carattere di una valutazione di natura tecnica, strettamente legata alla gestione amministrativa nel caso singolo. È salva la possibilità per lo Statuto (competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio ex art. 6, comma 2, tueL), ed anche per il regolamento, ove lo statuto contenga un espresso rinvio in materia, al regolamento -di prevedere l'autorizzazione della Giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero, ancora, di postulare l'uno o l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto della controversia. ove l'autonomia statutaria si sia così indirizzata, l'autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell'organo titolare della rappresentanza; -di attribuire la legittimazione processuale ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico- amministrativa ovvero al dirigente dell’ufficio legale; in questa ultima evenienza il dirigente dell'ufficio legale, quando ne abbia i requisiti, può costituirsi senza bisogno di procura, ovvero attribuire l'incarico ad un professionista legale interno o del libero foro (salve le ipotesi, legalmente tipizzate, nelle quali l'ente locale può stare in giudizio senza il ministero di un legale) e, ove abilitato alla difesa presso le magistrature superiori, può anche svolgere personalmente attività difensiva nel giudizio di cassazione (26). (25) Art. 6, prima parte del comma 2, tueL: “Lo statuto, nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipatone delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio”. Art. 50, incipit del comma 2, tueL: “il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente”. CoNtriButi Di DottriNA altri enti pubblici. Per i restanti enti pubblici, nei quali è assente il momento politico, tendenzialmente in capo al rappresentante legale dell’ente si cumulano ambedue le legittimazioni, processuale e sostanziale, salva diversa previsione legale o statutaria. Fatta questa precisazione si evidenzia che, con riferimento agli enti pubblici diversi dagli enti territoriali, la legittimazione processuale, con indicazione esemplificativa, spetta: -per le Aziende Sanitarie Locali al Direttore Generale, al quale sono riservati “Tutti i poteri di gestione, nonché la rappresentanza dell'unità sanitaria locale” (art. 3, incipit comma 6, D.L.vo 30 dicembre 1992, n. 502); -per le Camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura la legittimazione processuale spetta al Presidente (art. 16, incipit comma 2, L. 29 dicembre 1993, n. 580); analogamente per l’iNPS (art. 2, incipit comma 2, D.P.r. 30 aprile 1970, n. 639) e l’iNAiL (art. 2, comma 2, lett. a, r.D. 6 luglio 1933, n. 1033). requisiti della capacità processuale dell’ente pubblico. Affinché sia regolare il presupposto processuale della capacità processuale è necessario, quindi, che l’ente stia in giudizio a mezzo dell’organo dotato della capacità di stare in giudizio ed altresì -nei casi in cui la normativa rilevante richieda l’autorizzazione a stare in giudizio, ossia la determinazione di promuovere o resistere alle liti (circostanza che ricorre spesso negli enti territoriali) -che sia adottato il provvedimento di autorizzazione a stare in giudizio, debitamente documentato nel processo. Va precisato che allorché l’ente pubblico sia difeso dall’Avvocatura dello Stato, il mandato ex lege spettante all’organo Legale esclude la necessità della adozione e documentazione dell’atto di autorizzazione a stare in giudizio, avendo quest’ultimo un valore di atto interno (nei rapporti tra Amm.ne ed Avvocatura) senza alcun riflesso processuale. Difatti lo jus postulandi dell’Avvocatura dello Stato è organico, derivante direttamente dalla legge. L’organicità dello jus postulandi comporta che gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non (26) Conf. Cass. S.u., 16 giugno 2005, n. 12868 (specificante, tra l’altro, che in mancanza di una specifica previsione statutaria, che affida la rappresentanza processuale e la difesa dell'ente ai dirigenti, il potere medesimo spetta al Sindaco ex art. 50 t.u.e.L., il quale, tranne che vi sia espressa previsione statutaria, non deve essere autorizzato dalla Giunta a resistere in giudizio o a nominare il legale e l'eventuale previsione in Statuto della previa determinazione del dirigente competente ha natura di valutazione tecnica circa l'opportunità della lite e non di atto autorizzatorio in senso tecnico). in senso analogo: Cass. S.u., 27 giugno 2005, n. 13710; Cons. Stato, 30 luglio 2021, n. 5619; Cass, 30 giugno 2020, n. 12976; Cass., 30 dicembre 2019, n. 34599; Cass., 22 marzo 2012, n. 4556; Cass., 21 maggio 2009, n. 11848; Cass., 13 marzo 2009, n. 6227; Cass., 16 giugno 2005, n. 68. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono quello speciale (art. 1, comma 2, r.D. n. 1611/1933) e non sono onerati della produzione del provvedimento, del competente organo, di autorizzazione ad agire o resistere in giudizio, essendo sufficiente soltanto che risulti la loro qualità. il rapporto tra amministrazione difesa e l’Avvocatura è un rapporto interno, di immedesimazione organica, con una duplice conseguenza: da un lato, è inibita al giudice ogni indagine sull’esistenza o meno dell’incarico attribuito dall’Amministrazione all’Avvocatura dello Stato; dal- l’altro la deliberazione dell’organo statale competente a promuovere la lite (o resistere alla lite da altri promossa) resta un mero atto interno, privo di rilevanza processuale e la violazione da parte dell’Avvocatura delle direttive impartite dall’organo statale titolare della legitimatio ad processum potrà dar luogo a responsabilità disciplinare e/o amministrativa dell’Avvocato dello Stato “infedele” per i danni erariali eventualmente cagionati, ma non produrrà mai alcun effetto invalidante sul processo (27). Patologia del presupposto processuale della legitimatio ad processum e la sua sanatoria. Nel caso in cui il soggetto costituito in giudizio sia privo della rappresentanza processuale ex art. 75 c.p.c. -o questa presenti vizi -il giudice d’ufficio deve procedere al rilievo ex art. 182 c.p.c. (28) onde sanare il vizio. il rilievo deve essere fatto alla prima udienza (artt. 182 e 183, commi 1 e 2, c.p.c.) (29), in mancanza può essere fatto nel corso del giudizio, sicché la (27) Conf., da ultimo ex plurimis, Cass., 3 settembre 2018, n. 21557 secondo cui in tema di rappresentanza e difesa facoltativa degli enti pubblici da parte dell'Avvocatura dello Stato, non è necessario che, in ordine ai singoli giudizi, l'ente rilasci uno specifico mandato all'Avvocatura medesima, né che questa produca il provvedimento del competente organo dell'ente recante l'autorizzazione del legale rappresentante ad agire od a resistere in causa, escludendo gli artt. 1 e 45 r.D. n. 1611 del 1933 che l'Avvocatura necessiti di alcuna forma di mandato ed essendo eventuali divergenze tra organi sulla opportunità di promuovere la lite o di resistere a lite da altri proposta, impedite o composte "intra moenia" dalla previsione dell'art. 12 L. 3 aprile 1979, n. 103. Ne consegue che la stessa assunzione di iniziativa giudiziaria, pure nella forma dell'impugnazione, ad opera dell'Avvocatura dello Stato con riguardo a tali organi od enti, comporta la presunzione "iuris et de iure" di esistenza di un valido consenso e di piena validità dell'atto processuale compiuto e lascia nell'ambito del rapporto interno le questioni attinenti alla inosservanza di regole di formazione del consenso medesimo. Analogamente: Cons. Stato, 16 febbraio 2017, n. 691 e Cons. Stato, 16 febbraio 2017, n. 692 per le quali l’Avvocatura dello Stato non ha bisogno, per compiere gli atti del proprio ministero, del mandato dell'amministrazione rappresentata, in quanto questo discende direttamente dalla legge (art. 1 r.D. n. 1611/1933). (28) “il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”. CoNtriButi Di DottriNA sanatoria del difetto di rappresentanza processuale della parte può avvenire in qualunque stato e grado del giudizio con efficacia retroattiva, con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato dell'effettiva rappresentanza dell'ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. La sanatoria del difetto di legittimazione può avvenire sia indirettamente, in conseguenza di un giudicato interno, sia direttamente mediante la costituzione dell'effettivo rappresentante legale nei vari gradi del giudizio, sia attraverso atti di ratifica o di accettazione anche implicita (per facta concludentia) del contraddittorio da parte del soggetto legittimato. 7. rapporti tra i poteri dell’aGo e quelli della P.a. La sentenza di condanna può avere quale contenuto anche un facere infungibile, di un obbligo incoercibile (ad esempio: adempimento del datore di lavoro dell’obbligo di assegnare mansioni equivalenti ex art. 2103 c.c. scaturente dall’accertamento di un illegittimo demansionamento del lavoratore, con condanna della P.A. al ripristino in precedenti o equivalenti mansioni; reintegra in conseguenza di licenziamento illegittimo). Le eventuali difficoltà esecutive non ridondano sulla effettività della tutela cognitiva: vi può essere l’esecuzione volontaria; altrimenti comunque -attesa la insuscettibilità della esecuzione forzata ex art. 612 c.p.c. dinanzi all’A.G.o. -si può proporre la domanda di risarcimento del danno. eppoi vi è il giudizio di ottemperanza, a fronte del fa- cere infungibile, dinanzi al giudice amministrativo. A fronte del facere fungibile, invece, vi è una doppia tutela esecutiva: dinanzi all’A.G.o. in sede di esecuzione civile e dinanzi al G.A. con il giudizio di ottemperanza ex art. 112, comma 2, lett. c, c.p.a. (pacificamente utilizzabile con riguardo a statuizioni giudiziali del giudice civile recanti condanne al pagamento di somme, con possibilità di nomina del Commissario ad acta affinché proceda in caso di ulteriore inerzia dell'Amministrazione) (30). 8. Notifica dell’atto introduttivo. Per l’art. 415, comma 7, c.p.c. “Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell'articolo 413, il ricorso è notificato direttamente presso l'amministrazione (29) “all'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti dall'articolo 102, secondo comma, dall'art. 164, secondo, terzo e quinto comma, dall'art. 167, secondo e terzo comma, dall'articolo 182 e dall'articolo 291, primo comma. Quando pronunzia i provvedimenti di cui al primo comma, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione”. (30) ex plurimis: Cons. Stato, 25 agosto 2020, n. 5201; Cons. Stato, 30 giugno 2020, n. 4111; Cons. Stato, 15 maggio 2020, n. 3098. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 destinataria ai sensi dell'articolo 144, secondo comma. Per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'avvocatura dello Stato competente per territorio”. La citata disposizione, ove sia parte in giudizio una Amministrazione dello Stato anche ad ordinamento autonomo, conferma la regola sulla notifica degli atti processuali introduttivi del giudizio presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato competente per territorio fissata dall’art. 11 r.D. n. 1611/1933. inoltre, la detta disposizione estende la regola sulla notifica degli atti introduttivi del giudizio presso l'Avvocatura dello Stato anche nel caso in cui siano parte in giudizio Amm.ni equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, alle amministrazioni statali; sono tali gli enti pubblici beneficiari del c.d. patrocinio autorizzato ex art. 43 r.D. n. 1611/1933 (31). in questa ipotesi, giusta l’art. 45 r.D. n. 1611/1933 “Per l'esercizio delle funzioni di cui ai due precedenti articoli, si applica il secondo comma dell'art. 1 del presente testo unico” sul c.d. mandato ex lege. operano peraltro quelle normative proprie del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; si estendono quindi agli enti le norme dell’art. 2 r.D. n. 1611/1933 (32) sulla rappresentanza dei funzionari e dell’art. 3 r.D. n. 1611/1933 (33) sulla diretta difesa dell’amministrazione indirizzata dall’Avvocatura dello Stato. il c.d. patrocinio autorizzato è così ca (31) “L'avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i Collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali, di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con regio decreto [A termini dell’art. 2 L. 12 gennaio 1991, n. 13: “1. Gli atti amministrativi, diversi da quelli previsti dall'articolo 1, per i quali è adottata alla data di entrata in vigore della presente legge la forma del decreto del Presidente della repubblica, sono emanati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o con decreto ministeriale, a seconda della competenza a formulare la proposta sulla base della normativa vigente alla data di cui sopra. 2. Gli atti amministrativi di cui al comma 1, ove proposti da più ministri sono emanati nella forma del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri”]. Le disposizioni e i provvedimenti anzidetti debbono essere promossi di concerto coi ministri per la grazia e giustizia e per le finanze. Qualora sia intervenuta l'autorizzazione, di cui al primo comma, la rappresentanza e la difesa nei giudizi indicati nello stesso comma sono assunte dalla avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le regioni. Salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano in casi speciali non avvalersi della avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza. Le disposizioni di cui ai precedenti commi sono estese agli enti regionali, previa deliberazione degli organi competenti”. (32) “Per la rappresentanza delle amministrazioni dello Stato nei giudizi che si svolgono fuori della sede degli uffici dell'avvocatura dello Stato, questa ha facoltà di delegare funzionari dell'amministrazione interessata, esclusi i magistrati dell'ordine giudiziario, ed in casi eccezionali anche procuratori legali, esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio. […].”. (33) “innanzi alle Preture ed agli Uffici di conciliazione le amministrazioni dello Stato possono, intesa l'avvocatura dello Stato, essere rappresentate dai propri funzionari che siano per tali riconosciuti”. CoNtriButi Di DottriNA ratterizzato: l’Avvocatura dello Stato difende in giudizio e rende i pareri richiesti all’ente; in giudizio non occorre esibire il mandato né la delibera di incarico, bastando solo che consti la qualità di avvocato dello Stato; non si applica il restante speciale regime processuale relativo al patrocinio istituzionale, ossia in favore delle Amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo (fondamentalmente le regole sul foro erariale, sulla notificazione degli atti processuali all’Avvocatura dello Stato, sulla necessità della autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la costituzione di parte civile nel processo penale ex art. 1, comma 4, L. 3 gennaio 1991, n. 3 e sulle norme tributarie di favore relative alla prenotazione a debito delle spese di giudizio ex art. 158 D.P.r. 30 maggio 2002, n. 115). Alla stregua di quanto esposto quindi -in virtù della disposizione estensiva della regola sulla notifica degli atti introduttivi del giudizio presso l'Avvocatura dello Stato anche nel caso in cui siano parte in giudizio Amm.ni equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, alle amministrazioni statali -si deroga, per le controversie individuali di lavoro, all’ordinario regime processuale valevole per il c.d. patrocinio autorizzato dell’Avvocatura dello Stato sulla materia delle notifiche. Sicché, ad esempio, alle università degli Studi e istituti Superiori Statali beneficiarie ex art. 56, comma 1, t.u. 31 agosto 1933, n. 1592 (34) del c.d. patrocinio autorizzato dell’Avvocatura dello Stato sono -in via ordinaria -inapplicabili le disposizioni sul foro erariale e sulla domiciliazione presso l'Avvocatura, ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali, salve -quanto alle notificazioni -le controversie in materia di lavoro, attesa l'equiparazione alle amministrazioni statali ai fini della (34) “Le Università e gli istituti superiori possono essere rappresentati e difesi dall'avvocatura dello Stato nei giudizi attivi e passivi avanti l'autorità giudiziaria, i collegi arbitrali e le giurisdizioni amministrative speciali, sempreché non trattisi di contestazioni contro lo Stato”. Questi, prima della riforma operata con la L. 2 maggio 1989, n. 168 (che all’art. 6 ha riconosciuto autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria, contabile ed autorganizzazione degli atenei statali) erano qualificati, essendo inseriti nell’organizzazione statale, organi dello Stato muniti della personalità giuridica, con conseguente regime di patrocinio istituzionale (Conf. Cass. 10 settembre 1997, n. 8877; Cass. 2 marzo 1994, n. 2061). Dopo la riforma introdotta dalla L. n. 168/1989, si ritiene che alle università non può più essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di ente pubblico autonomo, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell'Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio istituzionale disciplinato dal r.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, artt. da 1 a 11, bensì, in virtù del r.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio autorizzato disciplinato dal r.D. n. 1611 del 1933, art. 43 e art. 45, con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell'Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera (in tal senso: Cass., S.u., 10 maggio 2006, n. 10700; Cass., 29 luglio 2008, n. 20582). Sulla problematica: V. rAGo, Università degli Studi: giudice amministrativo e ordinario concordano sul patrocinio esclusivo dell’avvocatura dello Stato, in rass. avv. Stato, 2004, 3, pp. 769-771; A. Mezzotero, M.V. LuMetti, il patrocinio erariale autorizzato: è organico, esclusivo e non presuppone alcuna istanza dell’ente all’avvocatura dello Stato, in rass. avv. Stato, 2009, 2, pp. 20-33. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 rappresentanza e difesa dell'Avvocatura dello Stato ai sensi del comma 7 dell’art. 415 c.p.c. (35). 9. Difesa delle amministrazioni pubbliche. L’art. 417 bis c.p.c. recita: “Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell'articolo 413, limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti. Per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, la disposizione di cui al comma precedente si applica salvo che l'avvocatura dello Stato competente per territorio, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, determini di assumere direttamente la trattazione della causa dandone immediata comunicazione ai competenti uffici dell'amministrazione interessata, nonché al Dipartimento della funzione pubblica, anche per l'eventuale emanazione di direttive agli uffici per la gestione del contenzioso del lavoro. in ogni altro caso l'avvocatura dello Stato trasmette immediatamente, e comunque non oltre 7 giorni dalla notifica degli atti introduttivi, gli atti stessi ai competenti uffici dell'amministrazione interessata per gli adempimenti di cui al comma precedente. Gli enti locali, anche al fine di realizzare economie di gestione, possono utilizzare le strutture dell'amministrazione civile del ministero dell'interno, alle quali conferiscono mandato nei limiti di cui al primo comma”. La difesa diretta opera solo per le Amm.ni di cui all’art. 1, comma 2, tuPi; sono esclusi, quindi, gli enti pubblici economici; essa riguarda le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA. (non anche quelle collettive, ad es. ex art. 28 Statuto). La norma in esame distingue tra amministrazioni statali o ad esse equiparate e tutte le altre amministrazioni pubbliche. Queste ultime nelle controversie di lavoro possono stare in giudizio costituendosi direttamente attraverso i propri dipendenti, mentre per le amministrazioni statali e ad esse equiparate ciò è possibile solo se l'Avvocatura dello Stato competente per territorio non scelga di assumere la trattazione della causa, nel caso in cui sussistano questioni di massima oppure aventi notevoli riflessi economici, dando in tal caso le comunicazioni previste dal comma 2; se, invece, non assume direttamente la difesa, l'Avvocatura, immediatamente e non oltre sette giorni dalla notifica degli atti introduttivi, trasmette gli stessi all'amministrazione interessata, per gli adempimenti conseguenziali in ordine alla difesa. (35) Conf. Cass. 20582/2008 cit. CoNtriButi Di DottriNA il codice consente la difesa diretta della P.A. secondo il tipo regolato in via generale dall’art. 86 c.p.c., in alternativa alla difesa tecnica (difesa tecnica operante: per le amministrazioni statali o ad esse equiparate, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato ex r.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, anche con delega ex art. 2 r.D. n. 1611/1933 o intesa ex art. 3 r.D. n. 1611/1933; per le altre Amm.ni pubbliche a mezzo di avvocato del libero foro o, se esistenti, avvocati dipendenti degli enti iscritti nell’Albo speciale). La determinazione di difesa diretta è atto interno e non è necessario alcun mandato generale o speciale. Non sussistano limiti territoriali all'esercizio della difesa da parte del dipendente. L’attività defensionale viene svolta da dipendenti dell’Amm.ne interessata, anche se questi non hanno qualifica di funzionari. La difesa diretta opera sia che la P.A. rivesta il ruolo di ricorrente che di resistente. i relativi atti processuali (ricorso, memoria, ecc.) sono redatti e sottoscritti dal dipendente ed ove occorra - notificati ad istanza dello stesso. tale difesa si estende a tutti gli atti e a tutte le fasi -compresa quelle cautelare, anche nel procedimento di reclamo -nel solo primo grado di giudizio. Se l'amministrazione dello Stato si costituisce a mezzo dei propri dipendenti, la notificazione della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado, finalizzata alla decorrenza del termine breve per l'impugnazione, deve essere effettuata -secondo l’assestato orientamento giurisprudenziale -all'amministrazione ed è irrilevante la notificazione effettuata all'Avvocatura dello Stato. Successivamente all'entrata in vigore dell'art. 16, comma 7, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. L. 17 dicembre 2012, n. 221, tali notificazioni vanno eseguite esclusivamente per via telematica agli indirizzi di posta elettronica comunicati ai sensi del comma 12 dell'art. 16 citato, senza che, ove effettuate al funzionario delegato con altre modalità, possa operare la sanatoria per raggiungimento dello scopo (36). Giusta l’art. 152 bis disp. att. c.p.c. nelle liquidazioni delle spese del giudizio ex art. 91 c.p.c. a favore delle pubbliche amministrazioni assistite da propri dipendenti ai sensi dell'articolo 417 bis c.p.c., si applicano le ordinarie tariffe legali (fissate con il decreto adottato ai sensi dell'art. 9, comma 2, D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. L. 24 marzo 2012, n. 27), per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. (36) Conf. ex plurimis, Cass., 24 maggio 2021, n. 14195 e Cass., 5 novembre 2021, n. 32166; quest’ultima precisa che è ammissibile la notificazione presso la cancelleria non già nel caso di mancata elezione di domicilio ex art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 (inapplicabile ai funzionari della P.A. cui sia demandata la difesa in giudizio), bensì nella sola ipotesi di impossibilità di procedere alla notifica telematica, imputabile alla P.A. medesima. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 10. Competenza per territorio. Ai sensi dell’art. 413, commi 5 e 6, c.p.c.: “Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto. Nelle controversie nelle quali è parte una amministrazione dello Stato non si applicano le disposizioni dell'articolo 6 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611”. Viene in rilievo un foro inderogabile (comma 7 del citato art. 413), speciale ed esclusivo. L'ufficio al quale è addetto il dipendente è quello di stabile assegnazione (irrilevante è quello di distacco o applicazione temporanea). tale foro, ove sia parte in giudizio una Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, deroga al c.d. foro erariale ex artt. 6 r.D. n. 1611/1933 e 25 c.p.c. CoNtriButi Di DottriNA I requisiti estrinseci ed intrinseci dell’atto di appello nel processo tributario, con particolare riguardo alla specificità dei motivi Isabella Vitiello* Sommario: 1. aspetti generali -2. Disciplina applicabile all’appello tributario -3. L’oggetto del giudizio di appello -4. Chiarezza e sinteticità dell’atto di appello (requisiti estrinseci) -5. Vizi inerenti alla redazione dell’atto (ai requisiti estrinseci) e loro conseguenze -6. il contenuto dell'atto di appello (requisiti intrinseci) -7. Vizi inerenti al contenuto (ai requisiti intrinseci) e loro conseguenze -8. i motivi specifici dell'impugnazione -9. (segue) i motivi specifici dell'impugnazione. incidenza della disciplina contenuta nell’art. 342 c.p.c. sul requisito della specificità dei motivi. 1. aspetti generali. La sentenza tributaria di primo grado può essere censurata a mezzo del- l’atto di appello, che costituisce un mezzo di impugnazione ordinario, condizionante la formazione della cosa giudicata, a critica libera (si può denunciare qualsiasi vizio come causa di ingiustizia della sentenza di primo grado), con portata sostitutiva (1). L’appello garantisce un doppio grado di giurisdizione sul merito per le controversie tributarie. Le sentenze delle commissioni tributarie provinciali possono essere appellate, con ricorso alla commissione tributaria regionale, nel termine di 60 giorni dalla notificazione, ad istanza di parte, della sentenza di primo grado oppure entro il termine “lungo” ex art. 327, comma 1, c.p.c. di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza (artt. 51, comma 1, e 38, comma 3, D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, recante “Disposizioni sul processo tributario”). L'atto di appello deve essere -nel termine per impugnare -notificato a tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado; alla notificazione deve seguire la costituzione in giudizio (art. 53, comma 2, D.L.vo n. 546/1992). La parte appellata, se è anch'essa soccombente, può a sua volta appellare proponendo, nell'atto di controdeduzioni, appello incidentale (art. 54, comma 2, D.L.vo n. 546/1992)(2). (*) Funzionario dell’Agenzia delle entrate. (1) Sui caratteri delle impugnazioni, ex multis: C. MANDrioLi, A. CArrAttA, Diritto processuale civile, vol. ii, XXV edizione, Giappichelli, 2016, pp. 425 e ss.; N. GiuDiCeANDreA, Le impugnazioni civili, i, Giuffré, 1952, pp. 1 e ss. (2) Per un quadro generale: F. teSAuro, istituzioni di diritto tributario, i. Parte generale, Xi edizione, utet, 2013, pp. 391 e ss.; L. QuerCiA, il processo tributario, iV edizione, Sistemi editoriali, 2009, pp. 267 e ss. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 2. Disciplina applicabile all’appello tributario. Le disposizioni generali in materia di impugnazioni, contenute negli artt. 323-338 c.p.c., si applicano anche al procedimento di appello nel giudizio tributario. tanto in virtù del testuale richiamo contenuto nell’art. 49 D.L.vo n. 546/1992, che fa “salvo quanto disposto nel presente decreto”. Decreto che interviene, quindi -nei punti espressamente disciplinati -con portata derogatoria rispetto alla disciplina processualcivilistica. La disciplina applicabile al procedimento di appello davanti alla commissione tributaria regionale è contenuta negli artt. 52-60 D.L.vo n. 546/1992; si applicano altresì, giusta l’art. 61 D.L.vo n. 546/1992, “le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione” (ossia con i citati artt. 52-60). Vuol dirsi che il procedimento è regolato specificamente dalle disposizioni contenute nella Sezione ii del capo iii del titolo ii del D.L.vo n. 546/1992 relative al giudizio di appello davanti alla commissione tributaria regionale. Per quanto non disposto -ossia nel caso di lacune -si applicano le disposizioni contenute nel capo i del titolo ii del D.L.vo n. 546/1992 (artt. 18-46) relative al procedimento di primo grado dinanzi alla commissione tributaria provinciale ove non incompatibili con le disposizioni della sezione dedicata al giudizio di appello. in caso di ulteriori lacune si applicano le disposizioni del c.p.c. sull’appello, giusta la norma generale di richiamo ex art. 1, comma 2, D.L.vo n. 564/1992 secondo cui “i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”. All’evidenza, il diritto comune della materia processuale è rappresentato dal codice di procedura civile: a) una disposizione identica si ha nel processo contabile, giusta l’art. 7, comma 2, Codice di giustizia contabile adottato con D.L.vo 26 agosto 2016, n. 174 (“Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano gli artt. 99, 100, 101, 110 e 111, c.p.c. e le altre disposizioni del medesimo codice, in quanto espressione di principi generali”); b) una disposizione analoga si ha nell’art. 39, comma 1, Codice del processo amministrativo adottato con D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 (“Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”). 3. L’oggetto del giudizio di appello. L'oggetto del giudizio di appello è delimitato dal petitum dell'atto di appello, ossia dalla indicazione dei capi della decisione di primo grado su cui viene richiesto un nuovo giudizio. Se non viene richiesta la riforma integrale, si formerà un giudicato parziale già con la sentenza di primo grado con riguardo alla parte non censurata. CoNtriButi Di DottriNA Per il principio del doppio grado di giurisdizione sul merito, l'appellante non può proporre al giudice di appello domande non proposte in primo grado, né possono essere proposte nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio. inoltre, non può essere mutato il motivo della domanda, né possono essere introdotti nuovi motivi. Possono peraltro essere domandati -nei processi di rimborso -gli interessi maturati dopo la sentenza di primo grado (art. 57 D.L.vo n. 546/1992). in relazione ai capi che hanno formato oggetto di impugnazione si ha il cosiddetto effetto devolutivo, per cui le deduzioni ed i materiali acquisiti in primo grado passano automaticamente all'esame del secondo giudice. Le questioni e le eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate (art. 56 D.L.vo n. 546/1992). Sicché la parte vittoriosa in primo grado, che abbia proposto più questioni, e che sia risultata vittoriosa essendo stata accolta una soltanto delle questioni dedotte, ha l'onere di riproporre le questioni non accolte in quanto infondate o perché assorbite (3). L'appello è una impugnazione sostitutiva. il giudice dell'appello deve esaminare la sentenza di prime cure alla luce dei vizi denunciati dall'appellante, ma la decisione di appello riguarda direttamente l'atto amministrativo impugnato. Le decisioni di merito sostituiscono quelle di primo grado, sia quando accolgono, sia quando respingono l'appello (4). 4. Chiarezza e sinteticità dell’atto di appello (requisiti estrinseci). L’atto di appello -come qualsivoglia atto processuale, sia di parte sia del giudice -deve avere i requisiti estrinseci della chiarezza e della concisione (5). La chiarezza implica, in base al significato corrente, lucidità, ordine, evidenza, comprensibilità, intelligibilità. La concisione equivale, sempre alla stregua del significato comune, a sinteticità, stringatezza, essenzialità sulle questioni rilevanti (6). Nessuna norma nel processo civile o tributario enuncia che le parti redigono gli atti in maniera chiara. tuttavia, la chiarezza è un requisito ontologico (3) Sull’oggetto dell’atto di appello nel processo tributario, F. teSAuro, voce Processo tributario, cit., paragrafo 46. (4) Così F. teSAuro, voce Processo tributario, in Digesto. Quarta edizione. Discipline privatistiche. Sezione commerciale. iii Aggiornamento, 2017, paragrafo 21. (5) Per una introduzione alla problematica: M. GerArDo, Chiarezza e concisione degli atti giuridici in rass. avv. Stato, 2019, 1, pp. 223-252. (6) Concisione non implica necessariamente brevità dell’atto; può venire in rilievo un atto -ad esempio un atto di appello in un giudizio con numerose parti, con svariate questioni pregiudiziali e/o preliminari e complessità nel merito con cumulo di domande -nel quale necessariamente il contenuto è “lungo” e non “breve”. inoltre la concisione trova il suo limite nella inintelligibilità: se la concisione conduce ad un atto “oscuro”, non chiaro sulle questioni rilevanti, occorre integrare i dati rappresentativi affinché l’atto sia reso intelligibile al destinatario. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 e funzionale degli atti processuali, come confermato da specifiche disposizioni dettate per altre tipologie di processi. Vuol farsi riferimento, con riguardo al processo amministrativo, all’art. 3, comma 2, c.p.a. secondo cui “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”. Norma analoga vi è nel processo contabile: “il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica” (art. 5 c.g.c.). Quanto al requisito della sinteticità, vi è la prescrizione di cui all’art. 16 bis, comma 9 octies, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. L. 17 dicembre 2012, n. 221 secondo cui: “Gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica”, applicabile al processo tributario con il medio del citato art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546. 5. Vizi inerenti alla redazione dell’atto (ai requisiti estrinseci) e loro conseguenze. il mancato rispetto dei requisiti della chiarezza e concisione determina varie conseguenze pregiudizievoli. Perché un atto, e quindi l’appello tributario, realizzi la sua funzione il suo contenuto deve essere, intuitivamente, chiaro. ove l’atto di appello non sia chiaro le conseguenze possono essere: a) la inammissibilità se l’atto sia inintelligibile; ciò in quanto si determina una assoluta incertezza dei requisiti intrinseci del ricorso, specie con riguardo a quello della specificità dei motivi; b) la riduzione della sua efficacia giuridica, se l’atto sia parzialmente inintelligibile. La concisione attiene al modo di esporre. L’atto non conciso, quindi ridondante, inevitabilmente vede ridotta la propria capacità persuasiva e argomentativa. La mancanza di concisione non determina, di per sé sola, la inammissibilità o altra invalidità, a meno che non renda incomprensibile il contenuto dell’atto nei punti essenziali, ossia in ordine alle personae, al petitum e alla causa petendi; in tale evenienza, la conseguenza è sempre la inammissibilità dell’appello (7). (7) uno spunto in tal senso è offerto dalla pronuncia del Cons. Stato, 7 novembre 2016, n. 4636, per la quale l'appello manifestamente prolisso -che comporti la inintelligibilità dei punti rilevanti -deve essere dichiarato inammissibile: “Nel caso di specie -premesso che la difesa del Q. non ha specificamente contestato l'eccezione di inammissibilità sollevata da roma Capitale e non ha proposto di ridurre e semplificare i motivi di gravame -il Collegio rileva che l'atto di appello (di 217 pagine), risulta caratterizzato da plurime reiterazioni delle medesime argomentazioni, dalla conseguente esposizione delle stesse in modo non specifico ed esaustivo ma attraverso motivi intrusi, da interpolazioni con atti giudiziari ed amministrativi (talora fotocopiati ed inseriti nel testo), dallo stralcio di dibattiti in sedute di organi collegiali nonché da manifesta prolissità. Tale esposizione ha reso estremamente difficile la comprensione del thema decidendum da parte del Collegio che -pur avendo effettuato una attività di "estrazione" dei motivi come desumibili dalla lettura del ricorso -resta non certo né della esaustività CoNtriButi Di DottriNA A fronte dell’atto non chiaro e/o conciso non determinante conseguenze invalidanti, vi può essere comunque la conseguenza spiacevole della condanna alle spese in capo alla parte che ha redatto un atto che supera la ragionevole dimensione o che sia non chiaro. tanto è previsto espressamente nel processo amministrativo, con l’art. 26, comma 1, c.p.a. (8). La condanna alle spese per tale ragione può reputarsi operante anche nel processo tributario, con l’applicazione degli artt. 88, comma 1, e 92, comma 1, c.p.c., mediata dall’art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546/1992. L’art. 92, comma 1, c.p.c. recita: “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente [condanna alle spese in applicazione della regola della soccombenza], […] può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'articolo 88, essa ha causato all'altra parte”. L’art. 88, comma 1, c.p.c. dispone: “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”. All’evidenza, la redazione di atti non chiari e non concisi integra una condotta violativa del principio di lealtà processuale, atteso che la chiarezza e la concisione attengono alla piena attuazione del contraddittorio e alla piena funzionalità del diritto di difesa. 6. il contenuto dell'atto di appello (requisiti intrinseci). L'oggetto del giudizio di appello è fissato dall'atto di appello (principale e incidentale); tale atto deve contenere “l'indicazione della commissione tributaria a cui è diretto, dell'appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l'esposizione sommaria dei fatti, l'oggetto della domanda ed i motivi specifici dell'impugnazione. il ricorso in appello è inammissibile se manca o è assolutamente incerto uno degli elementi sopra indicati o se non è sottoscritto a norma dell'art. 18, comma 3” (art. 53, comma 1, D.L.vo n. 546/1992). La disposizione citata costituisce un miglioramento rispetto alla formulazione della previgente disciplina -contenuta nel D.P.r. 26 ottobre 1972, n. 636, avente ad oggetto la “revisione della disciplina del contenzioso tributario” (9) -per la quale “L'atto di appello deve contenere l'indicazione della de- dei motivi di appello, né della loro esatta definizione contenutistica. Tanto basta a che l'appello proposto dal Q. sia dichiarato inammissibile per difetto di specificità dei motivi proposti e violazione del dovere di sinteticità”. il Supremo Consesso amministrativo, tra le ragioni della inammissibilità evoca anche l’aspetto della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale. (8) “Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2. […]”. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 cisione impugnata, l'esposizione sommaria dei fatti ed i motivi dell'impugnazione” (art. 22, comma 4, D.P.r. n. 636/1972). Mancava, dunque, una sanzione di inammissibilità dell’appello mancante dei motivi. Sicché si rilevava che “Diversamente dall’art. 342 C. Proc. Civ., l’art. 22 non prescrive che l’atto di appello debba contenere i motivi dell’impugnazione. La prescrizione formale è dunque soddisfatta, nel nostro processo, anche da un motivo generico (la mera affermazione, ad es., che la decisione di primo grado è errata in fatto ovvero in diritto)” (10). Ciò premesso, i requisiti intrinseci del ricorso si desumono dal testuale contenuto dell’art. 53, integrato -in virtù del rinvio interno ex art. 61 -dalle disposizioni di cui all’art. 18 (11) con riguardo al ricorso di primo grado. il ricorso in appello deve quindi contenere l'indicazione: a) della commissione tributaria regionale cui è diretto; b) dell’appellante e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale e dell'indirizzo di posta elettronica certificata; c) delle altre parti nei cui confronti è proposto; d) degli estremi della sentenza impugnata; e) dell'esposizione sommaria dei fatti; f) dell'oggetto della domanda. L’oggetto della domanda consiste nella richiesta di riforma totale o parziale della sentenza pronunciata dalla commissione tributaria provinciale. Nelle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio di appello -e quindi nella sedes materiae dell’oggetto della domanda -vi deve essere altresì la dichiarazione in ordine al valore della lite determinato, per ciascun atto impugnato, ai sensi dell’art. 12, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 (12); tanto al fine del pagamento del contributo unificato (9) Sulla disciplina previgente: G.A. MiCheLi, Corso di diritto tributario, Vii edizione, utet, 1984, pp. 268 e ss. (10) in tal senso F. teSAuro, voce Processo tributario, in Novissimo Digesto italiano. Appendice, vol. V, 1984, p. 1410. (11) “1. il processo è introdotto con ricorso alla commissione tributaria provinciale. 2. il ricorso deve contenere l'indicazione: a) della commissione tributaria cui è diretto; b) del ricorrente e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale e dell'indirizzo di posta elettronica certificata; c) dell'ufficio nei cui confronti il ricorso è proposto; d) dell'atto impugnato e dell’oggetto della domanda; e) dei motivi. 3. il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore e contenere l'indicazione: a) della categoria di cui all'articolo 12 alla quale appartiene il difensore; b) dell'incarico a norma dell'articolo 12, comma 7, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente; c) dell'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore. 4. il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale e all'indirizzo di posta elettronica certificata, o non è sottoscritto a norma del comma precedente”. (12) “Per le controversie di valore fino a tremila euro le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica. Per valore della lite si intende l'importo del tributo al netto degli interessi e delle even CoNtriButi Di DottriNA delle spese di lite. La dichiarazione va resa anche nell'ipotesi di prenotazione a debito (art. 14, comma 3 bis, D.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, avente ad oggetto il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”). La parte che deposita il ricorso in appello è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato (art. 14, comma 1, D.P.r. n. 115/2002), negli importi indicati nell’art. 13, comma 6 quater, D.P.r. n. 115/2002 (13); g) dei motivi specifici dell'impugnazione. i motivi dell'impugnazione sono critiche rivolte contro la sentenza di primo grado. Si rileva che l'appellante ha un doppio onere: riproporre i motivi di critica dei provvedimenti, dedotti nel ricorso di primo grado, e censurare la sentenza che non li ha accolti (14); h) della categoria di cui all'art. 12 D.L.vo n. 546/1992 alla quale appartiene il difensore e dell'incarico a norma dell'art. 12, comma 7, citato, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente; i) dell'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore. il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore. 7. Vizi inerenti al contenuto (ai requisiti intrinseci) e loro conseguenze. il ricorso in appello, ove deviante dal modello legale che regola i requisiti intrinseci, determina -a seconda dell’entità della devianza -delle conseguenze pregiudizievoli per il ricorrente, riconducibili a tre categorie: a) Mere irregolarità. Vengono in rilievo delle disformità dal modello legale che non hanno alcuna conseguenza, in quanto gli elementi identificativi (personae, petitum e causa petendi) sono comunque desumibili dall’atto. È il caso della mancata indicazione dell'indirizzo di posta elettronica certificata della parte; b) irregolarità determinanti conseguenze non invalidanti. trattasi dei casi di devianze sanzionate con un surplus di oneri economici. Due sono le ipotesi emblematiche: -ove il difensore non indichi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nel ricorso tuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”. (13) “Per i ricorsi principale ed incidentale proposti avanti le Commissioni tributarie provinciali e regionali è dovuto il contributo unificato nei seguenti importi: a) euro 30 per controversie di valore fino a euro 2.582,28; b) euro 60 per controversie di valore superiore a euro 2.582,28 e fino a euro 5.000; c) euro 120 per controversie di valore superiore a euro 5.000 e fino a euro 25.000 e per le controversie tributarie di valore indeterminabile; d) euro 250 per controversie di valore superiore a euro 25.000 e fino a euro 75.000; e) euro 500 per controversie di valore superiore a euro 75.000 e fino a euro 200.000; f) euro 1.500 per controversie di valore superiore a euro 200.000”. (14) Così F. teSAuro, voce Processo tributario, in Digesto. Quarta edizione. Discipline privatistiche. Sezione commerciale. i Aggiornamento, 2000, paragrafo 45. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 introduttivo del giudizio, il contributo unificato è aumentato della metà. tanto è previsto dal comma 3 bis dell’art. 13 del D.P.r. n. 115/2002; -se manca la dichiarazione, nelle conclusioni del ricorso, del valore della lite il processo si presume del valore indicato al comma 6 quater, lettera f) dell’art. 14 D.P.r. n. 115/2002. tanto è previsto dal comma 6 dell’art. 13 del D.P.r. n. 115/2002; c) inammissibilità. La mancanza o la assoluta incertezza di uno dei requisiti del ricorso -riepilogati nel precedente paragrafo alle lettere da a) ad i) -o la mancata sottoscrizione a norma dell'art. 18, comma 3 comporta la inammissibilità del ricorso. tanto è espressamente disposto dagli artt. 18, comma 4, e 53, comma 1, D.L.vo n. 546/1992. La pronuncia di inammissibilità ex art. 53 D.L.vo n. 546/1992 conduce al passaggio in giudicato delle statuizioni del giudice di primo grado, in virtù di quanto disposto dall’art. 60 D.L.vo n. 546/1992 per il quale “L'appello dichiarato inammissibile non può essere riproposto anche se non è decorso il termine stabilito dalla legge”. Prima della pronuncia di inammissibilità -se ancora in termini -l’interessato può riproporre il ricorso in appello emendato dai vizi. Deve ritenersi che la specifica disciplina delle invalidità nel processo tributario escluda l’operatività di altre categorie di invalidità dell’atto, quale ad esempio la nullità. Vuol dirsi che: o i requisiti mancano o sono assolutamente incerti ed in questo caso l’appello è inammissibile; oppure i requisiti sussistono senza incertezze ed in questo caso l’atto è sempre valido. Ad esempio: la mancata indicazione della residenza dell’appellante è innocua, atteso che -anche a mezzo del codice fiscale -la parte è identificabile senza incertezze; la genericità dei motivi, invece, comporta la inammissibilità del gravame, atteso che manca il requisito dei “motivi specifici dell'impugnazione”. 8. i motivi specifici dell'impugnazione. i motivi specifici dell'appello -aspetto questo relativo ai requisiti intrinseci dell’atto -hanno la funzione di determinare esattamente il quantum appellatum. È pertanto escluso che il ricorso in appello possa contenere una richiesta generica di riforma della sentenza impugnata sulla base di una non specifica doglianza di erroneità in fatto e in diritto della stessa oppure un rinvio tout court alla difesa di primo grado. Le censure da far valere, invece, devono essere chiaramente esposte, essendo escluso che si possa avanzare una riserva di produrre i motivi di appello in un secondo tempo (15). Le aporie relative ai motivi di impugnazione sono, in ordine di gravità (15) Per tali rilievi, ex plurimis: B. Lo GiuDiCe, i mezzi di impugnazione: l'appello tributario, in Fisco, 2005, 37 - parte 1, pp. 5794 e ss. CoNtriButi Di DottriNA decrescente, le seguenti: a) mancanza dei motivi; b) assoluta incertezza dei motivi; c) genericità dei motivi (16). La mancanza o la assoluta incertezza dei motivi di appello è causa espressa di inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 53, comma 1, D.L.vo n. 546/1992. Le ipotesi della mancanza dei motivi e/o della assoluta incertezza dei motivi si possono rinvenire nel caso in cui l'appellante si limiti a richiedere la riforma della sentenza di primo grado ovvero a denunciarne la "ingiustizia" o la "illegittimità", rispettivamente senza alcun argomento a ciò finalizzato (mancanza di motivi) ovvero con argomenti del tutto disancorati dal contesto o comunque del tutto inconferenti o incongruenti rispetto alla materia del contendere (assoluta incertezza dei motivi) (17). Alla stregua dell’orientamento consolidato del giudice di legittimità, non rispettano i requisiti di specificità dei motivi d'impugnazione quei motivi addotti contro la sentenza di primo grado che siano limitati alla mera denuncia dei vizi che inficerebbero la sentenza di primo grado, senza alcun supporto argomentativo idoneo a dimostrarne la sussistenza in concreto; ciò in quanto la specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono (18). Alla violazione del richiamato onere di specificazione dei motivi consegue -sempre a giudizio del giudice di legittimità -l'inammissibilità dell'appello (19). tanto è coerente, come anticipato nel precedente paragrafo, con i dati normativi in gioco: la genericità dei motivi implica la mancanza di un requisito dell’appello (quello dei “motivi specifici dell'impugnazione”) e la mancanza di un requisito è sanzionata testualmente con la inammissibilità dell’impugnazione. Va evidenziato che la giurisprudenza di legittimità, conscia della gravità delle conseguenze scaturenti dalla genericità dei motivi, ha un atteggiamento non formalista sul punto. Si evidenzia, infatti, che nel procedimento tributario, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, deve escludersi che l'atto di gravame debba rivestire particolari forme sacramentali, o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado; sicché va (16) Così F. SorreNtiNo, motivi di appello nel processo tributario, in Fisco, 2013, 39 -parte 1, pp. 6053 e ss. (17) Così F. SorreNtiNo, motivi di appello nel processo tributario, cit. (18) in questi termini: Cass. S.u., 29 gennaio 2000, n. 16 con pronuncia relativa all’art. 342 c.p.c. nel testo previgente di contenuto identico -sul requisito della specificità dei motivi -all’art. 53 D.L.vo n. 546/1992. (19) Cass. S.u., n. 16/2000, cit. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 censurata la decisione del giudice di appello che abbia ritenuto inammissibile il gravame per mancanza o assoluta incertezza dei motivi specifici di impugnazione, sul rilievo che l'appellante abbia riproposto dubbi e perplessità già sollevati in primo grado senza esporre gli eventuali vizi riscontrabili nell'iter logico-giuridico seguito dal primo giudice, limitandosi ad una generica contestazione della sentenza impugnata e adducendo motivi di censura che concernevano direttamente l'atto impugnato, ove a supporto del gravame siano state riproposte le ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, ciò assolvendo l'onere di impugnazione specifica imposto dall'art. 53, D.L.vo n. 546/1992 (20). 9. (segue) i motivi specifici dell'impugnazione. incidenza della disciplina contenuta nell’art. 342 c.p.c. sul requisito della specificità dei motivi. Nel processo tributario -come innanzi evidenziato -la forma dell’appello trova espressa disciplina nell’art. 53 D.L.vo n. 546/1992, che prevede che il ricorso in appello debba contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione della commissione tributaria a cui è diretto, dell’appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l’esposizione sommaria dei fatti, l’oggetto della domanda ed i motivi specifici del- l’impugnazione. Si pone la problematica della applicabilità al processo tributario, in via integrativa rispetto ai precetti contenuti nell’art. 53 D.l.vo n. 546/1992, dell’art. 342 c.p.c. (come novellato dall'art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. L. 7 agosto 2012, n. 134), regolante i requisiti dell’atto di appello nel processo civile, paradigma dei processi speciali come innanzi esposto. L’art. 342 c.p.c. -per la parte che ci riguarda -così dispone: “L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”. Appare chiaro che la disciplina del contenuto della motivazione dell’appello civile di cui all’art. 342 c.p.c. (21) è più rigorosa e specifica rispetto alla disciplina dell’omologo istituto nel processo tributario. Da un lato, infatti, oltre a dover essere individuata la parte del provvedi (20) in questo senso: Cass., 28 febbraio 2019, n. 5864. (21) Sulla quale: C. MANDrioLi, A. CArrAttA, Diritto processuale civile, vol. ii, cit., pagg. 510511; F.P. LuiSo, Diritto processuale civile, vol. ii, Vii edizione, Giuffrè, 2013, pagg. 383-386; G. BA- LeNA, istituzioni di diritto processuale civile, vol. ii, V edizione, Cacucci, 2019, pagg. 399-403; G. MoNteLeoNe, Diritto processuale civile, vol. i, Viii edizione, CeDAM, 2018, pagg. 607-609. CoNtriButi Di DottriNA mento impugnato che si intende appellare (evidentemente, se si tratta di appello parziale), nell’atto di appello, ove venga denunciato un vizio nel giudizio di fatto del giudice di prime cure (errore di fatto; quaestio facti), non è sufficiente denunciare l’ingiustizia della decisione, ma grava sull’appellante anche l’onere (a pena di inammissibilità) di puntualizzare quale avrebbe dovuto essere la corretta ricostruzione dei fatti di causa, con riferimento alla quale viene chiesta la riforma del provvedimento appellato. Dall’altro lato, ove in sede di appello venga denunciata la violazione di una norma di legge da parte del giudice di primo grado (errore di diritto; quaestio iuris), non è sufficiente la sola indicazione delle norme violate, ma è necessaria (sempre a pena di inammissibilità dell’appello) la specifica individuazione delle concrete circostanze che, secondo l’appellante, hanno determinato questa violazione e delle sue conseguenze per gli esiti della decisione. Deve ritenersi che l’art. 342 c.p.c. sia inapplicabile al processo tributario. L’applicabilità del solo art. 53 D.L.vo n. 546/1992, con esclusione dell’art. 342 c.p.c., consegue alla piena applicazione della disciplina regolatrice del- l’appello tributario come sunteggiata innanzi nel paragrafo 2. Difatti, da una parte l’art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 prevede che i giudici tributari applicano le norme del D.L.vo. n. 546/1992 e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile. Dall’altra, l’art. 49 del D.L.vo n. 546/1992 dispone che “alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo iii, capo i, del libro ii del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”, con un chiaro rinvio ai soli artt. 323-338 c.p.c., fatto comunque salvo quanto disposto nel D.L.vo n. 546/1992. orbene, l’art. 53 D.L.vo n. 546/1992 regola in modo completo ed autosufficiente il contenuto intrinseco dell’atto di appello tributario, sicché, mancando una lacuna, non vi è spazio per l’eterointegrazione disposta dall’art. 1, comma 2, D.L.vo n. 546/1992 (e quindi per l’applicabilità dell’art. 342 c.p.c.). Quanto ricostruito trova conferma nella giurisprudenza di legittimità. in proposito la Corte di Cassazione ha osservato che l’art. 53 del D.L.vo n. 546 del 1992, dettato per l’appello in materia tributaria, si discosta notevolmente dall’omologa norma dettata per il processo civile dall’art. 342 c.p.c., potendosi qualificare come norma speciale rispetto all’art. 342 c.p.c., “che nella sua attuale formulazione si divarica sostanzialmente dalla citata norma in tema di contenzioso tributario” (22). A parere della Corte, l’art. 53 D.L.vo n. 546 del (22) Cass., 5 ottobre 2018, n. 24641. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 1992 è tale da diversificarsi in modo sostanziale rispetto all’art. 342 c.p.c., atteso che richiede unicamente che il ricorso in appello contenga “i motivi specifici dell’impugnazione”. Ciò consente di ritenere “legittimo l’appello allorché l’appellante si limiti a sottoporre alla CTr le medesime argomentazioni proposte innanzi alla CTP e da quest’ultima respinte, essendo in sostanza sufficiente che emerga un dissenso riferibile alla decisione di primo grado nella sua interezza” (23). La giurisprudenza pacificamente afferma che il carattere di dettaglio e specificità dei motivi di ricorso in appello richiesto dall’art. 53 del D.L.vo n. 546/1992 non consiste nell’obbligo di descrizione minuziosa della fattispecie impositiva e delle doglianze, ben potendo l’appellante anche fornire un’illustrazione sommaria ma sufficiente a rappresentare correttamente al giudice del gravame le rationes decidendi della sentenza impugnata e i motivi di fatto e di diritto posto a base dell’impugnazione (24). È necessario, insomma, far comprendere al giudice adito le censure mosse nei confronti della decisione gravata (25), perché l’indicazione dei motivi specifici del- l’impugnazione “non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, ben potendo i motivi di gravame essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso” (26). Dunque, a parere della Suprema Corte, ai sensi dell’art. 53 del D.L.vo n. 546/1992, è sufficiente “soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza” (27). È pertanto irrilevante che i motivi siano enunciati nella parte espositiva dell’atto ovvero separatamente, atteso che, non essendo imposti dalla norma rigidi formalismi, gli elementi idonei a rendere specifici i motivi di appello possono essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dal- l’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (28). i suddetti principi risultano costantemente applicati dalla giurisprudenza di legittimità per valutare l’ammissibilità dell’appello proposto nel processo tributario (29). (23) Cass., 12 febbraio 2021, n. 3759. (24) in tal senso Cass., 30 gennaio 2009, n. 2507. (25) Cass., 21 gennaio 2009, n. 1465. (26) in tal senso Cass., 16 maggio 2012, n. 7671; Cass., 14 gennaio 2011, n. 802. (27) Cass., 11 gennaio 2016, n. 227. (28) Cass., 31 marzo 2011, n. 7393; Cass., 15 settembre 2008, n. 23608. (29) ex multis Cass., 11 luglio 2018, n. 18225; Cass., 4 maggio 2016, n. 8823; Cass., 15 aprile 2016, n. 7596; Cass., 16 marzo 2016, n. 5177; Cass., 23 febbraio 2016, n. 3536; Cass., 22 febbraio 2016, CoNtriButi Di DottriNA in particolare il Supremo Consesso ha affermato che la riproposizione in appello, da parte del contribuente, delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (30). infatti, la specificità dei motivi di appello, finalizzata ad evitare un ricorso generalizzato e poco meditato al giudice di seconda istanza, esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte a incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime: alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. tale parte può appunto consistere anche nella riproposizione delle argomentazioni svolte nel ricorso di primo grado (31). il principio vale anche per il ricorso in appello proposto dall’ente impositore, perché la riproposizione delle argomentazioni poste a sostegno dell’atto impugnato dal contribuente, in quanto considerate idonee a sostenere la legittimità dell’atto stesso e confutare le diverse conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica previsto dalla norma. invero, il ricorso in appello deve contenere i motivi specifici dell’impugnazione e non già nuovi motivi, atteso il carattere devolutivo pieno del gravame, che è un mezzo d’impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (32). in conclusione, alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, può senz’altro affermarsi che in materia tributaria la riproposizione in appello delle originarie censure formulate nel ricorso di primo grado sia sufficiente ad assolvere l’onere d’impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del D.L.vo n. 546/1992. Nel processo tributario, infatti, l’appello ha carattere devolutivo pieno, in quanto non è limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma persegue la finalità di ottenere il riesame nella causa nel merito. il requisito della specificità dei motivi di appello non può essere inteso nel senso che l’appellante sia tenuto a formulare nuovi argomenti giuridici a sostegno dell’impugnazione, potendo n. 3467; Cass., 22 febbraio 2016, n. 3367; Cass., 12 febbraio 2016, n. 2871; Cass., 29 gennaio 2016, n. 1702; Cass., 11 gennaio 2016, n. 226; Cass., 24 giugno 2015, n. 13030; Cass., 19 dicembre 2014, n. 27037; Cass., 28 maggio 2014, n. 11945; Cass., 19 giugno 2013, n. 15331; Cass., 20 dicembre 2012, n. 23567; Cass., 30 novembre 2012, n. 21390; Cass., 24 febbraio 2012, n. 2855; Cass., 5 dicembre 2011, n. 26091; Cass., 26 gennaio 2005, n. 1574. (30) Cass., 4 novembre 2015, n. 22510; Cass., 22 aprile 2015, n. 8185. (31) in questo senso: Cass., 28 ottobre 2015, n. 21972; Cass., 1° luglio 2014, n. 14908. (32) così Cass., 11 gennaio 2018, n. 426; Cass., 27 ottobre 2017, n. 25553; Cass., 23 giugno 2015, n. 13007; Cass., 24 aprile 2015, n. 8335; Cass., 6 dicembre 2013, n. 27354; Cass., 29 febbraio 2012, n. 3064. rASSeGNA AVVoCAturA DeLLo StAto -N. 4/2021 lo stesso limitarsi a sottoporre all’esame del giudice di gravame le medesime argomentazioni formulate in primo grado e respinte in quella sede, manifestando un dissenso che investa la decisione di primo grado nella sua interezza (33). (33) Cass., 12 febbraio 2021, n. 3759, secondo cui tale tesi “non è in contrasto con altra pur autorevole pronuncia di legittimità (Cass. SS.UU. n. 27199 del 2017), in materia di specificità dei motivi di appello, di cui agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, secondo cui gli articoli anzidetti vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati dalla sentenza impugnata e delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice; invero, nella citata sentenza, è stato pur sempre rimarcato che il giudizio di appello mantiene il suo fondamentale carattere di “revisio prioris instantiae”, in tal modo diversificandosi dal ricorso per cassazione, qualificabile invece come impugnazione a critica vincolata, e che, pertanto, l’atto di appello non deve rivestire particolari formule sacramentali, nè deve contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quello di primo grado, essendo sufficiente la mera riproposizione delle originarie argomentazioni svolte in primo grado, in quanto il dissenso può legittimamente investire la decisione nella sua interezza e può legittimamente sostanziarsi nelle argomentazioni poste a fondamento della domanda rimasta disattesa in primo grado”; Cass., 21 novembre 2019, n. 30341; Cass., 23 novembre 2018, n. 30525; Cass., 19 dicembre 2018, n. 32838; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32954; Cass., 22 gennaio 2016, n. 1200. Un ricordo e un saluto a Paolo Vittorio di Tarsia di Belmonte Da: #Segreteria_generale Inviato: venerdì 29 aprile 2022 13:11 A: Avvocati_tutti ; Amministrativi_tutti Oggetto: decesso Con profondo dispiacere comunico che ieri sera è venuto a mancare, all'età di 90 anni, l'Avv. Paolo di Tarsia di Belmonte, Avvocato Generale dello Stato Onorario. I funerali saranno celebrati sabato 30 aprile p.v., alle ore 11:00, presso la Parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, via Antonio Conti n. 189, OLGIATA CERQUETTA. Il Segretario Generale Un ricordo e un saluto a Paolo Vittorio di Tarsia di Belmonte, uno dei capostipiti della schiatta dei penalisti dell’Avvocatura dello Stato. Ne abbiamo conosciuto l’abilità forense e l’arguzia gioviale (che poteva però passare facilmente al gelo, quando si trattava di ricordare le gerarchie non scritte dell’Istituto a un giovane avvocato). Voglio rammentare -specie ai tanti ragazzi che si sono uniti a noi negli ultimi anni -un modo di vedere la nostra professione di questo grande avvocato: il senso della Storia, quella con la “S” maiuscola, che i processi ci fanno attraversare e allo stesso tempo ricostruire. Paolo Vittorio sentiva questo tratto, tanto che a fine carriera, aveva riunito in una raccolta questi frammenti di Storia che aveva incrociato nella sua lunga carriera, dagli attentati ai pali della luce in Alto Adige, alle Foibe, all’omicidio di ‘Ndrangheta con la testimone Rosetta Cerminara. Si tratta di “Storie d'Italia -piccole e grandi nelle arringhe di un penalista”, la cui struttura ricorda il notissimo “Controvento”, dove un’introduzione inserisce l’episodio nel flusso della grande storia, in cui nel nostro lavoro ci troviamo coinvolti a volte inconsapevolmente. Carlo Maria Pisana (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Lascia il servizio, dopo oltre trentotto anni di significativa e prestigiosa presenza, l’Avv. Gabriella D’Avanzo, Responsabile della VII Sezione. Alla cara Gabriella, Collega e Amica che ha sempre onorato l’Istituto con la Sua alta professionalità, il Suo grande impegno, la Sua costante dedizione alla cura degli interessi del Paese, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli Carissimi, vi ringrazio di cuore per le attestazioni di stima e di affetto che, anche in privato, mi avete inviato! La vicinanza e l’ampia partecipazione dei colleghi e del personale amministrativo che hanno fatto seguito al messaggio dell’Avvocato Generale mi hanno veramente commosso. (...) tantissimo ... ho ricevuto -sia in ambito professionale che umano -e che ho cercato di restituire, almeno in parte, svolgendo la professione, per quanto mi è stato possibile, con serietà ed impegno, oltre che con passione, sempre grata del senso di appartenenza che pochi lavori accordano: un vero privilegio! Molti sono i colleghi che hanno segnato in qualche modo il mio percorso professionale con il loro esempio e, per ovvie ragioni di brevità, ricorderò solo il grandissimo Antonio Palatiello ... punto di riferimento insostituibile per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. (...) A tutti un grande e affettuoso abbraccio. Con gratitudine Gabriella D’Avanzo (*) Email Segreteria Particolare, lunedì 2 maggio 2022. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Lascia il servizio, dopo oltre trentotto anni di significativa presenza, l’Avv. Pierluigi Umberto Di Palma. Al caro Pierluigi, Collega e Amico che ha sempre onorato l’Istituto con la Sua professionalità e il Suo grande impegno nell’interesse del Paese, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura, in particolare, per lo svolgimento del prestigioso incarico di Presidente dell’ENAC -Ente Nazionale per l’Aviazione Civile. Gabriella Palmieri Sandulli Gentili Colleghi, Personale tutto, nel ringraziare l'Avvocato Generale per le parole di stima amicizia ed affetto con cui ha voluto accompagnare il mio collocamento a riposo (...) Naturalmente, per quanto mi riguarda, resterò sempre un Avvocato dello Stato legato al nostro Istituto di antica e consolidata tradizione che ha, ancora, la capacità di tramandare di generazione in generazione un modo di essere Avvocati, facendo valere un'alta capacità professionale ed un'etica pubblica di indiscusso valore; qualità queste ultime che, sicuramente mi ritrovo nello svolgere, oggi, l'incarico che il Governo mi ha voluto, di recente, conferire. Colgo l'occasione per salutare tutti, regalandovi “le parole al Santo Padre” con cui ho voluto raccontare il trasporto aereo del terzo millennio, con positivo riscontro, venerdì scorso, a Papa Francesco, in un incontro privato, rappresentando la comunità nazionale ed internazionale del settore, presente numerosa in Sala Nervi. Pierluigi Di Palma Le parole al Santo Padre Papa Francesco, Fratelli tutti, per me, con profonda emozione, è un privilegio unico poter rappresentare in questo momento, innanzi a Sua Santità, la comunità nazionale ed internazionale del trasporto aereo, oggi presente numerosa in Sala Nervi. Una comunità, per dirla con parole di San Francesco d'Assisi riprese dall'incipit della Enciclica Fratelli tutti, impegnata a favorire una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare ed amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata e dove abita. Proprio la centralità e la sicurezza del passeggero hanno avuto il merito di concorrere ad abbattere i muri che separano culture diverse ed incoraggiare la cultura dell'incontro, rendendoci consapevoli dell'intima interconnessione che esiste tra tutti i popoli della Terra. Sono valori che appartengono al processo di liberalizzazione e privatizzazione del trasporto aereo, che, negli ultimi anni, ha permesso di intercettare i bisogni legati alla mobilità di miliardi di donne e uomini abitanti del creato. (*) Email Segreteria Particolare, martedì 17 maggio 2022. Per quel che riguarda il nostro Continente, al nuovo modello del trasporto aereo è da riconoscere, in particolare, la sua utilità per costruire l'Europa quale luogo che non solo geograficamente ma anche culturalmente può rappresentare l'identità nazionale di tutti i suoi cittadini. Pensiamo soprattutto alle nuove generazioni, invogliate dalla mobilità sicura ed a costo contenuto a "girare" senza passaporto, superando, con la diretta conoscenza di nuovi Paesi, le diffidenze che, anche nel recente passato, per lungo tempo, hanno favorito visioni nazionaliste e contrasti geo-politici anche di carattere bellico, che, nell'era dell'economia digitalizzata e globalizzata, si ritenevano definitivamente superate, ricercando nell'Europa delle Regioni un nuovo e diverso punto d'equilibrio del sistema democratico occidentale. Oggi, questa comunità è pronta, anche per le ragioni dette, a far ripartire, dopo il Covid, i ponti aerei che collegano l'universo, e, convinti della necessaria inclusione di tutti i Paesi, auspicando la pace, tutti noi ci stringiamo intorno al direttore generale dell'aviazione civile ucraina, Mr. Oleksandr Bilchuk, che pur non potendo partecipare, ha aderito a questo evento, per esprimere piena solidarietà al popolo della sua Nazione che, ingiustamente, si trova ad affrontare e resistere ad una devastante occupazione militare che sta mietendo vittime innocenti. Va ricordato che questa udienza privata del Santo Padre con gli operatori del settore del trasporto aereo è stata fortemente voluta dal Direttore Generale dell'ENAC, Alessio Quaranta, insieme a Monsignor Fabio Dal Cin, preposto alla Delegazione Pontificia della Santa Casa di Loreto, quale momento simbolico di condivisione del Giubileo Lauretano concesso da Sua Santità, per ufficializzare l'istituzione dell'8 ottobre quale "giornata della memoria" in onore della Madonna di Loreto, protettrice degli aviatori. Per volontà del Parlamento, grazie alla determinazione dell'on. Raffaella Paita, Presidente della Commissione Trasporti, e dell'on. Alessia Rotta, Presidente della Commissione Ambiente, l'8 ottobre sarà, da quest'anno, anche, la Giornata nazionale "Per non dimenticare" proprio per ricordare, nella ricorrenza della tragedia aerea del 2001 a Linate con 118 morti, tutte le vittime degli incidenti del trasporto. Dunque, anche qui un ponte teso a unire culture diverse, civili e religiose, per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla sicurezza del trasporto, la centralità del passeggero, il rispetto della dignità umana e del valore della vita di ciascun individuo. Il nostro auspicio, dunque, è che alla fine di un periodo buio possa tornare a risplendere la luce che, nel modesto ma significativo omaggio che abbiamo voluto riservare a Lei Papa Francesco, si materializza in una croce eterea, simbolo universale del necessario sacrificio che l'uomo deve affrontare per vivere in pace. Ancora grazie, Sua Santità, che nonostante le sofferenze personali, ha voluto partecipare a quest'incontro rendendo per tutti noi il 13 maggio 2022 un giorno indimenticabile. Venerdì 13 maggio 2022 Pierluigi Di Palma Presidente Ente Nazionale per l'Aviazione Civile (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Lascia il servizio, dopo oltre quarantuno anni di significativa e prestigiosa presenza, l’Avv. Maria Elena Scaramucci. Alla cara Maria Elena, Collega e Amica che ha sempre onorato l’Istituto con la Sua alta professionalità, il Suo grande impegno, la Sua costante dedizione alla cura degli interessi del Paese, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli Carissimi, desidero anzitutto ingraziare l'Avvocato Generale per le parole di stima e di affetto con cui ha voluto accompagnare il mio collocamento a riposo e tutti coloro che hanno voluto o vorranno, in pubblico o in privato, inviarmi un pensiero di saluto. Lascio l’Avvocatura con tantissimi ricordi e posso dire in tutta sincerità che questi 41 anni mi sembrano passati in un soffio. Sono riconoscente per tutte le opportunità che mi sono state date dal punto di vista professionale ed ho fatto tutto il mio meglio per esserne all’altezza. Tante persone mi saranno sempre care per l’amicizia che mi hanno dimostrato, che mi ha aiutato a superare momenti tristi della vita, altre, per non avermi fatto mai mancare la loro preziosa collaborazione, sempre accompagnata da professionalità e gentilezza. (...) Alla fine, se qualcuno dovesse chiedermi ora, a seguito del collocamento a riposo dopo così tanti anni di professione (oltre 43 in totale), come passerò il resto del mio tempo, risponderei con un pensiero di Seneca, tratto dalla sua opera “De brevitate vitae”: “C’è un tempo per capire. Un tempo per scegliere. Un altro per decidere. C’è un tempo che abbiamo vissuto, un altro che abbiamo perso. E un tempo che ci attende”. La risposta è: “Cercherò di farne buon uso”. Buona vita e un grande abbraccio a tutti. Con affetto Maria Elena Scaramucci Lallo (*) Email Segreteria Particolare, mercoledì 1 giugno 2022. Finito di stampare nel mese di giugno 2022 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma