ANNO LXXV - N. 3 LUGLIO - SETTEMBRE 2023 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Carlo Maria Pisana Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Stefano Maria Cerillo -Pierfrancesco La Spina Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Antonino Ripepi -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Michele Gerardo, Paolo Giangrosso, Augusto M. Lazzè, Emanuele Manzo, Gaetana Natale, Gabriella Palmieri Sandulli, Stefano Emanuele Pizzorno, Antonio Trimboli. E-mail Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it stefano.varone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario Comunicato dell’Avvocato Generale, Pensionamento Avvocato Generale Aggiunto Leonello Mariani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Commiato dell’Avvocato Generale Aggiunto, Avv. Leonello Mariani . . . Comunicato dell’Avvocato Generale, nomina Avvocato Generale Aggiunto, Avv. Marco Corsini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI D.P.C.M. 6 maggio 2024 recante “Autorizzazione all’Avvocatura dello Stato ad assumere la rappresentanza e la difesa della “Società Acque del Sud S.p.A” nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali”, Circolare A.G. del 14 giugno 2024 prot. 397067, n. 34 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nuovo Protocollo d’intesa sottoscritto il 25 giugno 2024 con l’ADER Agenzia delle Entrate-Riscossione, Circolare A.G. dell’1 luglio 2024 prot. 431148 n. 39. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Negoziazione assistita ex D.L. n. 132/2014 (convertito con Legge n. 162/2014) e Assistenza dell’Avvocatura dello Stato, Circolare A.G. del 23 luglio 2024 prot. 482762 n. 40 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Antonio Trimboli, Rimborso ex art. 18 D.L. 67/1997 in caso di archiviazione per intervenuta prescrizione e interrogativi posti dalla sentenza 41/2024 della Corte Costituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally ferrante, Benefici ai superstiti della vittima della criminalità organizzata. La Corte Costituzionale con sentenza 4 luglio 2024 n. 122 dichiara illegittima la presunzione assoluta del “parente o affine entro il quarto grado”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emanuele Manzo, La censurabililtà in Cassazione del c.d. travisamento della prova: la pronuncia delle Sezioni Unite 5 marzo 2024 n. 5792 . . . Stefano Emanuele Pizzorno, Il superamento dei termini della procedura accelerata e la deroga al principio della sospensione automatica del- l’esecutività della decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale per il richiedente proveniente da Paese sicuro. Considerazioni a margine di Cassazione, Sezioni Unite, 29 aprile 2024 n. 11399 . . . . . . Wally ferrante, Scioglimento di consiglio comunale per infiltrazioni mafiose ed incandidabilità degli amministratori locali ex art. 143, comma 11 T.U.E.L. (Cass. civ., Sez. I, ord. 22 maggio 2024 n. 14356) . . . . . . . . Antonino Ripepi, La Corte di Cassazione si esprime sullo scorrimento delle graduatorie delle progressioni verticali (Cass., Sez. lav., ord. 28 maggio 2024, n. 14919) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally ferrante, Termine per l’aggiornamento della interdittiva antimafia (Cons. St., Sez. III, sent. 8 marzo 2024 n. 2260; Cons. St., Sez. III, sent. 7 marzo 2023 n. 2213) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 2 ›› 11 ›› 19 ›› 36 ›› 50 ›› 74 ›› 95 ›› 100 ›› 108 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Gaetana Natale, Augusto M. Lazzè, AI Act, il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale: punti di forza e punti di debolezza . . . . . . . . . . pag. 123 Gaetana Natale, Perché il Consiglio di Stato ha detto no alla Tabella Unica nazionale in materia di risarcimento del danno non patrimoniale? .................................................. ›› 140 Paolo Giangrosso, Evoluzione delle regole sulla concorrenza negli ordinamenti giuridici maggiormente rappresentativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 155 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, I beni pubblici. Tipologia e discipina. Cenni ai beni di interesse pubblico, con particolare riguardo ai beni collettivi (demanio civico ed immobili con uso civico) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 193 Gaetana Natale, Il rapporto bilaterale Stato -Chiesa nell’ottica comune della difesa della persona umana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 243 Antonino Ripepi, Il principio della fiducia nel nuovo Codice dei contratti pubblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 247 Comunicato dell’Avvocato Generale, Pensionamento Avvocato Andrea Michele Caridi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Oggi lascia il servizio, dopo oltre quarantatré anni di prestigiosa presenza, l’Avvocato Generale Aggiunto Leonello Mariani. Al Collega e Amico che ha onorato l’Avvocatura e il Paese con la Sua altissima professionalità, con il Suo costante impegno e con le Sue elevate doti professionali e umane, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, sabato 1 giugno 2024 08:05. Commiato dell’Avvocato Generale Aggiunto Avv. Leonello Mariani Non senza un velo di commozione, al termine di una carriera che si è dipanata per più di 43 anni tra Avvocature Distrettuali e Avvocatura Generale, domani lascerò il servizio. È stata un’esperienza lunga e ricca di soddisfazioni professionali e personali, che mi ha consentito di percorrere l’intero cursus honorum dell’avvocato dello Stato; ma che ha preteso un alto tributo di tempo e di energie, compensato però dalla consapevolezza di avere svolto un’attività al servizio delle Istituzioni che ha pochi eguali per ricchezza e varietà di contenuti. La mia vita professionale è stata interamente dedicata ad un Istituto la cui peculiare struttura ed articolazione territoriale, così diversa pur nella sua unità, ne costituisce il vero punto di forza: e considero pertanto una vera fortuna aver avuto la possibilità di svolgere il servizio in entrambe le facce del “pianeta” Avvocatura maturando così un patrimonio di conoscenze e di esperienze ampio e variegato, di valore inestimabile nell’ottica di una formazione professionale completa. Concludo la mia carriera con la coscienza di aver profuso tutto il mio impegno nell’interesse esclusivo dell’Istituto cercando sempre, per quanto era nelle mie capacità, di conformarmi a quel decalogo di mantelliniana memoria che, tratteggiando la figura ideale dell’avvocato dello Stato, dovrebbe tuttora rappresentare, a mio avviso, fonte di ispirazione e modello per tutti noi: massima collaborazione con le Amministrazioni patrocinate, ma piena autonomia ed indipendenza di giudizio. Se vi sono riuscito, è anche merito, prima di tutto, di coloro che mi sono stati maestri e dai quali ho appreso il mestiere dell’avvocato e lo stile dell’Avvocato dello Stato; e, poi, dei tanti, giovani e meno giovani, che nel corso degli anni hanno lavorato e collaborato con me. Da tutti ho imparato e a tutti sono grato per l’amicizia, la considerazione e la stima della quale mi hanno onorato: di tutti conserverò un ricordo indelebile. Un particolare ringraziamento va infine al personale amministrativo, il quale, anche in tempi difficili, non mi ha mai fatto mancare la sua qualificata collaborazione, sempre preziosa ed indispensabile per il puntuale ed efficace svolgimento dei nostri compiti. A tutti auguro la migliore fortuna. Leonello Mariani (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Con decreto del Presidente della Repubblica dell’11 giugno 2024 l’Avvocato Marco Corsini è stato nominato Avvocato Generale Aggiunto. Al caro ed illustre Collega e Amico vivissime congratulazioni e i più fervidi auguri. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, giovedì 13 giugno 2024 15:02. TEMIISTITUZIONALI Avvocatura Generaledello Stato CirColare n. 34/2024 oggetto: D.P.C.M. 6 maggio 2024 recante “autorizzazione all’avvocatura dello Stato ad assumere la rappresentanza e la difesa della “Società acque del Sud S.p.a.” nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali”. Si comunica che con D.P.C.M. del 6 maggio u.s., che si allega in copia e che è in fase di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, l’Avvocatura dello Stato è stata autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa della “Società Acque del Sud S.p.A.” nei giudizi attivi e passivi avanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali. L’AVVOCATO GENERALE Gabriella PALMIERI SANDULLI (omissis) RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 Avvocatura Generaledello Stato CirColare n. 39/2024 oggetto: nuovo Protocollo d’intesa sottoscritto il 25 giugno 2024 con l’aDer - agenzia delle entrate-riscossione. Il 25 giugno 2024 è stato sottoscritto -dall’Avvocato Generale e dal Direttore di ADER -un nuovo Protocollo d’intesa, che si allega, diretto a disciplinare le modalità operative dello svolgimento del patrocinio da parte dell’Avvocatura dello Stato. Nel Protocollo -che sostituisce il precedente sottoscritto il 24 settembre 2020 -sono state individuate le controversie per le quali l’assistenza e la rappresentanza in giudizio verrà resa dall’Avvocatura, mentre per il restante contenzioso ADER potrà stare in giudizio tramite propri dipendenti (ove consentito) ovvero con l’assistenza di avvocati del libero foro. Si evidenziano in particolare i seguenti punti. Decorrenza del nuovo Protocollo L’applicazione del nuovo Protocollo decorre dal 1° luglio 2024 anche per le cause già pendenti e non ancora oggetto di affidamento. Controversie affidate all’avvocatura In particolare, sono affidate all’Avvocatura: 1) tutte le cause davanti al Giudice Amministrativo; 2) tutte le cause davanti alla Corte di cassazione; 3) tutto il contenzioso civile non afferente la riscossione (ad es. cause di locazione, di appalti ecc.) ad esclusione delle cause promosse dall’Ente medesimo per il recupero di propri crediti diversi da quelli iscritti a ruolo dagli Enti impositori; 4) il contenzioso afferente l’attività di riscossione, nei soli casi di: a) azioni esclusivamente risarcitorie (con esclusione di quelle radicate innanzi al Giudice di Pace anche in fase di appello); b) azioni revocatorie e di simulazione, sequestri conservativi e querele di falso (con esclusione -per queste ultime -di quelle sorte in giudizi innanzi al Giudice di Pace); c) altre liti innanzi al Tribunale Civile (ivi comprese le opposizioni al- l’esecuzione e agli atti esecutivi) e alla Corte di Appello Civile, limitatamente alle ipotesi in cui sia parte -non come terzo pignorato -anche l’Agenzia delle Entrate. Trattasi di una modifica del precedente Protocollo; ne consegue che dal 1° luglio 2024 anche le cause in cui sia parte in giudizio un Ente difeso dall’Avvocatura dello Stato diverso dall’Agenzia delle Entrate, dovranno essere gestite autonomamente dall’Ente (o direttamente ove previsto -ovvero avvalendosi di avvocati del libero foro). Ovviamente TEMI ISTITUzIONALI per le cause pendenti già difese dall’Avvocatura, nulla osta alla prosecuzione del patrocinio. Procedimenti penali e cause di lavoro Alla costituzione di parte civile nei procedimenti penali ed al patrocinio nelle cause di lavoro dei dipendenti dell’Ente, l’Avvocatura procederà di norma solo su richiesta di ADER (restando salva, ovviamente, la possibilità di declinarne il patrocinio). Controversie rilevanti Al punto 3.6 del Protocollo si precisa che, in ogni caso, “L’Avvocatura, sentito l’Ente, assicura il patrocinio nelle controversie in cui vengono in rilievo questioni di massima o particolarmente rilevanti in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione”. Cause per le quali l’avvocatura non assume il patrocinio Al punto 3.7 del Protocollo si precisa che “In tutti i casi in cui la presente Convenzione non preveda il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, oppure nei casi di indisponibilità della stessa Avvocatura ad assumerlo, l’Ente può avvalersi ed essere rappresentato da avvocati del libero foro, ovvero -ove consentito -da propri dipendenti delegati che possono stare in giudizio personalmente. In tali casi, non si applica la disposizione dell’articolo 43, quarto comma, del testo unico di cui al regio decreto n. 1611 del 1933 ”. * * * Si ricorda che, in particolari situazioni di difficoltà nella gestione del contenzioso di ADER (che in base al Protocollo sarebbe di spettanza dell’Avvocatura), è comunque possibile declinare il patrocinio consentendo all’Ente di avvalersi di avvocati del libero foro. Si richiama al riguardo l’art. 4-novies del D.L. n. 34/2019 (convertito nella legge n. 58/2019) in forza del quale: «Il comma 8 dell’articolo 1 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, si interpreta nel senso che la disposizione dell’articolo 43, quarto comma, del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, si applica esclusivamente nei casi in cui l’Agenzia delle entrate-Riscossione, per la propria rappresentanza e difesa in giudizio, intende non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi a quest’ultima riservati su base convenzionale; la medesima disposizione non si applica nei casi di indisponibilità della stessa Avvocatura dello Stato ad assumere il patrocinio». Ovviamente la declinatoria dovrà essere tempestivamente comunicata all’ADER onde evitare pregiudizi nell’attività difensiva. Si ricorda, infine, che le sentenze o ordinanze (anche cautelari) emesse nei confronti di ADER vanno comunicate con la massima tempestività al fine di evitare azioni risarcitorie da parte dei contribuenti per l’illegittima prosecuzione di azioni esecutive a loro danno. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 Per quanto riguarda la gestione del contenzioso si richiamano in particolare le precedenti Circolari nn. 36/2017, 41/2017 e 21/2023, reperibili sulla Intranet (Documentazione -ADER -ex Equitalia) insieme ad altre istruzioni di carattere generale. Il Protocollo è pubblicato per estratto sul sito Internet dell’Avvocatura dello Stato e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione. L’AVVOCATO GENERALE Gabriella PALMIERI SANDULLI PROTOCOLLO D’INTESA TRA AVVOCATURA DELLO STATO E AGENzIA DELLE ENTRATE-RISCOSSIONE Premesso: • che ai sensi dell’art. 1, comma 8, del Decreto Legge 22 ottobre 2016 n. 193, convertito con modificazioni dalla Legge n. 225 del 1° dicembre 2016, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione (di seguito denominata anche solo “Ente”) è autorizzata “ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’articolo 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, fatte salve le ipotesi di conflitto e comunque su base convenzionale. Lo stesso ente può altresì avvalersi, sulla base di specifici criteri definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5 del presente articolo, di avvocati del libero foro, nel rispetto delle previsioni di cui agli articoli 4 e 17 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, ovvero può avvalersi ed essere rappresentato, davanti al tribunale e al giudice di pace, da propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni caso, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, l’Avvocatura dello Stato, sentito l’ente, può assumere direttamente la trattazione della causa. Per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie continua ad applicarsi l’articolo 11, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 ”; • che ai sensi dell’art. 4-novies del Decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58: “1. Il comma 8 dell’articolo 1 del decreto- legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016 n. 225, si interpreta nel senso che la disposizione dell’articolo 43, quarto comma, del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, si applica esclusivamente nei casi in cui l’Agenzia delle entrate-Riscossione, per la propria rappresentanza e difesa in giudizio, intende non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi a quest’ultima riservati su base convenzionale; la medesima disposizione non si applica nei casi di indisponibilità della stessa Avvocatura dello Stato ad assumere il patrocinnio ”; • che è opportuno, apportare alcune modifiche al Protocollo d’intesa sottoscritto tra le parti in data 24 settembre 2020, per disciplinare, sulla base della distinzione dei ruoli e delle competenze e del riconoscimento delle rispettive responsabilità, le modalità di TEMI ISTITUzIONALI cooperazione tra l’Ente e l’Avvocatura dello Stato (di seguito denominata anche solo “Avvocatura”), al fine di assicurare nel modo migliore la piena tutela degli interessi pubblici coinvolti, prevedendo anche forme snelle e semplificate di relazione, tali da rafforzare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa e l’ottimale funzionalità delle strutture; • che le parti, ponderate le rispettive esigenze organizzative, anche in considerazione del- l’organico e dei carichi di lavoro rappresentati dall’Avvocatura dello Stato, hanno di comune accordo rideterminato le tipologie di controversie da affidare al patrocinio dell’Avvocatura, indicate all’articolo 3; tra l’Avvocato Generale dello Stato, Avv. Gabriella Palmieri Sandulli, e l’Avvocato Ernesto Maria Ruffini, Direttore di Agenzia delle entrate-Riscossione, si conviene quanto segue. 1. PREMESSE 1.1 Le premesse sono parti integranti dell’accordo. 1.2 Il presente protocollo sostituisce quello sottoscritto in data 24 settembre 2020 e si applica a decorrere dal 1° luglio 2024 fino alla data del successivo protocollo d’intesa. 2. ATTIVITÀ CONSULTIVA 2.1 Allo scopo di razionalizzare l’attività consultiva, l’Ente, tramite le competenti Direzioni Centrali, provvede a coordinare la proposizione di quesiti e richieste di pareri che involgono questioni interpretative di carattere generale o di particolare rilevanza, evitando l’inoltro di specifiche richieste tramite proprie strutture territoriali. 2.2 Considerato che l’efficacia dell’attività consultiva è direttamente correlata alla sua tempestività, l’Avvocatura provvede a rendere i pareri richiesti nei termini imposti dai procedimenti amministrativi o, in mancanza, entro 60 giorni dalla richiesta, segnalando i casi in cui ciò non sia possibile. 2.3 L’Ente informa l’Avvocatura dei principali orientamenti dallo stesso assunti, in particolare in ordine all’interpretazione di normativa di prima applicazione, al fine di acquisire eventuali suggerimenti e/o pareri, nella prospettiva dei riflessi sulla gestione del relativo contenzioso, potenziale o in atto. 2.4 L’Avvocatura, su richiesta dell’Ente, esprime parere sugli atti di transazione redatti dalle strutture centrali o regionali interessate e, all’occorrenza e nei limiti della propria disponibilità, assicura l’assistenza nel luogo ove si svolge l’attività transattiva. 3. ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA IN GIUDIZIO 3.1 Disposizioni generali 3.1.1 Al fine di consentire all’Avvocatura il regolare svolgimento delle proprie funzioni, l’Ente, attraverso le proprie Direzioni centrali o regionali competenti, provvede ad investire l’Avvocatura delle richieste di patrocinio con il più ampio margine possibile rispetto alle scadenze, fornendo tutti gli opportuni elementi istruttori. In sede di richiesta verrà precisato il nominativo del funzionario dell’Ente incaricato dell’istruttoria, con le modalità per la sua immediata reperibilità (telefono e posta elettronica); analogamente l’Avvocatura provvederà a segnalare il nominativo dell’avvocato incaricato ed i relativi recapiti. L’Ente e l’Avvocatura RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 si impegnano a fornire e ad aggiornare annualmente i recapiti di posta elettronica e telefonici degli uffici e degli Avvocati, qualora non siano reperibili nei rispettivi siti internet. 3.1.2 Nelle controversie in cui oltre all’Ente è presente una delle Amministrazioni patrocinate dall’Avvocatura dello Stato, la richiesta di patrocinio inviata all’Avvocatura viene trasmessa per conoscenza anche all’Amministrazione suddetta. 3.1.3 Qualora l’Avvocatura ritenga opportuno assumere il patrocinio dell’Ente pur in mancanza di una richiesta di questi in tal senso, provvede a darne tempestiva comunicazione al- l’Ente per la formalizzazione dell’incarico, adottando nel contempo le iniziative processuali necessarie ad evitare pregiudizi. 3.1.4 Al fine di assicurare nel modo più sollecito ed efficace lo svolgimento delle rispettive attività istituzionali, l’Ente garantisce all’Avvocatura l’accesso ai dati relativi ai fascicoli di causa delle controversie pendenti presso l’Autorità Giudiziaria, in cui è parte. 3.1.5 L’Ente e l’Avvocatura si impegnano allo scambio delle informazioni, dei documenti e degli atti processuali necessari per lo svolgimento delle rispettive attività secondo le modalità individuate ai punti successivi. Nelle more dell’avvio della cooperazione informatica, la corrispondenza verrà inviata di norma tramite posta elettronica certificata. 3.1.6 Ove l’Avvocatura ritenga di non convenire, per singole controversie, sulle richieste avanzate dall’Ente, provvede, se del caso previa acquisizione di elementi istruttori, a darne tempestiva e motivata comunicazione alla struttura richiedente, al fine di pervenire ad una definitiva determinazione. Le divergenze che insorgono tra l’Avvocatura e l’Ente, circa l’instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, sono risolte dal Direttore ai sensi dell’art. 12, secondo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103. 3.1.7 Qualora gli atti introduttivi del giudizio o di un grado di giudizio e qualunque altro atto o documento vengano notificati all’Ente esclusivamente presso una sede dell’Avvocatura, non ancora investita della difesa, sono dalla stessa inviati senza indugio alla competente struttura dell’Ente. 3.1.8 L’Avvocatura provvede a informare la competente struttura dell’Ente dei significativi sviluppi delle controversie dalla stessa curate assicurando, laddove l’Ente ne faccia motivata richiesta, il tempestivo invio degli atti difensivi propri (in formato editabile onde agevolarne l’utilizzo in casi analoghi) e delle controparti, dando comunque pronta comunicazione del- l’esito del giudizio con la trasmissione di copia della decisione. Ove si tratti di pronuncia sfavorevole all’Ente suscettibile di gravame, l’Avvocatura formula il proprio parere in ordine all’impugnabilità della decisione, di norma contestualmente all’inoltro della stessa all’Ente. Le pronunce e le altre comunicazioni che investano questioni di carattere generale sono dal- l’Avvocatura segnalate alla competente Direzione centrale dell’Ente. 3.1.9 Per le notificazioni degli atti, l’Avvocatura può avvalersi della collaborazione dell’Ente anche ai sensi dell’art. 10 della Legge n. 383 del 18 ottobre 2001, in materia di modalità di sottoscrizione di atti giudiziari trasmessi a distanza. Ai fini della notifica, l’Avvocatura fa pervenire l’atto entro tre giorni lavorativi liberi prima della scadenza del termine di impugnazione; si considera non lavorativo anche il sabato. La struttura dell’Ente, subito dopo la notifica, invia l’atto all’Avvocatura, tramite modalità che ne assicurino comunque il tempestivo ricevimento. 3.1.10 Per le cause che si svolgono davanti ad autorità giudiziaria avente sede diversa da quella della competente Avvocatura, quest’ultima può avvalersi, per le funzioni procuratorie, di dipendenti dell’Ente ai sensi dell’art. 2 del R.D. n. 1611 del 1933. Nelle ipotesi in cui non sia possibile avvalersi di dipendenti dell’Ente, le funzioni procuratorie possono essere delegate ad avvocati del libero foro che verranno dallo stesso Ente indicati su richiesta dell’Avvocatura. TEMI ISTITUzIONALI 3.1.11 L’Avvocatura segnala tempestivamente all’Ente i casi in cui non ritiene di assumere il patrocinio. 3.1.12 A richiesta del Direttore dell’Ente, l’Avvocatura può assumere, ai sensi dell’art. 44 del R.D. n. 1611 del 1933, la rappresentanza e la difesa di dipendenti dell’Ente nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio. 3.2 Giudizi davanti al Giudice Amministrativo. 3.2.1 L’Avvocatura assume il patrocinio dell’Ente nelle controversie davanti al T.A.R. e al Consiglio di Stato. 3.2.2 Nei giudizi in materia di appalti, le comunicazioni tra l’Ente e l’Avvocatura si svolgono con modalità e tempi adeguati alla rilevanza del contenzioso e alla brevità dei termini processuali previsti dalla particolare disciplina. 3.3 Contenzioso afferente all’attività di Riscossione L’Avvocatura assume il patrocinio dell’Ente nei seguenti casi: -azioni esclusivamente risarcitorie (con esclusione di quelle radicate innanzi al Giudice di Pace anche in fase di appello); -azioni revocatorie e di simulazione, sequestri conservativi e querele di falso (con esclusione -per queste ultime -di quelle sorte in giudizi innanzi al Giudice di Pace); -altre liti (ivi comprese le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi) innanzi al Tribunale Civile e alla Corte di Appello Civile, limitatamente alle ipotesi in cui sia parte -non come terzo pignorato - anche l’Agenzia delle Entrate; - liti innanzi alla Corte di Cassazione. 3.4 Contenzioso non afferente all’attività di riscossione 3.4.1 L’Avvocatura assume il patrocinio dell’Ente in tutte le controversie civili non afferenti alla riscossione, ad esclusione delle cause promosse dall’Ente medesimo per il recupero di propri crediti diversi da quelli iscritti a ruolo dagli Enti impositori. 3.4.2 L’Ente può richiedere il patrocinio dell’Avvocatura nei procedimenti penali anche al fine della costituzione di parte civile, che dovrà essere autorizzata dal Presidente del Consiglio dei Ministri allorché debba essere effettuata, a norma dell’art. 49, comma 1, del D.P.R. n. 602/1973, a tutela di crediti dello Stato. L’Ente può altresì richiedere l’assistenza dell’Avvocatura nella predisposizione delle denunce più rilevanti. Gli atti dei procedimenti penali, irritualmerite comunicati o notificati esclusivamente presso l’Avvocatura, sono trasmessi alla Direzione competente. L’Avvocatura informa l’Ente in ordine agli sviluppi dei procedimenti penali nei quali si è costituita parte civile. 3.4.3 L’Ente può richiedere il patrocinio dell’Avvocatura nelle controversie in materia di lavoro di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c. e agli arti. 441-bis e ss. c.p.c. 3.5 Gestione dei ricorsi per Cassazione 3.5.1 Le richieste di ricorso per Cassazione devono pervenire all’Avvocatura, nelle cause cui la stessa non ha già assunto la difesa, dalla competente Direzione regionale, ove possibile, entro: a) trenta giorni dalla notifica della sentenza; b) quattro mesi dalla data di deposito della sentenza non notificata; c) quindici giorni dalla comunicazione nei casi di opposizione allo stato passivo ai sensi della Legge Fallimentare. Ai predetti termini si aggiungono la eventuale sospensione feriale di cui all’art. 1 della legge RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 n. 742 del 1969 e s.m.i., nonché altre eventuali proroghe o sospensioni dei termini, ove applicabili. Le richieste di ricorso per Cassazione sono corredate dalla documentazione necessaria per consentire all’Avvocatura la compiuta delibazione delle stesse. A tale fine la documentazione di supporto relativa al ricorso deve comprendere, nel caso di società, visure camerali aggiornate, nonché, per le ipotesi di avvenuta cancellazione, l’elenco dei soci e il bilancio di liquidazione con allegato il piano di riparto. Resta inteso che eventuali variazioni successive alla data dei documenti allegati alla richiesta saranno accertate dall’Avvocatura. 3.5.2 La richiesta di ricorso per Cassazione con allegati copia degli scritti difensivi dell’Ente e della controparte, dei documenti prodotti in giudizio dalle parti e delle sentenze, è trasmessa all’indirizzo PEC della competente Sezione dell’Avvocatura. Qualora la richiesta di ricorso venga eccezionalmente trasmessa all’Avvocatura oltre i termini di cui al punto precedente -ed in ogni caso nell’ipotesi di cui alla lettera c) -, la stessa è inviata anche all’indirizzo di posta elettronica ordinaria della Sezione competente, del Responsabile e del Coordinatore di sezione. 3.5.3 L’Avvocatura salvo casi particolari, provvede direttamente alla notifica del ricorso. 3.5.4 L’Avvocatura, nei casi in cui non condivida la richiesta di ricorso per Cassazione, dà tempestiva comunicazione via PEC del proprio motivato parere negativo alla Direzione regionale competente, se del caso, dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta di ricorso. In ogni caso, tale parere è inviato, salvo obiettive circostanze impedienti, almeno dieci giorni prima della scadenza del termine di impugnazione. 3.5.5 La Direzione regionale competente, qualora non condivida il parere negativo dell’Avvocatura, invia tempestivamente la reitera della richiesta di ricorso, con puntuali repliche al predetto parere, alla Direzione centrale competente tramite posta elettronica e, per conoscenza, all’Avvocatura sia per PEC sia per posta elettronica ordinaria all’indirizzo della sezione competente sull’affare, del Responsabile di sezione e dell’Avvocato incaricato. Il messaggio di posta elettronica ordinaria contiene la precisazione che lo stesso invio è stato già effettuato via PEC. 3.5.6 La Direzione centrale competente comunica tempestivamente, con le medesime modalità previste al punto precedente, all’Avvocatura e, per conoscenza, alla Direzione regionale il proprio parere in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti della reitera. 3.5.7 Qualora l’Avvocatura non condivida la reitera cui abbia aderito la Direzione centrale competente comunica con la necessaria urgenza il proprio definitivo parere alla predetta Direzione centrale e alla Direzione regionale, mediante posta elettronica. 3.5.8 Nel caso in cui la Direzione competente non condivida il parere dell’Avvocatura, per la risoluzione della divergenza si applica il secondo periodo del punto 3.1.6. 3.5.9 In mancanza di formale e tempestiva conferma del parere negativo espresso dall’Avvocatura, quest’ultima provvede, in modo da evitare decadenze, alla proposizione del ricorso per Cassazione, salva eventuale successiva rinuncia. 3.5.10 L’Avvocatura si può avvalere della collaborazione delle strutture dell’Ente per la richiesta di eventuale ulteriore documentazione necessaria per gestione della pratica. 3.5.11 Le richieste di cui al punto precedente, dopo gli adempimenti di rito, sono immediatamente restituite all’Avvocatura, attraverso modalità di trasmissione che ne assicurino il tempestivo ricevimento. 3.5.12 Nel caso di notifica del ricorso per cassazione presso l’Ente, quest’ultimo, nelle cause in cui l’Avvocatura non ha già assunto la difesa, invia entro venti giorni all’Avvocatura generale mediante posta elettronica certificata il ricorso completo di relata di notifica, unitamente TEMI ISTITUzIONALI alla documentazione utile per la predisposizione del controricorso e per l’eventuale ricorso incidentale, con copia di tutti gli atti di causa (atto impugnato, ricorso, controdeduzioni e ogni altro atto o documento depositato). La richiesta di controricorso e dell’eventuale ricorso incidentale, con i relativi allegati, è inviata con le modalità di cui al punto 3.5.2. 3.5.13 L’Avvocatura, qualora ritenga che non sia opportuna la proposizione del ricorso incidentale, dà tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla Direzione regionale, se del caso dandone anticipazione telefonica ai recapiti indicati in richiesta. 3.5.14 La Direzione regionale, qualora non condivida il parere negativo, formula tempestivamente le proprie osservazioni alla Direzione centrale competente. Per la risoluzione della eventuale divergenza si applicano, in quanto compatibili, i punti da 3.5.5 a 3.5.9. 3.5.15 La Direzione centrale competente può segnalare i giudizi in Cassazione relativi a una questione controversa caratterizzata da ampia diffusione o comunque di particolare rilevanza per il principio di diritto in contestazione, affinché l’Avvocatura solleciti alla Corte di Cassazione la discussione della causa, facendo presente il significativo effetto deflattivo che può conseguire dal tempestivo consolidarsi, sul punto, dell’orientamento della stessa Corte. 3.5.16 Qualora l’Ente intenda annullare in tutto o in parte l’atto oggetto del giudizio in Cassazione, ne informa preventivamente l’Avvocatura, salvo che si tratti di casi disciplinati da direttive contenenti indicazioni sulla rinuncia alla prosecuzione dei giudizi. Resta inteso che il provvedimento di annullamento va comunque tempestivamente comunicato all’Avvocatura per i conseguenti adempimenti processuali. 3.5.17 L’Avvocatura, qualora ravvisi che in un giudizio pendente la posizione dell’Ente è in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, procede -d’accordo con la Direzione regionale competente -all’abbandono della lite. In tali casi spetta all’Avvocatura, senza preventiva comunicazione alla Direzione regionale, verificare la possibilità di addivenire ad un preventivo accordo con la controparte sulle spese di giudizio. Nell’impossibilità di tale accordo, la Direzione regionale evidenzia all’Avvocatura gli eventuali elementi da sottoporre al giudice che possano giustificare la compensazione delle spese. 3.5.18 Con riferimento ai ricorsi in Cassazione relativi a contenziosi non di competenza delle Direzioni regionali, le disposizioni di cui ai commi precedenti troveranno applicazione con la precisazione che le interlocuzioni tra l’Avvocatura e l’Ente avverranno esclusivamente per il tramite delle Direzioni centrali competenti dell’Ente stesso. 3.6 Controversie rilevanti. L’Avvocatura, sentito l’Ente, assicura il patrocinio nelle controversie in cui vengano in rilievo questioni di massima o particolarmente rilevanti in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione. 3.7 Cause per le quali l’Avvocatura dello Stato non assume il patrocinio In tutti i casi in cui la presente Convenzione non preveda il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, oppure nei casi di indisponibilità della stessa Avvocatura ad assumerlo, l’Ente può avvalersi ed essere rappresentato da avvocati del libero foro, ovvero -ove consentito -da propri dipendenti delegati che possono stare in giudizio personalmente. In tali casi, non si applica la disposizione dell’articolo 43, quarto comma, del testo unico di cui al R.D. n. 1611 del 1933. 3.8 Recupero spese di giudizio L’Avvocatura, ai sensi dell’art. 21 del R.D. n. 1611 del 1933, provvede al diretto recupero nei confronti delle controparti delle spese di giudizio, poste a loro carico per effetto di sentenza, RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 ordinanza, rinuncia o transazione. L’Ente invia all’Avvocatura copia autentica della sentenza che conclude con esito favorevole il giudizio in sede di rinvio dopo la fase di cassazione. 4. NOTIFICA DEGLI ATTI L’Avvocatura presta la propria collaborazione all’Ente per le notificazioni degli atti diversi da quelli processuali, ove questo non possa provvedervi direttamente. 5. INCONTRI PERIODICI Per l’esame dell’evoluzione del contenzioso concernente le più diffuse e rilevanti questioni controverse, al fine di definire congiuntamente e uniformemente le linee di condotta delle controversie in corso e l’interesse alla prosecuzione delle stesse, sono fissati incontri semestrali tra l’Avvocatura Generale e le competenti Direzioni Centrali dell’Ente. Analoghi incontri si potranno svolgere tra le Direzioni regionali dell’Ente e le Avvocature distrettuali. 6. COOPERAZIONE INFORMATICA 6.1 Al fine di favorire l’interoperabilità e la cooperazione fra i sistemi informativi, l’Avvocatura e l’Ente s’impegnano a porre in essere le attività necessarie per la realizzazione di strumenti attraverso i quali potranno scambiarsi in via automatica e nella massima sicurezza le informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento delle rispettive attività. 6.2 La cooperazione informatica verrà disciplinata da specifico accordo. 7. DISPOSIZIONE FINALE L’Avvocatura e l’Ente si impegnano a segnalare reciprocamente le difficoltà operative eventualmente insorte nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo, allo scopo di provvedere, nello spirito di una piena collaborazione, al superamento delle stesse ed eventualmente alla modifica delle modalità di cooperazione. Roma, data delle firme L’Avvocato Generale dello Stato Il Direttore di Agenzia delle entrate-Riscossione Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Avv. Ernesto Maria Ruffini (firmato digitalmente) (firmato digitalmente) Documento firmato da: ERNESTO PALMIERI GABRIELLA MARIA 25.06.2024 13:36:53 UTC RUFFINI 25.06.2024 11:07:18 GMT+00:00 TEMI ISTITUzIONALI Avvocatura Generaledello Stato CirColare n. 40/2024 oggetto: negoziazione assistita ex D.l. n. 132/2014 (convertito con legge n. 162/2014) e assistenza dell’avvocatura dello Stato. Il caso non infrequente della ricezione sia di “inviti a concludere una convenzione di negoziazione assistita” provenienti dalle controparti, sia di richieste di assistenza da parte delle Amministrazioni, fa sorgere la questione dell’applicabilità anche alle Amministrazioni difese dall’Avvocatura dello Stato dell’obbligo di assistenza tecnica in sede di negoziazione assistita, posto dall’art. 2, commi 1 e 1-bis, del D.L. n. 132/2014. Occorre al riguardo chiarire se il patrocinio erariale, in tutte le sue forme, estenda la propria obbligatorietà anche a una fase precontenziosa della controversia, in cui tuttavia è la legge a prevedere l’obbligo dell’assistenza legale delle parti. § 1 -La negoziazione assistita: diversità rispetto alla mediazione In via di premessa, si osserva che non è possibile applicare alla negoziazione assistita le soluzioni interpretative emerse con riferimento al diverso istituto della mediazione obbligatoria, prevista dall’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010 (e su cui cfr. Circolare AGS n. 41/2012). La diversità di disciplina dei due istituti, proprio con riguardo alla questione della difesa tecnica delle parti, suggerisce soluzioni differenziate, anche nel caso in cui sia parte un’Amministrazione patrocinata dall’Avvocatura dello Stato. Sia la negoziazione assistita sia la mediazione obbligatoria sono istituti deflaffivi del contenzioso con funzione di filtro all’introduzione delle controversie giudiziarie. Similmente alla mediazione, là dove obbligatoria, l’art. 3 del D.L. n. 132/2014 pone alle parti l’onere, a pena di improcedibilità della domanda, di provare a definire la lite mediante una convenzione di negoziazione assistita, qualora intendano introdurre una domanda giudiziale in alcune materie, preventivamente individuate dal legislatore. Il preventivo esperimento del tentativo di negoziazione assistita è condizione di procedibilità per le seguenti liti: a) risarcimento del danno da circolazione di veicoli o natanti; b) condanna al pagamento di somme di denaro inferiori a euro cinquantamila. Dunque, il meccanismo di funzionamento di entrambi i filtri deflattivi è eguale: l’esperimento della procedura è condizione di procedibilità in casi predeterminati dal legislatore; la mancata partecipazione della parte alla procedura comporta delle possibili conseguenze in sede contenziosa. Tuttavia, la negoziazione assistita differisce dalla mediazione obbligatoria per un punto cruciale, ovvero la presenza obbligatoria degli avvocati delle parti. RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 Con riguardo alla mediazione obbligatoria la questione è controversa, dal momento che la novella di cui al D.L. n. 69/2013 ha introdotto un anodino riferimento alla necessità dell’assistenza tecnica delle parti, seppur contraddetto dal diverso disposto dell’art. 12, d.lgs. 28/2010, che configura tale assistenza come facoltativa. Viceversa, nel caso della negoziazione assistita, non vi sono dubbi circa la volontà del legislatore di imporne la presenza, dato che questo è il proprium dell’istituto. § 2 -Le norme di rilievo La soluzione della questione interpretativa dell’obbligatorietà della difesa tecnica anche per gli enti che fruiscono del patrocinio erariale discende dalle disposizioni del testo normativo. La norma cardine di riferimento è l’art. 2 del D.L. n. 132/2014, il quale al comma 1 stabilisce che: “La convenzione di negoziazione assistita da avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo anche ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 ”. Con specifico riferimento agli enti pubblici, l’art. 2 del D.L. n. 132/2014, al comma 1-bis, dispone che: “È fatto obbligo per le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, di affidare la convenzione di negoziazione alla propria avvocatura, ove presente”. Ebbene, il citato art. 2, comma 1, non può che riguardare le parti private, che instaurano un rapporto di mandato col proprio difensore, che esercita la professione di avvocato attraverso l’iscrizione all’Albo degli avvocati di cui all’art. 15, comma 1, lett. a), della Legge n. 247/2012. Viceversa, con riguardo alle Amministrazioni pubbliche, il citato art. 2, comma 1-bis, prevede che queste affidino obbligatoriamente la convenzione “alla propria avvocatura, ove presente”. Ora, l’ambito di applicazione di tale norma è chiaro, con riferimento a quelle Amministrazioni pubbliche dotate di un proprio ufficio legale interno, costituito da dipendenti pubblici che siano anche avvocati iscritti alla sezione speciale dell’Albo degli avvocati, ai sensi dell’art. 15, co. 1, lett. b), L. 247/2012. Si fa riferimento ad alcuni enti pubblici territoriali locali, dotati di proprie avvocature interne, nonché a enti pubblici statali quali gli Enti previdenziali, che non fruiscono del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato e sono dotati di una “propria avvocatura”, intesa come ufficio interno. Viceversa, sorge la questione se anche l’Avvocatura dello Stato costituisca “propria avvocatura”, limitatamente alle Amministrazioni che fruiscono del TEMI ISTITUzIONALI suo patrocinio, obbligatorio o autorizzato. Ci si chiede, dunque, se la partecipazione alla negoziazione dello Stato e degli altri enti che fruiscono della difesa erariale ricada o meno nella previsione di cui all’art. 2, co. 1-bis. Orbene, seppure sia ardua, in base al dato letterale della norma in esame, l’assimilazione del patrocinio degli avvocati dipendenti degli enti pubblici a quello dell’Avvocatura dello Stato (che viceversa eroga una difesa caratterizzata dalla impersonalità attraverso personale togato non iscritto all’Albo degli avvocati, neppure in una sezione speciale), ritenere tuttavia che tale formulazione sia ragione sufficiente per escludere in radice ogni assistenza legale nella negoziazione alle Amministrazioni patrocinate dall’Avvocatura dello Stato pare una soluzione distonica e non conforme alla ratio legis, che, ai limitati fini dell’assistenza in sede di negoziazione assistita, ha invece espressamente voluto assimilare le due fattispecie. Infatti, tale argomento porterebbe a ritenere che le Amministrazioni che fruiscono del patrocinio erariale sarebbero escluse sia dalla previsione del comma 1, che fa riferimento agli “avvocati iscritti all’albo”, sia da quella del comma 1-bis, là dove interpretata come contenente un esclusivo riferimento agli avvocati dipendenti degli enti pubblici, iscritti nella sezione speciale dell’Albo degli avvocati. Tale interpretazione restrittiva dell’art. 2, comma 1-bis, presta il fianco a diverse obiezioni. Infatti, è necessario considerare che: a) il D.L. n. 132/2014 ha inteso introdurre un nuovo istituto, la cui peculiarità è proprio la presenza obbligatoria dei difensori delle parti: se la legge avesse voluto esentare una platea di soggetti, peraltro numerosa, dal- l’obbligo di assistenza legale in sede di negoziazione lo avrebbe dovuto disporre expressis verbis; b) l’art. 2, comma 1-bis, nell’estendere l’obbligo di assistenza legale anche ai soggetti pubblici, fa espresso riferimento alle “amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, tra cui rientrano anche lo Stato e gli altri enti pubblici che fruiscono del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; c) se anche la norma generale (art. 1 del R.D. n. 1611/1933) àncora il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato alla pendenza di un giudizio, i commi 1 e 1-bis dell’art. 2 del D.L. n. 132/2014 sono norme speciali, che impongono l’assistenza tecnica delle parti, non solo pubbliche, in una fase precontenziosa; d) l’esclusione delle Amministrazioni che fruiscono del patrocinio del- l’Avvocatura dello Stato dall’obbligo di assistenza legale sarebbe una soluzione viziata da irragionevolezza, perché creerebbe una diversità di disciplina priva di alcuna evidente ratio. Accanto a tali norme è importante considerare anche gli artt. 4-bis e 5 del D.L. n. 132/2014. L’art. 4-bis, rubricato “acquisizione di dichiarazioni”, prevede la possi RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 bilità che, in sede di negoziazione, l’avvocato di una pare inviti terzi a rendere delle dichiarazioni pseudo-testimoniali “in presenza degli avvocati che assistono le altre parti” (comma 1). I commi 4, 5 e 6 proseguono stabilendo che: “4. Le domande rivolte all’informatore e le dichiarazioni da lui rese sono verbalizzate in un documento, redatto dagli avvocati, che contiene l’indicazione del luogo e della data in cui sono acquisite le dichiarazioni, le generalità dell’informatore e degli avvocati e l’attestazione che sono stati rivolti gli avvertimenti di cui al comma 2. 5. Il documento di cui al comma 4, previa integrale lettura, è sottoscritto dall’informatore e dagli avvocati. All’informatore e a ciascuna delle parti ne è consegnato un originale. 6. Il documento di cui al comma 4, sottoscritto ai sensi del comma 5, fa piena prova di quanto gli avvocati attestano essere avvenuto in loro presenza. Può essere prodotto nel giudizio tra le parti della convenzione di negoziazione assistita ed è valutato dal giudice ai sensi dell’articolo 116, primo comma, del codice di procedura civile. Il giudice può sempre disporre che l’informatore sia escusso come testimone”. Inoltre, l’art. 5 del D.L. n. 132/2014, ai commi 1, 1-bis e 2, prevede che: “1. L’accordo che compone la controversia, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. 1-bis. L’accordo che compone la controversia contiene l’indicazione del relativo valore. 2. Gli avvocati certificano l’autografia delle firme e la conformità del- l’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico”. Ebbene, anche alla luce di tali disposizioni, pare irragionevole ritenere che le Amministrazioni patrocinate dall’Avvocatura dello Stato possano sottoscrivere la convenzione di negoziazione assistita ed eventualmente compiere le delicate attività di cui alle disposizioni citate senza alcuna assistenza legale. Ciò sarebbe ancor più distonico se si aggiunge che, al contrario, la controparte è viceversa assistita da un proprio legale. D’altro canto, l’Avvocatura dello Stato non può trascurare la recente tendenza del legislatore a favorire, per quanto possibile, la definizione delle liti attraverso il ricorso a procedure alternative alla giurisdizione. In mancanza di una norma specifica che esenti dalla negoziazione assistita la Difesa Erariale, rischia di essere anacronistico affermare in linea generale e astratta l’estraneità di tale procedura ai compiti dell’Avvocatura. § 3 -Indirizzo applicativo: necessità di bilanciare la negoziazione assistita con la posizione istituzionale dell’Avvocatura dello Stato La concreta applicazione dell’istituto all’Amministrazione deve tenere TEMI ISTITUzIONALI conto delle peculiarità, di funzioni e di organizzazione, dell’Avvocatura dello Stato e del suo rapporto con le Amministrazioni assistite. In via di premessa, si osserva che il rapporto di assistenza tra avvocati del libero foro e parti private, anche nella procedura di negoziazione assistita, ha fonte in un atto contrattuale, con cui la parte sceglie liberamente il professionista cui affidare la propria assistenza. Viceversa, il rapporto che lega l’Avvocatura dello Stato all’Amministrazione difesa ha fonte nella legge ed è caratterizzato dalla esclusività. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato nella procedura di negoziazione assistita, ove la stessa sia obbligatoria, non ricade d’altra parte nell’ambito del- l’art. 1 del R.D. n. 1611/1933, non trattandosi di patrocinio in giudizio, ma in quello dell’art. 13 del medesimo R.D. n. 1611/1933, potendosi più propriamente qualificare come attività consultiva per la “tutela legale dei diritti e degli interessi dello Stato”. § 3.1 - La volontà transattiva deve provenire dall’Amministrazione Questo Organo Legale è ben consapevole del fatto che, nella maggioranza dei casi, il tentativo di comporre la lite con la negoziazione assistita non sortisce gli effetti deflattivi sperati dal legislatore: solo nella minor parte dei casi l’invito a stipulare una convenzione di negoziazione assistita è effettivamente sorretto da una genuina volontà transattiva della parte, cui corrisponde una eguale volontà dell’altra. Ebbene, con riguardo alla posizione della parte pubblica, l’impulso per la partecipazione fattiva alla negoziazione assistita non può che provenire dalla stessa Amministrazione patrocinata. L’Avvocatura dello Stato limiterà il proprio compito all’assistenza legale nella stipula della convenzione e della transazione conclusiva, in caso di effettiva sussistenza della volontà transattiva dell’Amministrazione. Solo l’Amministrazione, in quanto parte il cui interesse è coinvolto dalla potenziale controversia, dispone infatti degli elementi di fatto indispensabili per formare una volontà transattiva e formulare una conseguente proposta alla controparte. Nel concreto, ciò significa che la mera ricezione dell’invito a stipulare una convenzione di negoziazione assistita non onera l’Avvocatura dello Stato di riscontrarlo, né di partecipare alla procedura. Al medesimo modo, là dove l’Amministrazione patrocinata esprima la mera volontà di resistere alla pretesa del privato di cui disconosce la fondatezza, l’invito a stipulare la convenzione non onera l’Avvocatura dello Stato di alcun incombente, perché difetta a monte l’ubi consistam della negoziazione, ossia la volontà transattiva, che è necessariamente rimessa all’Amministrazione patrocinata. Tale accorta applicazione dell’istituto consentirà una selezione delle procedure di negoziazione assistita cui partecipare, così da limitare l’assistenza RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 dell’Avvocatura a quelle negoziazioni soltanto che possano sortire un reale effetto deflattivo del contenzioso. Solo nei casi in cui sussista effettivamente la volontà dell’Amministrazione di addivenire a una soluzione concordata, la presenza dell’Avvocatura dello Stato non può ragionevolmente non ritenersi necessaria per la stipula della convenzione e della transazione, come previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del D.L. n. 132/2014. Da ultimo, va tenuto presente che l’art. 3, R.D. 1611/1933 prevede che: “Innanzi alle preture ed agli uffici di conciliazione le Amministrazioni dello Stato possono, intesa l’Avvocatura dello Stato, essere rappresentate dai propri funzionari che siano per tali riconosciuti”. Dunque, l’Avvocatura dello Stato può valutare, caso per caso, di delegare la rappresentanza nell’ambito della negoziazione assistita direttamente all’Amministrazione. A tale ultimo proposito, si sottolinea che la facoltà di delega di cui all’art. 3 citato consente di affidare all’Amministrazione numerosi incombenti nel- l’ambito della procedura di negoziazione assistita, fatta eccezione per quelli che necessariamente richiedono la presenza di un difensore, ossia -quantomeno -la stipula della convenzione di negoziazione assistita, e la stipula del- l’accordo che compone la controversia, destinato a costituire titolo esecutivo. In relazione a tale ultimo snodo, tra l’altro, la partecipazione necessaria del- l’Avvocatura risulta vieppiù necessaria in quanto può tenere luogo dell’attività prevista dall’art. 13 del R.D. n. 1611/1933 in relazione alle transazioni di cui siano parti le Amministrazioni patrocinate. In via più strettamente operativa, pertanto, andranno osservate le seguenti indicazioni, comunque da valutare ed adattare alle peculiarità dei casi concreti: a) qualora venga notificato all’Avvocatura un invito di una controparte ad una procedura di negoziazione assistita, essa verrà sollecitamente inoltrata all’Amministrazione competente, con espressa richiesta di fornire indicazioni sulla volontà della stessa di accedere alla procedura, significando altresì che, in caso negativo, spetterà alla stessa Amministrazione declinare l’invito della controparte, motivandola appropriatamente per non incorrere nelle conseguenze di cui all’art. 4 del D.L. n. 132/2014; b) qualora l’invito sia stato inoltrato direttamente all’Amministrazione competente, e questa richieda l’assistenza dell’Avvocatura, occorrerà parimenti che l’Amministrazione fornisca indicazioni sulla volontà della stessa di accedere alla procedura, significando altresì che, in caso negativo, spetterà alla stessa declinare l’invito della controparte, motivandola appropriatamente per non incorrere nelle conseguenze di cui all’art. 4 del D.L. n. 132/2014; c) qualora, nei casi di cui alle precedenti lett. a) e b), l’Amministrazione competente manifesti l’intenzione di accedere alla procedura di negoziazione TEMI ISTITUzIONALI assistita, e ferma restando la necessaria presenza dell’Avvocatura per le attività non delegabili ai sensi dell’art. 3 del R.D. n. 1611/1933, unitamente ad un rappresentante dell’Amministrazione idoneamente legittimato, l’Avvocatura concorderà con l’Amministrazione stessa le attività di supporto da accordare al fine della definizione dei contenuti sostanziali dell’accordo, in contraddittorio con la controparte ed il proprio legale. § 3.2 -La procedura di negoziazione assistita deve essere curata dal medesimo difensore che sarà chiamato a difendere la causa nella fase giurisdizionale Inoltre, è necessario considerare quelle ipotesi in cui l’Amministrazione, pur fruendo del patrocinio erariale, può affidare ad avvocati del libero foro alcune controversie. A tale ultimo proposito, è possibile riprendere le considerazioni già formulate da questo Generale Ufficio in punto di negoziazione assistita nel parere n. 146998 del 25 marzo 2015 (AL 45465/2014). In tale occasione si è affermato il principio, cui può essere data continuità, che, per le Amministrazioni con cui sia in vigore un’apposita convenzione relativa al patrocinio in giudizio, è necessario che l’attività di difesa in sede di negoziazione assistita sia svolta “nel rispetto delle stesse e degli stessi principi che regolano il patrocinio legale dell’Ente nel suo complesso”. Dunque, “occorre ritenere che la negoziazione assistita deve essere curata, in via di principio, dallo stesso difensore che sarà poi chiamato a difendere la causa nella fase giurisdizionale”. Pertanto, là dove apposite convenzioni o prassi amministrative consolidate consentano ad alcune Amministrazioni di affidare ad avvocati del libero foro alcune cause attive e passive, in ragione delle loro caratteristiche, sarà possibile trattare al medesimo modo le simmetriche procedure di negoziazione assistita, in quanto queste ultime costituiscono “una fase preliminare dell’iter contenzioso, così da potersi considerare parte dell’intera controversia”. § 3.3 - Liti attive: negoziazione assistita facoltativa Viceversa, per quanto riguarda le liti attive è opportuno distinguere i casi in cui la negoziazione assistita sia obbligatoria, da quelli in cui il tentativo di negoziazione sia rimesso alla libera scelta delle parti. In tale ultima ipotesi, ossia quando il previo tentativo di negoziazione non costituisce condizione di procedibilità della domanda, è opportuno sconsigliare all’Amministrazione di promuovere una procedura di negoziazione facoltativa attraverso l’Avvocatura dello Stato. In tali fattispecie, è infatti possibile raggiungere il medesimo risultato attraverso i contatti tradizionalmente praticati tra l’Amministrazione e i legali delle controparti. Viceversa, l’Avvocatura dello Stato dovrà necessariamente avviare la pro RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO -N. 3/2023 cedura di negoziazione assistita nei casi in cui la stessa dovrebbe agire in giudizio nelle ipotesi di cui all’art. 3 del D.L. n. 132/2014. Infatti, in caso contrario la domanda giudiziale sarebbe improcedibile. Va al riguardo rammentato che l’attuale testo dell’art. 163, comma 3, n. 3-bis), c.p.c. prevede, fra i contenuti della citazione, “l’indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizione di procedibilità, dell’assolvimento degli oneri previsti per il suo superamento”. Non pare percorribile una soluzione interpretativa che distingua le ipotesi delle liti attive da quelle passive, con riguardo alla necessarietà della presenza dell’Avvocatura dello Stato: l’invito alla negoziazione assistita è infatti inoltrato dalla parte “tramite il suo avvocato”. Per prevenire contestazioni in punto di procedibilità, è necessario che l’invito sia sottoscritto direttamente dalla parte (nella persona di un rappresentante dell’Amministrazione idoneamente legittimato), e solo dopo che sia decorso il termine di trenta giorni, senza che la controparte abbia manifestato l’intenzione di accedere alla procedura di negoziazione assistita, sarà possibile esercitare l’azione giudiziale, richiamando nell’atto il verificarsi della condizione di procedibilità. Ad ogni modo, anche a tale scopo l’Avvocatura dello Stato si potrà avvalere della facoltà di delega della rappresentanza all’Amministrazione assistita ai sensi dell’art. 3 del R.D. n. 1611/1933, seppure coi limiti già evidenziati. L’AVVOCATO GENERALE Gabriella PALMIERI SANDULLI ContenziosonazionaLe Rimborso ex art. 18 D.L. 67/1997 in caso di decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione e interrogativi posti dalla sentenza 41/2024 della Corte costituzionale La sentenza 41 del 2024 della Corte costituzionale mi ha suscitato più di un dubbio, laddove legittima una lettura della normativa codicistica che si traduce sostanzialmente in una compressione delle garanzie e dei diritti dell’indagato, fra cui quello di rinunciare alla prescrizione. Mettendo però da parte eventuali osservazioni critiche su questo aspetto, credo che questa sentenza possa stimolare qualche riflessione circa possibili sue refluenze in tema di valutazione del primo dei requisiti richiesti per il rimborso ex art. 18 D.L. 67/1997 (provvedimento che escluda nel merito la responsabilità), laddove il procedimento penale sia stato definito con decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione del reato e sempre che sia stata svolta attività difensiva (es. memorie ex art. 367, interrogatorio; etc.). Il tema posto alla Corte era se il diritto a rinunciare alla prescrizione -al fine di vedere accertata nel merito l’infondatezza delle accuse -potesse riconoscersi anche all’indagato oltre che all’imputato. In particolare, l’incidente di costituzionalità era diretto ad ottenere una pronuncia additiva all’art. 411, co. I bis c.p.p., ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 24 e 11 Cost., nella parte in cui non prevede che in caso di richiesta di archiviazione per prescrizione non sia dato avviso della richiesta all’indagato, così da metterlo in condizione di poter rinunciare alla prescrizione. La questione è stata licenziata negativamente dal Giudice delle leggi, il quale ha ritenuto tale diritto confinato all’imputato e al solo indagato sottoposto a custodia cautelare. Tale negazione -spiega la Corte argomentando dall’art. 335 bis c.p.p. (par. 3.7 e 4 del considerato in diritto) -riposa sull’assunto secondo cui tanto l’iscrizione nel registro 335 c.p.p., quanto la richiesta e la successiva archi rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 viazione sono atti neutri da cui non può derivare alcuna conseguenza pregiudizievole per l’interessato, mancando nel caso una accusa in senso tecnico. Inoltre, maturato il termine di prescrizione, non è consentita alcuna incursione nel merito circa la fondatezza della notitia criminis, stante la disposizione di nuovo conio di cui all’art. 115 bis c.p.p. Ebbene, stando così le cose, credo sia legittimo interrogarsi su quale sia ora il valore da riconoscere in sede di rimborso ad un decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione. La domanda si impone necessariamente visto che un tale decreto -pur continuando a non tradursi in una definizione nel merito degli addebiti mossi presenta sì un valore neutro, il quale però deve precludere una qualunque conseguenza pregiudizievole (non solo alla sua reputazione) per l’interessato, cui non può nemmeno più rimproverarsi di essere rimasto inerte non rinunciando alla prescrizione. Orbene, nulla credo possa dirsi cambiato nel caso in cui il decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione entri comunque nel merito della vicenda escludendo in via incidentale profili di responsabilità, trattandosi di ipotesi non esclusa dal dettato normativo (art. 115 bis c.p.p.). In un tale caso, l’accertamento sebbene incidentale deve ritenersi sufficiente a ritenere integrato il requisito richiesto dall’art. 18, non potendo richiedersi come condizione necessaria una espressa pronuncia nel merito, magari invocando il disposto dell’art. 129, co. II c.p.p. Qualora, infatti, la definizione del procedimento avvenga prima dell’esercizio dell’azione penale non trova applicazione il disposto dell’art. 129, co. II c.p.p., stante il tenore letterale della norma che richiama solo il provvedimento avente veste di “sentenza” (ex multis: sez. Vi, sent. n. 45001 del 26 ottobre 2005, Mastrangelo). Viceversa, mi chiedo come ci si debba comportare laddove invece il decreto di archiviazione prenda semplicemente atto della intervenuta prescrizione. Il dubbio si pone in ragione del fatto che non sarà più possibile motivare, sostenendo la mancata opzione per la rinuncia alla prescrizione da parte del richiedente il rimborso, visto che un tale diritto non è riconosciuto all’indagato. A ciò si aggiunga l’affermazione fatta dalla stessa Corte costituzionale, ossia che un tale provvedimento non possa recare pregiudizio a chi lo subisce. Stando così le cose, ci si può ancora soffermare sul solo dato formale rappresentato dall’assenza di un provvedimento che escluda nel merito la responsabilità del richiedente oppure, al contrario, visto che la Corte -par. 3.8. ultimo cpv -evidenzia come gli elementi raccolti dal P.M. in un indagine sfociata in una archiviazione debbono essere sempre oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili; penali; amministrativi; COnTEnzIOSO nAzIOnALE contabili; disciplinari), sarebbe possibile per noi effettuare una valutazione nel merito, motivando circa la presenza o l’assenza di elementi che avrebbero permesso al giudice di escludere in via incidentale profili di responsabilità? Antonio Trimboli* Corte costituzionale, sentenza 11 marzo 2024 n. 41 -Pres. A.A. Barbera, Red. F. Viganò Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, sul reclamo proposto da D.A.r. S., con ordinanza del 21 novembre 2022. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 21 novembre 2022, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica». 1.1.– Innanzi al rimettente pende reclamo, proposto ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen. nell’interesse di D.A.r. S., avverso il decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha disposto l’archiviazione del procedimento penale aperto nei suoi confronti, richiamando e condividendo le motivazioni contenute nella corrispondente richiesta formulata dal pubblico ministero procedente. Dall’ordinanza di rimessione e dai numerosi documenti prodotti dalla parte nel procedimento innanzi a questa Corte si evince che D.A.r. S. è un magistrato attinto da indagini avviate dalla Procura della repubblica di Lecce in seguito alle dichiarazioni di un imprenditore, che lo aveva accusato di avere percepito rilevanti somme di denaro in cambio della risoluzione, in termini favorevoli allo stesso imprenditore e alla sua famiglia, di una serie di controversie con l’Agenzia delle entrate pendenti innanzi alla commissione tributaria di cui il magistrato era, all’epoca, componente. Avendo appreso da notizie di stampa delle accuse rivolte nei propri confronti dall’imprenditore, il magistrato denunciava quest’ultimo per calunnia. Il 28 settembre 2021 il pubblico ministero procedente nei confronti del magistrato richiedeva al GIP del Tribunale di Lecce l’archiviazione del relativo procedimento penale. In particolare, nella richiesta di archiviazione si affermava che una parte delle accuse concernessero fatti qualificabili come corruzioni in atti giudiziari, che sarebbero stati commessi negli (*) Avvocato dello Stato e Dottore di ricerca in Diritto Pubblico -indirizzo Penale e Procedura Penale presso l’università di roma Tor Vergata. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 anni 2010 e 2011. La ricostruzione dell’imprenditore sarebbe stata suffragata da «molteplici elementi di riscontro documentali», puntualmente elencati nella richiesta di archiviazione; ma l’avvenuto decorso del termine di prescrizione avrebbe escluso «la possibilità di giungere ad una archiviazione con una formula diversa che attinga il merito della vicenda». La restante parte delle accuse riguardavano invece fatti -qualificabili come traffico di influenze illecite e collocati, secondo la ricostruzione dell’imprenditore, nel 2016 -rispetto ai quali, pur a fronte della ritenuta attendibilità dell’accusatore, sarebbero mancati «riscontri oggettivi individualizzanti » ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen., con conseguente impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio rispetto ad essi. Il 29 settembre 2021 il GIP aveva emesso decreto di archiviazione «per le ragioni analiticamente esposte dal p.m. nella sua richiesta, ritenute corrette in fatto e in diritto e, perciò, pienamente condivise» dallo stesso GIP. Conformemente alla disciplina processuale vigente, né la richiesta di archiviazione, né il successivo decreto di archiviazione venivano comunicati all’indagato. Il 27 ottobre 2021 a quest’ultimo era stato invece notificato, nella sua qualità di persona offesa nel relativo procedimento per calunnia nei confronti dell’imprenditore che lo aveva accusato di corruzione in atti giudiziari, l’avviso della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero. Da quella richiesta il magistrato aveva appreso della parallela richiesta di archiviazione che concerneva la propria posizione. Il magistrato, a questo punto, formulava al pubblico ministero e al GIP dichiarazione di rinuncia alla prescrizione per tutti i reati ipotizzati nei propri confronti, chiedendo altresì che non fosse emesso il decreto di archiviazione; ma il 2 novembre 2021 il pubblico ministero gli comunicava il non luogo a provvedere sulla sua istanza, dal momento che il GIP aveva ormai disposto l’archiviazione, con il menzionato provvedimento del 29 settembre 2021. Il 9 novembre 2021 il magistrato, a mezzo del proprio difensore, proponeva reclamo al Tribunale, ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen., avverso il decreto di archiviazione emesso nei propri confronti, assumendone l’illegittimità per violazione del principio del contraddittorio. In particolare, il magistrato si doleva di non essere mai stato posto in condizione di esercitare il proprio diritto a rinunziare alla prescrizione, e dunque a esercitare il proprio «“diritto al processo” e, quindi, alla prova, nell’ambito dell’inalienabile diritto alla difesa, sancito dal- l’art. 24 Cost., in sintonia, peraltro con la presunzione di innocenza, di cui all’art. 27, comma 2, della stessa Carta costituzionale, ed all’art. 6, par. 2, CEDu»; diritto che, a suo avviso, dovrebbe essere esercitabile in ogni stato e grado del giudizio. E ciò anche in relazione al suo concreto interesse a essere giudicato nel merito in ordine alle accuse rivoltegli, suscettibili di produrre grave nocumento alla sua sfera professionale e lavorativa. In conclusione, il reclamante chiedeva l’annullamento parziale del decreto di archiviazione, limitatamente alla statuizione relativa all’intervenuta prescrizione, con riferimento in particolare agli episodi qualificati come corruzione in atti giudiziari. 1.2.– Il giudice del reclamo, rimettente nel procedimento incidentale innanzi a questa Corte, ritiene che il rimedio di cui all’art. 410-bis cod. proc. pen. sia effettivamente funzionale alla tutela del diritto al contraddittorio, ma -contrariamente a quanto assunto dal reclamante -sottolinea come il legislatore lo abbia circoscritto alle nullità ivi tassativamente indicate, che attengono all’osservanza di specifici obblighi stabiliti da altre disposizioni contigue; ciò che escluderebbe ogni possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione. Il rimedio non sarebbe, pertanto, utilizzabile per sanzionare la violazione di un onere informativo non previsto da alcuna norma del codice. COnTEnzIOSO nAzIOnALE 23 Tuttavia, proprio la mancata previsione di tale onere informativo alla persona sottoposta alle indagini in caso di richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione del reato pretermetterebbe, ad avviso del giudice a quo, il diritto dell’indagato a rinunciare alla causa estintiva, e pertanto violerebbe: -l’art. 3 Cost., «creando evidente disparità di trattamento rispetto a chi ben può agevolmente avvalersi del diritto di rinuncia alla prescrizione soltanto perché la maturazione della causa estintiva casualmente coincide con una diversa fase processuale», nonché rispetto alla persona sottoposta alle indagini nei cui confronti venga richiesta l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, che deve essere invece avvisata della richiesta di archiviazione; -l’art. 24, secondo comma, Cost., «in quanto la rinuncia o meno alla prescrizione rientra in una precisa scelta processuale dell’indagato/imputato formulabile in ogni stato e grado del processo ed esplicativa del proprio inviolabile diritto di difesa inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova»; -l’art. 111, commi secondo e terzo, Cost., «attesa l’elusione del contraddittorio con l’indagato necessario ad assicurargli la piena facoltà di esercitare i suoi diritti, tra cui quello alla rinuncia alla prescrizione». Il rimettente richiama in proposito la sentenza n. 111 del 2022 di questa Corte, nonché recenti pronunce della Corte di cassazione (sezione prima penale, sentenza 3 ottobre 2019-4 febbraio 2020, n. 4671; sezione terza penale, sentenza 30 gennaio-25 maggio 2020, n. 15758), a sostegno della tesi secondo cui il principio di ragionevole durata del processo non potrebbe mai andare a discapito dei principi costituzionali di ragionevolezza, di inviolabilità del diritto di difesa e del contraddittorio come elemento costitutivo del giusto processo: principi -questi ultimi -dei quali il diritto a rinunziare alla prescrizione sarebbe a sua volta componente essenziale. Conseguentemente, «la pronuncia di un decreto di archiviazione de plano dichiarativo dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione senza che sia previsto alcun preventivo onere informativo dell’indagato sulla determinazione conclusiva assunta dal Pubblico Ministero e, conseguentemente, alcuna sanzione per la mancata interlocuzione» eliderebbe «in radice ogni possibilità per l’indagato di attivare il proprio diritto a una verifica di merito […] sebbene la legge sancisca la rinunciabilità alla prescrizione in ogni stato e grado del giudizio». Dopo aver rammentato che la rinunciabilità della prescrizione è stata introdotta dalla sentenza n. 275 del 1990 di questa Corte, il rimettente sottolinea che «una facoltà è realmente tale soltanto se si pone il suo titolare nell’effettiva condizione di esercitarla», ciò che non avverrebbe ove la persona sottoposta alle indagini non venga informata della richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione formulata nei propri confronti. un onere informativo della persona sottoposta alle indagini è peraltro già previsto prosegue il rimettente -dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. nell’ipotesi in cui l’archiviazione sia richiesta per particolare tenuità del fatto; ipotesi che costituirebbe «un preciso punto di riferimento, già presente nel sistema legislativo, in grado di orientare l’intervento della Corte costituzionale verso una soluzione non arbitraria», secondo i principi ripetutamente espressi da questa Corte in merito ai limiti del proprio sindacato (sono citate le sentenze n. 185 e n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 236 del 2016). nel caso in esame, «la soluzione normativa che appare più adeguata e congeniale con il sistema vigente» sarebbe per l’appunto «l’estensione della disciplina già stabilita dal legislatore per il caso di richiesta di archiviazione per par rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 ticolare tenuità del fatto anche all’ipotesi di richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione del reato». Ove questa Corte accogliesse tale soluzione, conclude il rimettente, il richiamo all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. «consentirebbe di configurare anche in caso di mancanza del predetto avviso un’ipotesi di nullità del decreto di archiviazione eccepibile con lo strumento del reclamo dinanzi al Tribunale in composizione monocratica». 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. L’interveniente sottolinea anzitutto la diversità della posizione dell’imputato già tratto a giudizio rispetto a quella della persona sottoposta alle indagini in un procedimento nell’ambito del quale venga richiesta l’archiviazione per intervenuta prescrizione; diversità dalla quale discenderebbe la non fondatezza della doglianza di violazione dell’art. 3 Cost. per effetto della mancata previsione di un onere informativo, nei confronti della persona sottoposta alle indagini, relativo alla richiesta medesima. né sarebbe ipotizzabile una violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., dal momento che la mancata informazione della persona sottoposta alle indagini non pregiudicherebbe alcun suo interesse giuridicamente rilevante. In effetti, un pregiudizio sarebbe configurabile soltanto «nell’ipotesi in cui l’indagato deduca uno specifico interesse ad impugnare un decreto di archiviazione fondato sull’intervenuta prescrizione del reato, come nell’ipotesi in cui lo stesso, dopo aver trascorso un periodo di sottoposizione a custodia cautelare in carcere fosse interessato a far valere l’ingiustizia della detenzione preventiva inflittagli per ottenere un indennizzo». «[I]n tale ipotesi» tuttavia -prosegue l’interveniente -«già la normativa vigente anteriormente all’introduzione nell’ordinamento dell’art. 410 bis c.p.p., consentiva all’indagato di impugnare col mezzo di impugnazione allora previsto (ricorso per cassazione) il decreto di archiviazione emesso per prescrizione del reato al fine di consentirgli di esercitare il diritto a rinunciare alla prescrizione» (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 24 aprile -8 giugno 2018, n. 26289). A seguito poi del- l’introduzione dell’art. 410-bis cod. proc. pen., il mezzo di impugnazione che permetterebbe di far valere tale diritto sarebbe costituito dal reclamo proponibile innanzi al tribunale in composizione monocratica. 3.– Il reclamante nel giudizio a quo si è costituito in giudizio, chiedendo l’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, ripercorrendo adesivamente le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e illustrando le ragioni per le quali egli avrebbe interesse a una pronuncia sul merito delle accuse rivoltegli dal denunciante. In particolare, i fatti a lui contestati sarebbero «di natura particolarmente esecrabile ed odiosa per un magistrato del suo rango e frutto di dichiarazioni false e calunniose», rispetto ai quali egli avrebbe un chiaro interesse ad affrontare il giudizio per essere prosciolto nel merito. E ciò anche in relazione ai pregiudizi da lui già subiti in conseguenza delle accuse rivoltegli, per le quali egli avrebbe già subito un procedimento disciplinare che -pur ormai archiviato -avrebbe «conservato l’“ombra” della prescrizione, tanto da essere già stata strumentalizzata in sede di valutazione finalizzata alla assegnazione dell’incarico direttivo» al quale lo stesso reclamante aspirava. In prossimità dell’udienza, la parte ha depositato memoria illustrativa, in cui confuta gli argomenti dell’Avvocatura generale dello Stato, osservando in particolare come il diritto a rinunciare alla prescrizione durante il procedimento non possa dipendere dalla casuale circo COnTEnzIOSO nAzIOnALE stanza che l’interessato venga o meno a conoscenza dello stesso. Piuttosto, ogni cittadino sottoposto a indagini dovrebbe «essere portato a conoscenza del loro esito, anche nel caso di archiviazione per intervenuta prescrizione proprio per evitare la causa di proscioglimento (di rito) ed accedere alla formula di archiviazione che escluda, nel merito, la sussistenza dei fatti ascritti o la loro configurabilità come reato». non potrebbe, infatti, affermarsi «che solo l’imputato subisce pregiudizi per il fatto di essere sottoposto a processo: al contrario, nella grande maggioranza dei casi, è proprio la fase delle indagini preliminari a lasciare “una macchia” indelebile sulla persona dell’indagato», che egli non potrebbe neppure tentare di eliminare, «non sussistendo alcun obbligo di notifica della richiesta di archiviazione per prescrizione nei suoi confronti ed essendo quindi a lui impedito di rinunciare alla prescrizione». D’altra parte -prosegue il reclamante nel giudizio a quo -il pregiudizio da lui subito sarebbe dimostrato dall’utilizzazione del provvedimento di archiviazione da parte della Quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura, in sede di audizione conseguente alla sua domanda di conferimento di un incarico direttivo, come risulta dai relativi verbali e dalla delibera conclusiva allegati alla memoria illustrativa. In tale delibera, osserva la parte, si legge d’altronde che le argomentazioni dell’interessato non sarebbero idonee «in modo incontrovertibile », allo stato, ad «attenuare la gravità del quadro probatorio quale risulta dalla menzionata richiesta di archiviazione (condivisa dal GIP)»; tanto che la Quinta commissione si sarebbe determinata a soprassedere dalla valutazione di tale quadro probatorio solo in conseguenza del reclamo al Tribunale di Lecce proposto dallo stesso interessato avverso il decreto di archiviazione. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica». Dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione si evince che il giudice a quo aspira a una pronuncia additiva, con la quale questa Corte estenda l’obbligo -già ora previsto dalla disposizione censurata -di avvisare la persona sottoposta alle indagini della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, anche alla diversa ipotesi in cui tale archiviazione sia fondata sull’intervenuta prescrizione del reato. L’avviso sarebbe, nell’ottica del rimettente, essenziale per assicurare all’indagato la possibilità di rinunciare alla prescrizione prima che il procedimento sia concluso, e di ottenere così una pronuncia sul merito degli addebiti oggetto del procedimento stesso. La mancata previsione di tale obbligo informativo determinerebbe, secondo il giudice a quo, un vulnus al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., creando una irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato -che ha sempre la possibilità di esercitare il proprio diritto di rinunciare alla prescrizione -e la persona sottoposta alle indagini, la quale potrebbe essere rimasta del tutto ignara sia delle indagini stesse, sia della determinazione del pubblico ministero di chiedere l’archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione; e creerebbe una ulteriore disparità di trattamento rispetto alla situazione dell’indagato nei cui con rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 fronti venga richiesta l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, la quale deve essere avvisata della richiesta di archiviazione. La disciplina vigente risulterebbe altresì incompatibile con l’art. 24, secondo comma, Cost., non assicurando che la persona sottoposta alle indagini sia posta in condizione di rinunciare alla prescrizione, e dunque di esercitare una facoltà che questa Corte, nella sentenza n. 275 del 1990, ha considerato come parte integrante del diritto di difesa. Infine, sarebbe vulnerato il principio del contraddittorio di cui all’art. 111, commi secondo e terzo, Cost., dal momento che la persona sottoposta alle indagini non sarebbe posta in grado di esercitare il proprio diritto a provare la falsità degli addebiti oggetto del procedimento penale. 2.– L’Avvocatura generale dello Stato non solleva alcuna eccezione di inammissibilità. In effetti le questioni, ampiamente argomentate sotto il profilo della non manifesta infondatezza, sono altresì rilevanti per la definizione del giudizio a quo. Il rimettente è investito di un reclamo presentato, ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen., da una persona destinataria di un decreto di archiviazione per prescrizione pronunciato dal GIP, senza che le fosse mai stato dato avviso della relativa richiesta da parte del pubblico ministero. Il giudice a quo rileva che l’art. 410-bis cod. proc. pen. prevede, al comma 1, un elenco tassativo di cause di nullità del decreto di archiviazione, che comprende l’omissione degli avvisi della richiesta di archiviazione prescritti dalla legge, tra cui in particolare l’avviso alla persona sottoposta alle indagini, previsto dal censurato art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., nell’ipotesi in cui il pubblico ministero ritenga che il reato sia di particolare tenuità. nessun avviso è però previsto nel caso in cui l’archiviazione sia richiesta per intervenuta prescrizione del reato. Conseguentemente, il reclamo dovrebbe essere rigettato, non ricorrendo alcuna causa di nullità del decreto di archiviazione. Laddove, invece, questa Corte ritenesse costituzionalmente illegittima la mancata previsione -da parte dello stesso art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. -di un obbligo di avviso anche in questa ipotesi, l’omissione di tale avviso determinerebbe una violazione dello stesso art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., sicché -nel caso concreto -il decreto di archiviazione pronunciato dal GIP dovrebbe essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 410-bis, comma 1, cod. proc. pen. Ciò comporterebbe -in base al successivo comma 4 del medesimo articolo -l’accoglimento del reclamo e la restituzione degli atti al GIP. Esito, questo, che consentirebbe all’interessato -nella prospettiva del rimettente -di esercitare in tempo utile il proprio diritto di rinunciare alla prescrizione. 3.– nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di seguito precisati. 3.1.– Perno della prospettazione del giudice a quo, rispetto a tutti e tre i parametri costituzionali evocati, è l’assunto secondo il quale non solo l’imputato, ma anche la persona sottoposta alle indagini sarebbe titolare di un diritto, di rango costituzionale, a rinunciare alla prescrizione, e a ottenere un giudizio sul merito dei fatti che hanno formato oggetto delle indagini. Tale diritto discenderebbe dal diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nella sua declinazione più specifica del diritto al contraddittorio (art. 111, commi secondo e terzo, Cost.), che garantirebbe alla persona sottoposta a indagini di poter sempre ottenere una «verifica di merito» sulla notitia criminis che ha dato luogo alle indagini preliminari. Questo assunto, solo apparentemente ovvio, merita un attento esame. 3.2.– La sentenza n. 275 del 1990 -superando il proprio precedente rappresentato dalla sentenza n. 202 del 1971 -ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157, cod. pen., COnTEnzIOSO nAzIOnALE nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunciata dal- l’imputato. A tale conclusione questa Corte è pervenuta valorizzando il diritto di difesa del- l’imputato, «inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova» (punto 3 del Considerato in diritto), sulla base in sostanza delle argomentazioni già svolte dalla sentenza n. 175 del 1971, con la quale si era affermata la rinunciabilità dell’amnistia. In quest’ultima sentenza si era in particolare sottolineato che «la rinunzia all’amnistia costituisce esplicazione del diritto di difesa, sembrando chiaro discendere da tale affermazione come in quest’ultimo sia da considerare inclusa non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l’ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale» (punto 8 del Considerato in diritto). Va peraltro sottolineato come tanto la sentenza n. 175 del 1971 in materia di amnistia, quanto la sentenza n. 275 del 1990 relativa alla prescrizione, siano state pronunciate in riferimento a processi penali già instaurati; e come la ratio decidendi di entrambe queste sentenze sia ritagliata proprio su questa ipotesi. Particolarmente eloquente, in proposito, la motivazione della sentenza n. 175 del 1971, in cui si sottolinea che, con l’obbligo per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato «in tutti i giudizi in corso al momento del sopravvenire di un procedimento di amnistia», viene «compromessa irreparabilmente la soddisfazione dell’interesse ad ottenere una sentenza di merito, vincolando invece l’imputato a soggiacere ad una pronuncia di proscioglimento, la quale, appunto perché non scende ad accertare e neppure solo a delibare la fondatezza del- l’accusa […] non conferisce alcuna certezza circa l’effettiva estraneità dell’imputato all’accusa contro di lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto alla piena integrità dell’onore e della reputazione». E ancora, alla riga seguente, il riferimento è alla «rilevanza costituzionalmente protetta dell’interesse di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione di una pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza». «[G]iudizi in corso», «accusa contro di lui promossa», «perseguito penalmente»: tutte le espressioni utilizzate in questa densa motivazione richiamano la situazione di un «imputato» che sia già stato formalmente accusato di un reato in un giudizio. non già quella di chi sia meramente sottoposto a indagini in seguito a una notitia criminis che lo riguardi. La stessa sentenza n. 275 del 1990, pur se motivata in termini assai più sintetici, allude chiaramente alla medesima situazione processuale, allorché afferma, nel capoverso conclusivo della motivazione, che «in presenza della rinuncia alla estinzione, il giudice non potrà dare ad essa immediata applicazione perché il reato non è estinto, e dovrà, perciò, dare ingresso alle prove richieste e pronunciarsi sulla imputazione». Il riferimento è, anche qui, ad un giudizio già incardinato: l’unico contesto, d’altronde, in cui un «giudice» sia tenuto a «dare ingresso alle prove richieste» dall’imputato a proprio discarico. 3.3.– recependo il dispositivo della sentenza n. 275 del 1990, il legislatore del 2005, nel riscrivere l’art. 157 del codice penale, ha espressamente precisato al settimo comma che «[l]a prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato». Ancora una volta, il riferimento testuale è qui soltanto all’imputato, e dunque a colui nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale ai sensi dell’art. 60, comma 1, cod. proc. pen. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Ciò non escluderebbe, in verità, la possibilità di estendere in via ermeneutica alla persona sottoposta alle indagini il diritto di rinunciare alla prescrizione. In effetti, l’art. 61 cod. proc. pen. dispone in via generale che «[i] diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari» (comma 1), e che «[a]lla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito» (comma 2). Tuttavia, l’applicabilità di questa regola generale -dettata con riferimento allo specifico contesto del codice di procedura penale -non può essere considerata automaticamente e necessariamente trasferibile a una regola dettata dal codice penale con riferimento alla prescrizione: istituto di cui è pacifica, nella stessa giurisprudenza di questa Corte, la natura sostanziale anziché processuale (ex multis, sentenze n. 140 del 2021, punto 12 del Considerato in diritto; n. 278 del 2020, punto 9 del Considerato in diritto; n. 115 del 2018, punto 10 del Considerato in diritto). né può essere considerato decisivo, contrariamente a quanto sostenuto nelle proprie memorie e poi in udienza dalla difesa della parte, l’uso dell’avverbio «sempre» da parte dell’art. 157, settimo comma, cod. pen. L’espressione è qui riferita a chi sia già «imputato» ai sensi dell’art. 60 cod. proc. pen.: il quale potrà pertanto -nell’intero arco di tempo che va dall’esercizio dell’azione penale sino al momento in cui il provvedimento che lo riguarda divenga irrevocabile -rinunciare alla prescrizione. Purché, però, abbia già assunto la qualifica di imputato. Il dato normativo non è, dunque, conclusivo in un senso o nell’altro. 3.4.– Quanto alla giurisprudenza penale, il quadro è -se possibile -ancora più sfocato. una ormai remota sentenza, intervenuta all’indomani dell’entrata in vigore del vigente codice di procedura penale, ha negato che la persona sottoposta a indagini abbia il diritto di rinunciare all’amnistia (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 dicembre 1991-4 febbraio 1992, n. 2314), in tal modo confinando il principio espresso dalla sentenza n. 175 del 1971 di questa Corte alla posizione del solo imputato. Sulla stessa scia si è mossa, in materia di rinuncia alla prescrizione, una pronuncia che ha giudicato non fondato un ricorso avverso un decreto di archiviazione per prescrizione, in cui l’interessato si doleva -esattamente come nel caso oggetto del giudizio a quo -di non essere stato posto in grado di rinunciarvi durante le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezione sesta penale, ordinanza 26 ottobre -7 dicembre 2005, n. 45001). una più recente decisione ha invece ritenuto ammissibile e fondato un ricorso contro un decreto di archiviazione per prescrizione relativo a un imputato che vi aveva già espressamente rinunciato durante le indagini (Cass., n. 26289 del 2018): il che logicamente presuppone l’implicito riconoscimento della possibilità, anche per la persona sottoposta alle indagini, di rinunciarvi -nel caso allora in esame, allo scopo di conservare il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione conseguente alla custodia cautelare subita. Diritto che una costante giurisprudenza nega in larga misura, in caso di estinzione del reato per prescrizione, a chi abbia subito un periodo di custodia (sul punto, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2014-20 gennaio 2015, n. 2451; sezione quarta penale, sentenza 15 ottobre -4 novembre 2013, n. 44492). una pronuncia di poco successiva, infine, ha negato che una persona già sottoposta a indagini avesse un «interesse concreto all’instaurazione del contraddittorio» relativamente a un decreto di archiviazione per prescrizione emesso de plano dal GIP, senza che la persona medesima -che peraltro in quel caso non aveva subito alcuna custodia cautelare, né aveva allegato alcun altro pregiudizio discendente dalle indagini -avesse avuto la possibilità di rinunciare alla prescrizione. Infatti, osserva la sentenza, il decreto di archiviazione è «atto concepito COnTEnzIOSO nAzIOnALE dal legislatore come anteriore all’esercizio dell’azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile nella notizia di reato, o l’interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 23 ottobre -15 novembre 2019, n. 46491; in precedenza, nello stesso senso, sezione terza penale, sentenza 17 novembre 2015-12 gennaio 2016, n. 818, e sezione prima penale, sentenza 23 febbraio-18 marzo 1999, n. 1560). La giurisprudenza penale di legittimità non pare, dunque, avere ancora affrontato quanto meno ex professo -la questione, centrale ai fini dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, se alla persona sottoposta alle indagini debba essere riconosciuto in via generale -e dunque, a prescindere dal caso specifico in cui sia stata destinataria di una misura cautelare -quel medesimo diritto di rinunciare alla prescrizione che è pacificamente riconosciuto all’imputato, a valle dell’esercizio dell’azione penale. 3.5.– Questa Corte è pertanto chiamata, per la prima volta, a valutare se i parametri costituzionali evocati dal rimettente -e cioè il diritto alla difesa in giudizio e al contraddittorio, oltre che l’eguaglianza di trattamento tra imputato e indagato -impongano di estendere anche a quest’ultimo il diritto già riconosciuto all’imputato dalla sentenza n. 275 del 1990. 3.6.– In proposito, va anzitutto ribadito come la ratio essenziale delle pronunce di questa Corte con le quali si è riconosciuto all’imputato il diritto costituzionale di rinunciare all’amnistia e alla prescrizione riposi sulla necessità di consentire all’imputato medesimo di tutelare il proprio onore e la propria reputazione contro il pregiudizio rappresentato da un’accusa formalizzata nei suoi confronti. L’imputato deve, in tal caso, essere posto in condizione di difendersi in giudizio contro l’accusa, e in particolare di esercitare il proprio diritto di «difendersi provando» (sentenza n. 318 del 1992, punto 5 del Considerato in diritto, nonché, ex multis, sentenza n. 260 del 2020, punto 7.6. del Considerato in diritto), ossia di addurre prove in giudizio a proprio discarico, oltre che di contestare le prove poste a fondamento dell’accusa. non pare, tuttavia, a questa Corte che tale diritto debba in ogni caso estendersi anche alla fase precedente all’esercizio dell’azione penale. 3.7.– In effetti, la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato che consegue all’acquisizione di una notitia criminis non implica ancora che il pubblico ministero abbia effettuato alcun vaglio, per quanto provvisorio, sulla sua fondatezza: tant’è vero che l’art. 335-bis cod. proc. pen. esclude oggi espressamente qualsiasi effetto pregiudizievole di natura civile o amministrativa per l’interessato in ragione di tale iscrizione, la quale è un atto dovuto una volta che il pubblico ministero abbia ricevuto una notizia di reato attribuita a una persona specifica. Più in generale, l’iscrizione nel registro è -e deve essere considerata -atto “neutro”, dal quale sarebbe affatto indebito far discendere effetti lesivi della reputazione dell’interessato, e che comunque non può in alcun modo essere equiparato ad una “accusa” nei suoi confronti. Parallelamente, il provvedimento di archiviazione, con cui il GIP si limita a disporre la chiusura delle indagini preliminari conformemente alla richiesta del pubblico ministero, costituisce nella sostanza null’altro che un contrarius actus rispetto a quello -l’iscrizione nel registro delle notizie di reato -che determina l’apertura delle indagini preliminari. Se “neutro” è il provvedimento iniziale, altrettanto “neutro” non può che essere il provvedimento conclusivo. Ad ogni effetto giuridico. 3.8.– naturalmente, questa Corte è ben conscia della gravità dei danni che possono essere provocati alla reputazione delle persone -e, a cascata, alla loro vita familiare, sociale, professionale -a seguito della indebita propalazione, in particolare tramite la stampa, internet rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 ei social media, della mera notizia dell’apertura di procedimenti penali nei loro confronti, così come di eventuali provvedimenti di archiviazione che diano comunque conto degli elementi a carico raccolti durante le indagini, pur concludendo poi nel senso della impossibilità di esercitare l’azione penale, per intervenuta prescrizione o per altra delle ragioni indicate dagli artt. 408 e 411 cod. proc. pen. Tuttavia, fermo restando quanto si dirà in ordine al carattere del tutto indebito dei provvedimenti di archiviazione per prescrizione che esprimano valutazioni sulla colpevolezza della persona già sottoposta alle indagini (infra, punto 4.1.), il tema qui in discussione è se i rimedi per la tutela della reputazione dell’interessato debbano, per necessità costituzionale, comprendere anche la rinuncia alla prescrizione, allo scopo di ottenere una pronuncia liberatoria sul merito della notitia criminis. Al riguardo, va sottolineato come l’interessato disponga anzitutto dei mezzi ordinari a difesa della propria reputazione -a cominciare dalla denuncia e/o querela per calunnia e diffamazione aggravata, sino all’azione aquiliana -contro qualsiasi privato che lo abbia ingiustamente accusato di avere commesso un reato, nonché contro ogni indebita utilizzazione, da parte dei media, degli elementi di indagine e dello stesso provvedimento di archiviazione, così da presentare di fatto la persona come colpevole. Inoltre, un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati, dovendosi in particolare assicurare all’interessato le più ampie possibilità di contraddittorio, secondo le regole procedimentali o processuali vigenti nel settore ordina- mentale coinvolto. E ciò tenendo sempre conto che durante le indagini preliminari la persona sottoposta alle indagini ha possibilità assai limitate per esercitare un reale contraddittorio rispetto all’attività di ricerca della prova del pubblico ministero e ai suoi risultati (riassunti o meno che siano in un provvedimento di archiviazione), i quali dunque non potranno sic et simpliciter essere utilizzati in diversi procedimenti senza che l’interessato possa efficacemente contestarli, anche mediante la presentazione di prove contrarie. 3.9.– Tutto ciò posto, questa Corte non ritiene debba riconoscersi in via generale alla persona sottoposta a indagini la titolarità di un diritto costituzionale ad un accertamento negativo su qualsiasi notitia criminis che la riguardi, da realizzare già nello specifico contesto del giudizio penale. un diritto, insomma, che implichi la possibilità di “difendersi provando” contro accuse mai formalizzate dal pubblico ministero. Ove si intendesse ravvisare un tale diritto, occorrerebbe infatti chiarire in quale sede processuale, e innanzi a quale autorità giudiziaria, esso sarebbe destinato ad essere esercitato. Le indagini preliminari, all’evidenza, non sono strutturate dal legislatore come luogo idoneo per esercitare un tale diritto alla prova. La persona sottoposta alle indagini può, certo, compiere indagini difensive attraverso il proprio avvocato; ma non ha alcun mezzo per obbligare il pubblico ministero ad assumere prove a proprio discarico. Il diritto alla prova può, invece, fisiologicamente esercitarsi nell’ambito del processo, in cui si dispiegano tutti i diritti e le garanzie difensive riconosciute all’imputato dal codice di procedura penale, e prima ancora dalla Costituzione. Ma l’imputato, ancora una volta, non ha alcun mezzo per obbligare il pubblico ministero, e poi lo stesso GIP, a provocare l’instaurazione di un processo, al solo fine di poter dimostrare l’infondatezza della notitia criminis. Ed invero -pur nell’ambito di un sistema processuale in cui, per vincolo costituzionale, COnTEnzIOSO nAzIOnALE il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale -la sussistenza dei presupposti di legge per il suo esercizio, nel singolo caso concreto, resta affidata dalla legge vigente alla prudente valutazione dello stesso pubblico ministero, sotto il controllo del GIP, ed eventualmente del giudice dell’udienza preliminare. In particolare, l’art. 408, comma 1, cod. proc. pen., impone al pubblico ministero di valutare se gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari consentano di «formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca»; e di richiedere al GIP l’archiviazione del procedimento nell’ipotesi in cui egli ritenga di escludere tale ragionevole previsione. La ratio della disposizione -che enuncia oggi uno standard più selettivo rispetto a quello, in vigore sino al 2022, imperniato sulla mera sussistenza di «elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio» -sottende la consapevolezza, da parte del legislatore, che il processo penale è una risorsa scarsa, che implica costi ingenti a carico di tutte le persone coinvolte, in termini materiali ed “esistenziali” (sentenza n. 149 del 2022, punto 5.1.1. del Considerato in diritto), oltre che oneri economici importanti per l’intera collettività. una risorsa, dunque, da utilizzare con parsimonia, e che il legislatore ha inteso, non certo irragionevolmente, sottrarre alla disponibilità tanto della persona sottoposta alle indagini, quanto della stessa persona offesa -la quale può soltanto opporsi innanzi al GIP alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero (art. 410 cod. proc. pen.), ma non determinare essa stessa l’esercizio dell’azione penale. 3.10.– Le considerazioni che precedono conducono a escludere che dai parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente discenda, in via generale, il diritto della persona sottoposta alle indagini a rinunciare alla prescrizione. Se, infatti, il diritto a rinunciare alla prescrizione deriva dal diritto di “difendersi provando”, secondo quanto affermato in sostanza dalla giurisprudenza di questa Corte poc’anzi richiamata, il suo riconoscimento già durante le indagini preliminari dovrebbe idealmente accompagnarsi al riconoscimento di un potere dispositivo della persona sottoposta alle indagini di provocare l’instaurazione di un processo, in cui quel diritto possa essere utilmente esercitato. Potere -però -che il sistema processuale vigente non le riconosce, e che non le sarebbe riconosciuto nemmeno laddove le odierne questioni di legittimità costituzionale fossero accolte, posto che al pubblico ministero e poi al GIP residuerebbe sempre la possibilità, rispettivamente, di chiedere l’archiviazione e di archiviare il procedimento, ritenendo non ragionevolmente prevedibile una sentenza di condanna sulla base degli elementi acquisiti nel corso delle indagini. né può ritenersi sussistente alcun vulnus all’art. 3 Cost. in conseguenza del differente trattamento della persona sottoposta alle indagini rispetto all’imputato, quanto al diritto di rinunciare alla prescrizione. La differenza di trattamento si giustifica proprio considerando la loro differente situazione: la prima attinta da una mera notitia criminis, atto “neutro” dal quale non deve -per esplicita indicazione normativa -derivare alcuna conseguenza pregiudizievole; il secondo accusato invece formalmente della commissione di un reato da parte del pubblico ministero, attraverso un atto di esercizio dell’azione penale che è funzionale all’instaurazione di un giudizio, nel quale i suoi diritti difensivi garantiti dalla Costituzione e dal codice di rito potranno pienamente dispiegarsi. né, infine, sussiste una irragionevole disparità di trattamento tra l’ipotesi in cui l’archiviazione è richiesta per prescrizione ovvero per particolare tenuità del fatto. In quest’ultimo caso, infatti, l’interessato potrebbe essere soggetto a un provvedimento di archiviazione a valenza «soltanto parzialmente liberatoria, con la quale si dà pur sempre atto dell’avvenuta commissione di un fatto di reato, ancorché in concreto non punibile per la particolare esiguità del rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 danno o del pericolo cagionato» (sentenza n. 116 del 2023); provvedimento che, peraltro, sarà iscrivibile nel casellario giudiziale. E ciò a differenza di quanto accade nel caso di archiviazione per prescrizione: provvedimento “neutro”, che -come meglio si dirà (infra, punto 4.1.). -deve limitarsi a dare atto dell’avvenuto decorso del tempo necessario a prescrivere, senza esprimere alcuna valutazione sulla effettiva commissione del fatto di reato. 3.11.– In definitiva, il diritto a rinunciare alla prescrizione, che questa Corte ha riconosciuto nella sentenza n. 275 del 1990, deve essere rettamente inteso come diritto a difendersi “nel giudizio” contro un’accusa già formulata dal pubblico ministero, al fine di vedere riconosciuta nel merito l’infondatezza di tale accusa; ma non implica anche che si debba derivare dai principi costituzionali un generale diritto “al giudizio”, ossia un diritto a che sia instaurato un processo nel quale l’interessato sia posto in condizioni di dimostrare l’infondatezza di qualsiasi notitia criminis che lo riguarda. Da ciò deriva, altresì, l’insussistenza di un vincolo costituzionale, al cui riconoscimento mirano le questioni di legittimità costituzionale ora all’esame, nel senso della necessaria previsione di un obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare la persona sottoposta alle indagini della richiesta di archiviazione per prescrizione formulata nei suoi confronti: obbligo che il rimettente fa discendere, per l’appunto, dall’assunto di un diritto dell’indagato a rinunciare alla prescrizione medesima. 3.12.– La conclusione ora raggiunta appare in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che -in particolare -ha in un’occasione negato che fosse stato violato il diritto di accesso a un tribunale stabilito dall’art. 6, paragrafo 1, CEDu in conseguenza dell’impossibilità, per un deputato turco, di rinunciare all’immunità di cui godeva in quanto parlamentare e di ottenere un giudizio sul merito delle accuse formulate nei suoi confronti (Corte EDu, grande camera, sentenza 3 dicembre 2009, Kart contro Turchia); e in un’altra occasione ha escluso, richiamando quel precedente, la violazione del diritto alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDu, in un caso in cui il ricorrente, tra l’altro, si doleva dell’impossibilità di ottenere un giudizio sul merito della propria responsabilità penale, a fronte di un provvedimento di archiviazione delle indagini per amnistia (Corte EDu, sentenza 17 gennaio 2017, Béres e altri contro ungheria). In entrambe le occasioni, la Corte ha sottolineato che «il diritto di ottenere un giudizio in merito a un’accusa penale non è assoluto, in particolare quando non si è verificato alcun effetto dannoso fondamentale e irreversibile in capo alle parti» (Kart contro Turchia, paragrafo 113; Béres e altri contro ungheria, paragrafo 33). 3.13.– L’inesistenza di un generale diritto costituzionale dell’interessato a un accertamento negativo sulla (mera) notitia criminis non esclude, infine, che un diritto a rinunciare alla prescrizione possa invece essere riconosciuto a chi sia stato in concreto attinto, durante le indagini preliminari, da misure limitative dei propri diritti fondamentali, subendo così con le parole della Corte EDu -un pregiudizio rilevante per effetto dell’uso di poteri coercitivi da parte dell’autorità giudiziaria; e ciò sulla base di una (pur provvisoria) valutazione di fondatezza della notitia criminis medesima, da parte del pubblico ministero e dello stesso GIP, secondo i diversi standard richiesti per l’adozione di tali misure. In effetti, come poc’anzi rammentato (supra, 3.4.), la giurisprudenza penale ha riconosciuto tale diritto a chi abbia subito un periodo di custodia cautelare, e abbia pertanto un concreto interesse a rinunciare alla prescrizione. Anche rispetto alle specifiche ipotesi in parola, peraltro, l’introduzione di un obbligo di avviso relativo alle richieste di archiviazione per prescrizione formulate dal pubblico ministero COnTEnzIOSO nAzIOnALE non risulterebbe indispensabile rispetto alla finalità di permettere all’interessato di rinunciarvi, avendo egli necessariamente avuto conoscenza delle indagini nel momento stesso in cui è stato attinto dalla misura coercitiva. 4.– La sostenibilità costituzionale della conclusione che nega, in linea di principio, l’esistenza di un diritto costituzionale a rinunciare alla prescrizione in capo alla persona sottoposta alle indagini riposa sull’assunto secondo cui né dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, né dal provvedimento di archiviazione, debba essere fatta discendere alcuna conseguenza giuridica pregiudizievole per l’interessato (supra, punto 3.7.). Il caso concreto oggetto del giudizio a quo è, però, emblematico di una specifica patologia, rappresentata da una richiesta di archiviazione per prescrizione, le cui argomentazioni sono integralmente fatte proprie dal GIP, nella quale si indugia -prima della constatazione del decorso del termine prescrizionale dal momento di commissione del fatto descritto dalla notitia criminis - in apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis stessa. Simili provvedimenti sono gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona interessata; e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali. 4.1.– richieste o decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, esprimano giudizi sulla colpevolezza dell’interessato, violano in maniera eclatante -oltre che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. -il suo diritto di difesa, inteso anche quale diritto di “difendersi provando”: diritto che è in radice negato dal- l’affermazione, da parte del pubblico ministero o del GIP, del carattere veritiero, o comunque affidabile, degli elementi acquisiti nel corso di un’indagine, senza che sia assicurata all’indagato -che potrebbe anzi essere rimasto del tutto ignaro dell’indagine -alcuna effettiva possibilità di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario. Provvedimenti siffatti risultano, d’altra parte, indebiti anche a fronte della considerazione che, una volta riscontrato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, gli stessi poteri di indagine e di valutazione del pubblico ministero sui fatti oggetto della notitia criminis vengono meno, non operando nella fase delle indagini preliminari né per il pubblico ministero, né per il GIP, l’obbligo di apprezzare -con priorità logica rispetto alla verifica delle cause estintive del reato -l’evidenza dell’innocenza della persona sottoposta alle indagini, come accade invece nell’ambito del giudizio, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, ordinanza n. 45001 del 2005; sezione sesta penale, sentenza 19 ottobre-16 novembre 1990, n. 2702). Infine, richieste o decreti di archiviazione così motivati perdono, per ciò solo, il carattere di “neutralità” che li dovrebbe caratterizzare, e sono in concreto suscettibili di produrre -ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade -gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato, laddove ricorrano i presupposti rispettivamente previsti dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) e dal decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150). 4.2.– Del possibile rimedio contro simili provvedimenti si è ampiamente discusso tra le rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 parti in sede di udienza, anche sulla scorta dei quesiti loro preventivamente posti ai sensi del- l’art. 10, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare il rilievo oggi assunto sul tema dalla direttiva (uE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. L’art. 4, paragrafo 1, di tale direttiva prevede che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, […] le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». Al paragrafo 2 dello stesso art. 4, la direttiva dispone inoltre che «[g]li Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell’obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l’articolo 10». Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, il dovere a carico degli Stati membri di assicurare che «gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva». nel trasporre la direttiva nell’ordinamento italiano, il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, recante «Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (uE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali», ha introdotto nel codice di procedura penale un nuovo art. 115-bis. Tale disposizione prevede un rimedio ad hoc per il caso in cui la persona sottoposta a indagini o l’imputato sia indicata quale colpevole in «provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato», come, per l’appunto, la richiesta o il decreto di archiviazione per prescrizione, in cui l’autorità giudiziaria (salve talune specialissime ipotesi in cui debba contestualmente applicare un provvedimento di confisca obbligatoria: sul punto, sentenza n. 172 del 2023) è semplicemente tenuta a prendere atto dell’avvenuto decorso del tempo e disporre, conseguentemente, l’archiviazione del procedimento penale. 4.3.– Peraltro, anche prima dell’introduzione di tale rimedio -verosimilmente inapplicabile, ratione temporis, nel giudizio a quo -il combinato disposto degli artt. 4 e 10 della direttiva 2016/343/uE, il cui termine di recepimento era fissato al 1° aprile 2018, già conferiva alla persona sottoposta alle indagini un diritto, immediatamente azionabile, a un rimedio effettivo. una risalente sentenza di legittimità aveva, del resto, già ritenuto affetto da abnormità un decreto di prescrizione per amnistia in cui il GIP si era diffuso sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla sussistenza del delitto oggetto della notitia criminis (Cass., n. 1560 del 1999). Tale qualificazione potrebbe in ipotesi attagliarsi anche al caso, strutturalmente identico, in cui un decreto di archiviazione per prescrizione contenga nella sostanza una valutazione di colpevolezza della persona sottoposta a indagini, che il vigente sistema processuale considera invece come contenuto tipico di una sentenza di condanna. Provvedimenti siffatti evidenziano, a ben guardare, una vera e propria deviazione del provvedimento rispetto allo scopo tipico dell’atto, nel senso -più in particolare -di «esercizio di un potere previsto dall’ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge», e perciò di «carenza di potere in concreto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 marzo-22 giugno 2009, n. 25957, nonché, più di recente, ex multis, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-8 gennaio 2021, n. 418), COnTEnzIOSO nAzIOnALE con un effetto di grave vulnus ai diritti costituzionali dell’interessato (per recenti ipotesi in cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto affetto da abnormità il decreto di archiviazione, anche in ragione della lesione del diritto di difesa dell’interessato, si vedano Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 settembre -3 dicembre 2021, n. 44926; sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-3 maggio 2021, n. 16779; sezioni unite penali, sentenze 22 marzo-24 settembre 2018, n. 40984 e 28 novembre 2013-30 gennaio 2014, n. 4319). 4.4.– Se, comunque, l’individuazione del rimedio appropriato in queste ipotesi resta riservata alla valutazione della giurisprudenza di legittimità, questa Corte non può non sottolineare che un adeguato soddisfacimento delle esigenze costituzionali di tutela del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio relativamente a decreti di archiviazione per prescrizione, i quali indebitamente abbiano espresso valutazioni sulla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini, è componente essenziale della sostenibilità costituzionale del delicato bilanciamento tra opposti interessi cristallizzato nel vigente ordinamento processuale. In altre parole, il mancato riconoscimento alla persona sottoposta alle indagini di un diritto a provocare un accertamento negativo della notitia criminis nell’ambito di un giudizio penale non è costituzionalmente illegittimo soltanto in quanto l’ordinamento sia in grado per altra via -di assicurare un rimedio effettivo contro ogni eventuale violazione, da parte dall’autorità giudiziaria, del diritto fondamentale della persona medesima a non essere presentata come colpevole senza avere potuto difendersi e presentare prove a proprio discarico. E tale rimedio non potrebbe comunque essere subordinato alla rinuncia alla prescrizione da parte dell’interessato, nei limiti in cui tale diritto sia in concreto esercitabile. In effetti, la persona sottoposta alle indagini, se non ha in via generale il diritto di rinunciarvi, ha invece il pieno diritto di avvalersi della prescrizione, che è posta a tutela anche del suo soggettivo interesse a essere lasciata in pace dalla pretesa punitiva statale, rimasta inattiva per un rilevante lasso di tempo dalla commissione del fatto a lei attribuito, senza che tale legittima scelta di avvalersi della prescrizione comporti, per l’interessato, la perdita del suo diritto fondamentale a non essere pubblicamente additato come colpevole in assenza di un accertamento giudiziale. 5.– A queste essenziali condizioni, le questioni sollevate debbono essere dichiarate non fondate. PEr QuESTI MOTIVI LA COrTE COSTITuzIOnALE dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Benefici ai superstiti della vittima della criminalità organizzata. La Corte Costituzionale con sentenza 4 luglio 2024 n. 122 dichiara illegittima la presunzione assoluta del “parente o affine entro il quarto grado” La sentenza della Corte costituzionale del 4 luglio 2024, n. 122 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2 quinquies, comma 1, lett. a) del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, convertito dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, la cui rubrica recita “Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata” a mente della quale “i benefici previsti per i superstiti sono concessi a condizione che a) il beneficiario non risulti coniuge, convivente, parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale”, limitatamente alle parole “parente o affine entro il quarto grado”. La presunzione iuris et de iure ostativa alla concessione del beneficio resta quindi solo per il coniuge e per il convivente, ferma restando la necessaria sussistenza dell’altro requisito che “b) il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo dell’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava”. La Corte costituzionale ha ritenuto che “La condizione ostativa, nella sua assolutezza, pregiudica proprio coloro che si siano dissociati dal contesto familiare e, per tale scelta di vita, abbiano sperimentato l’isolamento e perdite dolorose. Così strutturata, la presunzione assoluta si configura come uno stigma per l’appartenenza a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita”. Wally Ferrante (*) Ct. 41966/2023 - Avv. Ferrante AVVOCATurA GEnErALE DELLO STATO ECC.MA COrTE COSTITuzIOnALE r.O. 159/2023 ATTO DI InTErVEnTO (**) del Presidente del Consiglio dei Ministri (C.F. della Presidenza del Consiglio dei Ministri 80188230587) rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587), presso i cui uffici in roma, alla Via dei Portoghesi 12, domicilia ope legis (*) Avvocato dello Stato. (**) Si pubblica l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri. COnTEnzIOSO nAzIOnALE (per il ricevimento degli atti, FAX 06/96514000 e PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it) nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso dalla Corte d’Appello di napoli, con ordinanza del 16 novembre 2023 n. cronol. 3723/2023 (in G.u. 20 dicembre 2023, n. 51) nel giudizio proposto da F.V. e A.L. con ricorso n. r.G. 5488/18 avente ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 quinquies, comma 1, lett. a) del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, convertito dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, recante “misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina” come modificato dall’art. 2, comma 21, L. 15 luglio 2009, n. 94 recante “disposizioni in materia di sicurezza pubblica” per contrasto con gli articoli 3 e 24 Cost. ** ** ** Con ordinanza depositata il 16 novembre 2023, pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 20 dicembre 2023, la Corte d’Appello di napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 quinquies, comma 1, lett. a) del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, convertito dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, la cui rubrica recita “limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata” come modificato dall’art. 2, comma 21, L. 15 luglio 2009, n. 94 -in base al quale “all’articolo 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 2008, n. 186, le parole: «affine o convivente» sono sostituite dalle seguenti: «convivente, parente o affine entro il quarto grado» ” -per violazione dell’art. 3 Cost., ed in particolare del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, e dell’art. 24 Cost., per la lesione del diritto di difesa, nella parte in cui prevede una presunzione iuris et de iure di vicinanza alla criminalità organizzata, associata al mero rapporto di parentela o affinità quale causa ostativa alla fruizione dei benefici di cui alla legge 20 dicembre 1990, n. 302 recante “norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata”. ** ** ** I fatti oggetto del giudizio a quo La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Corte d’Appello di napoli nell’ambito di un giudizio promosso da G.V. e A.L. (e, successivamente al decesso del primo, riassunto da F.V. e A.L.) per il conseguimento dei benefici previsti dalla legge n. 302/1990 e successive modifiche ed integrazioni, in qualità di genitori superstiti di G.V., uccisa dalla camorra a Secondigliano in data 20 novembre 2004 con numerosi colpi d’arma da fuoco. Con sentenza emessa in data 28 dicembre 2008 dalla Corte d’Assise di napoli era stato condannato quale mandante dell’omicidio in questione il Sig. C. di L. capo dell’omonimo clan. Dal rapporto del 23 aprile 2009 della Questura di napoli risultava che all’epoca dei fatti la famiglia della vittima era estranea a contesti camorristici che potessero essere stati la causa scatenante o avere inciso sulla commissione del delitto. Il Ministero dell’Interno chiedeva quindi alla Prefettura di napoli di accertare la sussistenza, in capo agli istanti, dei requisiti soggettivi di cui all’art. 2 quinquies della legge n. 186/2008 modificato dall’art. 2 comma 21 della legge n. 94/2009 -non ancora vigente al tempo della istanza che prescrive, ulteriori condizioni per la concessione dei benefici di legge ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata. Dal rapporto del Comando Provinciale dei Carabinieri del 14 dicembre 2009 emerge rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 vano a carico del Sig. M.V. precedenti penali per emissione di assegni a vuoto nonchè la sottoposizione alla misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio a seguito di varie segnalazioni da parte del personale dei Carabinieri del predetto quale soggetto dedito ad effettuare truffe in danno di anziani. Peraltro da successivi riscontri emergeva anche che il Sig. M.V. si trovava in compagnia di un soggetto pregiudicato per lo stesso reato. Da un successivo rapporto del medesimo Comando dei Carabinieri del 19 febbraio 2010 risultava, poi, che il cugino di M.V., il Sig. G.V., era stato destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per anni 3 inflittagli dal Tribunale di napoli in data 21 dicembre 1996. La Prefettura di napoli, inoltre, con nota del 23 gennaio 2012, sulla base del rapporto del Comando Provinciale dei Carabinieri del 12 gennaio 2012 confermava l’avvenuta donazione, già riferita da articoli di stampa, della somma di euro trecentomila da parte di Cosimo Di Lauro ai familiari di M.V. quale risarcimento per la morte della figlia. nella medesima nota il Prefetto di napoli affermava che non sussistevano i presupposti prescritti dalla normativa vigente per la concessione dei benefici richiesti. Pertanto, con provvedimento n. 37/2009 emesso in data 11 agosto 2014, veniva rigettata la istanza di concessione dei benefici previsti dalla legge n. 302/1990 e successive modifiche ed integrazioni per mancanza dei presupposti previsti dalla normativa di cui all’art. 2 quinquies del D.L. n. 151/2008 convertito dalla legge n. 186/2008 come modificato dall’art. 2, comma 21 della legge n. 94/2009. I Sigg.ri M.V. e A.L., proponevano quindi il giudizio innanzi al Tribunale di napoli volto al conseguimento dei benefici previsti dalla legge n. 302/1990. Il Tribunale, con sentenza n. 7937 del 17 settembre 2018, respingeva la domanda, ritenendo che il rapporto di parentela ed affinità entro il quarto grado tra gli attori e persona destinataria di misura di prevenzione, a prescindere dalla risalenza della misura e dalla prova della frequentazione con i beneficiari, facesse venire meno il presupposto della estraneità ad ambienti e rapporti delinquenziali dei beneficiari. Avverso tale sentenza F.V. e A.L. proponevano appello. Il Ministero dell’Interno si costituiva in giudizio ribadendo che il rigetto della domanda si fondava non solo sul rapporto di parentela con soggetto destinatario di misura di prevenzione ma anche su altri elementi a carico di M.V. che lo facevano ritenere non del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali. ** ** ** La questione di legittimità costituzionale è inammissibile e comunque infondata per i seguenti MOTIVI 1. Sulla rilevanza La questione di legittimità costituzionale investe la previsione di cui all’articolo 2 quinquies, comma 1, lett. a) del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, convertito dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, come modificato dall’art. 2, comma 21, L. 15 luglio 2009, n. 94, la cui rubrica recita “Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata” a mente della quale: 1. Ferme le condizioni stabilite dall’articolo 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302, e successive modificazioni, i benefici previsti per i superstiti sono concessi a condizione che: a) il beneficiario non risulti coniuge, convivente, parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata COnTEnzIOSO nAzIOnALE una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale; b) il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo dell’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava. 2. Il sopravvenuto mutamento delle condizioni previste dagli articoli 1 e 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302, e successive modificazioni, comporta l’interruzione delle erogazioni disposte e la ripetizione integrale delle somme già corrisposte. La citata disposizione richiama la legge 20 ottobre 1990, n. 302 recante “norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata”, il cui art. 1, con rubrica “casi di elargizione”, ai commi 1 e 2, prevede che: “1. A chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, a condizione che il soggetto leso non abbia concorso alla commissione degli atti medesimi ovvero di reati a questi connessi ai sensi dell’articolo 12 del codice di procedura penale, è corrisposta una elargizione fino a euro 200.000, in proporzione alla percentuale di invalidità riscontrata, con riferimento alla capacità lavorativa, in ragione di euro 2.000 per ogni punto percentuale. 2. L’elargizione di cui al comma 1 è altresì corrisposta a chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all’articolo 416-bis del codice penale, a condizione che: a) il soggetto leso non abbia concorso alla commissione del fatto delittuoso lesivo ovvero di reati che con il medesimo siano connessi ai sensi dell’articolo 12 del codice di procedura penale; b) il soggetto leso risulti essere, del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, salvo che si dimostri l’accidentalità del suo coinvolgimento passivo nell’azione criminosa lesiva, ovvero risulti che il medesimo, al tempo dell’evento, si era già dissociato o comunque estraniato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava”. Il successivo art. 4, la cui rubrica recita “elargizione ai superstiti”, dispone che: “1. Ai componenti la famiglia di colui che perda la vita per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi delle azioni od operazioni di cui all’articolo 1 è corrisposta una elargizione complessiva, anche in caso di concorso di più soggetti, di euro 200.000, secondo l’ordine fissato dall’articolo 6 della legge 13 agosto 1980, n. 466, come sostituito dall’art. 2 della legge 4 dicembre 1981, n. 720. 2. L’elargizione di cui al comma 1 è corrisposta altresì a soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi tre anni precedenti l’evento ed ai conviventi more uxorio; detti soggetti sono all’uopo posti, nell’ordine stabilito dal citato articolo 6 della legge 13 agosto 1980, n. 466, dopo i fratelli e le sorelle conviventi a carico”. La norma censurata prevede limiti alla concessione dei benefici previsti dalla legge 20 ottobre 1990, n. 302 nei confronti dei superstiti della vittima di criminalità organizzata, condizionando le provvidenze economiche da concedere a determinati presupposti soggettivi, ossia che il beneficiario non risulti in rapporto di coniugio, convivenza, parentela o affinità entro il quarto grado con soggetti nei cui confronti sia in corso un procedimento per l’appli rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 cazione, o sia applicata, una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, (caso ricorrente nel caso di specie) ovvero di soggetti nei cui confronti sia in corso un procedimento penale per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’articolo 51, comma 3bis, del codice di procedura penale. La ratio della norma sospettata di incostituzionalità -che contempla una presunzione iuris et de iure di vicinanza ai contesti della criminalità organizzata, associata al mero legame di parentela o affinità -è quella di escludere anche il più lontano rischio che i benefici economici possano andare in favore degli stessi ambienti criminali. Secondo l’ordinanza di rimessione, la legittimità di tale rigida presunzione andrebbe valutata alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale ha più volte affermato -principalmente in materia tributaria e di sanzioni amministrative (C. Cost., sentenze 358/1994 e 114/2005) -che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona o un diritto di natura patrimoniale, violano il principio di uguaglianza se arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella nota formula dell’id quod plerumque accidit. Ad avviso del giudice rimettente sarebbe, dunque, lecito dubitare della legittimità costituzionale della norma in commento, atteso che, in base ai dati di comune esperienza, non potrebbe che escludersi la validità di siffatta presunzione, non essendo impossibile che soggetti aventi rapporti di parentela o affinità con appartenenti all’ambiente criminale siano estranei ad esso. Anzi, tale presunzione, non ammettendo prova contraria, risulterebbe tanto più irragionevole in quanto andrebbe a danneggiare i soggetti più meritevoli, cioè coloro che, pur avendo legami familiari con appartenenti alle organizzazioni criminali, se ne siano discostati. Si verrebbe dunque a creare un vulnus rispetto al parametro di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre ad una compromissione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) per coloro che siano intenzionati a dimostrare in concreto la propria estraneità agli ambienti criminali. Ciò premesso, si ritiene che la questione di legittimità costituzionale sia inammissibile per difetto di rilevanza per la decisione del giudizio a quo. Il Tribunale di napoli, infatti, ha ritenuto assorbente, ai fini del rigetto della domanda, l’insussistenza di uno dei due requisiti previsti dal più volte citato art. 2 quinquies, comma 1 ed in particolare quello di cui alla lettera a) relativo all’assenza di rapporto di parentela, convivenza, coniugio o affinità entro il quarto grave con soggetto gravato da misure di prevenzione o da procedimenti penali per uno dei gravi reati di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p. Il provvedimento di rigetto dell’istanza era invece fondato sulla non ricorrenza di entrambi i requisiti di cui al citato art. 2 quinquies, comma 1 e quindi anche di quello di cui alla lettera b) della non totale estraneità del beneficiario ad ambienti e rapporti delinquenziali. nel giudizio di secondo grado, infatti, l’amministrazione ha proposto appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale, evidenziando che il rigetto della domanda si fondava anche sull’insussistenza del requisito della estraneità del beneficiario ad ambienti e rapporti delinquenziali, comprovato anche in considerazione di ulteriori circostanze, oltre al rapporto di parentela con il cugino destinatario di misura di prevenzione, tutte fatte rilevare nel provvedimento reiettivo. Infatti, nella premessa del provvedimento, sulla base delle informazioni investigative, era stato anche evidenziato che lo stesso Sig. M.V. aveva dei precedenti penali per emissione di assegni a vuoto con segnalazione alla banca dati FF.PP., nonché era stato sottoposto in data 4 settembre 2006 alla misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio dal comune di (...) a seguito di varie segnalazioni da parte del personale della stazione dei Ca COnTEnzIOSO nAzIOnALE rabinieri della predetta località, che lo indicavano figurare tra persone sospette, dedite ad effettuare truffe in danno di anziani, oltre che in compagnia di soggetto pregiudicato per tale reato. Altro aspetto posto in rilievo nel procedimento e nel provvedimento reiettivo, è costituito dall’accettazione da parte dei genitori della vittima della somma di euro 300.000, loro consegnata a titolo definito “risarcitorio” brevi manu da C. Di L., condannato quale mandante del- l’omicidio della loro figlia, alla luce del fatto che i predetti, dichiaratisi soddisfatti di tale somma, non si sono più costituiti parte civile nell’ambito del procedimento penale (anche se il giudice remittente dà atto che tale somma risulta essere stata inizialmente rifiutata e poi accettata solo in seguito alla costituzione di parte civile e l’accertamento della provenienza non illecita della stessa). Pertanto, il presupposto che il beneficiario risulti essere non del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali è stato dedotto non solo facendo riferimento al rapporto di parentela tra M.V. e il cugino ma anche in considerazione delle altre evenienze facenti capo direttamente alle persone dei beneficiari. La questione di legittimità costituzionale sollevata non appare quindi dirimente per la decisione del giudizio a quo atteso che il rigetto della domanda è avvenuto non solo sulla base di una presunzione legislativa iuris et de iure ma anche all’esito di una ponderata valutazione di tutte le circostanze che depongono per la non totale estraneità dei beneficiari ad ambienti e rapporti delinquenziali. La questione di legittimità costituzionale è pertanto inammissibile per difetto di rilevanza. 2. Sulla non manifesta infondatezza La questione di legittimità costituzionale è comunque manifestamente infondata. La norma di cui all’art. 2-quinquies, comma l, lett. a) del d.l. n. 151/2008, che è orientata a finalità di ordine pubblico, risulta applicata, per costante giurisprudenza, in base ad una stretta interpretazione, in quanto il mero dato oggettivo del rapporto di coniugio, di convivenza, di parentela o di affinità costituisce un insuperabile ostacolo alla concessione delle provvidenze economiche, a nulla rilevando l’eventuale frequentazione o meno, in concreto, con il parente o l’affine appartenente a un sodalizio criminale. Trattasi, in altri termini, di una presunzione assoluta ma non irragionevole, in quanto espressione dell’esercizio della discrezionalità legislativa nel configurare dei parametri particolarmente rigidi per l’erogazione di benefici economici a favore dei superstiti delle vittime della criminalità organizzata. Come affermato dalla Corte di Cassazione (sez. lavoro, sent. n. 31136/2019, pubblicata il 28 novembre 2019 “sarebbe contrario ai principi fondamentali della Costituzione -a partire da quello di razionalità-equità di cui all’art. 3 Cost., e sarebbe del tutto inconcepibile in uno Stato di diritto manifestare solidarietà, con l’elargizione di speciali provvidenze assistenziali, nei confronti di soggetti non del tutto estranei agli ambienti delinquenziali [...]. Tale conclusione, del resto, risulta implicitamente confermata anche dal sopravvenuto D.L. 151/2008, art. 2-quinquies lett. a), [...] che ha previsto, per i legami di parentela o familiari, una presunzione assoluta di non estraneità all’ambiente criminale, muovendo quindi dal presupposto della sicura inclusione di tali soggetti fra i destinatari della legge, con un’ottica ancor più rigoristica [...]. Tali ultime innovazioni [legislative] sono da configurare come significative manifestazioni dell’intento -dimostrato dal legislatore fin dall’originaria versione della L. n 302 cit. -secondo cui sia per le vittime, sia per i loro familiari e superstiti (come individuati), rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 va considerata in modo rigoroso la necessaria presenza della condizione di totale estraneità alla criminalità organizzata”. L’estraneità agli ambienti della criminalità organizzata deve assumere il necessario carattere della “inequivocabilità”, per cui risulta legittima una presunzione assoluta di vicinanza ai predetti contesti in caso di rapporti di parentela o affinità con soggetti gravati da misure di prevenzione o da procedimenti penali per gravi reati. Il legislatore, dunque, valorizzando ex se, il rapporto di parentela o di affinità con un appartenente alla criminalità organizzata, ha inteso, da un lato, scongiurare il pericolo che, attraverso l’erogazione di denaro pubblico in favore di soggetti inseriti in nuclei familiari a rischio di infiltrazioni mafiose si potesse, anche indirettamente, finanziare la criminalità organizzata e, dall’altro, garantire che le misure solidaristiche previste dalla legge 302/1990 vengano disposte e riservate soltanto in favore di vittime “realmente” innocenti della criminalità, risultate totalmente estranee ad ambienti malavitosi. La sussistenza di parenti e affini controindicati ai sensi della norma oggetto della questione di legittimità costituzionale impone doverosamente di considerare che all’interno del contesto familiare possano sorgere legami di cointeressenza, solidarietà, copertura o, quanto meno, di soggezione o tolleranza. Occorre, infatti, tener conto del fatto che la complessa organizzazione della mafia si caratterizza per una struttura che si fonda e si articola sovente proprio sulla istituzione “famiglia”, sicché non è irragionevole presumere che la presenza all’interno di una famiglia di un parente o di un affine prevenuto o nei cui confronti è in corso uno dei procedimenti per i reati gravi previsti dall’art. 51, comma 3-bis c.p.p., possa determinare l’influenza e il condizionamento dell’associazione anche sugli altri membri della famiglia, pur in assenza di una loro volontà in tal senso (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1743/2016). Per tali motivi, più volte la giurisprudenza di merito ha reputato non fondata la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, per asserita violazione del parametro di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.: in tal senso, C.G.A., regione Siciliana, sentenza n. 385/2014 (all.1), Tribunale di Mantova, sentenza n. 108/2017 del 23 maggio 2017 (all.2), Corte di Appello di Salerno, sentenza n. 1070/2018 (all. 3), Corte di Appello di reggio Calabria, sentenza n. 318/2022 (all. 4). In particolare, il CGArS, nella citata sentenza n. 385/2014, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di cui all’art. 2 quinquies censurato in questa sede, ha osservato che “la disposizione della quale si eccepisce la incostituzionalità, in realtà non appare diversa, per le finalità perseguite, dall’insieme di norme speciali che definiscono l’ordinamento delle misure di prevenzione e di repressione dell’attività mafiosa, e della sua specifica caratura criminale collegata al contesto familiare attraverso cui si esercita. E perciò dichiara di voler escludere da benefici, tipicamente previsti per i familiari di vittime innocenti della mafia, certi soggetti, in quanto componenti (come “conviventi, parenti o affini entro il quarto grado”) per così dire naturali di ‘famiglie’ altrimenti marcate dalla presenza di soggetti mafiosi, il cui contesto di vita potrebbe perciò essere ulteriormente rafforzato in termini patrimoniali e criminali dalla fruizione dei benefici in oggetto”. Analogamente, il Tribunale di Mantova, nella citata sentenza n. 108/2017, nel ritenere conforme ai parametri costituzionali il più volte citato art. 2 quinquies, ha precisato che “il trattamento differenziato appare ragionevole alla luce della ratio delle norme che è quella di evitare che, mediante l’uso di normativa sorta al fine di combattere il fenomeno mafioso, si possa poi giungere in qualche modo a poterlo favorire …. né appare irragionevole che il legislatore, dopo avere scelto di intervenire con provvidenze di carattere economico in favore COnTEnzIOSO nAzIOnALE di particolari soggetti svantaggiati perché superstiti di vittime di atti violenti, detti una disciplina molto rigorosa dei requisiti soggettivi al fine di evitare anche il solo pericolo che le proprie elargizioni possano, come già detto, paradossalmente andare ad alimentare le risorse proprio della criminalità organizzata, che lo Stato, anche con iniziative come queste, intendere combattere”. Anche la Corte d’appello di Salerno, nella citata sentenza n. 1070/2018, ha ritenuto manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità in relazione all’art. 2 quinquies in questione, affermando che “la ratio della norma appare chiaramente volta ad escludere che soggetti appartenenti alla criminalità possano avvantaggiarsi, anche se solo indirettamente, della provvidenza economica riconosciuta alla vittima incolpevole di delitto di stampo mafioso, dovendosi coniugare le varie ipotesi di esclusione con la rigida disposizione relativa ai requisiti soggettivi per accedere all’elargizione speciale. L’ampliamento delle cause di esclusione dai benefici completa le misure di contrasto alla criminalità organizzata introdotte con d.l. 151/2008, convertito nella legge 186/2008, e trova in esse la sua ragion d’essere”. Infine, la Corte di Appello di reggio Calabria, con la citata sentenza n. 318/2022, ha chiarito, sempre in ordine al censurato art. 2 quinquies, che “il legislatore, cui compete in ultima analisi, una scelta discrezionale che obbedisce a criteri di politica legislativa, è tenuto ad osservare il principio di uguaglianza che comporta, comunque, che situazioni dissimili vadano regolate diversamente e senza dubbio spetta al legislatore diversificare fra soggetti del tutto estranei ad ambienti delinquenziali e soggetti che viceversa, siano necessariamente o presumibilmente contigui ad essi, definendo, in relazione alle due categorie, un diverso (e coerente con la ratio legis) trattamento normativo”. La scelta legislativa appare quindi coerente e non irragionevole considerato che la ratio della norma in questione è quella di contemperare l’interesse pubblico ad individuare, salvaguardare e indennizzare le vittime innocenti di atti di criminalità organizzata di tipo mafioso, escludendo al contempo anche il più remoto rischio che i benefici economici possano essere veicolati a favore dei medesimi sodalizi criminali. Tale finalità sarebbe in evidenza vanificata se non si evitasse che dette elargizioni pervengano a favore delle stesse organizzazioni responsabili di simili fatti criminosi. Per tutto quanto sopra dedotto e considerato, il Presidente del Consiglio dei Ministri, come in epigrafe rappresentato, difeso e domiciliato, e con riserva di eventuali ulteriori illustrazioni, COnCLuDE chiedendo che l’Ecc.ma Corte Costituzionale dichiari inammissibile e comunque infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata. (...) roma, 9 gennaio 2024 Wally Ferrante Avvocato dello Stato rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Corte Costituzionale, sentenza 4 luglio 2024 n. 122 -Pres. A.A. Barbera, Red. G. Pitruzzella -Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto- legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dalla Corte d’appello di napoli, nel procedimento instaurato da F.V. e A.L. contro il Ministero dell’interno, ufficio territoriale del Governo di napoli, con ordinanza del 16 novembre 2023. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 16 novembre 2023 (r.o. n. 159 del 2023), la Corte d’appello di napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). 1.1.– La disposizione censurata nega i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata a chi sia «parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale». La Corte d’appello di napoli afferma di dover applicare tale previsione, in considerazione del rapporto di parentela di una parte con un soggetto colpito dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. 1.2.– Ad avviso della Corte rimettente, la preclusione, che condurrebbe al rigetto della domanda, sarebbe irragionevole. Essa poggerebbe su una massima d’esperienza che potrebbe essere agevolmente contraddetta e, per altro verso, rischierebbe di pregiudicare proprio coloro che coraggiosamente si siano dissociati dalle famiglie d’origine e per questo abbiano perso un congiunto. La finalità di evitare che le risorse pubbliche siano distolte a vantaggio di persone legate alla criminalità organizzata sarebbe già soddisfatta con il requisito dell’estraneità a tali ambienti. Il giudice a quo prospetta il contrasto con l’art. 3 Cost. anche in riferimento alla violazione del principio di eguaglianza. La «rigida previsione» dettata dalla legge, peraltro applicabile solo ai superstiti e non al «soggetto direttamente danneggiato», implicherebbe «una vera e propria discriminazione fondata esclusivamente sull’origine familiare». nel precludere ogni prova contraria, la disposizione censurata lederebbe, infine, il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. 2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili o, comunque, non fondate. 2.1.– In linea preliminare, le questioni sollevate dalla Corte d’appello di napoli sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza. COnTEnzIOSO nAzIOnALE Il diniego delle provvidenze non sarebbe giustificato soltanto dalla «presunzione iuris et de iure di vicinanza ai contesti della criminalità organizzata», ma anche da molteplici elementi, che confermerebbero in concreto tale vicinanza. 2.2.– nel merito, le censure del rimettente sarebbero prive di fondamento. La disciplina sottoposta al vaglio di questa Corte si prefiggerebbe di impedire che i sodalizi criminali lucrino i benefici economici concessi dallo Stato, in virtù dei «legami di cointeressenza, solidarietà, copertura o, quanto meno, di soggezione o tolleranza» che si instaurano nel contesto familiare. La scelta discrezionale del legislatore si tradurrebbe, pertanto, in una presunzione «assoluta ma non irragionevole». Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 159 del 2023), la Corte d’appello di napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. 1.1.– L’originaria formulazione, inserita dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, escludeva i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità soltanto per chi fosse «coniuge, affine o convivente» dei soggetti che si trovavano nelle peculiari condizioni definite dalla legge. nessuna esclusione era prevista in rapporto ai parenti. In seguito alle innovazioni apportate dall’art. 2, comma 21, della legge n. 94 del 2009, tale disposizione oggi nega i benefici elargiti ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata non soltanto al coniuge o al convivente, ma anche a chi sia «parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale». Sull’esclusione, applicabile a parenti e affini, si incentrano le censure del rimettente. 1.2.– La condizione ostativa, estesa a un’ampia platea di parenti e affini, a prescindere dal rapporto di frequentazione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. La Corte rimettente denuncia, in primo luogo, la violazione del principio di ragionevolezza. La disposizione censurata si fonderebbe su una massima d’esperienza fallace, che potrebbe essere «sconfessata dalla realtà», in quanto non è «affatto impossibile, né tantomeno difficile, nella realtà, che soggetti che abbiano rapporti di parentela o affinità anche stretta con appartenenti all’ambiente criminale siano estranei ad esso». Così congegnata, la preclusione finirebbe «per danneggiare, senza ragione alcuna, proprio i soggetti più meritevoli, cioè coloro che, pur avendo legami familiari con appartenenti alle organizzazioni criminali, se ne siano discostati e che magari proprio per tale ragione abbiano subito la perdita di un loro caro». né l’esclusione indiscriminata prevista dalla disposizione censurata sarebbe giustificata dall’esigenza di impedire che delle risorse dello Stato profitti la criminalità organizzata. Tale esigenza sarebbe già soddisfatta dal requisito dell’assoluta estraneità agli ambienti delinquenziali. La presunzione assoluta sarebbe lesiva, inoltre, del principio di eguaglianza, in quanto determinerebbe «una vera e propria discriminazione fondata esclusivamente sull’origine fa rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 miliare» e riserverebbe ai parenti della vittima un trattamento deteriore rispetto al «soggetto direttamente danneggiato», viceversa escluso dall’àmbito applicativo della «rigida previsione» di cui si discute. Il giudice a quo ravvisa, infine, la violazione dell’art. 24 Cost. e, a tale riguardo, sostiene che la presunzione assoluta, nel negare ingresso alla prova contraria, comprometta il diritto di difesa. 2.– La difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto carenti di rilevanza. L’eccezione non è fondata. 2.1.– Anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità, la rilevanza postula l’applicabilità della disposizione censurata nel giudizio principale e non si identifica nell’utilità concreta che una pronuncia di accoglimento può apportare alle parti (fra le molte, sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto). È necessario e sufficiente che la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale incida sul percorso argomentativo che il rimettente è chiamato a compiere, quand’anche il tenore della decisione non muti (di recente, sentenza n. 25 del 2024, punto 2.2. del Considerato in diritto). La valutazione di tali presupposti è demandata al giudice a quo e si sottrae al sindacato di questa Corte, ove sia suffragata da una motivazione non implausibile. 2.2.– Il rimettente ha evidenziato che assume priorità logica l’esame della condizione ostativa assoluta, per la sua portata dirimente e per la sua attinenza alla ragione più liquida di decisione. In questo percorso argomentativo, lineare e coerente, solo la declaratoria di illegittimità costituzionale della previsione censurata imporrebbe quell’accertamento in concreto che, nella delibazione compiuta dai giudici d’appello, implica una più articolata indagine, in mancanza di elementi decisivi, idonei prima facie a giustificare il diniego delle provvidenze. Al vaglio compiuto dal giudice a quo l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato contrappone un diverso inquadramento dei dati probatori acquisiti, che esula dal sindacato devoluto a questa Corte e non vale a connotare come implausibile il ragionamento svolto in ordine alla rilevanza. 3.– Le questioni sono fondate. 4.– Il legislatore, con la legge 20 ottobre 1990, n. 302 (norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), ha riconosciuto un’elargizione, oggi determinata nell’ammontare complessivo di euro 200.000,00 (art. 4), ai superstiti di chi perda la vita per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico o di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni mafiose. L’importo è stato così ridefinito, per gli eventi successivi al primo gennaio 2003, dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 28 novembre 2003, n. 337 (Disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all’estero), convertito, con modificazioni, nella legge 24 dicembre 2003, n. 369. Di tali provvidenze beneficiano i «componenti la famiglia» (art. 4, comma 1, della legge n. 302 del 1990) e, dopo i fratelli e le sorelle conviventi a carico, i «soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi tre anni precedenti l’evento» e i «conviventi more uxorio» (art. 4, comma 2, della legge n. 302 del 1990). Il coniuge di cittadinanza italiana o il convivente more uxorio e i parenti a carico entro il COnTEnzIOSO nAzIOnALE secondo grado di cittadinanza italiana possono optare per un assegno vitalizio personale, non reversibile, di ammontare diversamente graduato in ragione del numero dei beneficiari (art. 5 della legge n. 302 del 1990). 5.– Le elargizioni e l’assegno vitalizio attuano la solidarietà della repubblica per le persone colpite negli affetti più cari da episodi di mafia o terrorismo. La finalità solidaristica che permea tali provvidenze è avvalorata dai criteri di attribuzione, svincolati «dalle condizioni economiche e dall’età del soggetto leso o dei soggetti beneficiari e dal diritto al risarcimento del danno agli stessi spettante nei confronti dei responsabili dei fatti delittuosi» (art. 10, comma 1, della legge n. 302 del 1990). 6.– Spetta alla discrezionalità del legislatore il compito di individuare criteri selettivi appropriati, al fine di salvaguardare un impiego oculato delle risorse pubbliche, nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, pietra angolare di quel patto tra lo Stato e i cittadini che le misure di sostegno intervengono a rinsaldare. La connotazione solidaristica delle prestazioni, pur se estranee alla garanzia delle condizioni minime di sussistenza, impone scelte rispettose della parità di trattamento e coerenti con la ratio ispiratrice della disciplina di favore prevista dalla legge. nella delimitazione della platea dei beneficiari, il legislatore ben può enucleare presunzioni assolute di indegnità, purché siano corroborate da massime d’esperienza plausibili e rispecchino l’id quod plerumque accidit. 7.– Da tali criteri si discosta, per molteplici ragioni, la disposizione censurata. 8.– La disciplina dettata dal d.l. n. 151 del 2008, come convertito, si prefigge di evitare che le limitate risorse dello Stato siano sviate dal sostegno delle vittime della mafia e del terrorismo e avvantaggino, per vie indirette, le stesse associazioni criminali che intendono contrastare. La scelta legislativa di prescrivere le verifiche più approfondite nell’attribuzione delle provvidenze si correla, dunque, a una finalità legittima e trae origine dalla considerazione che, nei circuiti criminali e nelle famiglie che attorno ad essi gravitano, sono capillari i legami di mutuo sostegno, di connivenza o di tacita condivisione. 9.– La finalità, pur legittima, è perseguita, tuttavia, con mezzi sproporzionati. La sproporzione si apprezza sotto un duplice versante. 10.– Anzitutto, la legge già prescrive requisiti tassativi e stringenti di meritevolezza. L’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 302 del 1990 sancisce il presupposto della totale estraneità della vittima diretta agli ambienti criminali. L’art. 9-bis della legge n. 302 del 1990, introdotto dall’art. 1, comma 259, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), puntualizza che le condizioni di estraneità alla commissione degli atti terroristici o criminali e agli ambienti delinquenziali «sono richieste, per la concessione dei benefici previsti dalla presente legge, nei confronti di tutti i soggetti destinatari» e, dunque, non soltanto delle vittime dirette. Al fine di fugare ogni dubbio e di scongiurare il rischio di interpretazioni elusive, il legislatore, con l’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, dopo aver introdotto la disposizione censurata nel presente giudizio, ha scelto di subordinare il riconoscimento delle provvidenze ai superstiti alla condizione che «il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo del- l’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava». È dunque immanente al sistema la necessità di una verifica rigorosa della radicale estraneità al contesto criminale. L’estraneità, peraltro, non si esaurisce nella mera condizione di rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 incensurato o, in negativo, nella mancanza di affiliazione alle consorterie criminali, ma postula, in positivo e in senso più pregnante, la prova di una condotta di vita antitetica al codice di comportamento delle organizzazioni malavitose. Su chi rivendica elargizioni o assegni vitalizi, grava l’onere di dimostrare in modo persuasivo l’estraneità, che assurge a elemento costitutivo del diritto, e la carenza di una prova adeguata ridonda a danno di chi reclama le provvidenze. L’assetto delineato dalla legge è già presidiato da accorgimenti e da cautele, che convergono nella necessità di una disamina accurata e conducono, ove permangano dubbi, al rigetto delle domande per difetto di prova dei presupposti normativi. L’esigenza di indirizzare la solidarietà dello Stato verso le persone meritevoli è già assicurata in modo efficace dalla prescrizione di una penetrante verifica giudiziale delle condizioni tipizzate dalla legge e dal rigoroso onere probatorio imposto al beneficiario. 11.– In secondo luogo, si deve rilevare che la presunzione è viziata da un’irragionevolezza intrinseca. 11.1.– La legge conferisce rilievo a rapporti di parentela e di affinità fino al quarto grado, che includono una vasta categoria di persone e si caratterizzano per una diversa, talvolta più tenue, intensità del vincolo familiare. Anche da un punto di vista oggettivo, la presunzione assoluta censurata contempla requisiti di particolare ampiezza: è sufficiente che il parente o l’affine entro il quarto grado sia sottoposto a un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o che a tale misura sia già in concreto assoggettato o che, in alternativa, sia coinvolto in un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale. Tale catalogo, che si è arricchito nel volgere degli anni, annovera fattispecie incriminatrici contraddistinte da un disvalore eterogeneo e disancorate da un comune riferimento al contesto della criminalità terroristica o mafiosa. 11.2.– La latitudine del meccanismo presuntivo consente, pertanto, di ipotizzare in modo agevole che, al rapporto di parentela o di affinità fino al quarto grado, possa non corrispondere alcuna contiguità al circuito criminale. nel tempo presente, anche i vincoli familiari si allentano e non è infrequente che si diradino i rapporti di prossimità che possono dare consistenza, anche in una cerchia più estesa di parenti e affini, alla presunzione assoluta sottoposta al vaglio di questa Corte. 11.3.– A tale profilo di irragionevolezza, che smentisce la rispondenza della presunzione a un solido fondamento empirico, si associa un ulteriore elemento di palese contraddittorietà. La condizione ostativa, nella sua assolutezza, pregiudica proprio coloro che si siano dissociati dal contesto familiare e, per tale scelta di vita, abbiano sperimentato l’isolamento e perdite dolorose. Così strutturata, la presunzione assoluta si configura come uno stigma per l’appartenenza a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita. 12.– La presunzione assoluta vìola anche il diritto di agire e difendersi in giudizio (art. 24 Cost.), impedendo di dimostrare al soggetto interessato, con tutte le garanzie del giusto processo, di meritare appieno i benefici che lo Stato accorda. È la dialettica del processo, con il dispiegarsi del contraddittorio, che consente di ricostruire in maniera completa la storia personale e familiare delle parti e di delineare, al di là di rigidi e penalizzanti meccanismi presuntivi, la specificità di ogni vicenda. In un giudizio che coinvolge le vite dei singoli e gli stessi valori fondamentali della convivenza civile, emerge nitida la necessità di un accertamento esaustivo, che dissipi le ombre COnTEnzIOSO nAzIOnALE e le incertezze e restituisca alla collettività un quadro circostanziato, senza imbrigliare nella rigidità delle presunzioni assolute la ricchezza, multiforme e contraddittoria, del reale. 13.– Sarà il ponderato apprezzamento del giudice a riscontrare, con il metro esigente che la normativa impone, la meritevolezza di chi richiede i benefici, alla stregua delle condizioni fissate, in termini generali, dall’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito. nell’apprezzamento in concreto che il giudice è chiamato a compiere, i vincoli di parentela o di affinità richiedono un vaglio ancor più incisivo sull’assenza di ogni contatto con ambienti delinquenziali, sulla scelta di recidere i legami con la famiglia di appartenenza, su quell’estraneità che presuppone, in termini più netti e radicali, una condotta di vita incompatibile con le logiche e le gerarchie di valori invalse nel mondo criminale. 14.– In conclusione, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, nel testo modificato dall’art. 2, comma 21, della legge n. 94 del 2009, limitatamente alle parole «parente o affine entro il quadro grado». PEr QuESTI MOTIVI LA COrTE COSTITuzIOnALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del de- creto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «parente o affine entro il quarto grado». Così deciso in roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2024. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 La censurabilità in Cassazione del c.d. travisamento della prova: la pronuncia delle sezioni Unite 5 marzo 2024 n. 5792 “Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale” « 1. Con la presente memoria (*), in vista dell’udienza pubblica del 7 novembre 2023, la scrivente difesa erariale intende prendere posizione sulla questione di massima di particolare rilevanza, oggetto di rimessione a codeste Sezioni unite, concernente la censurabilità con il ricorso per cassazione del vizio di c.d. «travisamento della prova». Come è noto, la predetta questione è stata rimessa con ordinanza interlocutoria del 29 marzo 2023, n. 8895 resa nel presente giudizio nonché con la coeva ordinanza interlocutoria del 27 aprile 2023, n. 11111 resa nell’ambito della controversia n.r.g. 28604/2020, per cui è fissata la medesima udienza pubblica del 7 novembre 2023. Le due ordinanze interlocutorie palesano il contrasto giurisprudenziale che il massimo consesso di codesta Suprema Corte è chiamato a comporre. nella visione tradizionale -condivisa dall’ordinanza n. 8895/23 sulla scia di numerosi precedenti -è escluso che il vizio di travisamento della prova possa ricondursi ad alcuna delle censure tipizzate del ricorso per cassazione, ritenendosi l’errore percettivo nel processo civile censurabile unicamente nella sede ed entro i limiti del giudizio per revocazione; ed ostandovi la combinata circostanza secondo cui: a) il vizio di motivazione risulta ormai circoscritto ai soli errori omissivi sul fatto (e qui si discute, invece, di un errore consumato «per commissione»); e b) anche il vizio sul procedimento, per il tramite della violazione all’art. 115 c.p.c., sarebbe incongruo, stante che tale norma, nel sancire il principio secondo il quale il giudice deve decidere secundum iuxta alligata et probata, potrà dirsi violato solo quando il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove effettivamente non dedotte dalle parti (e non invece dedotte, ma «travisate») o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali. (*) Memoria prodotta dalla Avvocatura generale dello Stato nel giudizio iscritto al n. 17679 del 2020, (AL 27459/2020, avv. Stato Emanuele Manzo). COnTEnzIOSO nAzIOnALE Al contrario, l’ordinanza di rimessione del 27 aprile 2023, n. 11111, sulla scorta di precedenti pronunce (numericamente minori, ma non certo sporadiche a partire, almeno, dal 2017), contrasta tale lettura e individua proprio nell’art. 115 c.p.c. la norma la cui violazione è legittimamente riconducibile (anche) alla fattispecie di travisamento della prova, muovendo dal presupposto che tale vizio, sulla falsariga di quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità penalistica, risolvendosi in un errore che cade sul significante, e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova sempre «inesistente». In entrambe le ordinanze, a fronte delle contrapposte ricostruzioni sistematiche, non manca, peraltro, l’esplicitazione delle ragioni di valore addotte a sostegno delle rispettive visioni: da un lato (nell’ordinanza n. 8895/23), il bisogno di preservare la «Corte di legittimità dal rischio (...) di scivolare verso una inconsapevole trasformazione in un tribunale di terza istanza»; dall’altro (nell’ordinanza n. 11111/23), l’estremo «valore della giustizia della decisione» («valore primario del processo») ed il bisogno di non lasciar privo di rimedi un errore «percettivo» sol perché il fatto su cui esso cade sia stato oggetto di contestazione fra le parti, non potendo perciò essere ricondotto alla fattispecie di errore revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c. Detto altrimenti, la questione all’esame di codeste Sezioni unite è destinata ad incidere sul ruolo e la funzione che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione, trattandosi di individuare, alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali, quel corretto punto di equilibrio tra “la salvaguardia rigorosa dei limiti propri del giudizio di cassazione e l’ansia di giustizia del caso concreto che sovente spinge il giudice di legittimità a volersi far carico anche degli aspetti fattuali delle vicende delle quali gli capita di doversi occupare”, ansia che tuttavia -come già autorevolmente sostenuto -“non va rimossa, perché essa resta essenziale alla professionalità di ogni giudice, in qualsiasi grado e funzione, se egli vuole evitare di trasformarsi col tempo in un burocrate della legge” (così r. rOrDOrF, Fatto e diritto nel giudizio di cassazione, in M. ACIErnO, P. CurzIO, A. GIuSTI (a cura di), La Cassazione civile, Bari 2020, 69). *** 2. Ciò premesso, ad avviso di questa difesa la tesi giuridicamente corretta e conforme ai principi costituzionali (artt. 24 e 111 Cost.) e sovranazionali (art. 6 CEDu) è quella prospettata nell’ordinanza n. 11111/23, dovendosi ritenere censurabile, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., l’errore di percezione che sia caduto sul contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che abbia formato oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere di decisività. Soluzione che, come sin da subito giova evidenziare, è condivisa dalla pressoché unanime dottrina processual-civilistica (cfr. I. Pagni, Travisamento rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 della prova, difetto di motivazione ed errore revocatorio, in Riv. Dir. Proc., 2023, 2, 564, a cui è largamente ispirata la stessa ordinanza n. 11111/23; nonché V. CAPASSO, Sul travisamento della prova nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2023, 3, 1253; sebbene in una prospettiva maggiormente problematica, di maggior forza persuasiva dell’ordinanza n. 11111/23 discorre anche G. rAITI, Il travisamento della prova nel processo civile e la sua controversa censurabilità in cassazione, in Riv. Dir. Proc., 2023, 3, 1211). Ciò per le ragioni che di seguito si esporranno. 3. non pare anzitutto condivisibile quanto affermato dall’ordinanza n. 8895/23, laddove si invoca l’impossibilità di distinguere (prendendo in prestito una dicotomia diffusa nella giurisprudenza penale) fra errore sul significante ed errore sul significato ossia fra travisamento «della prova» e travisamento «del fatto», quale criterio discretivo fra errore percettivo e valutativo, al fine di escludere che l’errore percettivo possa trovare ingresso quale censura in sede di legittimità. In disparte ogni considerazione sulla irriducibile diversità del processo penale e di quello civile (su cui v. infra), la giurisprudenza penale esclude il sindacato di legittimità sul travisamento del fatto mentre ammette quello sul travisamento della prova, individuando l’indice differenziale tra le due fattispecie patologiche nella circostanza che solo la seconda non richiede una rivalutazione del compendio probatorio, ma si limita a prendere atto di una indiscutibile difformità tra decisione, esistenza delle prove e risultato di prova. Inoltre, il travisamento della prova, nell’accezione invalsa nella giurisprudenza penale e condivisa dalla dottrina processual-penalistica, è tutt’altro che circoscritto (come invece rileva l’ordinanza n. 8895/23) e si articola a propria volta in tre figure patologiche: a) la mancata valutazione di una prova decisiva (c.d. travisamento per omissione, su cui cfr. Cass. penale sez. VI, 5 febbraio 2020, n. 8610); b) l’utilizzazione di una prova sulla base di un’erronea ricostruzione del relativo “significante” (c.d. travisamento delle risultanze probatorie, su cui cfr. Cass. penale sez. I, 16 maggio 2022, n. 32278); c) l’utilizzazione di una prova non acquisita al processo (c.d. travisamento per invenzione, sui cui cfr. Cass. penale sez. V, 7 maggio 2021, n. 265219). Trasferendo tali considerazioni al processo civile, può dunque ritenersi che ammettere il vizio di travisamento del fatto equivarrebbe ad attribuire al giudice di legittimità il compito (non consentito) di esaminare più atti per interpretarli e coordinarli tra loro con un’operazione di ricostruzione logica e argomentativa, che tipicamente appartiene al merito del giudizio -fatto salvo il caso in cui tale vizio si traduca in una motivazione manifestamente illogica che faccia venir meno il minimo costituzionale di motivazione (come è noto sindacabile per violazione dell’art. 111, comma 6, Cost., degli artt. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e 118 disp. att. c.p.c., ex art. 360 n. 4, c.p.c.); COnTEnzIOSO nAzIOnALE al contrario, il travisamento della prova non implica (come si osserva in dottrina) un’attività di armonizzazione delle prove ovvero di ricostruzione dei fatti, ma impone al giudice una operazione quasi meccanica di raffronto tra testi. Il travisamento della prova integra, analogamente all’ipotesi in cui il giudice abbia posto a fondamento della decisione una prova inesistente, una violazione dell’art. 115 c.p.c., denunciabile ex art. 360, n. 4, come motivo di nullità della sentenza. Come osservano al riguardo i processual-penalisti, con riferimento alla prova travisata o alla prova ignorata “non c’è bisogno di impantanarsi nel fatto, perché si tratta di specifiche informazioni probatorie accertabili ictu oculi” (F.M. IACOVIELLO, Il giudizio di cassazione, in G. SPAnGhEr (diretto da), Trattato di procedura penale, V, Impugnazioni, Torino 2010, 697). 4. In ogni caso, anche a voler ritenere che il travisamento «del fatto» e quello «della prova» introducano una distinzione errata -per come afferma l’ordinanza n. 8895/23 -è comunque ben nota al diritto positivo (e alla giurisprudenza) la distinzione qui cruciale fra errore di «valutazione» ed errore di «percezione» della prova. Ebbene, l’orientamento che condivide la distinzione tra errore sul significante ed errore sul significato non crea affatto un tertium genus di errore, come ritiene l’ordinanza n. 8895/23, tendendo, piuttosto, ad includere il travisamento della prova fra gli errori percettivi, per concludere che un siffatto errore non può restare indenne da censura sol perché vertente su fatto controverso. Partendo proprio da questo dato l’ordinanza n. 11111/23 fornisce una condivisibile, puntuale e rigorosa definizione dell’errore percettivo sindacabile in sede di legittimità. Secondo questa lettura, il travisamento della prova censurabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (demostrandum), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (demostratum), con conseguente assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi oggettivamente risultanti dal materiale probatorio ed inequivocamente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di mera probabilità, ma di assoluta certezza. È del tutto ragionevole predicare l’equivalenza fra un errore così definito con quello revocatorio, sì da doversene ricavare un distinto spazio di censurabilità, non potendosi ritenere che un così grave errore possa essere tout court rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 assimilato a quelli valutativi, e perciò sottratto a qualsiasi censura in sede di legittimità alla luce del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Del resto, l’ordinanza n. 8895/23, a parte l’argomento della non configurabilità di un terzo genere di errore oltre quelli «valutativi» o «percettivi» (argomento, come detto, non pertinente), non sembra apportare ragioni effettive che esplichino il perché un errore percettivo non possa legittimamente concepirsi oltre i limiti di quanto descritto nell’art. 395, n. 4, c.p.c. Gli argomenti portati dall’ordinanza n. 8895/23 si risolvono, infatti, nel richiamo alla pregressa giurisprudenza sulla questione (su entrambe le posizioni in campo) e nel ribadimento del dato sistematico, astrattamente considerato, dell’incensurabilità in cassazione dell’errore valutativo (al quale si ritiene debba ricondursi ogni altro errore che non sia quello revocatorio ex art. 395, n. 4). Per poi specificare di non poter piegare a tale funzione la censura del vizio «sul procedimento» (ex art. 360, n. 4) per violazione dell’art. 115, il quale sarebbe circoscritto alla sola eccezionale evenienza in cui l’errore sul fatto sia generato dall’aver il giudice compiuto l’inferenza istruttoria con riferimento ad un mezzo di prova non dedotto dalle parti (o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali), consumando così un’illegittimità che, secondo la categorizzazione propria alla dottrina processual-penalistica, potrebbe definirsi del travisamento della prova «per invenzione». L’ordinanza n. 8895/23 svaluta invece del tutto il discorso, che pare invece decisivo, intorno alla condizione di non pacificità fra le parti della forza rappresentativa della prova sul fatto preteso oggetto d’errore, limitandosi ad argomentare in ordine all’arbitrarietà della distinzione fra travisamento del «fatto» e travisamento della «prova» ed a ricondurre unicamente alla revocazione la censura per errore «percettivo», sottratta dunque a qualsivoglia censura di legittimità, indipendentemente dalla gravità dell’errore. Diversamente, l’ordinanza n. 11111/23 si fa carico di esporre le ragioni ritenute capaci di giustificare la doverosità del riconoscimento di una censura di travisamento della prova «oltre» l’angusto spazio del rimedio revocatorio. un simile travisamento integra del resto un fraintendimento equivalente a quello revocatorio, poiché parimenti generato da una disfunzione percettiva, sicché già sotto tale profilo appare doveroso riconoscerne una sindacabilità. Il travisamento della prova su fatto contestato esprime infatti un disvalore grave quanto quello sul fatto non contestato e merita perciò un adeguato ed analogo spazio di censurabilità, per quanto «altrove» che in seno alla revocazione. non pare allora ragionevole ritenere che l’espressa affermazione o negazione di un fatto avulso dalla realtà processuale -di per sé sempre frutto di un giudizio, ancorché palesemente errato, sul demonstratum -possa considerarsi diversamente in base al solo dato formale della intervenuta, o meno, discussione delle parti. COnTEnzIOSO nAzIOnALE nell’ordinanza n. 8895/23 la distinzione tra demonstratum e demonstradum è come detto contestata; eppure, il distinguo appare riproporre esattamente -con riferimento alla valutazione della prova -quello già assunto da Cass., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747 onde distinguere ciò che è attività interpretativa della legge (non suscettibile di dar luogo a responsabilità civile del giudice) e ciò che è pura e semplice invenzione della norma, i.e. la distinzione tra significante e significato. né, ove discussione vi sia stata, alla censurabilità dell’errore in cassazione potrebbe opporsi, come vorrebbe l’ordinanza n. 8895/23, l’argomento dell’insindacabilità del giudizio di fatto operato dal giudice di merito: perché, come noto, ove di error in procedendo si tratti, la giurisprudenza di legittimità da sempre riconosce il potere di accedere direttamente agli atti e di sovrapporre la propria interpretazione a quella (eventualmente) fornita dal giudice di merito. 5. Condivisibilmente l’ordinanza n. 11111/2023, dopo aver svolto un’analisi storica sul vizio di motivazione, prestatosi, fino al 2012, ad accogliere tale genere di errori, e poi, come noto, divenuto inidoneo a contenerlo, prende atto che un esito interpretativo che, in ipotesi, escludesse la censura a mente del n. 4, «finirebbe (...) per consolidare un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione, in contrasto con il principio dell’effettività della tutela, qualora essa si fondi sulla ricognizione obbiettiva del contenuto della prova che conduca ad una conclusione irredimibilmente contraddetta, in modo tanto inequivoco quanto decisivo, dalla prova travisata, sui cui le parti hanno avuto modo di discutere». Gli artt. 24 e 111 Cost., come chiarito dalla sentenza della Corte cost. 5 maggio 2021, n. 89, impongono di ritenere passibili di revocazione ex art. 395, n. 4 tutti i provvedimenti decisori, ancorché non «sentenze» in senso formale, quale espressione del canone del giusto processo: ciò in quanto la possibilità di emendare dall’errore percettivo il provvedimento giurisdizionale rappresenta l’irrinunciabile presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Si noti che, quando il fatto abbia costituito un punto controverso nel corso del giudizio nel quale il giudice ebbe a pronunciarsi, il relativo vizio non può pacificamente essere fatto valere come motivo di revocazione; tuttavia, la giurisprudenza di codesta Corte, prima della modifica dell’art. 360, n. 5 c.p.c., era altrettanto pacifica nel ritenere che in tal caso il vizio dovesse poter essere fatto valere nel giudizio di cassazione, come vizio di motivazione. Sicché non vi era spazio alcuno per potenziali vuoti di tutela. non pare allora condivisibile la conclusione cui giunge l’ordinanza n. 8895/23, secondo cui nella vigenza del n. 5 anteriore al 2012 il travisamento poteva dar luogo a ricorso per cassazione come vizio di motivazione mentre oggi tale possibilità sarebbe irrimediabilmente preclusa (dato che il travisamento non può formare oggetto di una omissione): anche in questo caso, in rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 fatti, deve operare il principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui la possibilità di emendare dall’errore percettivo il provvedimento giurisdizionale è presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale. In tal senso depone, come correttamente rileva l’ordinanza n. 11111/23, anche un’interpretazione convenzionalmente orientata (art. 6 CEDu) posto che, applicando i canoni della giurisprudenza della Corte EDu, concludere per l’incensurabilità in Cassazione del travisamento della prova potrebbe costituire un’ipotesi di «inammissibilità non espressamente prevista dalla legge», «non prevedibile con certezza ex ante», né risultante da un orientamento consolidato, e, per tali ragioni, dunque, «irrispettosa di tutti i parametri dettati dalla Corte di Strasburgo in tema di limitazione del diritto di impugnazione » (Corte EDu, sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44, ove ulteriori ed ampi riferimenti ai precedenti conformi; nonché soprattutto sentenza del 28 ottobre 2021, in causa n. 55064/11, Succi c. Italia). una simile interpretazione, in definitiva, rischierebbe di integrare una interferenza non proporzionata e di pregiudicare la sostanza stessa del «diritto» del ricorrente «a un tribunale», con conseguente rischio di condanna dello Stato per violazione dell’art. 6 CEDu, atteso “le restrizioni dell’accesso alle corti di cassazione non possono limitare, attraverso un’interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza”(Succi c. Italia, sopra citata, § 81, Zubac c. Croazia, n. 40160/12, § 98, 5 aprile 2018, Vermeersch c. Belgio, 49652/10, § 79, 16 febbraio 2021, Efstratiou e altri c. Grecia, n. 53221/14, § 43, 19 novembre 2020, Trevisanato, sopra citata, § 38). Del resto, come ancora correttamente rileva l’ordinanza n. 11111/23, ogni diversa soluzione si rivelerebbe pure asistematica, risultando del tutto irragionevole un sistema che, da un lato, non offra tutela alcuna in ogni caso in cui il giudice abbia travisato la prova, e che tuttavia, dall’altro, consenta (paradossalmente) la condanna dello Stato per responsabilità del magistrato ai sensi della legge 13 aprile 1988 n. 117, laddove questi abbia emesso provvedimenti giudiziari in base a quello stesso travisamento (posto che a mente del relativo art. 2 comma 3, costituisce colpa grave addirittura il travisamento del fatto, oltre che delle prove) (1). (1) Come efficacemente evidenziato in dottrina, «il sistema giurisdizionale civile entra in cortocircuito: da un lato, si sbarra l’accesso al controllo logico di congruità, coerenza e completezza del giudizio di fatto in sede di legittimità con i più varii espedienti (il riscritto n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nella lettura subito offerta dalle Sezioni unite nel 2014; la «doppia conforme» ex art. 348-ter, ultimi commi, c.p.c.; gli stringenti requisiti di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c. per ammettere la revocazione per errore di fatto); dall’altro lato, si presta il fianco ad azioni risarcitorie contro lo Stato-giudice per travisamento dei fatti o delle prove o per errore pseudorevocatorio. L’ordinamento consente di esperire ex post e in via risarcitoria contro lo Stato quel rimedio in forma specifica che nega in sede impugnatoria». Ciò che, da un lato, induce a domandarsi «[q]ual mai vantaggio si ottenga nel far questo» (A. TEDOLDI, COnTEnzIOSO nAzIOnALE 6. Giova da ultimo evidenziare che non pare nemmeno condivisibile la suggestione ipotizzata dall’ordinanza n. 8895/23, secondo cui, riconoscendo un sindacato di legittimità sul travisamento della prova a mezzo dell’art. 115 c.p.c., quanto meno nei casi di c.d. doppia conforme “si finirebbe paradossalmente per ammettere, innanzi alle Sezioni civili di questa Corte, un controllo sul giudizio di fatto e sulle prove perfino più ampio di quanto non sia ammissibile in sede penale” (così l’ordinanza n. 8895/23). In primo luogo, ogni confronto tra i due sistemi processuali non pare utilmente predicabile. nel processo penale, in cui è deducibile in Cassazione il vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 606 lett. e) c.p.p. per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione”) ed è specularmente ignoto il rimedio delle revocazione per errore di fatto, la c.d. “doppia conforme” preclusiva alla sindacabilità in Cassazione del vizio di travisamento della prova, codificata all’art. 608, comma 1-bis, c.p.p., riguarda anzitutto le sentenze di proscioglimento ed assolve ad una funzione ben precisa nella prospettiva della presunzione di non colpevolezza. Le ragioni che hanno indotto il legislatore a vietare un nuovo esame in Cassazione delle prove e delle argomentazioni che hanno convinto i giudici del merito ad escludere la responsabilità del- l’imputato, nel caso in cui siano pronunciate due sentenze di proscioglimento di merito, possono ricondursi al principio per cui “non appare neanche in astratto potersi dubitare dell’esistenza di un ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato (verrebbe da dire che si sia raggiunta una ragionevole certezza circa l’innocenza dello stesso)” (così M.M. MOnACO, Riforma Orlando: Come cambia il giudizio di Cassazione, modifiche al Codice penale, Codice di procedura penale, e Ordinamento penitenziario, (a cura di G. SPAn- GhEr), 2017, 284). Per il resto, con riferimento alle sentenze penali di condanna, la preclusione da “doppia conforme” è desunta dalla giurisprudenza in ragione del limite del “devolutum”, sicché il vizio di travisamento della prova è sempre deducibile non solo nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ma anche “quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie” (cfr., ex multis, Cass. pen. 3 dicembre 2020, n. 35963; Cass. pen. 15 giugno 2017, n. 33772; Cass. pen. 18 novembre 2016, n. 7896; Cass. pen. 13 novembre 2013, n. 5615). Profili processuali della responsabilità civile del giudice. II -La legge 117/1988: praticamente disapplicata, farisaicamente novellata, in Giusto proc. civ. 2019, 1010 s.) e, dall’altro, a far sorgere possibili dubbi di legittimità costituzionale del sistema, che così finirebbe per sottrarsi al generale «dovere di coerenza» che grava in primis sul legislatore (F. AuLETTA, Uno stress test per la revocazione, ivi 2020, 90 s.). rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Pertanto, nel processo penale il travisamento non è escluso ex se dalla ricorrenza di una doppia conforme, come parrebbe suggerire l’ordinanza di rimessione n. 8895/23. Il ricorrente, infatti, può liberarsi della «preclusione» dimostrando o che l’argomento probatorio travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione d’appello o -in alternativa -che entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento. Assolto l’onere (come non appare difficile fare anche nel secondo caso, essendo presupposto del travisamento la circostanza che lo stesso emerga ictu oculi), il dato oggettivo della disfunzione di percezione rende possibile il sindacato in sede di legittimità. nel processo civile, in cui peraltro la preclusione da doppia conforme ex art. 360, comma 4, c.p.c. riguarda il solo motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che qui non viene in rilievo per essere il vizio di cui si discorre un tipico error in procedendo deducibile ai sensi del n. 4 c.p.c., appare improprio postulare il rischio di un più penetrante controllo del giudizio in fatto da parte delle Sezioni civili della S.C. stante l’oggettiva diversità dei due sistemi processuali. In ogni caso, anche nel processo civile, in ragione del principio tantum devolutum quantum appellatum, il vizio di travisamento della prova, nei casi di c.d. doppia conforme, sarà in concreto deducibile in sede di legittimità soltanto laddove: -il primo giudice sia incorso nel travisamento delle risultanze probatorie e la questione abbia formato oggetto di specifico motivo di gravame, rigettato dal giudice di appello, il quale sia a sua volta caduto nel medesimo errore percettivo; -il solo giudice di appello sia incappato nel vizio di travisamento delle prove, o perché ha fondato la sua decisione su informazioni probatorie non esaminate dal primo giudice o perché abbia aggiunto argomenti ulteriori e decisivi, sui quali si sia tuttavia consumato l’errore di percezione, per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tale evenienza, secondo la giurisprudenza, si configura comunque una “doppia conforme”: cfr. Cass. 9 marzo 2022, n. 7724). 7. Alla luce di tutte le superiori considerazioni, si chiede a codeste S.u. di affermare il principio di diritto per cui “deve ritenersi consentita, in applicazione delle norme di cui all’art. 115 e 360 n. 4 c.p.c., la facoltà di denunciare la errata percezione (e la conseguente utilizzazione), da parte del giudice di merito, di prove inesistenti, ovvero di prove non solo riferite a fonti mai dedotte in giudizio dalle parti (un testimone mai addotto o escusso; un documento mai depositato agli atti), ma altresì a prove che, pur riferendosi a fatti/fonti appartenenti al processo (uno specifico documento ritualmente depositato, un testimone regolarmente escusso), si sostanziano nella elaborazione di contenuti informativi non riconducibili in alcun modo a dette fonti, neppure in via COnTEnzIOSO nAzIOnALE indiretta o mediata, ossia di informazioni probatorie delle quali risulti preclusa alcuna connessione logico-significativa con le fonti o i mezzi di prova cui il giudice ha viceversa inteso riferirle, sempre che tali prove abbiano, specularmente interpretate, il carattere della decisività ” (così l’ordinanza n. 11111/23, par. 6.1.1.). *** (omissis) roma, 24 ottobre 2023 Emanuele Manzo Avvocato dello Stato » Cassazione civile, sez. Unite, sentenza (ud. 7 novembre 2023) 5 marzo 2024 n. 5792 - Pres. B. Virgilio, Rel. M. Di Marzio (*) (omissis) 9. -Le Sezioni unite sono chiamate a dirimere il conflitto insorto nella giurisprudenza di questa Corte se possa dedursi in sede di legittimità, per il tramite del numero 4 dell’articolo 360 c.p.c., la violazione dell’articolo 115 c.p.c. determinata dall’essere il giudice di merito incorso nel c.d. «travisamento della prova». 9.1. -L’ampia esposizione della tesi sostenuta nell’ordinanza n. 11111 impone di elaborarne un contenuto riepilogo, il quale può riassumersi in ciò, che occorrerebbe distinguere il travisamento del fatto in cui sia caduto il giudice di merito, riconducibile all’area di applicazione dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., in concorso delle condizioni ivi previste, dal travisamento della prova, che ricorrerebbe nel caso in cui il giudice di merito abbia formato il proprio convincimento avvalendosi di una «informazione probatoria» frutto di «errore di percezione del contenuto oggettivo della prova», e cioè abbia adottato una decisione viziata da un errore collocato non già sul versante della valutazione della prova, sottratto al giudizio di legittimità, bensì su quello percettivo: il travisamento, secondo la tesi prospettata, cadrebbe cioè sul «significante» e non sul «significato» della prova, e avrebbe portata percettiva e non valutativa. In questo caso, secondo l’ordinanza, il c.d. «travisamento della prova » sarebbe denunciabile per cassazione ai sensi dell’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione dell’articolo 115 c.p.c., disposizione che, nell’imporre al giudice di porre a fondamento della decisione le prove offerte dalle parti, consentirebbe di censurare anche le decisioni basate su «informazioni probatorie che non esistevano nel processo», alle ulteriori seguenti condizioni: i) il contenuto informativo abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; ii) l’errore abbia carattere decisivo, e cioè tale da aver condotto ad un esito diverso da quello che, in termini di certezza, sarebbe stato raggiunto in assenza del travisamento. 9.2. -La questione del travisamento della prova è stata rimessa dalla Prima Presidente alle (*) Si pubblica la sentenza Cass. Sez. un. del 5 marzo 2024 n. 5792 (ord. rimessione Cass. 11111/2023, Al 40696/2013, avv. Spina) la cui motivazione è integralmente richiamata da Cass. Sez. un. dell’11 aprile 2024 n. 9790 al paragrafo 10.1 (ord. rimessione Cass. 8895/2023, Al 27459/2020, avv. Manzo). rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Sezioni unite anche a seguito dell’ordinanza interlocutoria 29 marzo 2023, n. 8895, nel giudizio iscritto al n. 17679 del 2020, pure esso discusso all’udienza odierna. L’ordinanza ricorda che nel vigore del codice di rito, maggiormente dopo la novella del 1950, ed ancora dopo quella del 2012, la giurisprudenza della Corte, negata per decenni ogni autonomia concettuale del travisamento della prova rispetto al travisamento del fatto, ha costantemente escluso che quest’ultimo potesse essere denunciato nel giudizio di cassazione, salvo non si fosse tradotto, ante novella del 2012, in difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, vizio motivazionale invece non più spendibile dopo quest’ultima. 10. - Il contrasto va composto svolgendo un ragionamento che si snoda come segue. Il travisamento della prova è stato sempre considerato estraneo ai motivi spendibili con il ricorso per cassazione (Par. 10.1., 10.2., 10.3.); esso, che si assume essere un mero «errore di percezione del contenuto oggettivo della prova» (Par. 10.4.), tale, per come prospettato, non è, giacché ricomprende in sé sia il momento dell’errore percettivo del dato probatorio, sia il momento dell’errore, collocato sul piano dell’inferenza logica, nell’identificazione del contenuto informativo desumibile dal dato probatorio (Par. 10.5.); così esposta, la tesi che ammette il ricorso per cassazione per travisamento della prova si risolve nel rovesciamento della scelta legislativa inscritta nella novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., così da pervenire ad un risultato interpretativo che renderebbe l’accesso al ricorso per cassazione ancor più ampio di quanto non fosse prima del 2012 (Par. 10.6., 10.7., 10.8., 10.9., 10.10); la preoccupazione di neutralizzare il rischio che, in assenza della ricorribilità per travisamento della prova, possa cristallizzarsi «un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione» è insussistente (Par. 10.11); resta fermo che l’errore revocatorio ricorre soltanto in caso di svista del giudice nella consultazione degli atti del processo (Par. 10.12.), svista che può avere ad oggetto fatti sostanziali e processuali quale l’avvenuto deposito di documenti (Par. 10.13.); il fatto supposto esistente o inesistente, che non deve aver costituito un punto controverso sul quale il revocando provvedimento si è pronunciato, è il fatto probatorio (Par. 10.14.); ove accada che l’errore percettivo sul fatto probatorio non possa essere intercettato mediante la revocazione, perché controverso ed oggetto di pronuncia, esso costituisce motivo di ricorso ai sensi dei nn. 4 e 5 dell’articolo 360 c.p.c.; argomenti nel senso dell’ammissibilità del sindacato in Cassazione del travisamento della prova non possono trarsi dalla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. 10.1. -un punto fermo da considerare è che il tema del travisamento della prova, e la distinzione di esso dal travisamento del fatto, ha origini assai remote, sicché la sua emersione non può essere collocata nel 2006, con la sentenza n. 12362, come potrebbe desumersi dalla lettura dall’ordinanza n. 11111, che quest’ultima sentenza richiama. A dimostrazione di tale affermazione basterà per ragioni di sintesi trascrivere un breve passo di dottrina: quale cenno alla storia del concetto, e non già quale citazione interdetta dal dettato dell’articolo 118 delle disposizioni di attuazione del c.p.c. Tralasciando i codici preunitari, si legge negli «Elementi di diritto giudiziario civile italiano» del 1878, autore il Mattirolo, secondo una diffusa opinione maggiore processualcivilista del suo tempo, fintanto che non sopraggiunsero il Mortara ed il Chiovenda: «Poniamo: la questione di fatto volge sopra un contratto o sopra un testamento: se questo contratto o testamento presentasse qualche oscurità o doppiezza si riconosce generalmente che l’interpretazione fattane dal giudice del merito non andrebbe soggetta a censura di Cassazione. Parimente, se la sentenza del giudice del merito peccasse per falso supposto, vale a dire fosse il risultato di un errore evidente e involontario dei giudici ... egli è certo che tale sentenza andrebbe soggetta a revocazione, non a COnTEnzIOSO nAzIOnALE cassazione. Ma nulla di tutto ciò: il contratto o il testamento non presenta alcuna oscurità od ambiguità; d’altro canto i giudici del merito non ommisero di esaminare e di apprezzare le singole clausole del contratto o del testamento, ma incorsero in un falso giudizio sul fatto; vale a dire, col pretesto di interpretare ciò che non ha bisogno di interpretazione, di spiegare ciò che è chiaro e manifesto, alterarono il significato naturale delle parti, snaturarono il carattere che apertamente presenta il contratto o il testamento, ed, al concetto, che sorge come una verità evidente, intuitiva dal complesso dell’atto, ne sostituirono arbitrariamente un altro diverso. In questo caso si verifica ciò che i Subalpini chiamarono travisamento, i Napoletani snaturamento del fatto, ed i Siciliani, con voce più generica, eccesso di potere. Si domanda: potrà un tale vizio aprire la via alla cassazione ed essere riparato dalla Corte suprema?». I fautori dell’ammissibilità del ricorso per cassazione -rammentava il Mattirolo -muovevano dall’equiparazione della violazione di legge alla violazione del contratto o del testamento, sulla base dell’allora vigente articolo 1123 c.c., che attribuiva al contratto forza di legge, ed osservavano, sintetizzava ancora lo stesso autore: «Non è forse alla Cassazione che spetta il compito di impedire qualsiasi abuso, qualunque eccesso di potere per parte delle autorità giudiziarie inferiori?». Nihil sub sole novi, si direbbe allora nell’appurare che, oggi, l’ordinanza n. 11111 giustifica l’esigenza di ammettere la sindacabilità per cassazione del travisamento della prova, centocinquant’anni dopo, con un analogo richiamo al «valore della giustizia della decisione» da intendersi quale «valore primario del processo». Ora, non interessa tanto ricordare che, in seguito, il Calamandrei bollerà severamente l’equiparazione alla legge del testamento e del contratto quale «meschino artificio», quanto constatare che, pur ammettendo la denunciabilità per cassazione del travisamento di testamento e contratto, finanche la stessa largheggiante giurisprudenza del tempo negava invece fermamente ogni possibilità di far valere il travisamento della prova: «Il travisamento di fatto non può mai essere proposto come mezzo di cassazione, quando, anziché cadere su un atto contrattuale abbia ad oggetto gli atti del giudizio ed ispecie le prove in causa formate» (Cass. Torino 16 dicembre 1879, tra le molte). Il Mattirolo, per parte sua, stigmatizzata la contraddittorietà dell’orientamento che precede, laddove concepiva il travisamento di contratto e testamento, ma non delle prove -«Ma adunque, in alcuni casi, la Corte suprema constata l’errore evidente di fatto, e lo ripara; in altri, essa si dichiara incompetente, incapace a ripararlo!» -, si schierò, tra gli altri, contro l’ammissibilità, in generale, del ricorso per cassazione per travisamento, sottolineando, anzitutto, la fallacia dell’opinione secondo cui potrebbero darsi atti i quali parlino inconfutabilmente da soli: «Dato che la revisione, per parte della Cassazione, di un giudizio interpretativo erroneo dei tribunali ordinari dipende (come statuisce la dottrina del travisamento) dalla maggiore o minore chiarezza letterale del contratto o del testamento erroneamente interpretato, si apre naturalmente la via alle incertezze ed all’arbitrio, ben sapendosi da chicchessia che ciò che per uno è chiaro ed evidente, ad altri appare dubbio ed oscuro». Il che è poi quanto ribadito decenni dopo da Salvatore Satta, secondo il quale «il travisamento poggiava su un presupposto arbitrario, e cioè che esistano cose chiare, o che esista un fatto distinto dal giudizio di fatto, cioè fuori dalla sola interpretazione giuridicamente rilevante, quella del giudice », ed infine, come si vedrà, con implicita citazione dal Satta, dall’ordinanza n. 8895 del 2023. Sicché, in breve, prevalse l’orientamento seguito dalla Cassazione di roma, secondo cui: «Non possono formar subbietto del ricorso in Cassazione i gravami fondati: a) sopra il travisamento delle clausole di un contratto; b) sopra un errore che si pretende incorso nel de rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 durre presunzioni dalle risultanze di una prova testimoniale, e da fatti stabiliti dagli atti della causa» (Cass. roma 18 ottobre 1877, tra le altre). Andando avanti di un qualche decennio, difatti, la Cassazione del regno, pressappoco un secolo fa, a fronte della denuncia di un vizio consistente nell’avere il giudice di merito male inteso le obiettive risultanze di un accertamento tecnico, osservò -tra gli innumerevoli esempi che potrebbero offrirsi nello stesso senso -che «in queste proposizioni la ricorrente riscontra pria di tutto il travisamento del fatto. Sostiene cioè essersi affermato dal perito, che la broncopolmonite del Grillo non ebbe causa dalla continua aspirazione del pulviscolo del carbone, come dalla Corte s’è ritenuto, ma dal brusco raffreddamento per il passaggio dall’elevata temperatura, che s’irradia dai forni, al gelido ambiente esterno... Ma la ... censura non può dal Supremo Collegio essere attesa, trattandosi della valutazione delle risultanze della perizia, compiuta dai giudici di merito, che non può essere sottoposta a controllo in questa sede. Il Supremo Collegio verrebbe a trasformarsi in giudice di terza istanza ...» (Cass. 3 novembre 1926). Il che è poi esattamente quanto ancor oggi paventa l’ordinanza n. 8895, laddove pone in evidenza l’esigenza di salvaguardare la «Corte di legittimità dal rischio ... di scivolare verso una inconsapevole trasformazione in un tribunale di terza istanza». I pochi richiamati riferimenti non hanno, naturalmente, la pretesa, che del resto non sarebbe decisiva, di offrire una ricostruzione dettagliata degli indirizzi seguiti nel remoto arco temporale considerato, ma di mostrare che il tema del c.d. travisamento della prova ha radici antiche, e che la soluzione qui prescelta si pone in continuità con una inveterata tradizione: il tema del travisamento ha una storia secolare, e sotto forma di travisamento della prova non ha mai, in nessuna occasione, salvo nelle non molte decisioni recenti a seguito delle quali l’ordinanza n. 11111 ha rimesso la questione alle Sezioni unite, varcato la soglia dell’ammissibilità nel giudizio di legittimità, finanche nell’ottica di quella giurisprudenza che, illo tempore, al travisamento un qualche spazio applicativo pur riconosceva. 10.2. - Veniamo all’oggi. La giurisprudenza di questa Corte, in continuità con l’orientamento ricordato, è rimasta ferma per decenni nell’escludere che il travisamento costituisca vizio di legittimità tale da giustificare il ricorso per cassazione, salvo -si diceva prima della novella dell’articolo 360, n. 5, del 2012 -il controllo motivazionale. E cioè: «In sede di legittimità è precluso non solo il riesame delle prove la cui valutazione sia stata fatta in modo difforme da quella prospettata dal ricorrente, ma altresì l’accertamento di un eventuale travisamento delle prove stesse, essendo il controllo possibile solo se tale vizio logico si traduca in una insufficienza di motivazione» (Cass. 16 maggio 1968, n. 1536). Si consideri, a titolo di esempio estremo, che non è stata giudicata ammissibile neppure la censura volta a dimostrare che il giudice di merito avesse errato nel reputare pacifica una circostanza rilevante ai fini del giudizio: le Sezioni unite hanno difatti al riguardo fatto propria la «massima, costantemente ripetuta da questa Corte Suprema, che l’aver dato per pacifico un fatto, che si pretende contestato, non può costituire materia di ricorso per cassazione, anche se l’apprezzamento del giudice sia frutto di travisamento, soccorrendo in tal caso il rimedio della revocazione» (Cass., Sez. un., 30 maggio 1966, n. 1412). Affermazione, questa, in seguito più volte ribadita (Cass. 18 luglio 1966, n. 1947; Cass. 14 gennaio 1967, n. 143; Cass. 31 gennaio 1967, n. 288; Cass. 30 marzo 1967, n. 696; Cass. 6 giugno 1967, n. 1244; Cass. 24 gennaio 1968, n. 197; Cass. 3 maggio 1968, n. 1376; Cass. 14 ottobre 1968, n. 3272; Cass. 29 gennaio 1969, n. 252). E sulla scia si è ripetuto anche di recente che l’apprezzamento del giudice del merito, che COnTEnzIOSO nAzIOnALE abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, può configurare un travisamento, denunciabile solo con istanza di revocazione, ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ove si ricolleghi ad una valutazione ed interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti (Cass. 14 novembre 2012, n. 19921; Cass. 14 marzo 2016, n. 4893; con la precisazione che non interessa qui approfondire, per il discorso che si va facendo, se tale indirizzo sia ancora attuale, con specifico riguardo al problema della verifica della non contestazione, dopo Cass., Sez. un., 22 maggio 2012, n. 8078). Prendendo, ancora ad esempio, un caso riconducibile al c.d. travisamento per omissione, questa Corte ha giudicato la denuncia del vizio «inammissibile sia che lo si configuri come errore revocatorio, sia come vizio di motivazione su punto decisivo della controversia. Occorre premettere, secondo il costante orientamento di questa Corte, che il vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che questi, percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo di modo che l’omissione si risolve in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in maniera insufficiente o illogica. Invece se l’omessa valutazione dipende da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice ritiene per una svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, inesistente un fatto o un documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto, deducibile esclusivamente con impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c. Quest’ultimo sembra il caso di specie...» (Cass. 27 luglio 2005, n. 15672). In breve, se il travisamento è frutto di un errore di percezione, soccorre la revocazione, se il travisamento è frutto di un errore di giudizio, esso rileva quale vizio motivazionale, ante novella del 2012, donde il principio, formulato nel vigore del testo dell’articolo 360 c.p.c. del- l’epoca, secondo cui il travisamento dei fatti non può «costituire motivo di censura in sede di legittimità se non si risolve in omessa, deficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia » (Cass. 5 luglio 1971, n. 2093). 10.3. -Eccettuata l’ordinanza n. 11111, ed alcuni altri precedenti, siamo dunque dinanzi ad un granitico, come si usa dire in questi casi, orientamento che esclude l’ammissibilità del ricorso per cassazione civile per travisamento della prova. naturalmente il radicamento di un orientamento giurisprudenziale nella tradizione non esclude che possa essere prima o poi rivisitato: ma, certo, è lecito attendersi che un simile mutamento di rotta, tale da condurre all’accantonamento di un indirizzo rimasto fermo per così tanto tempo, abbia una qualche consistente giustificazione, giustificazione che viceversa come si dirà manca. nondimeno, occorre essere realisticamente consapevoli, ad oggi, che la tensione tra la giurisprudenza largamente dominante, che esclude la denunciabilità per cassazione del c.d. travisamento della prova, e l’opinione dissenziente manifestata nell’ordinanza n. 11111, ha un fondamento che riflette un diverso modo di intendere il giudizio di cassazione e l’ambito del sindacato di legittimità. 10.4. -Secondo l’ordinanza n. 8895, in adesione all’orientamento tradizionale, delle due l’una: o il c.d. travisamento della prova è il prodotto di un errore percettivo del giudice, ed allora il rimedio è la revocazione, o è il prodotto di un errore valutativo, ed allora non v’è rimedio (né rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 in sede di revocazione né) in sede di legittimità. Viceversa, secondo l’ordinanza n. 11111 il c.d. travisamento della prova andrebbe a collocarsi in uno spazio logico che non è né quello dell’errore percettivo destinato ad essere intercettato dalla revocazione, nella delimitazione dell’ambito di applicabilità di questa che l’ordinanza stessa accoglie, né quello dell’errore valutativo sottratto al giudizio di legittimità: si ipotizza trattarsi di un errore percettivo -un «errore di percezione del contenuto oggettivo della prova» -denunciabile in Cassazione ai sensi dell’articolo 115 c.p.c., per il tramite dell’articolo 360, n. 4, c.p.c., giacché il giudice incorrerebbe in violazione della norma sulla disponibilità delle prove (non solo nei casi espressamente contemplati dalla disposizione, ma anche) quando pone a fondamento della decisione non «prove proposte dalle parti», ma prove che nel processo non hanno riscontro, non esistono affatto. Si tratterebbe insomma, dice l’ordinanza n. 11111, assumendo di mutuare l’affermazione dal settore penale, di un «errore revocatorio che però consente il ricorso al giudice di legittimità»: un errore revocatorio che non ricadrebbe entro l’ambito di applicazione dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., bensì dell’articolo 360, n. 4, in relazione all’articolo 115 dello stesso codice. 10.5. - Di cosa parliamo quando parliamo di travisamento della prova? In adesione all’orientamento patrocinato dall’ordinanza n. 11111, si è prospettato in dottrina l’esempio del giudice che, dinanzi ad una fotografia che ritrae un’automobile, affermi che essa riproduce invece un fiume. Ora, se il problema che abbiamo dinanzi dovesse davvero porsi solo e soltanto nel caso in cui il giudice, osservando la fotografia di un’automobile, o volendo utilizzare un paio di ulteriori paradossali esempi extragiuridici facili a riconoscere di un lupo, o di una donna, vi intravvedesse rispettivamente un fiume, una persona anziana od un cappello, la cosa non desterebbe grande interesse per la giurisprudenza, semmai a scelta per l’oculista o lo psichiatra, dal momento che simili «travisamenti» sono in realtà sconosciuti ai repertori. Più convenzionali sono gli esempi di «errore di percezione del contenuto oggettivo della prova» che si rinvengono nell’ordinanza n. 11111: il c.d. travisamento per invenzione, nei casi della decisione fondata su una testimonianza non mai raccolta o su un documento non mai prodotto, ed il c.d. travisamento delle risultanze probatorie in senso proprio, nel caso di dati probatori effettivamente acquisiti al processo, che il giudice legga malamente. Bisogna aggiungere che, nella tassonomia del travisamento della prova, elaborata con maggiore approfondimento dalla Cassazione penale, viene generalmente considerata una terza ipotesi: oltre a quello appena indicato come travisamento delle risultanze probatorie in senso proprio, ed al travisamento per invenzione, la mancata valutazione di una prova decisiva, c.d. travisamento per omissione (p. es. Cass. pen. 8 luglio 2022, n. 26455). Qui, non solo in considerazione del concreto atteggiarsi della controversia esaminata dall’ordinanza n. 11111, ma anche perché le altre due figure di travisamento della prova non destano soverchie difficoltà di disciplina, occorre soffermarsi sul travisamento della prova in senso proprio. A tal riguardo l’aporia su cui si fonda la tesi sostenuta dall’ordinanza n. 11111 è palese. Essa discorre infatti di «informazione probatoria» scaturita da un «errore di percezione del contenuto oggettivo della prova», ma anche di dato probatorio dal quale il giudice abbia tratto informazioni probatorie «che non si lasciano in alcun modo ricondurre ... alla fonte»: ora, il punto è che si tratta di casi diversi, giacché da un lato vi è quello, tradizionale, del deficit di comprensione sensoriale del giudice, dall’altro lato il deficit «nell’elaborazione di contenuti informativi che non si lasciano in alcun modo ricondurre, neppure in via indiretta o mediata, alla fonte alla quale il giudice di merito ha viceversa inteso riferirle». COnTEnzIOSO nAzIOnALE L’ordinanza discorre ad entrambi i riguardi di deformazione, alterazione, fraintendimento del contenuto oggettivo della prova, a voler intendere che la rilevazione del travisamento della prova in senso proprio richiederebbe in ogni caso un’attività di semplice constatazione del diremmo -tangibile, palpabile disallineamento tra ciò che la prova dice e ciò che il giudice vi ha letto. Ma, così costruita, la nozione di travisamento della prova in senso proprio manifesta invece una natura ancipite, giacché agglomera in sé due distinti momenti cognitivi, collocati su piani giuridicamente diversi, quello della percezione e quello della valutazione: e cioè, nell’ambito dell’attività ricognitiva «del contenuto oggettivo della prova», la tesi estensiva fa sì confluire il momento identificativo del significante dell’elemento di prova, ma vi fa confluire parimenti il momento volto a stabilire quali informazioni siano ricavabili da una data fonte, ed in base a quale percorso logico-argomentativo: il che è del resto riconosciuto dal- l’ordinanza n. 11111, laddove essa afferma, come si è visto, che il travisamento della prova ricorrerebbe a fronte della «assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre». Il travisamento della prova, insomma, si dilata ben al di là della semplice percezione del significante: esso non consta soltanto dell’errore nella mera percezione del dato probatorio fermo nella sua oggettività, ma si estende all’individuazione, per via di inferenza logica, del contenuto informativo che dal significante si stima potersi desumere. Questo è, al fondo, il proprium dell’indirizzo: intendere come errore revocatorio anche il fraintendimento in ordine al contenuto informativo ricavabile dal dato probatorio, il che suscita il quesito se il qualificare un simile errore come percettivo abbia un fondamento sistematico. Ora, se si dovesse ragionare dal punto di vista dell’epistemologia o delle neuroscienze, la stessa distinzione tra un momento percettivo ed uno valutativo nella formazione di una falsa rappresentazione della realtà potrebbe entrare in crisi, basterebbe citare il celebre motto secondo cui «non esistono fatti ma solo interpretazioni»: ma qui occorre stare semplicemente al dato normativo, che distingue con nettezza tra percezione e valutazione, ed identifica l’errore percettivo, come si tornerà a dire tra breve, in nient’altro che in una mera svista rilevabile ictu oculi. Ebbene, a fronte di simile costruzione, le Sezioni unite giudicano tuttora risolutiva l’obiezione contenuta nell’ordinanza n. 8895, la quale, come si è visto, non è altro che la riproposizione di un argomento la cui forza è testimoniata dall’impiego fattone nel corso del tempo, senza che esso argomento sia andato incontro a confutazioni tali da inficiarne il valore: intanto l’individuazione del contenuto informativo ricavabile dal dato probatorio potrebbe dirsi riconducibile ad un approccio semplicemente percettivo, e non valutativo, in quanto potessero concepirsi «prove chiare», prove riguardo alle quali -potrebbe dirsi -neppure sia predicabile alcuna cesura tra significante e significato; è al prezzo di simile contraddizione in termini che si pretenderebbe di dare ingresso, nel processo, al «fatto» distinto dal giudizio di fatto, al di fuori cioè della sola interpretazione giuridicamente rilevante delle prove volta ad individuare quali siano i contenuti informativi che la prova veicola. un esempio liberamente concepito adattando un episodio di cronaca di molti anni addietro dovrebbe essere utile: immaginiamo che, in una causa di risarcimento del danno da diffamazione, il giudice di merito abbia a disposizione, tra l’altro materiale probatorio da governare, un’intercettazione telefonica di un banchiere, il preteso danneggiante, che il giudice ascolta, riconoscendovi l’affermazione, riferita al danneggiato, che quello «mi ha sbancato», il che potrebbe confermare la tesi del danneggiato il quale sostiene di essere stato diffamato dal banchiere con l’accusa di aver ricevuto da lui dei denari; se in realtà il banchiere non ha detto rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 «mi ha sbancato», ma «mi ha sbiancato», siamo dinanzi ad un errore percettivo; se, invece, il giudice ha bene inteso la frase effettivamente pronunciata dal banchiere, e da ciò traendo argomento dal valore polisemico del verbo sbancare, ha tratto l’informazione probatoria che il danneggiato, col suo trattore, ha eseguito un’opera di sbancamento di un terreno del banchiere, e cioè di scavo con asportazione di terra e roccia, non siamo ad un errore di percezione, ma di valutazione, per quanto strampalata. Ed in effetti, se si guarda al caso esaminato dall’ordinanza n. 11111, la natura ancipite, bifronte del travisamento della prova appare in tutta la sua evidenza: essa ha sollevato il problema in un caso in cui il giudice di merito, nell’ambito del complessivo governo del materiale istruttorio, aveva motivatamente ritenuto che due dichiarazioni provenienti dalla Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di roma non avessero natura confessoria. E cioè il travisamento della prova, ciò che in linea di principio si dice consistere in un «errore di percezione », si pretende nella pratica rimanga integrato dall’avere il giudice di merito posto a sostegno della decisione, come meglio si vedrà più avanti, un dato probatorio che, pur sottoposto dal giudice di merito ad una penetrante motivata disamina critica, il collegio di legittimità ha opinato dovesse leggersi diversamente. 10.6. -una volta constatato che l’ordinanza n. 11111 intende la verifica del «contenuto oggettivo della prova» in un senso dilatato, comprensivo così di un momento percettivo, come di un successivo approccio valutativo volto ad individuare i contenuti informativi che il dato probatorio univocamente fornirebbe, occorre guardare al tema in esame avendo realistica consapevolezza del vero bersaglio che l’accoglimento della tesi sostenuta dall’ordinanza finirebbe per abbattere: bersaglio che appare essere costituito dall’assetto del giudizio di legittimità scaturente dalla riformulazione del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. all’esito della riforma del 2012, nella complessiva lettura datane da una decisione che, a ragione, costituisce da anni un punto fermo nella giurisprudenza di queste Sezioni unite, Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053. Che questa sia in effetti la posta in gioco è del resto riconosciuto dalla stessa ordinanza, laddove ammette che la questione del travisamento della prova si sarebbe «posta in tutta la sua complessità ... a seguito delle già ricordate modifiche del 2012 apportate alla previsione concernente il difetto di motivazione: di qui, la scarsa rilevanza, anche sul piano teorico, delle numerose decisioni, rese in subiecta materia, in epoca precedente a tale data». Secondo l’ordinanza, dunque, non vi sarebbe ragione di attribuire peso all’osservazione che il travisamento della prova non sia mai stato ammesso per decenni, quando l’articolo 360 c.p.c. consentiva di denunciare la generica insufficienza della motivazione, ed anzi sarebbe proprio la soppressione di un così esteso controllo motivazionale a rendere ammissibile, nonché costituzionalmente e convenzionalmente necessitato, nell’ottica dell’effettività della tutela giurisdizionale, il sindacato del travisamento della prova nel giudizio di cassazione. 10.7. -non corrisponde però al vero che il problema si sia posto dopo il 2012, e non prima, perché necessitato dalla riforma che ha modificato il n. 5 dell’articolo 360 c.p.c.: non solo il travisamento della prova non era ammesso anteriormente alla novella del 1950, quando il testo del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. era quasi identico all’attuale, ma l’articolo 517 c.p.c. previgente, nel vigore del quale il travisamento della prova, come si è detto in precedenza, non aveva cittadinanza, non prevedeva alcun controllo motivazionale, che era fatto rientrare dalla giurisprudenza di legittimità nella previsione di nullità «a norma dell’articolo 361», i.e. per l’omissione dei «motivi in fatto ed in diritto», omissione intesa quale vizio formale, ossia come error in procedendo, che, stando al dato normativo, non consentiva alla Corte il sindacato sul contenuto della motivazione esistente, ma claudicante: come è stato rilevato dal Ca COnTEnzIOSO nAzIOnALE lamandrei, si trattava di un controllo sul difetto formale di motivazione (per carenza grafica dei motivi), più che di un vaglio su una motivazione insufficiente o contraddittoria. Il che non vuol dire che anche allora, all’occasione, la Corte non potesse indugiare ad un uso disinvolto del difetto di motivazione, secondo la mordace osservazione del Mortara (che fu Primo Presidente della Corte di cassazione di roma), a mo’ di espediente con cui essa Corte, «(quando non si debba dire invece il relatore del ricorso), mette in pace la propria coscienza coi dubbi che accoglie intorno alla giustizia o alla perfetta legalità della decisione». 10.8. -Posto, dunque, che il vigente dato normativo non è espressione di una innovazione non meditata o improvvisata, l’auspicio a neutralizzare la portata della riforma del 2012, con la riduzione del controllo motivazionale che essa ha comportato, attraverso l’introduzione della sindacabilità per cassazione del travisamento della prova, va disatteso, prima di ogni altra considerazione, poiché si risolve nel palesato intento, confliggente con la stessa funzione istituzionale della Corte di cassazione di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, ed al precetto costituzionale che vuole il giudice sottoposto soltanto alla legge, ma a quella certamente sottoposto, di ribaltare l’assetto che il legislatore ha inteso dare al giudizio di legittimità. 10.9. -Lo scopo perseguito con la riformulazione avutasi nel 2012 del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. è ben noto: la sostituzione della «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio» -formula che, osservano le Sezioni unite, attribuiva alla Corte di cassazione un potere assoluto su qualunque decisione di merito, attesa l’insuperabile indeterminatezza della nozione di motivazione insufficiente, con il conseguente incremento del rischio di randomizzazione del giudizio -con l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» è stata dettata dall’intento di indebolire l’assedio dei ricorsi alla Corte di cassazione, com’è testimoniato già dall’osservazione che la novella del 2012 è contenuta in un decreto-legge diretto all’adozione di «Misure urgenti per la crescita del Paese». Il nuovo assetto derivante dalla novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c. è stato poi esaminato ed organicamente ricomposto nella nota Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, nell’attento rispetto del quadro costituzionale. Con tale pronuncia le Sezioni unite hanno chiarito che la riforma ha introdotto nell’ordinamento, nel n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Si tratta di un vizio normalmente extratestuale (giacché è possibile ma non certo probabile che il giudice di merito riferisca di un fatto storico controverso e decisivo, ma poi ometta di esaminarlo ai fini della decisione). La riformulazione del n. 5 ha poi determinato il rifluire nel n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., per il tramite delle norme che impongono al giudice l’obbligo di motivazione, del vizio motivazionale nella quadruplice (o forse meglio duplice, giacché le prime due ipotesi attengono all’esistenza della motivazione, le altre due alla sua tenuta logica) nota declinazione che le Sezioni unite ne hanno dato: la «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico» e la «motivazione apparente»; il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e la «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile». In questo caso -occorre evidenziare per quanto si dirà più avanti -il vizio è testuale, come lo era in precedenza il vizio motivazionale regolato dal previgente n. 5 dell’articolo 360 rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 c.p.c. (la cosa è scontata, solo a titolo di esempio si cita tra le tante Cass., Sez. un., 11 giugno 1998, n. 5802). Qui, allora, una ovvia sottolineatura: la novella non ha soppresso il controllo motivazionale, ma lo ha semplicemente circoscritto entro più ristretti e delineati limiti, con un coefficiente di tassatività maggiore rispetto al passato, ed in particolare al concetto lasco e sfuggente di motivazione genericamente insufficiente, limiti che, può aggiungersi, sono i medesimi che da sempre presiedono al controllo motivazionale del lodo arbitrale (Cass. S.u., n. 24785/2008; Cass. n. 11301/2009; Cass. n. 28218/2013; Cass. n. 16077/2021), che pure non è pronunciato da un giudice professionale, e contro i quali, per la verità, non sembra si siano mai levate vibrate proteste, senza dire che la Cassazione ha stabilmente applicato i medesimi limiti al ricorso straordinario di cui all’articolo 111 della Costituzione (tra le tantissime Cass., Sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888), fintanto che il legislatore non è intervenuto sulla materia introducendo nell’articolo 360 c.p.c. l’odierno ultimo comma. Ora, immediatamente dopo la novella del 2012 una larga parte della dottrina, che si può supporre abbia influenzato anche l’indirizzo giurisprudenziale che ammette il sindacato del travisamento della prova, ha adottato a commento di essa toni che, a fini semplicemente di sintesi, potrebbero definirsi cupamente millenaristi, perché -si è in buona sostanza sostenuto -l’improvvido legislatore, attento soltanto al fare presto, avrebbe reso il giudizio di cassazione radicalmente monco del controllo motivazionale, e una Cassazione che non può controllare la motivazione delle sentenze dei giudici di merito non è una Cassazione. Taluno si è interrogato sul se un così marcato restringimento delle maglie del controllo sulla motivazione potesse reggere nel tempo o, piuttosto, non finisse con il riaprire nuovi spazi di sindacato attraverso altri motivi di ricorso per cassazione: ed in effetti questa tensione, come si è detto, c’è e permarrà. Ma, a distanza di oltre dieci anni dalla riforma, e dopo che le Sezioni unite hanno definito l’ambito del controllo motivazionale nei termini anzidetti, occorrerebbe ormai arrendersi ad ammettere che la lettura della riforma poc’anzi descritta come millenarista non aveva fondamento, che il mondo (quello racchiuso negli articoli 360 e seguenti c.p.c.) non si è dissolto in cenere, che la notizia della morte del giudizio di cassazione si è rivelata fortemente esagerata, ed il controllo motivazionale, come si diceva, è stato soltanto circoscritto entro limiti non giugulatori, com’è testimoniato del resto dal larghissimo impiego, nella pratica, del motivo formulato in relazione all’articolo 132, n. 4, c.p.c. 10.10. -Il vizio di travisamento della prova può essere talora rilevato alla lettura della sentenza, ma è evidentemente per lo più un vizio extratestuale, ed è per questo che l’articolo 606 c.p.p., dopo la riforma del 2006, consente di ricorrere per cassazione per «mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». E cioè, per verificare, tornando all’esempio richiamato, che la fotografia posta a fondamento della decisione impugnata per cassazione ritrae un’automobile e non un fiume, il giudice di legittimità deve esaminare la fotografia. Se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, inteso nel senso bifronte di cui si è detto, rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (si tratta di indirizzo scontato, sicché basterà citare Cass., Sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle «carte» processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe COnTEnzIOSO nAzIOnALE l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più, consentendo appunto l’ingresso a censure concernenti il menzionato vizio extratestuale. Insomma, per dirla con chiarezza, la ricorribilità per cassazione per travisamento della prova assegnerebbe alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito. un simile ampliamento del controllo di legittimità, per di più diverrebbe ancor più esteso di quello ammesso nel giudizio di cassazione in sede penale, ove il travisamento della prova deve necessariamente inalvearsi nel ricorso per cassazione, dal momento che il giudizio penale non conosce il rimedio della revocazione. Così, difatti, Cass. pen. 8 luglio 2022, n. 26455, dopo aver ricordato che il vizio di travisamento della prova chiama in causa «le ipotesi di infedeltà della motivazione rispetto al processo e, dunque, le distorsioni del patrimonio conoscitivo valorizzato dalla motivazione rispetto a quello effettivamente acquisito nel giudizio», soggiunge che tale vizio «vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova». 10.11. -Al fondo dell’ordinanza n. 11111 vi è una preoccupazione, che essa esplicita nel dire che, a negare la sindacabilità col ricorso per cassazione del travisamento della prova, si finirebbe per secondare il consolidarsi di «un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione, in contrasto con il principio dell’effettività della tutela, qualora essa si fondi sulla ricognizione obbiettiva del contenuto della prova che conduca ad una conclusione irredimibilmente contraddetta, in modo tanto inequivoco quanto decisivo, dalla prova travisata, su cui le parti hanno avuto modo di discutere». Ad una simile preoccupazione le Sezioni unite riconoscono il massimo rilievo: ma il fatto è che il rischio dell’inemendabilità del travisamento della prova, nei termini prospettati, è dal- l’ordinamento già neutralizzato. E cioè un travisamento della prova, nel suo «contenuto oggettivo», non denunciabile per revocazione, che occorrerebbe spendere nel giudizio di legittimità, non esiste: il travisamento della prova in senso proprio, come si è detto, è difatti un travisamento bifronte, al quale possono ricondursi sia il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività, sia il momento dell’individuazione delle informazioni probatorie che dal dato probatorio, considerato nella sua oggettività, possono per inferenza logica desumersi. Ebbene, per un verso, il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è per sua natura destinato ad essere controllato attraverso lo strumento della revocazione; per altro verso il momento dell’individuazione delle informazioni probatorie che dal dato probatorio possono desumersi è, come è sempre stato, affare del giudice di merito, ed è per questo sottratto al giudizio di legittimità, a condizione, beninteso, non dissimilmente dal passato, che il giudice di merito si sia in proposito speso in una motivazione eccedente la soglia del «minimo costituzionale». In questo secondo caso non v’è il rischio del consolidarsi di «un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione», giacché, una volta che il giudice di merito abbia fondato la propria decisione su un dato probatorio preso in considerazione nella sua oggettività, pena la rettifica dell’errore a mezzo della revocazione, ed abbia adottato la propria decisione sulla base di informazioni probatorie desunte dal dato probatorio, il tutto sostenuto da una motivazione rispettosa dell’esigenza costituzionale di motivazione, si è dinanzi ad una statuizione rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 fondata su basi razionali idonee a renderla accettabile. non residua allora nient’altro che l’eventualità che la Corte di cassazione sia di opinione diversa dal giudice di merito «intorno alla giustizia o alla perfetta legalità della decisione», per riprendere la citazione fatta poc’anzi, ma questa è un’eventualità che al diritto vigente non interessa. 10.12. -Il controllo dell’attività del giudice di merito, nel momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è, come si diceva, affidato alla revocazione. Secondo l’articolo 395, n. 4, c.p.c.: «Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: ... se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nel- l’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». La chiave di volta della disposizione è il sostantivo «supposizione», riferita ad «un fatto». Il giudice di merito, ma dall’introduzione dell’articolo 391 bis c.p.c. anche la Corte di cassazione, non conosce del fatto, non giudica sul fatto, lo suppone, e lo suppone contro una cartesiana evidenza bidirezionale, trattandosi di un fatto che è incontrastabilmente escluso o positivamente stabilito. La falsa supposizione non è frutto di una scelta deliberata, ragionata, è una falsa rappresentazione della realtà da ascrivere ad un abbaglio dei sensi, a disattenzione, distrazione, in buona sostanza ad una svista, la quale ricorre -si è autorevolmente osservato con formula tanto poco curiale quanto appropriata a fotografare ciò che in concreto accade nell’operare del giudice -quando il giudice prende «fischi per fiaschi e ... verità per buggerate ». In breve, una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo. Si tratta, in particolare, di una svista non dissimile da quella in cui il giudice incorre in caso di errore materiale emendabile ai sensi dell’articolo 287 c.p.c., ma con la differenza che l’errore materiale è un errore esclusivamente testuale (meglio, quasi esclusivamente: v. Cass., Sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037, per il caso di omessa distrazione delle spese), riscontrabile come si suol dire ictu oculi, e che, come tale, è suscettibile di essere corretto con una procedura di natura sostanzialmente amministrativa, quale quella di cui al citato articolo 287, proprio perché, trattandosi di errore testuale auto-evidente, la sua correzione non necessita di intervenire sulla ratio decidendi che sostiene la decisione affetta da errore, ricostruendo quale essa ratio decidendi sia. Viceversa, l’errore revocatorio è un errore non testuale, che si rivela attraverso la messa a confronto di due divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, da un lato quella risultante dalla decisione del giudice, dall’altro quella, contrastante, tale da smentire la rappresentazione offerta dal giudice, che emerge univocamente dagli atti e documenti acquisiti al processo. È per questo che l’errore revocatorio (quando non possa essere fatto valere con l’appello) ha da essere intercettato attraverso la revocazione, perché dal compito istituzionale della Cassazione deriva che essa, estranea al giudizio di fatto, debba ricevere questo giudizio già formato: e se il giudice di appello sia incorso in una svista, è a lui che spetta di porvi rimedio, a mezzo della revocazione per errore di fatto, al fine di eventualmente consegnare al giudice di legittimità un fatto già definitivamente ricostruito nella sua oggettività. Infine, l’errore materiale, come quello revocatorio, è un errore commissivo, tant’è, quanto a quest’ultimo, che esso non ricorre in caso di semplice omesso esame di un fatto, sostanziale o processuale che sia (Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110). 10.13. -La revocazione per il motivo in esame è ammessa dalla giurisprudenza di questa COnTEnzIOSO nAzIOnALE Corte rispetto a qualsiasi fatto, sia sostanziale che processuale (v. p. es. per quest’ultima ipotesi i casi esaminati da Cass. 18 luglio 2008, n. 19924, e Cass. 14 novembre 2016, n. 23173), sempre che, ovviamente, tra la svista concernente il fatto e la statuizione adottata intercorra un nesso di necessità logica e giuridica tale da determinare, in ipotesi di percezione corretta, una decisione diversa (p. es. Cass., Sez. un., 23 gennaio 2009, n. 1666). In particolare, è fermo l’orientamento secondo cui è suscettibile di revocazione la decisione adottata sulla base dell’affermazione, dovuta a mera svista, dell’inesistenza in atti di un determinato documento, che risulti invece ritualmente prodotto (la più remota che sembra rinvenirsi al CED della Corte di cassazione è Cass. 4 ottobre 1971, n. 2697, secondo cui: «Se la parte assume che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., sempre che ne ricorrano le condizioni»; la più recente Cass. 20 marzo 2023, n. 7973). 10.14. -Il fatto supposto esistente o inesistente non deve aver costituito un punto controverso sul quale il revocando provvedimento si è pronunciato. È quindi esclusa la rilevanza dell’errore, che per ciò stesso cessa di essere un errore revocatorio ed assume i caratteri dell’errore di giudizio, quando sul fatto il giudice si sia pronunciato, giacché l’errore percettivo è intrinsecamente incompatibile con il giudizio. Come si è già detto, la distinzione tra momento percettivo e momento valutativo non potrebbe essere intaccata neppure da considerazioni provenienti dalle neuroscienze o dall’epistemologia, giacché ciò che rileva è la logica del processo giurisdizionale, per la quale se c’è controversia c’è giudizio, e se c’è giudizio non c’è errore percettivo. Qui occorre una breve ulteriore precisazione. L’ordinanza n. 11111, infatti, ricorda che la revocazione non può essere impiegata quando il fatto abbia costituito un punto controverso sul quale il giudice ebbe a pronunciarsi: in questa ipotesi, si sostiene, il rischio del consolidarsi di «un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione» era scongiurato, prima della novella del n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., attraverso la possibilità della denuncia del vizio motivazionale: sicché -questa la conseguenza tratta dalla premessa -dopo la novella occorrerebbe ammettere la denuncia per cassazione del vizio di travisamento della prova, dal momento che la possibilità di emendare il provvedimento giurisdizionale dall’errore percettivo rappresenta, com’è indubbio, un irrinunciabile presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale (basterà rammentare Corte cost. 5 maggio 2021, n. 89). Con riguardo all’errore revocatorio che sia effettivamente tale -quale non è quello concernente l’informazione probatoria ritraibile per via logica dal dato probatorio acquisito al giudizio occorre sottolineare che il carattere controverso del fatto «sul quale la sentenza ebbe a pronunciare » attiene non ai fatti da provare cui si riferisce l’articolo 2697 c.c., ma al fatto probatorio rilevante per i fini del giudizio: la svista del giudice cade sulla c.d. percezione semplice o percezione oggettuale, documento, foto, dichiarazione, indizio, e così via. nel caso della fotografia, che ritrae un autoveicolo, prodotta in giudizio a dimostrazione dei danni da esso subiti, fotografia in cui il giudice ravvisa invece un fiume, il carattere controverso del fatto sul quale la sentenza ebbe a pronunciare intanto sussiste, in quanto, a fronte della produzione della fotografia da parte del preteso danneggiato, l’altra parte neghi trattarsi della fotografia di un autoveicolo e sostenga trattarsi, appunto, della raffigurazione di un corso d’acqua. Solo in questo caso, ove il giudice affermi trattarsi della fotografia di un fiume, «la sentenza ebbe a pronunciare» sul fatto probatorio controverso. Se, viceversa, la controparte osserva ad esempio che la fotografia è priva di valore probatorio perché rappresenta un veicolo diverso da rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 quello danneggiato, o non è chiara, o da essa il veicolo risulta essere in perfetto stato, ed il giudice, collocandosi al di fuori del dibattito processuale, nega alla fotografia valore probatorio perché rappresenta un fiume, ciò non esclude la svista, che anzi rimane tal quale. Insomma, il fatto (probatorio) costituisce un punto controverso sul quale il giudice di merito pronuncia quando il suo giudizio riflette la prospettazione, in proposito, di una delle parti. È chiaro, allora, che il problema posto dall’ordinanza n. 11111 appare essere, realisticamente, un problema alquanto marginale: l’errore materiale è una svista del giudice nella consultazione degli atti del processo, ed una svista è, nel linguaggio comune, un errore, non grave, soprattutto in uno scritto, dovuto più che altro a disattenzione; etimologicamente la svista è difatti un errore che si commette per non avere visto bene; ora, ove il fatto probatorio sia controverso, nel senso dianzi indicato, e cioè qualora le parti abbiano mobilitato l’attenzione del giudice sul fatto probatorio, oggetto di contrapposte letture, appare almeno improbabile che una svista abbia a verificarsi. 10.15. -Ma, ammettiamo che accada l’imponderabile, che tra le parti si svolga un surreale dibattito sul quesito se una fotografia, che palesemente rappresenta un’autovettura, non rappresenti invece un fiume, e che il giudice, prendendo atto del dibattito, affermi che l’autovettura rappresenta proprio un fiume. In questo caso non vi è spazio per la revocazione, secondo quanto stabilisce l’articolo 395, n. 4, c.p.c. (v. p. es. Cass. 15 dicembre 2011, n. 27094). E bisogna allora interrogarsi sul come il consolidamento di tale «inemendabile forma di patente illegittimità della decisione» debba essere contrastato. ritengono le Sezioni unite che in una simile ipotesi nulla osti alla formulazione del motivo di cui, a seconda dei casi, ai nn. 4 e 5, dell’articolo 360 c.p.c., sussistendone di volta in volta i necessari presupposti, che qui è superfluo ricapitolare. Il punto è che, nella patologica ipotesi considerata, il giudice ha pur sempre supposto un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita: il fatto posto a sostegno della decisione, quantunque il giudice abbia deciso, non esiste nei termini in cui egli lo ha recepito; si tratta, diremmo, di un non-fatto, un fatto la cui considerazione, nella sua effettiva oggettività, è stata in fin dei conti omessa. Sicché, l’affermazione secondo cui, se l’errore è frutto di un’omessa percezione del fatto, essa è censurabile ex articolo 360, n. 5, c.p.c., se si riferisca a fatti sostanziali, ovvero ex articolo 360, n. 4, c.p.c., ove si tratti di omesso esame di fatti processuali (v. in tali termini le già richiamate Cass., 26 maggio 2021, n. 14610; Cass. 21 luglio 2010, n. 17110), va estesa al caso in cui il giudice di merito abbia supposto un non-fatto, un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, con la finale precisazione che un simile errore, che si è detto essere commissivo, è pur sempre omissivo dall’angolo visuale del risultato che determina nel giudizio. Pare residuare soltanto l’ipotesi che l’errore revocatorio sia commesso dal giudice di primo grado, il soccombente lo denunci con l’appello ed il giudice d’appello rigetti l’impugnazione: anche in questo caso, a fronte della supposizione di un non-fatto, l’applicazione della regola appena riassunta non è esclusa dall’operatività dell’articolo 360, quarto comma, c.p.c., che richiede pur sempre un’effettiva cognizione in fatto, che nella specie, per le ragioni testé evidenziate, manca. 10.16. -Argomenti nel senso dell’ammissibilità del sindacato in Cassazione del travisamento della prova, va da ultimo ricordato, non possono essere desunti neppure dall’articolo 2, commi 2 e 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla considerazione che sarebbe paradossale che COnTEnzIOSO nAzIOnALE l’ordinamento giuridico concepisca rimedi risarcitori dell’errore commesso dal magistrato e non rimedi volti a neutralizzarlo, impedendo a monte che si esso si consolidi. Quest’argomento, pur autorevolmente sostenuto, è suggestivo, ma privo di fondamento. Il citato articolo 2, laddove si riferisce al travisamento del fatto e della prova, è da ritenere riguardi infatti il giudizio penale, nel quale, difettando il rimedio della revocazione, operano travisamento del fatto e della prova, denunciabili in Cassazione secondo l’articolo 606, lett. e, c.p.p. D’altro canto, per quanto attiene al settore civile, l’errore di fatto su circostanza controversa continua ad essere considerato nell’articolo 2 errore percettivo e non cattiva valutazione della prova, perché il «fatti salvi» di cui al comma 2 non va inteso come deroga alla esclusione dall’ambito di applicabilità della valutazione del fatto e della prova, con la conseguenza che il comma 3 rinvierebbe pur sempre ad attività valutativa, ma come esclusione dall’ambito delle valutazioni di fatto e prova della fattispecie prevista dal comma 3. Se così non fosse dovrebbe ritenersi che l’errore revocatorio di cui all’articolo 395, n. 4, c.p.c. sia compreso nella fattispecie del comma 3, quale valutazione e non percezione, il che non può essere perché in assenza di controversia non può esserci giudizio: il «fatti salvi» significa allora che intanto la fattispecie del comma 3 comprende ipotesi di responsabilità civile, in quanto non si tratti di attività di giudizio, e che la disposizione contempla ipotesi che il codice processuale tradizionalmente intendeva quali giudizi, in quanto errori su circostanze controverse, non intercettate dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., ma che ora vengono equiparati ad errori percettivi. In fin dei conti, l’articolo 2 si riferisce, per quanto qui interessa, all’errore revocatorio su fatto controverso, e qui il controllo volto ad impedire il consolidamento dell’errore ricorre nei termini già illustrati, mentre l’errore revocatorio su fatto incontroverso è fuori dalla portata della disposizione, giacché l’ordinamento si contraddirebbe se lo riconducesse simultaneamente agli ambiti di applicabilità degli articoli 395, n. 4, c.p.c. e 2 della citata legge. 10.17. -La disamina del contrasto si conclude con l’affermazione del seguente principio di diritto: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale». (omissis) Così deciso in roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili, il 7 novembre 2023. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 il superamento dei termini della procedura accelerata e la deroga al principio della sospensione automatica dell’esecutività della decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale per il richiedente proveniente da Paese sicuro. Considerazioni a margine di Cassazione, sezioni Unite, 29 aprile 2024 n. 11399 Stefano Emanuele Pizzorno* SOMMARIO: 1. Il ricorso in via pregiudiziale -2. La questione di merito -2.1. La nozione di Paese sicuro - 2.2. La procedura accelerata - 3. Conclusioni. recentemente la Suprema Corte si è pronunciata a Sezioni unite sulla questione se in caso di impugnazione del provvedimento emesso dalle Commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale a seguito di procedura accelerata (art. 28 bis d.lgs. 25/2008) nei casi di soggetto proveniente da Paese sicuro, la violazione delle regole procedurali di quest’ultima determini il ripristino della regola generale secondo cui, ex art. 35 bis terzo comma d.lgs. 25/2008, l’impugnazione dà luogo a sospensione automatica del provvedimento stesso. 1. Il ricorso in via pregiudiziale. La sentenza è interessante anche sul piano della procedura civile perché è emessa in applicazione del nuovo art. 363 bis c.p.c., introdotto dalla riforma Cartabia, che consente al giudice di merito di sottoporre direttamente alla Suprema Corte, in via pregiudiziale, una questione di diritto. Il procedimento si conclude con l’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte, espressamente previsto come vincolante nel giudizio nell’ambito del quale è stata rimessa la questione. Qualora, poi, tale giudizio si estingua, l’ultimo comma dell’articolo in esame estende il vincolo del principio di diritto enunciato dalla Corte anche al nuovo processo instaurato tra le stesse parti, con la riproposizione della medesima domanda (1). La rimessione alla Corte non era scontata perché essa presuppone la (*) Avvocato dello Stato. (1) Da osservare la differenza tra l’istituto italiano e quello francese della saisine pour avis (art. L. 441-1 del codice di organizzazione giudiziaria francese). Il principio di diritto enunciato dalla Corte Suprema italiana, ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c., vincola la decisione del giudice di merito, che ha sollevato la questione, e tutti i giudici che interverranno nel medesimo procedimento. nell’ordinamento francese la Corte di cassazione esprime invece semplicemente un parere sulla questione sollevata, non vincolante per il giudice di merito. Sul punto v. MArInELLI, La saisine pour avis de la Cour de Cassation e il nuovo rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c.: divagazioni su norme giuridiche e norme culturali, in Riv. Dir. Proc., 2024, 1, 67. COnTEnzIOSO nAzIOnALE 75 concorrenza di tre condizioni (2); oltre a potersi porre in una pluralità di giudizi e dar luogo a difficoltà interpretative, la risoluzione della questione, infatti, deve anche essere necessaria per la definizione anche parziale del giudizio, e nel caso specifico si trattava del ritenere applicabile una misura cautelare. La Suprema Corte a questo proposito ammette che il rinvio di cui all’art. 363 bis possa riguardare anche questioni che sorgano nei procedimenti cautelari, facendo ricorso in primo luogo ad un argomento di carattere generale, quale lo scopo dell’istituto, individuato nella necessità di espansione della funzione nomofilattica della Cassazione al fine di deflazionare il contenzioso. In questo senso siamo in presenza di uno strumento di nomofilachia preventiva, ben più incisivo dell’istituto previsto dall’art. 363 c.p.c. (introdotto dal d.lgs. 40/2006) che consente sia al Procuratore generale presso la Corte di cassazione di chiedere, quando il ricorso non sia stato proposto o non sia proponibile, che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi, sia alla Corte di pronunciare d’ufficio il principio di diritto, quando il ricorso sia dichiarato inammissibile, allorché la questione sia ritenuta di particolare importanza (3). Con la sentenza n. 28727/23 la Cassazione al riguardo ha affermato che la finalità del nuovo istituto è prettamente deflativa e viene perseguita attraverso l’enunciazione di un principio di diritto, che può costituire un precedente in una serie di giudizi, accomunati dalla difficoltà interpretativa di una disposizione nuova o sulla quale non si è ancora formato un univoco orientamento giurisprudenziale. Si è rilevato in dottrina che il nuovo istituto tende a realizzare una sorta di nomofilachia preventiva, allo scopo di pervenire ad indirizzi giurisprudenziali uniformi, considerato che la prevedibilità della decisione oggi deve essere considerata come un “valore”, che si riflette sulla certezza del diritto, sulla tutela dei cittadini che vi fanno affidamento e sulla effettività del principio di uguaglianza, che impone uniforme trattamento, anche giurisdizionale, di fronte a casi simili (4). (2) L’art. 363 bis c.p.c. primo comma, introdotto dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, dispone: Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi. (3) Su cui v. per tutti CAPPOnI, La Corte di cassazione e la «nomofilachia» (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), in Judicium, 6 aprile 2020, https://www.judicium.it/la-corte-di-cassazione-e-lanomofilachia- art-363-c-p-c/. Sul rapporto tra principio di diritto nell’interesse della legge e rinvio pregiudiziale, v. TurrInI, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione e principio di diritto nell’interesse della legge, in Riv. Dir. Proc., 2023, 4, 1609. Sull’istituto del rinvio pregiudiziale v. CAPASSO, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e il «vincolo» di troppo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2022, 587 ss. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 In secondo luogo, la Suprema Corte espone argomenti concernenti la specificità del giudizio sul riconoscimento della protezione internazionale, in cui la mancata sospensione del provvedimento, potrebbe determinare l’allontanamento del ricorrente dal territorio nazionale e il ritorno nel Paese di origine, impedendo, secondo la disposizione dell’art. 2 del d.lgs. 251/2007, l’accoglimento della domanda. Pertanto, in tal caso la decisione cautelare avrebbe rilevanza anche sulla definizione del giudizio. 2. La questione di merito. Come principio generale la proposizione del ricorso avverso il provvedimento della Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (art. 35 bis comma 3 d.lgs 25/2008). Sono previste alcune eccezioni, tra cui quella in cui il richiedente provenga da Paese ritenuto sicuro. Infatti l’art. 35 bis terzo comma prevede tra le eccezioni quella in cui il ricorso sia proposto avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi del- l’articolo 32, comma 1, lettera b-bis; l’art. 32, comma 1 lettera b-bis fa riferimento al rigetto della domanda per manifesta infondatezza nei casi di cui all’articolo 28-ter; e l’articolo 28-ter, tra le varie ipotesi di rigetto della domanda per manifesta infondatezza, contempla (lett. b) quella in cui il richiedente provenga da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’articolo 2-bis. Attraverso questi rinvii normativi, si dispone pertanto che, qualora il richiedente provenga da Paese sicuro, la domanda si considera manifestamente infondata e non si applica la sospensione automatica del- l’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto. La normativa interna rispecchia quella comunitaria. Infatti, come ricordato dalla Suprema Corte, in base alla Direttiva 2013/32/uE (cd. direttiva procedure), il richiedente la protezione internazionale, in caso di rigetto della domanda, ha diritto a rimanere nel territorio dello Stato membro in cui ha fatto la richiesta fino alla scadenza del termine per proporre ricorso o, in caso in cui il ricorso sia stato proposto, fino all’esito dello stesso (art. 46 par. 5 della Direttiva) (5). Sono previste (art. 46 par. 6) alcune eccezioni al principio tra cui, per l’appunto, attraverso il richiamo delle ipotesi di cui all’art. 31 par. 8 (in cui è ammessa la procedura accelerata), quella della provenienza del richiedente da un Paese ritenuto sicuro (art. 31, par. 8, lett. b) (6). (4) Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2023, n. 28727. In questo senso anche Cass. civ. Sez. I, 30 aprile 2024, n. 11688. (5) Art. 46 par. 5 Dir. 2013/32/uE: “Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso”. COnTEnzIOSO nAzIOnALE 2.1. La nozione di Paese sicuro. È la stessa direttiva 2013/32/uE ad aver introdotto la nozione di Paese sicuro, attribuendo agli Stati membri anche la facoltà di stabilire una lista di paesi di origine (7) sicuri ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale (art. 37 par. 1), indicando una serie di parametri (art. 38), e prevedendo l’obbligo di riesaminare periodicamente la situazione (art. 37, 2). Con decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, in attuazione di queste disposizioni, è stato aggiunto al d.lgs. 25/2008 l’art. 2 bis che introduce la nozione di Paese di origine sicuro, ovvero un Paese in cui, in caso di rientro, i richiedenti non corrono il rischio di subire danni gravi alla persona (condanna a morte, esecuzioni, torture, trattamenti inumani e degradanti, conflitti armati) (8). Inoltre, è stabilito che con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, sia adottato l’elenco dei Paesi di origine sicuri, la qual cosa è avvenuta a partire dal Decreto Interministeriale n. 1202/606 del 4 ottobre 2019, successivamente aggiornato (9). nell’ipotesi in cui la domanda di protezione internazionale sia presentata direttamente alla frontiera o nelle zone di transito da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro, è anche previsto il trattenimento durante lo svolgimento della procedura (10), che può essere disposto qualora il richiedente non consegni il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria, il cui importo e le cui modalità di prestazione sono stati individuati con decreto del Ministero dell’interno del 14 settembre 2023, di concerto (6) L’art. 46 par. 6 della Direttiva 2013/32/uE, indica tra le eccezioni, alla lettera a, la decisione “di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’articolo 32, paragrafo 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, paragrafo 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, paragrafo 8, lettera h)”. L’articolo 31 par. 8 fa riferimento alla lettera b all’ipotesi in cui “il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva”. (7) Per paese di origine del richiedente deve intendersi il paese della sua cittadinanza al momento della presentazione della domanda, così Cass. civ. Sez. I, ord. 1 marzo 2021, n. 5523 con riferimento al- l’espressione paese di origine di cui all’art. 14, lett. b) d.lgs. n. 251 del 2007 in tema di protezione sussidiaria. (8) Art. 2 bis, comma 2 d.lgs. 28 gennaio 2008: “uno Stato non appartenente all’unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”. (9) Al momento con D.M. 17 marzo 2023. (10) Art. 6 bis del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, introdotto dall’art. 7-bis, comma 2, lett. b), D.L. 10 marzo 2023, n. 20, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 maggio 2023, n. 50. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 con i Ministeri della giustizia e dell’economia e delle finanze. Su questo punto la Suprema Corte (11) ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’unione per verificare la compatibilità della disposizione con gli artt. 8 e 9 della direttiva 2013/32/uE (12). un problema, a cui accenna la sentenza della Cassazione che qui si commenta, riguarda la contestabilità della natura sicura del Paese di provenienza, malgrado l’inserimento dello stesso nell’elenco ministeriale. Così nella giurisprudenza di merito si è sostenuta la disapplicabilità del D.M. 17 marzo 2023, contenente l’aggiornamento della lista dei paesi sicuri poiché non conforme ai criteri legislativi indicati nella direttiva 2013/32/uE (13), con la conseguenza di non applicare l’effetto sospensivo automatico dell’efficacia esecutiva della decisione di diniego della Commissione Territoriale previsto dall’art. 35 del d.lgs. 25/2008. Da osservare che la normativa comunitaria e la legislazione interna ammettono la possibilità di contestare la natura sicura del Paese; infatti è previsto che Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova (art. 2 bis, comma 5 che riprende testualmente l’art. 36 della direttiva 2013/32/uE). La giurisprudenza citata ha invece ritenuto di contestare la natura sicura del Paese di origine, disapplicando il D.M. che conteneva l’indicazione del Paese medesimo, in particolare la Tunisia, ritenendo non corretto l’inserimento o il mantenimento nella lista per violazione dei criteri indicati (11) Cass. Sez. unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3563; Cass. Sez. unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3562. (12) In particolare “se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/uE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, tenuto conto altresì dei fini desumibili dai suoi considerando 15 e 20, ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa (nell’importo in unica soluzione determinato per l’anno 2023 in Euro 4.938,00, da versare individualmente, mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa) anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”. Tribunale Catania, sent., 8 ottobre 2023 si è espresso nel senso di ritenere incompatibile l’art. 6 bis con l’articolo 8 della direttiva 2013/33. (13) Tribunale di Firenze 20 settembre 2023, in www.sistemapenale.it, con nota di v. DATEnA e VICInI, La procedura di designazione del “paese di origine sicuro” e i poteri di valutazione del giudice ordinario, 23 ottobre 2023. Tribunale di Firenze, 25 ottobre 2023. COnTEnzIOSO nAzIOnALE nella direttiva dell’unione, in particolare prendendo in considerazione elementi (ad esempio atti del Governo che attenterebbero all’indipendenza della magistratura, o la percentuale bassa di elettori alle elezioni parlamentari), che, ad avviso dei giudicanti, avrebbero mutato la natura del sistema politico, rendendo la Tunisia uno Stato non democratico. Pertanto, compiendo una valutazione in astratto e generale, senza riferimento alla specifica situazione del ricorrente. Tale valutazione, compiuta in astratto, non sembra, in realtà, legittima. La norma di riferimento, richiamata anche dalla giurisprudenza che qui si contesta, appare l’art. 37 della direttiva (tramite il rinvio all’Allegato I), che stabilisce che un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà. L’art. 2 bis secondo comma del d.lgs. 25/2008 riproduce testualmente questa disposizione. Tale norma, tanto più se letta in combinazione con l’art. 36 della direttiva, non può essere interpretata nel senso che il Giudice interno abbia la possibilità di sindacare la mancanza di democraticità di un Paese, al fine di non ritenerlo più “sicuro”, senza alcun riferimento alla situazione specifica del ricorrente in quel giudizio. Il Giudice non può né prendere in considerazione un’astratta situazione di non democraticità e neppure una situazione di non democraticità che si possa riflettere in modo potenziale sulla situazione di alcuni richiedenti, ma deve necessariamente verificare se quegli elementi da cui ritiene di ricavare la non democraticità dell’ordinamento statuale pregiudichino la posizione del ricorrente nel procedimento sottoposto al suo giudizio. Così, ad esempio, se successivamente all’inserimento di un Paese nella lista di quelli considerati sicuri, sia scoppiato un conflitto armato interno o rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 internazionale, che causi violenza indiscriminata, senza che il Governo abbia provveduto ad espungere il Paese dalla lista, il Giudice potrà ritenere il Paese medesimo non sicuro, perché si tratterebbe di una situazione in grado di riflettersi sul ricorrente. Allo stesso modo, l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei cd. “paesi sicuri” non preclude allo stesso la possibilità di dedurre la propria provenienza da una specifica area del paese stesso interessata a fenomeni di violenza ed insicurezza generalizzata che, ancorché territorialmente circoscritti, possono essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria, né esclude il dovere del giudice, in presenza di tale allegazione, di procedere all’accertamento in concreto della pericolosità di detta zona e sulla rilevanza dei predetti fenomeni (14). Viceversa, un provvedimento di destituzione di alcuni giudici (15), per quanto possa costituire un attacco all’indipendenza della magistratura, può non incidere sulle tutele che quel Paese garantisce a quel singolo richiedente. In ogni caso il Giudice dovrebbe motivare per quale ragione il rientro nel Paese di origine potrebbe pregiudicare il ricorrente a causa della presenza di indici che farebbero ritenere che sia stata compromessa l’indipendenza della magistratura locale dal potere politico. Del resto, questa soluzione è conforme alla stessa natura del sindacato del Giudice ordinario sull’atto amministrativo generale, rispetto al quale il G.O. ha un potere di disapplicazione in relazione al caso specifico e non di annullamento. In ogni caso la Suprema Corte ha affermato che l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei paesi sicuri comporta la conseguenza di far gravare sul ricorrente un onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro (Cass. civ. Sez. I, ordinanza 27 ottobre 2023, n. 29823) (16). ha anche precisato che tale onere di allegazione rinforzata non trova applicazione per le domande presentate anteriormente all’entrata in vigore del D.M. 4 ottobre 2019 (17). (14) Così Cass. civ. Sez. II, ord. 16 settembre 2020, n. 19252. (15) Vedi quanto riportato nell’ordinanza del Tribunale di Firenze 20 settembre 2023 cit. (16) nella decisione la Cassazione, confermando l’ordinanza del Tribunale che aveva respinto il ricorso, osserva che In tale direzione il Tribunale evidenzia che il richiedente avrebbe dovuto dimostrare l’impossibilità di rivolgersi alle autorità del suo Paese per avere protezione, laddove l’allegata scheda redatta dal Ministero degli Esteri dà conto dell’esistenza di un sistema giudiziario funzionante. Sarebbe quindi stato onere del ricorrente quello di spiegare e dimostrare le ragioni per le quali, nel suo caso specifico, tale tutela non poteva esserle offerta. Sull’onere di allegazione rinforzato v. anche Cass., n. 25311 del 11 novembre 2020. (17) Cass. civ. Sez. I, ord. 27 settembre 2023, n. 27439; Cass. civ. Sez. I, sent. 11 novembre 2020, n. 25311. COnTEnzIOSO nAzIOnALE 81 2.2. La procedura accelerata. nell’ipotesi in cui il richiedente provenga da Paese sicuro, come anche in generale nei casi di domanda manifestamente infondata e allorché il richiedente sia trattenuto presso strutture o centri di accoglienza, oppure abbia presentato la richiesta, dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento, è previsto il ricorso alla procedura accelerata nella valutazione della domanda. In queste ipotesi, è previsto che la Questura provveda senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni (art. 28 bis, secondo comma, d.lgs. 25/2008). La questione affrontata dalla Suprema Corte, nella decisione in commento, è proprio questa: al di là della questione della sindacabilità della natura sicura del Paese, qualora non vengano rispettati i termini indicati, cioè se la Commissione non provveda all’audizione entro sette giorni dal momento in cui ha ricevuto la documentazione, oppure non decida entro i successive due, vale sempre la deroga al principio della sospensione automatica della decisione negativa in caso di ricorso giurisdizionale avverso la medesima? Secondo la Cassazione la risposta è negativa per una semplice ragione: la procedura accelerata presuppone che la domanda sia di facile risoluzione e il superamento dei termini dimostrerebbe il contrario, richiedendosi un’istruttoria più complessa. L’immediata esecutività della decisione della Commissione è del resto, secondo la Corte, collegata all’esigenza di condurre a termine la procedura in termini brevissimi; quindi, una volta che ciò non sia possibile, non avrebbe senso derogare al principio della sospensione automatica. Ad avviso di chi scrive, la posizione della Suprema Corte appare non corretta per un eccesso di rigidità. non è sempre vero, infatti, che la causa del superamento dei termini stabiliti per la procedura accelerata sia la necessità di un’istruttoria più complessa. Le ragioni possono essere diverse e nella pratica più facilmente riconducibili ad un eccessivo carico di lavoro rispetto alle risorse disponibili o, anche a contingenti problemi organizzativi (ad esempio la difficoltà di trovare un interprete, come avvenuto nel caso oggetto della pronuncia). Sembra opportuna, pertanto, una soluzione più flessibile in cui il superamento dei termini della procedura accelerata possa costituire un indizio della necessità dello svolgimento di un’attività istruttoria non compatibile con i termini della procedura accelerata stessa, dovendo però il Giudice in ogni caso accertare in concreto le cause di quel superamento. Se infatti esse fossero dovute a circostanze del tutto eterogenee rispetto alla necessità di accertamenti più approfonditi, non avrebbe senso trarne la conseguenza del ritorno al principio della sospensione automatica in caso di ricorso contro la decisione della rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Commissione. Tanto più in considerazione della circostanza che il superamento dei termini non danneggia in alcun modo il richiedente, che può invece essere danneggiato dall’adozione in sé della procedura accelerata quando non ne ricorrano i presupposti. È su tali presupposti, pertanto, che può ricadere il sindacato del Giudice, senza che possano essere tratte conseguenze automatiche dal semplice superamento dei termini. In definitiva, quello che dovrebbe contare è esclusivamente l’esistenza o meno dei presupposti sostanziali, previsti per l’adozione della procedura accelerata, potendo la stessa necessità di attività istruttoria che comporti il superamento dei termini, essere irrilevante. Infatti, se ad esempio il richiedente mettesse in dubbio la natura sicura del Paese di provenienza, sostenendo che l’area da cui proviene non sia tale, e la Commissione a tal fine spendesse attività per verificare la veridicità di tali affermazioni, per poi concludere in senso negativo, resterebbe in piedi il presupposto della provenienza da Paese sicuro (art. 28 ter lett. b), e si giustificherebbero le conseguenze, tra cui l’immediata esecutività della decisione della Commissione anche in presenza di ricorso. Viceversa, se l’ulteriore attività faccia dubitare dell’esistenza del presupposto della manifesta infondatezza sulla cui base sia stata adottata la domanda, in relazione a dichiarazioni considerate palesemente incoerenti e contraddittorie (art. 28 ter, lett. c), il Giudice potrà (ma questo a prescindere dal superamento o meno dei termini), valutate quelle dichiarazioni come non palesemente incoerenti e contraddittorie, ritenere illegittima l’adozione della procedura accelerata. Del resto l’art. 35 bis terzo comma del d.lgs. 25/2008, nello stabilire quando si applichi la deroga al principio dell’automatica sospensione del provvedimento della Commissione a seguito del ricorso, richiama (attraverso il rinvio all’art. 32, comma 1 lettera b-bis) espressamente l’ipotesi in cui il ricorso sia proposto avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis, ovvero i casi di cui all’articolo 28-ter, facendo quindi riferimento ai presupposti sostanziali. Si può aggiungere anche che lo stesso art. 28 bis nello stabilire che i termini della procedura accelerata possano essere superati ove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda, non contempla alcun ritorno al principio della sospensione automatica, restando ferma l’esecutività della decisione di rigetto. In definitiva la deroga al principio della sospensione automatica è collegata alla sussistenza o meno dei presupposti indicati che giustificano l’adozione della procedura accelerata, non al superamento dei termini della medesima, che di per sé non danneggia in alcun modo il richiedente. Occorre notare che la questione presenta più di un punto di contatto con l’altra problematica, affrontata più frequentemente in giurisprudenza, concernente la legittimità della proroga del trattenimento del richiedente asilo, di COnTEnzIOSO nAzIOnALE sposta malgrado il superamento dei termini della procedura accelerata. Infatti, allorché un cittadino straniero sia trattenuto ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 142/2015, il comma 6 della stessa disposizione normativa stabilisce che il trattenimento o la proroga del trattenimento non possano protrarsi oltre il tempo strettamente necessario all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 28-bis, commi 1 e 2, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. Ebbene la giurisprudenza si è espressa nel ritenere che il superamento dei termini della procedura accelerata non impedisce la proroga del trattenimento, che può essere disposto nei limiti indicati dal comma 5 dell’art. 6 d.lgs. 142/2015, ovvero nel termine stabilito dal decreto di convalida per un massimo di sessanta giorni per consentire l’espletamento della domanda, fermo restando che una volta definito il procedimento amministrativo, il trattenimento in ogni caso decade (18). I termini di cui all’art. 28 bis del d.lgs. 25/2008 sono stati infatti ritenuti da questa giurisprudenza, non presa in considerazione dalle Sezioni unite nella sentenza qui in commento, non perentori (19). E questo malgrado si tratti di un’ipotesi in cui, a differenza della prima questione, la soluzione adottata incide sulla libertà personale dell’individuo. 3. Conclusioni. In definitiva la decisione delle Sezioni unite, assunta a seguito del rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c., vincolante, ai sensi dell’ultimo comma del medesimo art. 363 bis c.p.c, nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione (20), non appare convincente. Da un lato infatti non fa minimamente cenno al dibattito sulla perentorietà dei termini della procedura accelerata sviluppatosi in relazione alla legittimità della proroga del trattenimento ex art. 6 d.lgs. 142/15; dall’altro, erra nel collegare, a seguito di ricorso, la deroga al principio della sospensione automatica del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale al mero superamento di quei termini, che considera evidentemente perentori, anziché all’accertamento dell’effettiva sussistenza dei presupposti previsti per l’adozione della procedura accelerata. (18) Così Cass. Sez. I, ord. 24 aprile 2024 n. 11158. (19) Cass. Sez. I, ord. 24 aprile 2024 n. 11158, cit.; Cass. civ. Sez. I, ord. 30 marzo 2023, n. 9042; Cass. Sez. I, 1 giugno 2022, n. 18834; Cass. Sez. I, 3 febbraio 2021, n. 2548. È vero però che con ordinanza interlocutoria del 9 febbraio 2024, n. 3656, la Cassazione ha rinviato alla pubblica udienza la trattazione di un ricorso ai fini dell’approfondimento della questione riguardante la perentorietà dei termini; peraltro un eventuale ripensamento come risulta dall’ordinanza di rimessione, sarebbe motivato in relazione a ragioni concernenti esclusivamente il trattenimento, con le sue ripercussioni dirette sulla libertà fisica della persona. (20) Vedi quanto indicato nella nota 2. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Cassazione civile, sezioni Unite, sentenza 29 aprile 2024 n. 11399 -Pres. P. D’Ascola, Rel. M.M. Leone -A.A. (avv. F. roppo) c. Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazione di Bologna, Sez. Forlì-Cesena; Ministero dell’Interno (avv. gen. Stato). FATTI DI CAuSA 1) -Con l’ordinanza in esame il tribunale di Bologna ha sollevato rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c. con riferimento all’istanza proposta da A.A. ai sensi dell’art. 35 bis, quarto comma del D.lvo n. 25/2008, diretta alla sospensione della decisione adottata dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. La Commissione aveva rigettato il ricorso per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art. 28 ter primo comma lett. b) D.Lvo n. 25/2008, trattandosi di richiedente proveniente da Paese sicuro. Il ricorrente, impugnando la decisione dinanzi al tribunale bolognese, aveva eccepito che il provvedimento impugnato doveva ritenersi automaticamente sospeso attesa la irregolarità della procedura accelerata adottata dalla Commissione, procedura espressamente prevista dall’art. 28 bis del predetto decreto legislativo. In particolare, evidenziava il superamento dei tempi previsti dalla norma invocata per la audizione del richiedente e l’emissione del provvedimento. 1.a) -Il tribunale bolognese, oltre alla irregolarità temporale denunciata e ritenuta pacificamente verificatasi, rilevava ulteriormente, quale vizio della procedura accelerata, la mancata emissione e tempestiva comunicazione del provvedimento del Presidente della Commissione territoriale. 2) -In tale contesto il tribunale, richiamate le norme applicabili al caso in esame, interpretate con differenti indirizzi tra i giudici del merito, riteneva sussistenti i presupposti per adire il Giudice di legittimità, in sede di rinvio pregiudiziale per porre il seguente quesito: “se, in caso di soggetto proveniente da paese di origine sicuro, il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28 ter, D.Lvo n. 25/2008 emesso dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale senza previa adozione di una regolare procedura accelerata di cui agli artt. 28 e 28 bis D.Lvo. n. 25/2008, determinata con provvedimento del presidente in seguito a esame preliminare, tempestivamente comunicato dalla Commissione al richiedente asilo, e con rispetto dei termini prescritti dall’art. 28 bis D.Lvo. n. 25/2008, dia luogo o meno a sospensione automatica ai sensi dell’art. 35 bis, terzo comma D.Lvo n. 25/2008”. 3) -L’ordinanza, preliminarmente interrogandosi sull’ambito di operatività del rinvio pregiudiziale, riteneva ammissibile tale istituto anche nelle ipotesi in cui la questione giuridica pregiudizialmente posta possa essere dirimente ai fini dell’adozione di una decisione interlocutoria che non incida in via diretta sulla questione di merito, pur se lo strumento processuale in questione sia previsto dall’art. 363 bis c.p.c. solo qualora la questione posta sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio. Valutava positivamente tale possibilità per plurime ragioni, tra le quali il riferimento letterale alla necessità della questione rispetto alla definizione del giudizio e non alla “decisione” e dunque a modalità definitorie, anche stragiudiziali o conciliative, per le quali poteva risultare incisiva la determinazione interlocutoria in punto di rito, quale quella in esame. Il tribunale riteneva inoltre determinante la decisione sulla sospensione anche rispetto al giudizio di merito, posto che la domanda di protezione internazionale non ha possibilità di essere COnTEnzIOSO nAzIOnALE accolta (art. 2 D.lvo n. 251/2007) se, con accertamento ex nunc al momento della decisione, il richiedente risulti tornato nel paese di origine, cosa che accadrebbe in ipotesi di mancata sospensione del provvedimento amministrativo. 4) -L’ordinanza riteneva quindi ammissibile il nuovo strumento anche al fine di accertare se la sospensione del provvedimento amministrativo emesso dalla Commissione territoriale consegua automaticamente in caso di vizio nella procedura accelerata, poichè la presenza di difetti procedurali determina il ripristino della trattazione in sede ordinaria, con la conseguente operatività del principio stabilito dall’art. 35 bis D.lvo n. 25/2008, secondo cui “La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato” . 5) -Quanto al merito della questione, il tribunale evidenziava la disciplina applicabile nel richiamato art. 35 bis terzo comma del D.lvo n. 25/2008 secondo cui, per quel che qui rileva, “La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto (......) c) avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis); d) avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 28-bis, comma 2, lettere b), b-bis), c) ed e); d-bis) avverso il provvedimento relativo alla domanda di cui all’articolo 28-bis, comma 1, lettera b). richiamava, altresì, la disciplina dell’art. 28 bis di cui al medesimo decreto legislativo, relativo alla procedura accelerata, applicata, nel provvedimento di manifesta infondatezza adottato dalla Commissione territoriale, trattandosi di richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura. 5.a) -Il tribunale evidenziava inoltre come la disposizione, richiamata dalla lettera d) dell’art. 35-bis, ossia l’articolo 28-bis, comma 2, lettere c), titolata “Procedure accelerate” prevede che si applichi tale procedura al “richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro, ai sensi dell’articolo 2-bis”. Come rilevato dall’ordinanza di remissione, “le lettere c) e d) dell’art. 35-bis richiamano, curiosamente, la medesima fattispecie della provenienza da paese di origine sicuro”. 5.b) -Quanto alla proceduta accelerata, il tribunale sottolineava che la direttiva europea non contiene una definizione di “procedura accelerata”, né una definizione è altrimenti rinvenibile a livello internazionale. Al riguardo l’art. 28, comma 1, dispone che “Il presidente della Commissione territoriale, previo esame preliminare delle domande, determina i casi di trattazione prioritaria, secondo i criteri enumerati al comma 2, e quelli per i quali applicare la procedura accelerata, a sensi dell’articolo 28-bis. La Commissione territoriale informa tempestivamente il richiedente delle determinazioni procedurali assunte ai sensi del periodo precedente”. L’art. 28-bis (titolato “Procedure accelerate”), al comma 2, prevede che “La Questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni nei seguenti casi: (...) c) richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura, ai sensi dell’articolo 2-bis; d) domanda manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 28-ter; (...)”. La disciplina della procedura accelerata, sopra indicata, si limita, dunque, ad una fase di avvio e alla previsione di termini brevi. 6) -ricostruito il quadro normativo di riferimento, il giudice del rinvio rilevava che in ordine alla questione rimessa alla Corte di cassazione ex art. 363-bis c.p.c. la giurisprudenza di merito rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 delle sezioni specializzate era sostanzialmente divisa, essendo rinvenibili tre diversi orientamenti così sintetizzabili: 6.1) -secondo un primo indirizzo, il mancato rispetto dei requisiti previsti per la procedura accelerata (da seguire, per quanto attiene alla questione in esame, in caso di ricorrente proveniente da paese di origine sicura) preclude la possibilità che della stessa si producano gli effetti, con la conseguenza che, per quel che rileva in questa sede, non vi sia alcuna deroga alla regola della sospensione automatica conseguente alla proposizione del ricorso avverso il provvedimento di rigetto; 6.2) -un secondo indirizzo, muovendo dal rilievo che il decreto legge n. 113 del 2018, introducendo l’art. 28-ter, ha previsto una categoria di manifesta infondatezza sganciata dall’adozione di una preventiva procedura accelerata, afferma che l’adozione o meno della procedura accelerata avrebbe effetto esclusivamente ai fini del dimezzamento del termine per impugnare, ma sarebbe indifferente ai fini della sospensione automatica, potendo la Commissione territoriale adottare un provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza anche all’esito di una procedura ordinaria; 6.3) -secondo un terzo orientamento, infine, solo per le persone provenienti da paesi sicuri nei confronti dei quali sia stata adottata una decisione di rigetto per manifesta infondatezza (e non, invece, per tutte le altre ipotesi di manifesta infondatezza), la sospensione automatica potrebbe essere derogata in presenza di una corretta procedura accelerata (integrata dalla tempestiva comunicazione del Presidente della Commissione e dal successivo rispetto dei termini di legge previsti). L’esistenza di plurimi orientamenti sostanziava l’ulteriore requisito della “difficoltà” interpretativa posto dall’art. 363 bis c.p.c. tra le condizioni per l’utilizzo dello strumento processuale del rinvio pregiudiziale, accertata l’esigenza della determinazione sulla questione ai fini della definizione della questione, nonché il suo riflesso su una molteplicità di giudizi. In tal modo ritenuti soddisfatti i requisiti richiesti dall’art. 363 bis c.p.c., il tribunale di Bologna proponeva il rinvio pregiudiziale oggi in esame. 7) -La Prima Presidente, con decreto del 24 luglio 2023, dichiarava ammissibile la questione disponendone l’assegnazione alle Sezioni unite civili per l’enunciazione del principio di diritto. 8) -L’ufficio della Procura generale depositava memoria scritta concludendo per l’affermazione del seguente principio: -previa ammissibilità del rimedio processuale, la corretta adozione della procedura accelerata costituisce la base procedurale per ogni caso di manifesta infondatezza (e di inammissibilità) come può desumersi dalla collocazione unitaria delle norme di riferimento e dagli appositi richiami testuali; -la mancata e regolare applicazione delle esigenze organizzative e di programmazione che caratterizzano la procedura accelerata (ivi inclusa la mancata adozione, da parte del Presidente della Commissione Territoriale, del provvedimento di avvio e la mancata comunicazione dei relativi provvedimenti) consente di escludere la regolare applicazione della procedura accelerata e la deroga alla sospensione automatica del provvedimento di rigetto, con la conseguente prosecuzione della procedura nei termini ordinari. L’Avvocatura Generale dello Stato, costituitasi nel giudizio di merito in difesa della Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale e per il Ministero dell’Interno, depositava memoria. La causa è stata trattata alla pubblica udienza del 30 gennaio 2024. COnTEnzIOSO nAzIOnALE rAGIOnI DELLA DECISIOnE 9) -È preliminare valutare la ammissibilità del rinvio pregiudiziale, previsto dall’art. 363 bis c.p.c., nel caso in esame. Con l’ordinanza in esame si sottopone alla Corte la questione pregiudiziale avente ad oggetto la sospensione (automatica) del provvedimento amministrativo di rigetto per manifesta infondatezza della richiesta di protezione internazionale emesso in seguito alla procedura c.d. accelerata prevista dall’art. 28 bis del D.Lgs. n. 25/2008, in caso di irregolarità del procedimento. Si tratta quindi di valutare se il rinvio pregiudiziale sia ammissibile anche rispetto a provvedimenti lato sensu cautelari, quali la sospensione, che non siano di immediata utilità per la decisione di merito della controversia (nel caso specifico la richiesta di protezione). 10) -Devono indagarsi prioritariamente le finalità del nuovo istituto che, non casualmente, mira a rimettere al Giudice di legittimità non specifici provvedimenti (come ordinariamente -salve talune eccezionali previsioni di cui si dirà -è previsto per la ricorribilità in cassazione), ma “questioni” necessarie per definire, anche parzialmente, il giudizio. L’utilizzo del termine “questione” apre alla possibilità di includere nel nuovo strumento processuale dubbi interpretativi anche rispetto a fasi processuali, quali quelle cautelari, che, pur non sfociando in decisioni e provvedimenti immediatamente ricorribili in cassazione, siano caratterizzati da problematiche incidenti direttamente sulla decisione di merito, anche suscettibili di un interesse generalizzato rispetto a pluralità di controversie. 10.a) -Tale ambito applicativo dell’istituto è riscontrabile nella necessità di espandere la funzione nomofilattica della Corte di legittimità anche in chiave deflattiva del contenzioso, perseguita attraverso l’enunciazione di un principio di diritto che possa valere quale precedente in una serie di giudizi. L’individuazione di una “questione” caratterizzata dagli elementi indicati dall’art. 363 bis c.p.c., può essere, pertanto, oggetto di rinvio pregiudiziale in ogni fase, anche interlocutoria, del processo. 12) -nel nostro ordinamento una similare funzione di “nomofilachia preventiva” è riscontrabile nell’art. 420 bis c.p.c. e nell’art. 64 del D.Lgs. n. 165/2001. Entrambe le disposizioni, proprie del processo del lavoro, sono dirette alla anticipata soluzione di questioni attinenti all’efficacia, alla validità o all’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, con l’impugnazione diretta della decisione del giudice del primo grado, sul punto interpretativo, dinanzi al Giudice di legittimità. Le disposizioni richiamate contengono invero “la prescrizione di un circuito virtuoso per accelerare la formazione della giurisprudenza sulle norme dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro e quindi per promuovere una nomofilachia anticipata e più rapida (un vincolo parimenti di tipo processuale per l’attività interpretativa del giudice è previsto ora dal cit. art. 374 c.p.c., comma 3). Sotto questo aspetto la pronuncia che la Corte è chiamata a rendere ha una portata che, seppur in misura limitata, è idonea altresì a trascendere il caso di specie nel senso che ha una qualche incidenza anche in altri giudizi che pongono la medesima questione interpretativa della normativa collettiva di livello nazionale” (Cass. Sez u. n. 20075/2010). 12.a) -Di recente queste Sezioni unite (n. 34851/2023) hanno poi evidenziato che il rinvio pregiudiziale “rappresenta un’opportunità offerta al giudice di merito per rivolgersi all’organo giurisdizionale che, nell’attuale sistema, garantisce l’unità e l’uniforme interpretazione del diritto (...) e costituisce espressione di un nuovo bilanciamento tra i poteri riconosciuti alla giurisdizione di merito e di legittimità, nell’ambito del quale alla compressione del potere rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 decisorio cui il giudice di merito decide di sottostare nell’esercizio delle prerogative che la legge gli attribuisce fa riscontro una forte espansione del ruolo d’impulso allo stesso spettante come parte del sistema giustizia nel suo complesso, inteso non più solo come funzione dello Stato diretta all’attuazione del diritto nel caso concreto, ma come servizio pubblico in cui le risorse destinate alla soluzione della singola controversia contribuiscono al soddisfacimento di un più ampio compendio di esigenze individuali”. ha aggiunto che “tale meccanismo si pone in linea con l’esigenza del giusto processo, affidando alla Corte di cassazione il compito di decidere la questione ad essa sottoposta con pronunce rese in pubblica udienza, sia a sezioni unite che a sezione semplice, con la requisitoria scritta del Procuratore generale, per ciò stesso dotate di una valenza nomofilattica al più elevato livello e tali da renderle, se non vincolanti per altri giudizi, sicuramente dotate di un particolare grado di persuasività, proprio perché orientate a garantire la certezza e la prevedibilità del diritto”. 13) -nel caso in esame, peraltro, non soltanto il tema posto in sede di rinvio, quale la automaticità o meno della sospensione in caso di irregolarità del procedimento accelerato è questione che può riguardare una pluralità di altri giudizi, ma è anche tema che è in stretta correlazione con il giudizio di merito relativo alla valutazione della protezione internazionale richiesta. Invero la decisione interlocutoria sulla sospensione, con la possibilità di allontanamento necessitato del richiedente asilo nel corso del giudizio (per carenza del titolo di soggiorno), impedirebbe l’accoglimento della richiesta protezione, ove se ne accertino le condizioni, qualora risulti, al momento della decisione di merito, che il richiedente sia già ritornato, anche contro la sua volontà, nel suo paese (l’art. 2 D.Lvo n. 251/2007 prevede che: si intende per rifugiato ... cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza). 14) -La presenza sul territorio assume dunque connotato di necessità al fine dell’eventuale accoglimento dell’istanza di protezione e in tal modo si evidenzia il rilievo che la decisione interlocutoria e lato sensu cautelare sulla sospensione del provvedimento amministrativo di rigetto assume anche rispetto al giudizio di merito. 15) -In tale contesto, relativo a diritti soggettivi meritevoli di tutela, il vaglio in sede di rinvio pregiudiziale non può che essere affermato anche rispetto a questioni trattate in sede interlocutoria, non dirette, tecnicamente, a definire la causa di merito e non contenute in provvedimenti impugnabili in sede di legittimità, ma che siano comunque destinate ad incidere sulle posizioni delle parti nel processo e, in definitiva, sul processo stesso e sul suo esito. 16) -Si sostiene che occorrerebbe, ai fini dell’applicabilità dell’istituto, che il giudice sia investito di un giudizio di merito. L’assunto non è condivisibile sia perché risulterebbe pertinente solo all’ipotesi di procedimento cautelare ante causam, sia e soprattutto perché l’espressione della norma non evoca il giudice che deve decidere il merito, ma il giudice “di” merito. L’espressione implica, specie se si tiene conto che l’istituto ha vocazione a consentire l’esercizio del potere nomofilattico della Corte di cassazione, la posizione ordinamentale del giudice che esercita il potere di rimessione rispetto al giudice di legittimità, sicché è idonea a comprendere anche il giudice di merito che è investito del potere cautelare. 16.b) -È parimenti suggestivo, ma non convincente, l’argomento che è stato enunciato nel senso di una ontologica incompatibilità del nuovo istituto con l’urgenza tipica della giurisdizione cautelare. La rimessione, si è detto, impone la sospensione del giudizio ed essa contraddirebbe la logica stessa di quella giurisdizione. Deve in proposito evidenziarsi che la COnTEnzIOSO nAzIOnALE norma dell’art. 363-bis, nel disporre la sospensione del procedimento con la stessa ordinanza di rimessione, prevede che sia “salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”. Ebbene, il riferimento alle attività istruttorie nonché agli atti urgenti che non abbiano interazioni con la questione sottoposta al rinvio pregiudiziale, implica che comunque “l’urgenza” definitoria di una controversia sia stata considerata dal legislatore come non ostativa all’utilizzo dell’istituto e che possa aver rilievo anche al momento in cui il giudice di merito rimette la questione. 16.c) -Tanto induce allora a non escludere la possibilità che, nel rimettere la questione alla Corte il giudice di merito investito della cautela possa, all’atto stesso della rimessione, concedere la misura cautelare temporanea, idonea ad evitare il verificarsi del pregiudizio, in attesa della decisione della Corte. 17) - In conclusione, deve essere affermato il seguente principio di diritto: Il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363 bis c.p.c., in presenza di tutte le condizioni previste dalla disposizione, può riguardare questioni di diritto che sorgano anche nei procedimenti cautelari ante o in corso di causa. 18) - Va esaminata ora la specifica questione posta dal tribunale di Bologna. Giova rammentare che A.A. proponeva istanza ai sensi dell’art. 35 bis, quarto comma del D.Lvo n. 25/2008, diretta alla sospensione della decisione adottata dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. La Commissione aveva rigettato il ricorso per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art. 28 ter primo comma lett. b) D.Lvo n. 25/2008, trattandosi di richiedente proveniente da paese sicuro. Il ricorrente, aveva eccepito che il provvedimento impugnato doveva ritenersi automaticamente sospeso attesa la irregolarità della procedura accelerata adottata dalla Commissione, procedura espressamente prevista dall’art. 28 bis del predetto decreto legislativo. In particolare, aveva evidenziato il superamento dei tempi (domanda del 23 febbraio 2023 -audizione fissata per il 31 marzo 2023, non tenuta per mancata presentazione -provvedimento 4 aprile) previsti dalla norma invocata per la audizione del richiedente e l’emissione del provvedimento. 19) -Il tribunale, avvalendosi dell’art. 363 bis c.p.c., poneva il quesito se in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale nei confronti di soggetto proveniente dal Paese sicuro, vi sia o meno deroga al principio (imposto dalla Direttiva Europea n. 2013/32, salvo casi tassativi), di sospensione automatica del provvedimento impugnato, anche quando la Commissione territoriale non abbia applicato una corretta procedura accelerata. 20) -A sostegno del dubbio interpretativo l’ordinanza di rinvio esponeva tre differenti opzioni registratesi negli uffici di merito: 20.1) -il primo indirizzo, valorizza la rigorosa conformità alla Direttiva Europea che impone la regola della c.d. sospensione automatica, salvo casi eccezionali e tassativi (art. 46, paragrafi 5 e 6). Si afferma che la procedura accelerata vale per tutte le ipotesi di manifesta infondatezza (e di inammissibilità) e la sua mancata adozione conduce, in caso di proposizione di ricorso giurisdizionale, alla sospensione automatica del procedimento amministrativo. In altri termini, la deroga alla sospensione automatica in caso di ricorso giurisdizionale è con rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 sentita soltanto se la domanda è stata dichiarata infondata all’esito di una regolare adozione della procedura accelerata. 20.2) -Il secondo indirizzo interpretativo valorizza quanto disposto dall’art. 32, paragrafo 2 della Direttiva, che autorizza gli Stati membri ad introdurre una categoria di manifesta infondatezza nei casi di domande infondate cui si applichi una qualsiasi delle circostanze elencate nell’art. 31, paragrafo 8. La norma (l’art. 32, paragrafo 2) viene richiamata anche dall’art. 46 paragrafo 6 della Direttiva tra le ipotesi di deroga al principio della sospensione automatica. Si afferma, di conseguenza, che la manifesta infondatezza, sulla base delle citate norme internazionali, può essere pronunciata dalla commissione territoriale senza essere necessariamente agganciata ad una preventiva procedura accelerata: il legislatore italiano, con l’introduzione dell’art. 28 ter (“domande manifestamente infondate”), forse anche inconsapevolmente, a dire di questo indirizzo interpretativo, avrebbe recepito l’art. 31, paragrafo 8 della Direttiva e le norme ad essa correlate. L’art. 28 ter regola i casi di manifesta infondatezza ma non chiarisce se debba essere applicata la procedura accelerata regolata dagli artt. 28 e 28 bis a differenza di quanto accadeva nel testo anteriore alla riforma del 2018. Da ciò si deduce che la Commissione territoriale possa adottare una decisione di manifesta infondatezza indipendentemente dall’applicazione di una procedura accelerata ed anche in tal caso la decisione sarebbe comunque immediatamente esecutiva. 20.3) -Il terzo indirizzo afferma che la procedura accelerata è imposta dalla legge italiana non per tutti i casi di manifesta infondatezza, ma soltanto per l’ipotesi in cui sia dichiarata per richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri. Secondo questa impostazione, non in tutti i casi di manifesta infondatezza ma per i soli soggetti provenienti da paese sicuro, la sospensione automatica potrebbe essere derogata e soltanto in presenza di una corretta procedura accelerata. In conclusione, rispetto agli effetti della deroga alla procedura accelerata, per il primo indirizzo la deroga comporta sempre la sospensione automatica del provvedimento amministrativo; per il terzo indirizzo la deroga della procedura accelerata comporta la sospensione automatica del provvedimento solo per i provenienti da paesi sicuri; mentre per il secondo indirizzo la deroga produce effetto per il dimezzamento del termine per impugnare ma non ai fini della sospensione, perché la categoria della manifesta infondatezza sarebbe comunque immediatamente esecutiva. 21) -La Direttiva 2013/32/uE pone un principio generale secondo cui la proposizione del ricorso giurisdizionale sospende sempre in modo automatico l’esecuzione del provvedimento impugnato, salvo che in casi tassativi. L’art. 46 della Direttiva prevede infatti che fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. 21.a) -Per quel che qui interessa, fra le ipotesi di deroga al principio richiamate dal paragrafo 6 (con richiami alle ipotesi degli artt. 31 e 32) vi è la provenienza del richiedente da paesi ritenuti sicuri. 21.b) -La normativa interna applicabile ratione temporis al caso in esame (D.Lvo n. 25/2008) dispone all’art. 35 bis terzo comma che La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto.... COnTEnzIOSO nAzIOnALE c) avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis). 22) -risulta chiara, anche nella normativa interna, la presenza di un principio generale di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento qualora lo stesso sia impugnato con ricorso giurisdizionale. Anche in tale ambito interno sono espressamente disciplinate le ipotesi di deroga a detto principio e tra esse, per quanto qui in rilievo, l’ipotesi di impugnazione del provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis. Quest’ultima disposizione fa riferimento all’ipotesi di rigetto della domanda per manifesta infondatezza nei casi di cui all’articolo 28-ter, cioè nelle ipotesi in cui il richiedente proviene da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’articolo 2-bis. A tale ricostruzione va infine aggiunto quanto disposto dall’art. 28 bis con riguardo alla c.d. procedura accelerata che riguarda tra le altre ipotesi, quella relativa al richiedente proveniente da paese ritenuto sicuro. 23) -La ricostruzione normativa, pur articolata nell’intreccio delle fonti, individua dunque un principio generale di sospensione del provvedimento amministrativo con talune deroghe tra cui, quella del richiedente proveniente da paese sicuro per il quale è stata adottata dalla Commissione una procedura accelerata. Occorre valutare se l’irregolarità della procedura accelerata produce il venir meno della deroga al principio ed il riespandersi della sospensione del provvedimento. Taluni passaggi argomentativi risultano necessari per svolgere una analisi adeguata della questione posta. 24) -Il principio di sospensione automatica. Il principio di sospensione automatica del provvedimento della Commissione è espressione del principio di effettività della tutela. Si tratta di un principio generale dell’ordinamento unionale che trova positive affermazioni negli artt. 6 e 13 CEDu, nell’art. 47 della carta dei Diritti fondamentali uE e, con riferimento alla materia della protezione internazionale, nell’art. 46 della Direttiva 2013/32/uE. Il principio si traduce, in concreto, nel diritto di difesa, di parità delle armi processuali, di ricorso al giudice, nel diritto complessivo ad un giusto processo. nel caso in esame si traduce, specificamente, nel diritto ad essere presente nel processo allorchè, in caso non fosse operativa la sospensione del provvedimento emesso dall’Organo amministrativo, il richiedente sarebbe a rischio di un allontanamento in quanto non più titolato a restare nel Paese, con effetti preclusivi sul suo diritto di difesa e, come visto, addirittura sulla possibilità di giungere ad una decisione di merito eventualmente a lui favorevole. 25) -La procedura accelerata, finalità e coerenza interna dei casi di deroga. ulteriore tassello della questione posta su cui occorre soffermarsi è dato dalle modalità di funzionamento della procedura accelerata, dalle ragioni interne alla scelta di adozione della stessa e, quindi, dalla ratio che fa conseguire alla adozione di essa la deroga al principio di sospensione del provvedimento della Commissione territoriale. L’art. 28 bis D.Lvo n. 25/2008 sancisce che la Commissione territoriale, ricevuta dalla Questura la necessaria documentazione, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni. Si tratta, all’evidenza, di una procedura focalizzata esclusivamente su termini di rapida audizione del richiedente e di pressoché contestuale decisione. Le ragioni della adozione di siffatta rapidità sono espresse dalla stessa disposizione allorché individua i casi in cui sia possibile adottare rapidità procedimentale nelle ipotesi in cui o il richiedente sia trattenuto presso strutture o centri di accoglienza, o sia inammissibile la richiesta rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 o, ancora, sia manifestamente infondata e, comunque, il richiedente provenga da paesi sicuri. 26) -Il tratto che accomuna le ipotesi indicate dall’art. 28 bis, nella sua formulazione che ratione temporis interessa, (deve sottolinearsi che nel corso del tempo la disciplina della procedura accelerata ha subito diversi interventi e modifiche legislative) sembra essere la immediata acquisizione dei dati e documenti necessari alla valutazione e la conseguente possibilità di una rapida decisione. 27) -Tali caratteristiche sembrerebbero poi particolarmente rinvenibili nella fattispecie della provenienza da paese sicuro trattandosi di condizione accertabile con facilità attraverso il richiamo all’elenco dei paesi sicuri approvato con decreto ministeriale. La possibilità di annoverare il paese di origine del richiedente tra i paesi sicuri dovrebbe rendere immediatamente decidibile la richiesta e dunque adottabile la procedura accelerata con il rispetto dei termini ivi previsti. 28) -nel caso in esame, secondo il giudice rimettente, pur essendo tali le ragioni della scelta della procedura adottata perché ritenuto sicuro il paese di origine, non si è provveduto nel rispetto dei termini di cui all’art. 28 bis. Tale “sforamento” è stato giustificato dalla Commissione con la difficoltà di reperire un interprete per l’audizione. Il tribunale bolognese ha poi rilevato una ulteriore irregolarità nella procedura per la mancata adozione e comunicazione del provvedimento di avvio. 29) -Tornando a ragionare sulle condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio di sospensione del provvedimento della Commissione territoriale, deve affermarsi che proprio la qualità di principio generale della sospensione non può che richiedere stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe. non risulta infatti compatibile con l’impianto del sistema e con il rapporto tra principi generali e deroghe agli stessi, la possibilità di ampliare il funzionamento di queste ultime tollerando il superamento dei termini indicati per ragioni che, evidentemente, dimostrano la necessità di accertamenti e attività non compatibili con la ristrettezza dei tempi dati. 30) -Pur non potendo compiutamente affrontare in questa sede le problematiche inerenti, da un lato la possibilità che il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine e, dal- l’altro la possibilità che il giudice debba, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta, peraltro, di decreti necessitanti continuo aggiornamento), di esse (delle problematiche) occorre tener conto allorché si debba valutare se una esorbitanza dei tempi necessari alla valutazione possa ancora far ritenere accelerata la procedura e derogato il principio di sospensione del provvedimento. 31) -La ratio comune alle ipotesi contenute nell’art. 28 bis, ovvero la immediata presenza o acquisibilità degli elementi da valutare, e la stretta connessione tra ristrettezza dei tempi, decisione e deroga al principio della sospensione, evidenzia la necessitata coesistenza dei tre fattori e, dunque, il venir meno dell’intero impianto in caso del venir meno di uno di essi (tempi dati). La presenza di variabili nell’accertamento in tempi ristretti (si è detto sulla contestazione e sull’accertamento circa la natura di paese sicuro ma le difficoltà possono essere di varia tipologia) non può che evidenziare che, qualora si verifichi un prolungamento temporale che faccia superare i tempi previsti dalla disposizione, si versa in una differente ipotesi procedi- mentale, evidentemente necessaria per gli approfondimenti richiesti, con conseguenze anche sulla necessaria sospensione del provvedimento. 32) -Quanto alla scelta legislativa di reiterare nel disposto dell’art. 35 bis D.lvo n. 25/2008 il COnTEnzIOSO nAzIOnALE richiamo alla provenienza da paesi sicuri sia perché ragione di manifesta infondatezza della domanda che di adozione della procedura accelerata, si osserva che evidentemente, al di là di costituire una duplicazione (come indicato dall’ordinanza di rinvio), tale circostanza può essere significativa del fatto che soltanto se detta provenienza sia immediatamente accertabile come effettivamente sussistente possa determinare l’adozione della procedura accelerata per manifesta infondatezza, mentre, in caso contrario, ove la circostanza sia contestata dal richiedente ovvero richieda comunque un accertamento ulteriore, essa possa essere oggetto di una ordinaria procedura che esiterà, eventualmente, nel rigetto della domanda, qualora siano accertate le ragioni della infondatezza (non più manifesta) di quest’ultima. 33) -Deve essere quindi ritenuto che, al fine di poter ritenere derogato il principio generale di sospensione del provvedimento della Commissione, principio, ricordiamolo, posto a presidio della effettività delle tutele riconosciute per la protezione internazionale, deve essere stata svolta e rigorosamente osservata la procedura accelerata, con i termini suoi propri nei casi, espressamente previsti, di manifesta infondatezza (o inammissibilità). Qualora la procedura non venga osservata (anche se originariamente adottata) e dunque la ragione da valutare non sia così “manifesta”, occorrendo accertamenti o comunque tempi di maggior durata, il procedimento assumerà la veste ordinaria con il ripristino di tutti gli effetti, compresa la sospensione del provvedimento della Commissione territoriale (in termini Cass. n. 6745/2021; Cass. n. 30515/2023). 34) -non valevole a contrastare dette conclusioni è l’argomento da ultimo proposto dall’Avvocatura Generale dello Stato circa la esistenza di una tutela comunque azionabile da parte del richiedente in caso di immediata esecutività del provvedimento amministrativo, come sancito dal comma 4 dell’art. 35 bis. Tale norma stabilisce che “Nei casi previsti dal comma 3, lettere a), b), c) e d), l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa, quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni e assunte, ove occorra, sommarie informazioni, con decreto motivato, pronunciato entro cinque giorni dalla presentazione dell’istanza di sospensione e senza la preventiva convocazione della controparte. Lo strumento impugnatorio di cui alla disposizione, seppur connotato da celerità di tempi e di modalità accertative, presuppone comunque un onere allegatorio e probatorio in capo al richiedente circa le gravi e circostanziate ragioni e si pone certamente su un piano di valutazione estraneo alla diretta operatività del principio di effettività della tutela che opera con la sospensione automatica. Le ragioni sopra evidenziate circa il necessario legame tra tempi di decisione accelerata e deroga al principio generale di sospensione, quale espressione del bilanciamento tra posizioni soggettive richiedenti tutela e interesse pubblico ad un rapido accertamento della effettività dei diritti vantati, deve far escludere che si ponga sullo stesso piano processuale e sostanziale la sospensione automatica e la sospensione che consegua ad un procedimento di accertamento giudiziale con oneri per la parte richiedente. L’obiezione posta non coglie dunque nel segno. 36) -In conclusione, la questione sollevata dall’ordinanza di rimessione va risolta attraverso l’enunciazione del principio di diritto riportato nel dispositivo. Al giudice del merito la determinazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte a Sezioni unite, visto l’art. 363 bis c.p.c., con riguardo al rinvio pregiudiziale di cui all’ordinanza in esame, enuncia il seguente principio: “in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione Territoriale rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 per il riconoscimento della Protezione Internazionale nei confronti di soggetto proveniente da Paese sicuro, vi è deroga al principio generale di sospensione automatica del provvedimento impugnato solo nel caso in cui la commissione territoriale abbia applicato una corretta procedura accelerata, utilizzabile quando ricorra ipotesi di manifesta infondatezza della richiesta protezione. In ipotesi contraria, quando la procedura accelerata non sia stata rispettata nelle sue articolazioni procedimentali, si determina il ripristino della procedura ordinaria ed il riespandersi del principio generale di sospensione automatica del provvedimento della Commissione territoriale”. Dispone la restituzione degli atti al tribunale di Bologna che dovrà provvedere anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso il roma il 30 gennaio 2024. COnTEnzIOSO nAzIOnALE scioglimento di consiglio comunale per infiltrazioni mafiose e incandidabilità degli amministratori locali ex art. 143, comma 11, t.U.e.L. CASSAZIONE, SEZIONE I CIVILE, ORDINANZA 22 MAGGIO 2024 N. 14356 L’ordinanza della Corte di cassazione del 22 maggio 2024, n. 14356 ha accolto il ricorso per cassazione del Ministero dell’Interno volto ad ottenere la dichiarazione di incandidabilità del sindaco e di due assessori di un comune sciolto ex art. 143 TuEL per infiltrazioni mafiose affermando che “l’elemento soggettivo dell’amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica”. La Corte di cassazione ha censurato la statuizione della Corte d’Appello secondo la quale quanto emerso dai dati acquisiti non provava “la volontà” degli amministratori locali di privilegiare soggetti legati alla locale associazione mafiosa. non è stato quindi ritenuto necessario un comportamento intenzionale ma meramente colposo. Conclude la Corte di cassazione: “ne discende che -contrariamente all’assunto della Corte territoriale -l’accertamento del venir meno, anche solo colposo, da parte dell’amministratore locale agli obblighi di vigilanza riconnessi alla sua carica è di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall’art. 2, comma 30, della legge n. 94/2009, proprio perché la finalità perseguita dalla norma è quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell’amministrazione comunale possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali (Cass. n. 2749/2021)”. Wally Ferrante* Cassazione civile, sezione i, ordinanza 22 maggio 2024 n. 14356 -Pres. A. Valitutti, Rel. C. Parise -Ministero dell’Interno (avv. gen. Stato) c. omissis (avv. M. Federico); contro omissis, omissis, omissis. FATTI DI CAuSA 1. Con nota dell’8 agosto 2018, il Ministero dell’Interno trasmetteva al Tribunale di (...), per le finalità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, il Decreto del Presidente della repubblica, emesso in data 29 giugno 2018, di scioglimento per infiltrazioni mafiose del Con(*) Avvocato dello Stato. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 siglio comunale di (...), unitamente alla relazione del Ministro dell’Interno del 27 giugno 2018. 2. Con decreto dell’11 giugno 2020, il Tribunale rigettava il ricorso proposto dal Ministero dell’Interno, diretto ad ottenere la misura interdittiva dell’incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000 nei confronti di omissis di omissis e di omissis, mentre dichiarava l’incandidabilità di omissis. 3. Avverso il predetto decreto proponeva reclamo il Ministero dell’Interno, chiedendo fosse dichiarata l’incandidabilità di omissis, omissis e omissis. I reclamati, costituitisi in giudizio, chiedevano il rigetto dell’impugnazione. 4. Con decreto n. 339 del 4 dicembre 2020, la Corte di Appello di (...) respingeva il ricorso e confermava il decreto emesso dal Tribunale, ritenendo che quanto emerso dai dati acquisiti non provasse la volontà degli amministratori locali di privilegiare soggetti legati alla locale associazione mafiosa. In particolare, la Corte di Appello di (...) rilevava che: a) con specifico riferimento alla posizione del omissis, in qualità di sindaco, e del omissis in qualità di assessore alle politiche sociali, la relazione prefettizia aveva evidenziato l’assenza di un criterio oggettivo e predeterminato per l’erogazione dei contributi, concessi con modalità sostanzialmente arbitrarie anche dopo l’istituzione, nel 2016, di un’apposita Commissione Tecnica per la valutazione delle relative istanze e, tenuto conto delle risultanze processuali, detti fatti dovevano ritenersi accertati; quanto a omissis, assessore alla pubblica istruzione, attività produttive e sport, non poteva desumersi alcuna forma di condizionamento soltanto dalla circostanza che i controlli, nell’ambito del settore delle attività produttive, erano effettuati da parte di un agente della Polizia Municipale, imputato, fra l’altro, del reato di cui all’art. 416 bis c.p.; b) il Tribunale aveva esaminato puntualmente gli elementi acquisiti sia in seguito all’indagine di polizia giudiziaria denominata (...), in cui erano state effettuate diverse intercettazioni telefoniche ed ambientali e assunte sommarie informazioni testimoniali, sia in seguito all’indagine amministrativa svolta da un’apposita commissione prefettizia; c) nello specifico le erogazioni assistenziali erano state concesse con frequenza mensile e quasi sempre agli stessi soggetti, nonostante il regolamento comunale ne prevedesse la concessione una tantum durante l’anno, e molti dei beneficiari risultavano collegati con la criminalità organizzata ed in loro favore erano stati erogati contributi, nell’arco temporale dal 2011 al 2017, per un importo complessivo di euro 87.990,40, corrispondente al 67% delle risorse disponibili; d) inoltre numerose richieste di contributi erano state compilate con l’indicazione soltanto del nominativo del richiedente e senza alcuna attestazione sul reddito, mentre le elargizioni di maggiore entità risultavano effettuate in favore di soggetti legati alla locale associazione mafiosa; e) nonostante l’accertamento di queste circostanze avesse determinato lo scioglimento del consiglio comunale, sulla base dei dati acquisiti non era emerso alcun collegamento, indiretto, dei reclamati con esponenti della criminalità organizzata; collegamento che invece era stato provato per omissis, consigliere ed assessore (dal 2011 al 2016) alle politiche sociali del Comune di (...), di cui era stata dichiarata l’incandidabilità dal Tribunale; f) il condizionamento richiesto dal- l’art. 143, comma 11, del D.Lgs. n. 267/2000 richiedeva un’azione commissiva o omissiva dell’amministratore volontariamente diretta a favorire la criminalità organizzata di tipo mafioso, non essendo sufficienti ad integrare una forma di condizionamento condotte meramente colpose, determinate da negligenza o incapacità dell’amministratore nell’esercizio del potere- dovere di vigilanza e controllo sull’attività dell’ente comunale, mentre nella specie dai dati acquisiti emergeva certamente un uso distorto della macchina amministrativa e la mancanza di adeguati controlli, ma non era affatto provato che i comportamenti dei reclamati fossero COnTEnzIOSO nAzIOnALE stati posti in essere -piuttosto che, semplicemente, con l’intenzione di avvantaggiare i propri elettori -con la volontà di privilegiare soggetti legati alla locale associazione mafiosa; l’esistenza di una corsia preferenziale per questi soggetti era, invece, certamente attribuibile, sulla base delle risultanze processuali, alla presenza del omissis nel consiglio e nella giunta comunale, ma alcun elemento “concreto, univoco e rilevante” era emerso nei confronti dei reclamati, tanto più tenendo conto, da un lato, che i contributi erano stati erogati comunque in favore di soggetti in possesso dei requisiti di legge, dall’altro, che non vi era prova che i reclamati fossero a conoscenza dei rapporti del omissis con la criminalità organizzata. 5. Avverso questo decreto, il Ministero dell’Interno ha proposto ricorso per cassazione, articolato in un unico motivo di ricorso e resistito con controricorso da omissis. Sono rimasti intimati omissis, omissis e omissis. 6. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ. rAGIOnI DELLA DECISIOnE 1. Con l’unico motivo del ricorso, il Ministero ricorrente denuncia “la violazione e falsa applicazione dell’art. 143, comma 11 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Il ricorrente lamenta che la Corte di Appello abbia erroneamente ritenuto necessaria, al fine di dichiarare l’incandidabilità degli odierni resistenti, una responsabilità dolosa in relazione all’infiltrazione della criminalità organizzata nell’amministrazione del Comune di (...). Il ricorrente afferma che, ai sensi del citato art. 143, comma 11, la misura interdittiva in questione non richiede che la condotta dell’amministratore integri gli estremi di un reato, essendo sufficiente che emerga una possibile soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata. Ai fini dello scioglimento del consiglio comunale e della declaratoria di incandidabilità non sono, pertanto, necessarie circostanze che denotino il volontario concorso degli amministratori nei fatti in cui si concretizzano l’infiltrazione e il condizionamento mafioso, risultando sufficiente che a tale fenomeno i titolari degli organi dell’ente non siano stati in grado di opporsi efficacemente in presenza di sintomatiche disfunzioni dell’agire del Comune delle quali si siano giovati gli interessi della consorteria criminale organizzata, circostanze emerse nei fatti in causa e riconosciute, a dire del ricorrente, anche dai giudici di secondo grado. La Corte di Appello, ad avviso del Ministero, è incorsa nella violazione del citato art. 143, comma 11, escludendo l’idoneità di un addebito colposo per fondare la dichiarazione di incandidabilità e pretendendo un livello di intenzionalità ed intraneità dell’amministratore con la consorteria criminale che nessuna norma pretende. 2. Il motivo è fondato. 2.1. Secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio intende qui ribadire, l’accertamento della incandidabilità degli amministratori, ai sensi dell’art. 143, comma 11, del TuEL di cui al d.lgs. n. 267/2000, attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del- l’organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell’organo, che quelle hanno pure generato, ed è disposto, ai sensi del precedente comma 3, del menzionato art. 143 TuEL, con d.P.r. (“su proposta del Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione di cui al comma 3, ed è immediatamente trasmesso alle Camere”). In sostanza, la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell’indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell’ente locale con riferimento alle loro condotte rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. 3024/2019; Cass. S.u. 1747/2015; Cass. 19407/2017), e tale misura non è in contrasto con la Costituzione, attesa la sua temporaneità. Per quel che più ora interessa, va rimarcato che l’elemento soggettivo dell’amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica. 2.2. nel caso di specie, la Corte d’appello, pur correttamente premettendo l’assenza di ogni automatismo tra scioglimento del singolo consiglio comunale e declaratoria di incandidabilità degli amministratori, non si è attenuta agli altri principi sopra ricordati. In particolare, la Corte di merito ha accertato con certezza “un uso distorto della macchina amministrativa e la mancanza di adeguati controlli” (pag. 7 della sentenza impugnata), vale a dire l’esistenza di un’oggettiva situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, tale da rendere possibili ingerenze esterne nel suo ambito e un concreto asservimento dell’amministrazione alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio. A fronte di un tale accertamento, la Corte territoriale ha di seguito erroneamente valorizzato il fatto che non fosse “emerso alcun collegamento, diretto o indiretto, dei reclamati con esponenti della criminalità organizzata” ed ha affermato, altrettanto erroneamente, che non fosse rilevante, ai fini dell’incandidabilità, la “condotta colposamente omissiva dei reclamati che avrebbe consentito il condizionamento dell’azione amministrativa da parte dell’associazione mafiosa”. Come già affermato da questa Corte, rispetto alla figura apicale dell’amministrazione comunale costituita dal sindaco o alla figura del vice sindaco, al di là della mancanza di frequentazioni e rapporti con esponenti della Criminalità organizzata locale o di agevolazioni dirette della stessa, occorre comunque estendere l’indagine alla condotta da questi tenuta nell’ambito amministrazione municipale al fine di acclarare rapporto eventualmente dato (con azioni od omissioni) nel provocare la situazione che aveva condotto allo scioglimento dell’organo assembleare (Cass. 2749/2021; Cass. 31550/2023). nello svolgimento di questa indagine si deve considerare che il sindaco ed il vice sindaco sono chiamati ad esercitare, nelle rispettive specifiche competenze, il potere/dovere: di vigilare e sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti, ai sensi dell’art. 50, comma 2, TuEL; di indirizzare e controllare l’operato dei soggetti a cui era affidato il compito di dare attuazione alle scelte deliberate dall’amministrazione, ex art. 107, comma 1, TuEL; più in generale, di sovrintendere alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, a mente dell’art. 54, comma 1, lett. c), TuEL. La trasgressione di questi doveri di vigilanza, all’evidenza, non solo è capace di determinare una situazione di cattiva gestione dell’amministrazione comunale, ma rende possibili ed agevola ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, finendo per creare le condizioni per un asservimento dell’amministrazione municipale agli interessi malavitosi. ne discende che -contrariamente all’assunto della Corte territoriale -l’accertamento del venir meno, anche solo colposo, da parte dell’amministratore locale agli obblighi di vigilanza riconnessi alla sua carica è di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall’art. 2, comma 30, della legge n. 94/2009, proprio perché la finalità perseguita dalla norma è quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell’amministrazione comunale possano aspirare a ricoprire cariche identiche COnTEnzIOSO nAzIOnALE o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali (Cass. n. 2749/2021). In altre parole, la Corte d’appello ha effettuato una valutazione atomistica (Cass. 25380/2023) e soprattutto, pur avendo sicuramente accertato un uso distorto della macchina amministrativa e l’assenza di adeguati controlli, ha preteso la prova di un collegamento diretto e indiretto con le associazioni mafiose e della volontà di favorire il sodalizio criminale, mentre la dichiarazione di incandidabilità prevista dall’art. 143, comma 11, d.lgs. n. 267 del 2000 non richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o di concorso esterno alla stessa, essendo sufficiente che egli, da un punto di vista soggettivo, non sia riuscito a contrastare efficacemente ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio e da un punto di vista oggettivo, abbia tenuto una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica (Cass. 8056/2022; Cass. 31550/2023 citata). Va aggiunto che, come pure già affermato da questa Corte e per quanto rileva, specificamente, anche per le posizioni di omissis, assessore alle politiche sociali per circa un anno (dal 2016 al 2017) e omissis, assessore alla pubblica istruzione, attività produttive e sport, oltre che per quella del sindaco omissis, incorre nella sanzione di incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, il singolo amministratore che, pur non essendo direttamente responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’ente, indipendentemente dalle attribuzioni dell’organo di cui faceva parte, abbia comunque concorso a determinare quell’effetto, fornendo un contributo alla condotta, commissiva od omissiva, degli altri amministratori cui competeva rispettivamente di assumere o non assumere determinazioni rilevanti a tal fine (Cass. 24566/2022), sicché l’indagine di merito dovrà svolgersi anche in relazione ai suddetti profili. 3. In conclusione, il ricorso va accolto, va cassato il decreto impugnato e la causa va rinviata alla Corte dappello di (...), in diversa composizione, che dovrà procedere al riesame del merito alla luce dei suesposti principi e anche decidere in ordine alle spese del giudizio di legittimità. Va disposto che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52. P.Q.M La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato; rinvia la causa alla Corte di appello di (...), in diversa composizione, a cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in roma, il 14 marzo 2024. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 La Corte di Cassazione si esprime sullo scorrimento delle graduatorie delle progressioni verticali NOTA A CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, ORDINANZA 28 MAGGIO 2024, N. 14919 Antonino Ripepi* La pronuncia in commento interviene su una fattispecie concreta di grande rilevanza, che ha generato un contenzioso esteso a tutta la penisola. I dipendenti del MIBACT, infatti, avevano agito in giudizio riferendo di avere partecipato ai corsi-concorsi per titoli ed esami per i passaggi interni dalla Area B alla Area C, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. a), CCnL Comparti Ministeri 1998-2001 e di essere risultati tutti idonei nelle graduatorie a fronte del numero di posti utili a bando autorizzati, e cioè 460 unità rispetto alle 920 programmate. Avevano dedotto l’inadempimento del MIBACT, in quanto quest’ultimo non aveva proceduto allo scorrimento delle graduatorie alla luce sia dell’entrata in vigore dell’art. 62, comma 1, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, sia del diniego di autorizzazione da parte degli organi di controllo alla copertura dei restanti 460 posti banditi. Le disposizioni di riferimento, da cui la presente analisi intende muovere, sono gli artt. 24 e 62 d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. Infatti, l’art. 24 (“Progressioni di carriera”), comma 1, cit. dispone: «Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni». A sua volta, l’art. 62, comma 1, cit. chiarisce ulteriormente che «Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso». Alla luce dell’impianto normativo sopravvenuto, ogni Amministrazione, a partire dal 2010, per la progressione dei propri dipendenti tra le aree di inquadramento, è impossibilitata ad attingere da graduatorie di procedure selettive interne, che siano state approvate prima o dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, pena l’illegittimità dell’azione amministrativa per violazione di legge (Cons. Stato, Sez. IV, 27 febbraio 2018, n. 1188; (*) Procuratore dello Stato, referente Distrettuale della “rassegna Avvocatura dello Stato”. COnTEnzIOSO nAzIOnALE Corte conti, Sez. contr. Sicilia, 30 settembre 2015, n. 265; Corte cost. n. 90/2012). In sintesi, il d.lgs. cit. ha definitivamente abolito la possibilità di ricorso alle selezioni interne per la progressione verticale ed ha introdotto (ex artt. 24 e 62 d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150), a partire dal 1° gennaio 2010, l’obbligo della copertura integrale dei posti disponibili tramite concorso pubblico, prevedendo la sola facoltà di riservarne fino al 50% al personale interno dotato dei requisiti richiesti dal bando. né si potrebbe affermare che le citate disposizioni del d.lgs. cit. abbiano trovato indebita applicazione retroattiva, in quanto gli artt. 24 e 62 cit., pur non in vigore al momento dell’indizione della selezione interna, erano pienamente in vigore al momento dell’approvazione delle graduatorie. Invero, nella fattispecie in esame non era in contestazione il diritto dei vincitori all’assunzione, bensì il diverso interesse degli idonei allo scorrimento della graduatoria, sicché la legge applicabile è quella vigente al momento in cui è sorta l’esigenza di copertura dei posti (Cons. Stato, Sez. IV, 27 febbraio 2018, n. 1188). D’altronde, con la Circolare n. 5/2013, il Dipartimento della Funzione Pubblica ha chiarito che «il fatto che la lettera b) del comma 3 dell’articolo 4 del d.l. 101/2013 richiami le “proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 1° gennaio 2007” senza precisare, come invece fa la lettera a) della stessa disposizione che le graduatorie siano quelle “di concorsi pubblici’, non è dirimente rispetto alla possibilità di scorrere graduatorie relative a progressioni verticali bandite sulla base della disciplina normativa previgente al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ai fini dell’assunzione dei candidati idonei. Una lettura sistematica impone il richiamo all’articolo 52, comma 1bis, del d.lgs. 165/2001, così come modificato ed integrato dall’articolo 62 del d.lgs. 150/2009 … Dunque, resta fermo il principio che, per effetto del richiamato articolo 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009, l’utilizzo delle graduatorie relative ai passaggi di area banditi anteriormente al 1° gennaio 2010, in applicazione della previgente disciplina normativa, è consentito al solo fine di assumere i candidati vincitori e non anche gli idonei della procedura selettiva. Peraltro, per l’individuazione dell’ambito oggettivo di applicazione della norma del predetto comma 3, lettera b) può essere, altresì, indicativa la disposizione contenuta nel comma 4 dello stesso articolo 4 del d.l. 101/2013 che proroga ‘l’efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato’ con evidente esclusione delle graduatorie relative a concorsi non pubblici». Secondo una prospettazione condivisa dalla sentenza in analisi, deve dunque -trovare applicazione la normativa vigente nel momento in cui si pretende di realizzare lo scorrimento medesimo (così Cass., Sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16728); con la conseguenza che, una volta che l’Amministrazione rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 abbia assunto la decisione di coprire il posto attingendo allo scorrimento della graduatoria, tale decisione risulta equiparabile, nella sostanza, all’espletamento di tutte le fasi di una procedura concorsuale. Pertanto, con la delibera di procedere allo scorrimento si riattiva l’intera sequenza concorsuale, ma, inevitabilmente, occorre considerare i requisiti di validità vigenti al momento della determinazione assunta dall’amministrazione. ne discende che lo ius superveniens, costituito dalle limitazioni introdotte con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ai concorsi riservati al personale interno, risulta preclusivo dell’asserito diritto vantato dai dipendenti allo scorrimento della graduatoria. Inoltre, la Suprema Corte richiama anche quel condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo il quale «dopo il 1° gennaio 2010, non sono più previste le progressioni verticali riservate agli interni e quindi non è più consentito nemmeno lo scorrimento delle graduatorie relative a procedure per progressioni verticali interamente riservate ai dipendenti, con la conseguenza che tali graduatorie sono escluse dall’ambito di applicazione delle norme che nel tempo hanno disposto la proroga legale dell’efficacia e che, dal 1° gennaio 2010, dall’inserimento come idonei in tali graduatorie non può più discendere alcuna legittima aspettativa» (Cons. Stato, 16 agosto 2021, n. 5884). Pertanto, anche nella giurisprudenza civile di legittimità risulta ormai scolpito il principio secondo cui il potere di scorrimento della graduatoria riguarda esclusivamente i pubblici concorsi e non le selezioni riservate, come i concorsi interni. Il principio della preferenza per lo scorrimento della graduatoria non può applicarsi al caso in cui la graduatoria degli idonei non sia stata approvata all’esito del concorso pubblico, ma di una selezione interna; infatti, la disomogeneità tra i due termini di comparazione (progressione verticale in base a procedura interna e pubblico concorso) non permette di derogare alla regola del concorso pubblico, così impedendo il ricorso alla facoltà di scorrimento. Inoltre, giova ribadire che, nel pubblico impiego contrattualizzato, anche ai fini della selezione interna per l’accesso a posti superiori vacanti, la scelta dell’amministrazione di utilizzare le graduatorie degli idonei per scorrimento non costituisce un diritto soggettivo degli stessi, ma postula sempre l’esercizio prioritario di una discrezionalità della P.A. nel coprire il posto o la posizione disponibile, ove un obbligo in tal senso non sia contemplato dalla contrattazione collettiva o dal bando (Cass., 16 gennaio 2024, n. 1674). risulta dato ormai acquisito che l’oggettiva disponibilità e la vacanza di posti in organico non generino automaticamente un diritto soggettivo pieno all’assunzione mediante scorrimento della graduatoria degli idonei di un pubblico concorso. COnTEnzIOSO nAzIOnALE L’Amministrazione non è, infatti, tenuta alla copertura incondizionata dei posti vacanti o disponibili, dovendo assumere una decisione organizzativa complessa, nell’ambito della quale vengono considerati anche eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e a tutti gli altri elementi di fatto e di diritto rilevanti nella situazione concreta. Anche il Consiglio di Stato (Sez. III, 27 novembre 2017, n. 5559) ha affermato che, non avendo l’Amministrazione il dovere di attingere dalla graduatoria precedentemente stilata per coprire i posti vacanti, di riflesso l’idoneo non vincitore di un concorso pubblico non vanta una posizione di diritto, ma di mera aspettativa all’assunzione, «atteso che l’Amministrazione conserva un’ampia discrezionalità ed ha una semplice facoltà, e non un obbligo, di procedere allo scorrimento della graduatoria, potendo ritenere non prioritaria la copertura del posto o, del pari, ravvisare ragioni nel senso dell’espletamento di un nuovo concorso, ovvero della soppressione della posizione in organico. Detta discrezionalità appare scevra di connotati di natura tecnica, il che non consente di restringere sulla base di parametri tecnici lo spettro delle variabili che possono motivarla o dei limiti entro i quali la stessa può essere esercitata». Pertanto, la pronuncia in commento perviene alla conclusione secondo cui la posizione giuridica dei controricorrenti non poteva ritenersi definita quale diritto quesito allorché era entrato in vigore il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, dal momento che, all’epoca, mancava l’autorizzazione ad attuare l’assunzione (quale necessario presupposto di essa) e la graduatoria non era stata ancora approvata, «cosicché lo ius superveniens non ha modificato la posizione giuridica di coloro che si erano posizionati oltre le posizioni già autorizzate, poiché gli stessi non avevano ancora maturato alcun diritto soggettivo». Peraltro, va sottolineato che anche il diritto del candidato vincitore ad assumere l’inquadramento previsto dal bando di concorso è subordinato alla permanenza, al momento dell’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando è stato emesso, «sicché, nel caso in cui detto assetto sia mutato a causa dello ius superveniens, l’amministrazione ha il potere-dovere di bloccare i provvedimenti dai quali possano derivare nuove assunzioni che non corrispondano più alle oggettive necessità di incremento del personale, quali valutate prima della modifica del quadro normativo, in base all’art. 97 Cost.». ne consegue l’accoglimento del ricorso e il rigetto della domanda proposta in primo grado dai controricorrenti. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 28 maggio 2024 n. 14919 -Pres. A. Di Paoloantonio, Rel. F. rolfi -Ministero Beni Attività Culturali Turismo (avv. gen. Stato) c. omissis ed altri (avv.ti G. Torcicollo, M. Clemente); nonché contro omissis, omissis. rITEnuTO In FATTO 1. Con sentenza n. 460/2019, pubblicata il 28 maggio 2019, la Corte d’appello di Bologna, nella regolare costituzione degli appellati omissis ed altri, omissis, omissis, ha respinto il gravame proposto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (di seguito MIBACT) avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 705/2018, la quale aveva accolto la domanda dei lavoratori, volta ad ottenere l’inquadramento nella Area III, posizione economica F1, nel rispettivo profilo professionale. 2. I dipendenti del MIBACT, infatti, avevano adito il Tribunale di Bologna, riferendo di avere partecipato ai corsi-concorsi per titoli ed esami per i passaggi interni dalla Area B alla Area C, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. a), CCnL Comparti Ministeri 1998-2001 e di essere risultati tutti idonei nelle graduatorie a fronte del numero di posti utili a bando autorizzati, e cioè 460 unità rispetto alle 920 programmate. Avevano dedotto l’inadempimento del MIBACT, in quanto quest’ultimo non aveva proceduto allo scorrimento delle graduatorie alla luce sia dell’entrata in vigore dell’art. 62, comma 1, D.Lgs. n. 150/2009 sia del diniego di autorizzazione da parte degli organi di controllo alla copertura dei restanti 460 posti banditi. 3. La Corte d’appello, nel decidere il gravame, ha: -disatteso il gravame con il quale veniva nuovamente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, rilevando che nella specie non era contestato l’esercizio del potere amministrativo o la scelta operata dall’Amministrazione in merito alle modalità di copertura dei posti né il bando di concorso o il diritto all’assunzione; -osservato, quanto al secondo motivo di gravame, che l’art. 24, comma 1, D.Lgs. n. 150/2009, nell’imporre il ricorso ai concorsi secondo quanto previsto dall’art. 52, comma 1bis, D.Lgs. n. 165/2001 (introdotto dall’art. 62 dello stesso D.Lgs. n. 150/2009) non poteva incidere sulla fattispecie concreta in quanto la decisione di procedere alla copertura dei posti disponibili mediante scorrimento era stata assunta dal MIBACT prima dell’entrata in vigore della disposizione in questione, essendo avvenuta già in base ai bandi ed agli accordi del 2007. ha quindi concluso la Corte territoriale che la procedura selettiva doveva ritenersi soggetta alla disciplina anteriore al D.Lgs. n. 150/2009, irrilevante essendo la circostanza che le graduatorie fossero state approvate dopo l’entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 150/2009. 4. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bologna ricorre il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. resistono con controricorso omissis, ed altri. Sono rimasti intimati omissis, omissis. 5. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis 1, c.p.c. COnSIDErATO In DIrITTO 1. Il ricorso è affidato a due motivi. 1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché degli artt. 416, terzo comma, e 115 c.p.c. Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto provate circostanze in relazione alle quali invece gli originari ricorrenti non avrebbero COnTEnzIOSO nAzIOnALE assolto l’onere della prova, “non potendosi considerare sufficienti alla prova del diritto sole supposte mancate contestazioni, da parte del Ministero resistente, su circostanze che, oltre a non essere da sole sufficienti a provare la spettanza del diritto controverso, non era necessario che il Ministero contestasse”. 1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 62, D.Lgs. n. 150/2009; 27, comma 1, n. 7, Legge n. 93/1983; 35, D.Lgs. n. 165/2001; 1, commi 342 e 362, Legge n. 145/2018. Deduce, in sintesi, il ricorso che la Corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che le nuove previsioni introdotte dal D.Lgs. n. 150/2009 non avevano comportato l’impossibilità, a decorrere dal 10 gennaio 2010, di coprire posti ulteriori rispetto a quelli già autorizzati nel- l’ambito di procedure concorsuali interne per il passaggio di area già avviate, attraverso l’utilizzo dello “scorrimento” delle graduatorie redatte a seguito delle procedure medesime. Argomenta, invece, che, per effetto del nuovo intervento normativo, dette procedure dovevano ritenersi non più conformi alla disciplina di legge, con conseguente preclusione alla possibilità di coprire posti ulteriori -rispetto a quelli per i quali erano già state avviate le procedure secondo la previgente disciplina -attraverso lo scorrimento di graduatorie formate a seguito di procedura selettiva interna e non attraverso concorso pubblico esterno. 2. Il secondo motivo, che va esaminato con priorità in quanto logicamente e giuridicamente preliminare, è fondato, in quanto la pronuncia impugnata non è conforme ai principi di diritto enunciati da plurime decisioni di questa Corte, cui si rinvia, ai sensi dell’art. 118 disp. att. proc. civ. anche per la completa ricostruzione della vicenda (in particolare, fra molte, Cass. Sez. L, 16 gennaio 2024, n. 1674). In questa sede giova ribadire che, nel pubblico impiego contrattualizzato, anche ai fini della selezione interna per l’accesso a posti superiori vacanti, la scelta dell’amministrazione di utilizzare le graduatorie degli idonei “per scorrimento” non costituisce un diritto soggettivo degli stessi, ma postula sempre l’esercizio prioritario di una discrezionalità della P.A. nel coprire il posto o la posizione disponibile, ove un obbligo in tal senso non sia contemplato dalla contrattazione collettiva o dal bando (così, Cass. Sez. L, n. 1674 del 2024, cit., che richiama “i principi, consolidati nella giurisprudenza della Corte, ben riassunti nella motivazione di Cass. n. 19006 del 2010” e successive pronunce conformi pure ivi indicate). ne consegue che la posizione giuridica degli odierni controricorrenti ed intimati non poteva ritenersi definita quale diritto quesito allorché era entrato in vigore il decreto legislativo n. 150 del 2009, dal momento che all’epoca mancava l’autorizzazione ad attuare l’assunzione (quale necessario presupposto di essa) e la graduatoria non era stata ancora approvata; cosicché lo ius superveniens non ha modificato la posizione giuridica di coloro che si erano posizionati oltre le posizioni già autorizzate, poiché gli stessi non avevano ancora maturato alcun diritto soggettivo (in tal senso, Cass. Sez. L, n. 1674 del 2024 cit.). Peraltro, va sottolineato che anche il diritto del candidato vincitore ad assumere l’inquadramento previsto dal bando di concorso è subordinato alla permanenza, al momento del- l’adozione del provvedimento di nomina, dell’assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando è stato emesso, sicché, nel caso in cui detto assetto sia mutato a causa dello ius superveniens, l’amministrazione ha il potere-dovere di bloccare i provvedimenti dai quali possano derivare nuove assunzioni che non corrispondano più alle oggettive necessità di incremento del personale, quali valutate prima della modifica del quadro normativo, in base all’art. 97 Cost. (così ancora Cass. Sez. L, n. 1674 del 2024 cit. e precedenti ivi richiamati). A maggior ragione questi principi valgono in tema di scorrimento, perché è la natura rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 stessa di quest’ultimo che porta a ritenere applicabile la normativa vigente nel momento in cui si pretende di realizzare lo scorrimento medesimo (così Cass. Sez. u, 2 ottobre 2012, n. 16728); con la conseguenza che, una volta che l’amministrazione abbia assunto la decisione di coprire il posto attingendo allo scorrimento della graduatoria, tale decisione risulta equiparabile, nella sostanza, all’espletamento di tutte le fasi di una procedura concorsuale, con identificazione degli ulteriori vincitori, ancorché mediante l’utilizzazione dell’intera sequenza di atti apertasi con il bando originario, recante la c.d. lex specialis del concorso, e conclusasi con l’approvazione della graduatoria, che individua i soggetti da assumere (così, ancora, Cass. Sez. u. n. 16728 del 2012, cit.). Pertanto, con la delibera di procedere allo scorrimento si riattiva l’intera sequenza concorsuale, ma, inevitabilmente, occorre considerare i requisiti di validità vigenti al momento della determinazione assunta dall’amministrazione. In consequenzialità logico-giuridica con le precedenti considerazioni, occorre qui chiarire che lo ius superveniens, costituito dalle limitazioni introdotte con il D.Lgs. n. 150 del 2009 ai concorsi riservati al personale interno, risulta preclusivo dell’asserito diritto vantato dai dipendenti allo scorrimento della graduatoria. Infatti, giova richiamare l’art. 24 del D.Lgs. n. 150 del 2009, nella versione applicabile ratione temporis, prima delle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 74 del 2017: “Ai sensi del- l’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”. La disposizione esclude la legittimità del ricorso all’assunzione attingendo a graduatorie di concorsi riservati ad interni banditi anteriormente al 2010 proprio perché la normativa sopravvenuta è intesa a limitare le possibilità di coprire i posti disponibili con personale interno, recependo le sollecitazioni provenienti dalla Corte costituzionale in ordine alla piena attuazione del principio di cui all’art. 97 Cost. (in particolare, già con le sentenze nn. 333 del 1993 e 313 del 1994). In tal senso, come già ritenuto da questa Corte (Cass. Sez. L, 17 maggio 2024, n. 13757), è condivisibile il consolidato orientamento espresso in proposito dal giudice amministrativo, che, in ragione della normativa sopravvenuta (secondo cui la progressione dei pubblici dipendenti tra le aree può avvenire solo in base ad un concorso pubblico, con riserva di posti al personale interno fino al massimo del 50% di quelli messi a disposizione), ha ritenuto che “dopo il 1° gennaio 2010, non sono più previste le progressioni verticali riservate agli interni e quindi non è più consentito nemmeno lo scorrimento delle graduatorie relative a procedure per progressioni verticali interamente riservate ai dipendenti, con la conseguenza che tali graduatorie sono escluse dall’ambito di applicazione delle norme che nel tempo hanno disposto la proroga legale dell’efficacia e che, dal 1° gennaio 2010, dall’inserimento come idonei in tali graduatorie non può più discendere alcuna legittima aspettativa” (così Cons. St. 16 agosto 2021, n. 5884 e precedenti conformi ivi richiamati), giungendo a configurare un “divieto” per le amministrazioni di coprire i posti a suo tempo sottoposti a procedura riservata (così, Cons. St. 25 giugno 2018, n. 3897). Tale approdo ermeneutico risulta ulteriormente avvalorato dalla considerazione che il D.Lgs. n. 150 del 2009 non ha previsto uno specifico regime transitorio che valesse a salvaguardare le graduatorie dei concorsi interni avviati antecedentemente all’entrata in vigore COnTEnzIOSO nAzIOnALE della riforma, sicché, anche sotto questo profilo, l’interpretazione adottata nella sentenza impugnata non può essere ricevuta. Pertanto, poiché è pacifico che la selezione per la quale gli odierni controricorrenti ed intimati hanno invocato lo scorrimento non consentiva la partecipazione di candidati esterni, occorre concludere per la fondatezza del motivo di gravame, con conseguente assorbimento della prima censura. 3. Pertanto, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. con il rigetto della domanda proposta in primo grado dai controricorrenti ed intimati. 4. Quanto alle spese processuali, le stesse possono essere compensate limitatamente ai gradi di merito, attesa la novità della questione rispetto all’epoca di tali giudizi, mentre, in applicazione della regola della soccombenza, quanto al presente giudizio va disposta la condanna dei controricorrenti ed intimati in solido, ai sensi dell’art. 97 cod. proc. civ., stante la comunanza di interessi, desunta dalla identità delle questioni sollevate e dibattute (così Cass. Sez. 3, 17 ottobre 2016, n. 20916), al pagamento delle spese, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte: accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande proposte in primo grado dagli odierni controricorrenti ed intimati; compensa integralmente fra le parti le spese dei gradi di merito; condanna i controricorrenti e gli intimati in solido al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Così deciso in roma, nell’adunanza camerale in data 10 maggio 2024. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 termine per l’aggiornamento dell’interdittiva antimafia CONSIGLIO DI STATO, SEZIONE TERZA, SENTENZA 8 MARZO 2024 N. 2260; CONSIGLIO DI STATO, SEZIONE TERZA, SENTENZA 7 MARZO 2024 N. 2213 Con sentenza dell’8 marzo 2024, n. 2260, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto dal Ministero dell’Interno per tentare di contrastare l’orientamento del T.a.r. Campania in tema di condanna alle spese di lite in caso di silenzio per effetto del superamento del termine di trenta giorni (invero non previsto) per l’aggiornamento delle informative antimafia ex art. 91, comma 5 D.Lgs. 159/2011. Il Consiglio di Stato -pur riconoscendo che spetta al legislatore valutare la congruità dei termini procedimentali introdotti in via normativa e al potere esecutivo, a tanto facoltizzato dalla legge, la necessità o l’opportunità di allungare quei termini con le modalità e nei limiti di cui all’art. 2, commi 3, 4 e 5 della legge n. 241 del 1990 ovvero di adottare le misure organizzative possibili per alleviare il peso degli uffici amministrativi preposti -ha applicato analogicamente il termine “base” fissato dall’art. 92, comma 2 del codice antimafia, estensibile di ulteriori 45 giorni in caso di verifiche “di particolare complessità”, benché avesse premesso come l’obbligo di concludere i procedimenti amministrativi, fondamentale in un sistema amministrativo moderno, “non possa ritenersi sganciato dall’altrettanto fondamentale predeterminazione in via legale o regolamentare del relativo termine finale”. La sentenza pare, peraltro, in distonia con altra coeva sentenza della stessa sezione III del Consiglio di Stato del 7 marzo 2024, n. 2213, (emessa in relazione ad un consorzio i cui soci erano imputati nell’ambito del processo c.d. mafia capitale) secondo la quale “il termine per l’aggiornamento non può ritenersi perentorio, in quanto la maggiore durata dell’istruttoria può derivare da molte e complesse ragioni”. Sarebbe utile una pronuncia sul punto dell’Adunanza Plenaria o un intervento normativo chiarificatore. Wally Ferrante* Consiglio di stato, sezione terza, sentenza 8 marzo 2023 n. 2260 -Pres. G. Ferrari, Est. P.L. Tomaiuoli - Min. Interno (avv. gen. Stato) c. omissis (n.c.). FATTO e DIrITTO 1.- Il Ministero dell’interno ha proposto appello avverso la sentenza in epigrafe meglio indicata, con cui il T.a.r. Campania ha accolto il ricorso dell’odierna appellata volto all’accertamento del silenzio-inadempimento dell’Amministrazione sulla sua istanza di aggiornamento (*) Avvocato dello Stato. COnTEnzIOSO nAzIOnALE della informativa antimafia in precedenza adottata nei suoi confronti e alla conseguente condanna dell’Amministrazione a provvedere. 1.1.- Il giudice di prima istanza ha, in primo luogo, ritenuto sussistente l’obbligo di provvedere, in forza dell’art. 91, comma 5, ultimo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), ai sensi del quale il Prefetto, «anche sulla documentata richiesta dell’interessato, aggiorna l’esito dell’informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa». In secondo luogo, il T.a.r. Campania ha ritenuto applicabile al procedimento in esame, «in mancanza di specifiche statuizioni normative», il «termine generale suppletivo» di 30 giorni di cui all’art. 2, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), termine, questo, ampiamente decorso al momento della proposizione della domanda giudiziale. Secondo il primo giudice, peraltro, sarebbe stato superato anche «il termine di maggior favore» di 45 giorni di cui all’art. 92, comma 2, del citato codice antimafia, dettato per il rilascio «in via ordinaria» dell’informativa antimafia e in tesi applicabile analogicamente anche all’ipotesi del suo aggiornamento, fermo restando che l’attuale comma 2-bis dell’art. 92 (per come sostituito dall’art. 48, comma 1, lettera a, n. 2, del decreto legge 6 novembre 2021, n. 152, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose», convertito con modificazioni nella legge 29 dicembre 2021, n. 233) stabilisce che la Prefettura di regola comunica i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, con assegnazione di un termine non superiore a 20 giorni per presentare osservazioni, disponendo che la comunicazione «sospende, con decorrenza dalla relativa data di invio, il termine di cui all’articolo 92, comma 2». nel caso di specie, dunque, stante l’ampio superamento dei termini sopra riferiti, il T.a.r. Campania ha accolto il ricorso, assegnando all’Amministrazione resistente 90 giorni per provvedere e condannandola alle spese di lite. 1.2.- Il Ministero appellante deduce, in primo luogo, la persistenza del suo interesse al gravame, anche a seguito dell’intervenuto aggiornamento dell’informativa che ha confermato la sussistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, quanto meno in ragione della condanna alle spese disposta in primo grado. nel merito, secondo l’appellante, la sentenza impugnata sarebbe errata poiché per il procedimento di aggiornamento delle informative antimafia la legge non prevedrebbe alcun termine finale. Afferma poi l’Avvocatura dello Stato che, «se si volessero applicare i termini ipotizzati dal T.a.r. Campania», «verrebbe meno quel margine temporale indispensabile per far svolgere alle Forze dell’Ordine le necessarie indagini, caratterizzate dallo spessore qualitativo necessario per il buon esito della relativa istruttoria», «stante la complessità e i tempi delle procedure istruttorie afferenti alla materia antimafia». Sottolinea al riguardo l’appellante che «la Prefettura non può addivenire ad alcuna determinazione, se non dopo aver acquisito compiutamente tutti gli elementi di informazione e valutazione da parte degli organi accertatori, cui deve aggiungersi, in casi analoghi a quello odierno, l’esame conclusivo, da effettuarsi nell’ambito dell’organismo interforze (GIA) istituito presso la Prefettura» medesima. Ancora, secondo il Ministero dell’interno, non si applicherebbe la legge n. 241 del 1990, «in rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 quanto la normativa antimafia si configura come lex specialis, con proprie procedure e termini/ scadenze precipue», come sarebbe dimostrato dall’art. 20, comma 4, della medesima legge, secondo cui, «le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti o procedimenti riguardanti […] la pubblica sicurezza». L’appellante, infine, censura la statuizione relativa alla condanna alle spese, poiché «il protrarsi dei tempi istruttori non è dovuto a noncuranza o abbandono delle istruttorie medesime, né al fatto che si ritenga che il procedimento stesso non debba concludersi con un provvedimento espresso». 2.- La parte appellata, regolarmente raggiunta dalla notifica dell’atto di gravame, non si è costituita. 3.- Alla camera di consiglio del 29 febbraio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 4.- Deve convenirsi, in via pregiudiziale, con l’appellante in ordine alla permanenza del suo interesse alla coltivazione del gravame anche in seguito alla sopravvenuta adozione del provvedimento di aggiornamento dell’informativa antimafia, e ciò non solo per la contestazione anche del capo relativo alle spese, che, come si dirà appresso, può essere oggetto di censura solo unitamente alle statuizioni di merito, ma anche e soprattutto perché l’appello dell’Amministrazione è finalizzato all’affermazione non già della insussistenza dell’obbligo di provvedere ma dell’inesistenza di un termine di conclusione del relativo procedimento. 5.-nel merito, l’appello è infondato, ma la sentenza di primo grado deve essere integrata e parzialmente corretta con le seguenti considerazioni. 6.- Deve escludersi, in primo luogo, che nell’attuale sistema normativo, l’obbligo di concludere i procedimenti amministrativi positivizzato dall’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 («[o]ve il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso) e fondamentale in un sistema amministrativo moderno retto dai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, oltre che ispirato al rispetto dei principi di collaborazione e buona fede reciproca tra amministrazione e cittadini, possa ritenersi sganciato dall’altrettanto fondamentale predeterminazione in via legale o regolamentare del relativo termine finale, come reso palese, del resto, dal tenore dell’art. 2, comma 2, della medesima legge, in forza del quale, «[n]ei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni». A fronte, come nel caso di specie, della innegabile specificità e sensibilità di particolari interessi pubblici e privati coinvolti in alcuni procedimenti amministrativi e della evidente complessità della relativa istruttoria, il sistema positivo, dunque, consente non la pretermissione di un termine di conclusione del procedimento, che finirebbe per porre nel nulla la stessa obbligatorietà del provvedere, ma la sua individuazione, volta per volta, ad opera del legislatore in sede di regolamentazione della specifica attività amministrativa di settore, ovvero in via regolamentare con le modalità prefissate dalla stesso art. 2, commi 3, 4 e 5 della legge n. 241 del 1990. Ciò posto in generale, è vero che l’art. 91, comma 5, del codice antimafia, nell’occuparsi del- l’aggiornamento dell’informativa antimafia non indica espressamente il termine di conclusione del procedimento, ma ciò, alla luce delle considerazioni sopra svolte, non consente affatto di inferirne la sua assenza. Piuttosto, prima di ricorrere al termine residuale di trenta giorni cui all’art. 2, comma 2, legge COnTEnzIOSO nAzIOnALE n. 241 del 1990 -stante la comunanza della sottesa ratio di rinvenire un adeguato punto di equilibrio tra i delicati e contrapposti interessi in gioco nella materia in esame -può e deve farsi applicazione, in via analogica, del termine per il procedimento “base” fissato dall’art. 92, comma 2, del codice antimafia in 30 giorni, estensibile di ulteriori 45, in caso di verifiche «di particolare complessità». una volta ritenuto applicabile tale termine, deve poi considerarsi che -in seguito all’introduzione del contraddittorio procedimentale nel corpo dell’art. 92, comma 2-bis, del citato codice -il medesimo termine, proprio ai sensi del menzionato comma 2-bis, può restare sospeso fino a 60 giorni, ove il prefetto comunichi gli elementi sintomatici del tentativo di infiltrazione mafiosa all’impresa, assegnandole 20 giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l’audizione. 7.- La sezione non ignora né la delicatezza della materia che vede contrapposti il basilare interesse pubblico al non inquinamento criminale dei circuiti economici e sociali e i diritti costituzionali allo svolgimento dell’attività di impresa e al lavoro, né le innegabili difficoltà operative, specie di alcune amministrazioni periferiche, dovute alla forte compenetrazione del fenomeno mafioso in alcune realtà territoriali del Paese e alla limitatezza delle risorse umane ed economiche a disposizione delle amministrazioni medesime. Tali considerazioni, tuttavia, non possono portare allo stravolgimento dei principi cardine dell’attività amministrativa, ancor più quando essa fronteggia e si misura con diritti di rilevanza costituzionale. Spetta piuttosto al legislatore valutare la perdurante congruità dei termini procedimentali introdotti in via normativa e al potere esecutivo, a tanto facoltizzato dalla legge, la necessità o l’opportunità di allungare quei termini con le modalità e nei limiti di cui all’art. 2, commi 3, 4 e 5, della legge n. 241 del 1990, ovvero di adottare le misure organizzative possibili per alleviare il peso degli uffici amministrativi preposti. 8.- Infondata, infine, come accennato al punto 4, è la doglianza volta a censurare la condanna alle spese, che, in quanto espressiva della discrezionalità di cui il giudice dispone in ogni fase del processo, può essere modificata in appello solo se è modificata la decisione principale e non è sindacabile, salvo manifesta abnormità (tra le tante, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 4 aprile 2024, n. 173, sezione quinta, sentenza 28 luglio 2023, n. 7398, e sezione quarta, sentenza 13 aprile 2017, n. 1752). 9.- nulla per le spese, stante la non costituzione della parte appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, definitivamente pronunciando sul- l’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. nulla per le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Sussistendo i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), e dell’art. 9, paragrafo 1, del regolamento (uE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità della parte appellata. Così deciso in roma, nella camera di consiglio del 29 febbraio 2024. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Consiglio di stato, sezione terza, sentenza 7 marzo 2024 n. 2213 -Pres. M.L. Torsello, Est. S. Santoleri -omissis (avv. M. Perrone) c. ufficio Territoriale del Governo roma, Ministero dell’Interno, Anac -Autorità nazionale Anticorruzione, ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di roma (avv. gen. Stato). FATTO e DIrITTO 1. -Il omissis, odierno appellante, è un consorzio costituito ai sensi della L. n. 381/1991 per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, nella stragrande maggioranza disabili. 1.1 -Con provvedimento prot. n. omissis è stato colpito da interdittiva antimafia, in ragione della presenza nel omissis consortile di omissis, soggetto che nell’ambito dell’indagine nota come “Mafia Capitale” era stato destinatario di una ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Tribunale Penale di roma, in relazione al reato di associazione di stampo mafioso ed altri reati collegati, aggravati dall’avere agito al fine di agevolare la predetta associazione. Il provvedimento si fondava sulle informazioni acquisite dagli organi di polizia in relazione al procedimento penale pendente presso il Tribunale di roma n.r.G. omissis, ed in particolare sulle informazioni acquisite dalla ordinanza cautelare n. omissis GIP Tribunale di roma ufficio VI, con cui erano state disposte misure cautelari personali e reali (anche) nei confronti di omissis: -per il reato di associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis, commi 1, 2, 4, 6, 8 c.p. per avere fatto parte di una associazione di stampo mafioso di cui è capo e organizzatore omissis, operante su roma e nel Lazio, che si avvale della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, con le aggravanti di essere l’associazione armata e dell’avere finanziato le attività economiche controllate con i proventi di delitti; il sig. omissis viene indicato quale punto di collegamento tra l’organizzazione e le istituzioni politiche, al fine di creare flussi finanziari illeciti e di contribuire alle operazioni corruttive e di alterazione delle gare pubbliche; -per i reati di cui agli artt. 353, 318, 319 e 321 c.p., 12 quinquies L. 356/92 tutti con l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. nella L. 12 luglio 1991 n. 203, per aver agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso indicata al capo 1) dell’ordinanza di custodia cautelare. In tale ordinanza il sig. omissis viene indicato quale “organo apicale” di una delle diverse articolazioni di mafia capitale, “Titolare di ruoli di gestione e controllo nelle cooperative che costituiscono lo strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l’attività del sodalizio nel settore economico, con precipuo riguardo ai rapporti con la pubblica amministrazione”. nell’ordinanza cautelare si afferma che le indagini svolte che hanno portato all’adozione del- l’ordinanza di applicazione di misure cautelari “hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale che siede a pieno titolo al tavolo di altre e più note consorterie criminali, condizionandone l’attività sul territorio romano, che ha piena consapevolezza di sé e del suo ruolo nella gestione degli affari illeciti della capitale”. Il sig. omissis era qualificato come consigliere del Consorzio omissis e quale “organo apicale” di una delle diverse articolazioni di “Mafia capitale”. Il Consorzio omissis, appresa la notizia del coinvolgimento di omissis nei fatti di cui ai pro COnTEnzIOSO nAzIOnALE cedimenti penali, aveva immediatamente provveduto all’esclusione delle cooperative omissis e l’Assemblea dei soci, in data 17 dicembre 2012, aveva nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione. 2. -L’informazione interdittiva antimafia del 17 dicembre 2014 è stata impugnata dal Consorzio omissis con ricorso proposto dinanzi al T.a.r. Lazio, deducendo, in estrema sintesi, plurime censure con le quali aveva dedotto la carenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento di interdizione antimafia anche alla luce dell’estromissione delle due cooperative coinvolte nelle indagini; il difetto di istruttoria e di motivazione ed il vizio di violazione di legge per aver esteso al consorzio le vicende che avevano colpito singole società non tenendo conto che, a mezzo di pronte misure espulsive, si era determinato volontariamente l’allontanamento delle imprese in pericolo di condizionamento malavitoso; l’inesistenza di provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, non essendo sussistente alcun tentativo di infiltrazione mafiosa all’interno del Consorzio omissis. 2.1 -In data 13 marzo 2015 il Prefetto di roma aveva adottato il provvedimento di straordinaria e temporanea gestione del Consorzio, ex art. 32, comma 1, lett. b) e comma 10, d.l. 90/2014, per garantire la prosecuzione delle prestazioni previste dal contratto con l’Asl roma C, dopo avere dato atto della emissione di una seconda informazione antimafia con provvedimento n. omissis del 16 febbraio 2015. Il Prefetto di roma ha nominato amministratore per la straordinaria e temporanea gestione il Dott. omissis il quale ha preso in carico il contratto d’appalto in essere con l’InAIL e quello con la ASL roma C. 2.2 -Il Consorzio omissis, pertanto, ha proposto il primo atto per motivi aggiunti con il quale ha impugnato l’informazione antimafia prot. n. omissis del 16 febbraio 2015 emessa dal Prefetto di roma ed il decreto di commissariamento. Inoltre, al fine di interporre la massima assoluta cesura tra tali elementi e qualsivoglia pur remoto rischio di contaminazione, il Consorzio omissis aveva provveduto (cfr. delibera 9 dicembre 2015) a rinnovare radicalmente la stessa organizzazione di governance con: - le dimissioni del Presidente omissis; - le dimissioni di tutti gli altri quattro consiglieri; -la costituzione di nuovo organo di gestione composto anche in drastica riduzione a tre componenti nelle persone di omissis; - la costituzione di nuovo organo di controllo (collegio sindacale) con professionisti esterni. 2.3 -Tuttavia, nonostante tali modifiche, il Prefetto, con informativa prot. n. 309861 del 30 settembre 2016, aveva negato l’aggiornamento in senso liberatorio sul presupposto che vi sarebbero stati comunque elementi di continuità rispetto alla governance in carica all’epoca della prima interdittiva; secondo il Prefetto, sarebbe stato persistente il rischio di condizionamento da parte dell’organizzazione “Mafia Capitale”. 2.4 -Il Consorzio omissis ha impugnato, con i secondi motivi aggiunti, l’informazione antimafia prot. n. omissis, emessa dal Prefetto di roma. 2.5 -Medio tempore, la vicenda della presunta associazione di stampo mafioso denominata Mafia Capitale è stata oggetto della sentenza del Tribunale Penale di roma, Sez. X^ Collegiale, n. omissis (depositata il 16 ottobre 2017) che ha escluso l’esistenza di un sodalizio criminale di stampo mafioso. 2.6 -La statuizione del Tribunale Penale di roma è stata confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1525 emanata il 21 ottobre 2019 dalla Sezione VI Penale. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 2.7 -All’esito della pubblicazione del dispositivo della richiamata sentenza della Corte di Cassazione il Consorzio omissis, con nota dell’11 novembre 2019, ha provveduto a chiedere alla Prefettura di disporre la revoca e/o comunque l’aggiornamento dell’interdittiva. non avendo ricevuto alcun riscontro, in data 30 luglio 2020, dopo il deposito delle motivazioni della richiamata sentenza della Corte di Cassazione, avvenuto il 12 giugno 2020, il Consorzio omissis ha invitato nuovamente la Prefettura a provvedere alla revoca dell’interdittiva e comunque al suo aggiornamento. Con nota del 30 aprile 2021, depositata in giudizio in pari data, la Prefettura di roma ha annunciato che la posizione del Consorzio omissis sarebbe stata oggetto di una “istruttoria” con le forze di Polizia, procedimento dal quale sarebbe poi scaturito il nuovo provvedimento concernente la posizione dell’appellante. In ragione di ciò, il Consorzio omissis, con nota del 6 maggio 2021, ha diffidato la Prefettura a concludere la “istruttoria” entro un termine di giorni 7 preannunciando che, in assenza di riscontro, avrebbe provveduto ad impugnare il silenzio serbato sino ad oggi dalla P.A. sulle plurime istanze di riesame della deducente (11 novembre 2019 e 30 luglio 2020). neanche quest’ultima istanza ha ricevuto alcun riscontro. 2.8 -Il 17 maggio 2021 il Consorzio omissis ha depositato un terzo atto recante motivi aggiunti, con cui ha impugnato il silenzio serbato dall’Amministrazione intimata a seguito ed in relazione alle diffide del 30 luglio 2020 e del 6 maggio 2021 per il mancato aggiornamento dell’interdittiva antimafia posta a carico del ricorrente e per la declaratoria di illegittimità dei provvedimenti, ex art. 32, comma 7, del d.l. 90/2014, di data ed estremi non noti. 2.8.1 -Con provvedimento del 5 ottobre 2021, la Prefettura di roma ha comunicato al Consorzio omissis che “Con riferimento all’istanza presentata in data 11 novembre 2019, ai sensi dell’art. 91, comma 5, del D.Lgs n. 159/2011, si comunica che il procedimento di aggiornamento delle informazioni antimafia si è concluso con esito favorevole”. nel corso dell’udienza del 5 ottobre 2021 il Consorzio omissis ha chiesto che la Prefettura depositasse in giudizio gli atti della nuova istruttoria espletata dall’ufficio Territoriale del Governo, e ciò al fine di comprendere le ragioni poste a base del nuovo provvedimento. Invero, la predetta comunicazione formulata dalla Prefettura faceva chiaramente riferimento all’espletamento di un procedimento di rivalutazione che sicuramente si basava su di una serie concatenata di atti la cui conoscenza era necessaria per comprendere le ragioni che hanno condotto l’ufficio territoriale del Governo a rivalutare la posizione del Consorzio omissis. 2.8.2 -Alla camera di consiglio del 22 marzo 2022, il T.a.r. ha accolto l’istanza ex art. 116 c.p.a. formulata dal Consorzio omissis e, con ordinanza n. omissis, ha imposto alla Prefettura di produrre in giudizio gli atti relativi alla istruttoria da cui è scaturito l’aggiornamento del- l’interdittiva a carico del consorzio concludente. L’Avvocatura erariale, in data 19 aprile 2022, ha depositato gli atti del procedimento di rivalutazione della posizione del Consorzio omissis che ha poi condotto all’aggiornamento in senso liberatorio dell’interdittiva. 2.9 -Il 4 luglio 2022 il Consorzio omissis ha depositato un’ulteriore impugnazione contenente il quarto ricorso per motivi aggiunti avverso gli atti già impugnati, lamentando il ritardo con il quale la Prefettura aveva provveduto ad aggiornare la posizione della ricorrente all’esito della sentenza della Corte di Cassazione n. 1525, emanata il 21 ottobre 2019, che aveva escluso la sussistenza di un sodalizio criminale ed il conseguente rischio di infiltrazione mafiosa. Con tale mezzo ha sostenuto che l’obbligo di aggiornamento in capo alla Prefettura si impo COnTEnzIOSO nAzIOnALE 115 neva già a seguito della emanazione della sentenza di primo grado del processo Mafia Capitale (sentenza del Tribunale di roma n. omissis). In definitiva il Consorzio omissis, nonostante l’intervenuta liberatoria, ha insistito in giudizio affinché il T.a.r. annullasse l’originaria interdittiva e le successive informazioni interdittive in quanto illegittime. 3. -Con la sentenza (n. omissis) il T.a.r. Lazio ha respinto il ricorso ed i successivi motivi aggiunti. 4. -Avverso tale pronuncia il Consorzio omissis ha proposto appello, chiedendone la riforma. 4.1 -Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno, l’u.T.G. Prefettura di roma e l’AnAC, chiedendo il rigetto dell’impugnativa. 4.2 -Con memoria depositata il 21 dicembre 2023, le Amministrazioni appellate hanno replicato alle doglianze proposte chiedendone il rigetto. 4.3 -Con memoria di replica, depositata il 4 gennaio 24, l’appellante ha controdedotto alle tesi difensive delle appellate. 5. - All’udienza pubblica del 25 gennaio 2024 l’appello è stato trattenuto in decisione. 6. - L’appello è infondato e va, dunque, respinto. Prima di articolare le doglianze, l’appellante ha delineato sinteticamente l’oggetto del presente contenzioso: i provvedimenti interdittivi antimafia si fondano sulle ordinanze di custodia cautelare dell’indagine denominata “Mafia Capitale” e su una rappresentazione, a detta dell’appellante, inveritiera degli elementi probatori, la cui inconsistenza sarebbe stata stigmatizzata dalla Corte di Cassazione, i cui fatti avrebbero acquisito la stabilità della cosa giudicata. L’appellante ha quindi sottolineato come il nucleo centrale della controversia si riferisce alla asserita erroneità della decisione del T.a.r. che avrebbe valutato la legittimità dei provvedimenti impugnati alla luce delle circostanze di fatto risultanti dalle ordinanze di custodia cautelare del 2014 e del 2015, senza tener conto che “le pronunce del Tribunale di Roma e della Corte di Cassazione hanno eliso dalla realtà giuridica la sussistenza del sodalizio criminale denominato Mafia Capitale, evidenziando non solo che lo stesso non è mai esistito ma che neppure fossero percepibili all’esterno i connotati tipici del metodo mafioso”. L’appellante ha rilevato, infatti, che “ipotizzare l’esistenza di un condizionamento mafioso in assenza del sodalizio criminale mafioso costituisce un ossimoro giuridico”: a differenza dei casi in cui il soggetto ritenuto colluso con la mafia venga in seguito scagionato in sede penale (potendosi correttamente ritenere che tale fatto costituisca una circostanza sopravvenuta valutabile in sede di aggiornamento dell’interdittiva), nel caso di specie, a seguito delle decisioni del giudice penale, è stato acclarato che non è mai esistita l’organizzazione di stampo mafioso denominata “Mafia Capitale”, il che comporta l’inesistenza, ab origine, del rischio di infiltrazione. Per tale ragione il Consorzio omissis, pur avendo ottenuto nel 2021 la liberatoria antimafia, ha insistito nel chiedere l’annullamento anche dell’originaria informazione interdittiva antimafia risalente al 2014. Tale prospettazione non è stata accolta dal T.a.r. che, invece, ha valutato gli esiti del processo penale come fatti sopravvenuti, ancorando il giudizio di legittimità ai dati esistenti al momento dell’adozione dei provvedimenti di prevenzione antimafia (ordinanze di custodia cautelare), ritenendo sulla base di tali dati, la sussistenza di un sodalizio criminale di stampo mafioso al quale avrebbe aderito omissis. Quest’ultimo, secondo il T.a.r., sarebbe stato, infatti, il veicolo del tentativo di infiltrazione mafiosa a carico del Consorzio appellante, sia perché componente dell’organo di amministrazione sia perché al vertice di due cooperative consorziate. Il T.a.r., infatti, avrebbe ritenuto irrilevanti le risultanze emerse dalle decisioni del Tribunale rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 di roma e dalla Corte di Cassazione che avrebbero escluso l’aggravante mafiosa ritenendo applicabile il principio del tempus regit actum. 7. -Con i profili Ia), Ib), Ic) e Id) dell’unico motivo di appello, l’appellante ha più volte ribadito tale prospettazione, sottolineando che i provvedimenti di interdizione antimafia si fondano sulla mera lettura delle ordinanze di custodia cautelare relative all’indagine denominata “Mondo di mezzo” poi disattese dalla Corte di Cassazione; l’appellante ha dedotto che il Prefetto e gli organi che si sono occupati dell’istruttoria non avrebbero effettuato un approfondito e compiuto esame di tali circostanze, sottolineando che le pronunce del Tribunale di roma e della Corte di Cassazione, “si sono espresse sul medesimo quadro fattuale, probatorio e giuridico emergente dagli atti di indagine dai quali erano stati tratti gli elementi confluiti nelle ordinanze di custodia cautelare pedissequamente richiamate, senza ulteriori verifiche, da parte del Prefetto”. L’appellante ha quindi dedotto che all’interno dell’ordinamento deve essere assicurata la non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali emessi da organi diversi: ha quindi richiamato l’art. 654 c.p.p. che disciplina l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione nei giudizi civili o amministrativi. Il Consorzio ha quindi aggiunto che l’originaria interdittiva sarebbe stata emessa in difetto di presupposti, in quanto l’unico elemento sul quale si fondava era costituito dalla rappresentazione dei fatti fornita dall’indagine “Mafia Capitale”; tale rappresentazione si è rivelata fallace, con la conseguenza che l’inesistenza del sodalizio criminale di stampo mafioso rende inconfigurabile il tentativo di infiltrazione mafiosa a carico del Consorzio omissis. La motivazione del provvedimento interdittivo sarebbe, quindi, secondo l’appellante, meramente apparente. Il Consorzio ha quindi precisato che già con il provvedimento di archiviazione del 6 febbraio 2017 ben 143 degli indagati del processo erano stati estromessi dallo stesso; con la sentenza del Tribunale di roma n. omissis era stata esclusa l’esistenza dell’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata “Mafia Capitale”, escludendo, ab origine, l’esistenza di un’organizzazione criminale operante con metodi mafiosi e intimidatori. L’appellante ha quindi ribadito che l’accertamento dei fatti ha efficacia di giudicato e, quindi, non può non tenersene conto, soprattutto se lo stesso travolge le affermazioni della Procura poste dal Prefetto a base dell’interdittiva; ha insistito quindi nel ritenere che il T.a.r. avrebbe errato nel qualificare tali fatti come “successivi”. A detta del Consorzio omissis, già dopo la sentenza n. omissis del Tribunale di roma doveva ritenersi chiaro che non poteva sussistere il tentativo di infiltrazione mafiosa a carico dello stesso Consorzio; la sentenza della Corte di Cassazione Sez. VI, n. 1525 del 22 ottobre 2019, depositata in cancelleria in data 12 giugno 2020 con il n. omissis, ha confermato in toto l’analisi compiuta dal Tribunale Penale di roma, non avendo ravvisato alcun potere di intimidazione o qualunque utilizzo del metodo mafioso nell’acquisizione degli appalti, né la sua percepibilità all’esterno; da ciò deriva l’insussistenza dei presupposti per l’adozione dell’informazione interdittiva antimafia a carico del Consorzio omissis. L’appellante ha quindi aggiunto che, ad eccezione della presenza di omissis nel C.d.A del Consorzio, nessun rilievo sarebbe stato addebitato all’appellante la cui condotta imprenditoriale sarebbe risultata priva di mende; nessuna delle cooperative diverse da quelle riferibili al omissis sarebbe rimasta coinvolta nell’indagine Mafia Capitale. 7.1 -Il successivo profilo I.e) dell’unico motivo si riferisce ai provvedimenti di aggiornamento dell’interdittiva. L’appellante ha censurato la statuizione del T.a.r. con la quale è stata respinta COnTEnzIOSO nAzIOnALE la sua prospettazione secondo cui la Prefettura avrebbe dovuto avviare il procedimento di aggiornamento fin dalla sentenza del Tribunale di roma, Sez. X Collegiale n. omissis (depositata il 16 ottobre 2017), tenuto anche conto dei provvedimenti di archiviazione; ha aggiunto che la sentenza della Corte di Appello sarebbe stata irrilevante e, comunque, il Prefetto avrebbe dovuto procedere immediatamente all’aggiornamento dell’interdittiva dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 1525 del 21 ottobre 2019. L’appellante ha, pertanto, censurato la decisione del T.a.r. che ha ritenuto insussistente l’obbligo di procedere dopo la pubblicazione del solo dispositivo, rilevando che già da esso si poteva evincere l’insussistenza del reato ex art. 416-bis c.p. a carico di omissis. Il Consorzio ha quindi lamentato che il procedimento di aggiornamento sarebbe stato avviato con estremo ritardo e solo dopo che la Prefettura era stata compulsata con diffide e con i motivi aggiunti di ricorso. Il Consorzio omissis ha dedotto che il procedimento avrebbe avuto inizio solo nel mese di giugno 2021, a distanza di oltre un anno dal deposito delle motivazioni della pronuncia della Corte di Cassazione e solo dopo la proposizione dei motivi aggiunti dinanzi al T.a.r.; il procedimento si è concluso quattro mesi più tardi con il provvedimento liberatorio del 5 ottobre 2021 che, peraltro, si è limitato alla mera presa d’atto della sentenza della Corte di Cassazione. L’appellante ha pertanto lamentato la tardività con la quale la Prefettura ha avviato il procedimento di aggiornamento, ricordando che la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 57/2020, ha ricordato la necessità che la Prefettura provveda ad una rivalutazione aggiornata del quadro istruttorio sul presupposto che questo non può conservare piena e immutata concludenza oltre il limite temporale di 12 mesi: in questo caso si trattava di un’interdittiva risalente nel tempo, tenuto conto che il dispositivo della sentenza della Corte di Cassazione era stato depositato ben due anni prima. 7.2 -In definitiva, l’appellante ha concluso chiedendo l’annullamento sia del primo provvedimento di interdizione che di quelli adottati successivamente, lamentando il mancato aggiornamento della interdittiva a far data dalla pubblicazione della sentenza del Tribunale di roma, Sez. X Collegiale, n. omissis e, in subordine, da quella della Corte di Cassazione; ha chiesto infine la riforma del capo della sentenza che ha posto a carico del Consorzio omissis le spese di lite, quantificate in € 4.000,00. 8. -La prospettazione dell’appellante non può essere accolta: innanzitutto la sentenza del T.a.r. è pienamente condivisibile là dove ha ritenuto sussistenti, in base al principio del tempus regit actum, i presupposti per l’adozione dell’originario provvedimento di interdizione antimafia del 1 dicembre 2014, e dei successi provvedimenti di conferma del rischio di infiltrazione mafiosa del 16 febbraio 2015 e del 30 settembre 2016. 8.1 -La prima informativa, confermata in occasione delle istanze di aggiornamento presentate, è stata adottata a seguito dell’adozione della misura cautelare della custodia in carcere di omissis, con ordinanza cautelare n. omissis, per il reato di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis commi 1, 2, 4, 6, 8 c.p., per avere fatto parte di una associazione di stampo mafioso di cui era capo e organizzatore omissis nonché per vari altri reati connotati dall’aggravante di avere agito al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso. Omissis rivestiva nel Consorzio la carica di consigliere ed era riconosciuto nell’ordinanza cautelare del Tribunale di roma “organo apicale” di una delle diverse articolazioni di mafia capitale: “Titolare di ruoli di gestione e controllo nelle cooperative che costituiscono lo strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l’attività del sodalizio nel settore economico, con precipuo riguardo ai rapporti con la pubblica amministrazione”. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 Alla luce delle modalità con cui operava il sodalizio criminale in oggetto e del livello di coinvolgimento del consigliere del Consorzio nello stesso, la Prefettura ha ritenuto sussistente il rischio di infiltrazione. 8.2 -Per quanto concerne i provvedimenti di conferma dell’interdittiva, correttamente il T.a.r. ha ritenuto che “Al di là dei movimenti tra un organo e l’altro e tra gli organi del Consorzio e di quelli delle singole cooperative consorziate, la contiguità -ove non la continuità -tra i componenti degli organi di governo del Consorzio e le figure coinvolte nell’inchiesta di cui si tratta, se anche non costituiscono prove piene del condizionamento, ne integrano la probabilità, secondo il principio del “più probabile che non” che si applica alle informative antimafia, attesa la loro natura preventiva”. Il T.a.r. ha ritenuto che “non sembra potersi revocare in dubbio che il Consorzio ha di fatto mantenuto una continuità con la precedente governance ovvero non ha proceduto ad un rinnovo radicale dei propri amministratori e revisori. Per altro verso concorre ad integrare il quadro indiziario il ruolo avuto per anni da omissis, secondo la ricostruzione che della sua figura si trae dall’ordinanza di custodia in carcere, la tipologia e le modalità operative dell’associazione mafiosa di cui il omissis gestiva proprio quelle attività che avevano nel controllo delle cooperative lo strumento elettivo per il conseguimento delle finalità illecite. In questo contesto non sembra risolutivo, al fine di mettere in dubbio la non illogicità del quadro indiziario, l’avere eliminato dalle cariche sociali coloro che sono risultati coinvolti nell’indagine penale con omissis, o l’avere ridotto il numero dei componenti del nuovo organo di gestione se nel suo ambito ricorrono gli stessi amministratori che hanno operato a fianco degli amministratori dimessi”. Le conclusioni del T.a.r. sono condivise dal Collegio. 8.3 -Quanto al nucleo centrale dell’appello, la Sezione non ritiene di doversi discostare dai principi affermati (in relazione ad analoghe censure) con la propria sentenza n. 8269 del 12 settembre 2023 in merito all’appello rG 3844/2022, proposto dalla Cooperativa di Lavoro omissis. Tale controversia si riferisce all’impugnazione della sentenza del T.a.r. Lazio n. 759/2022 relativa all’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di roma nei confronti di tali società in relazione al ritenuto rischio di condizionamento delle suddette imprese a seguito delle vicende giudiziarie legate all’inchiesta “Mafia Capitale” attraverso il richiamo alle due ordinanze del GIP presso il Tribunale di roma del 28 novembre 2014 e del 29 maggio 2015. In risposta alla prospettazione dell’appellante, secondo cui il contesto di riferimento non sarebbe stato idoneo a supportare l’affermazione di un rischio infiltrativo, tenuto conto che non ha avuto riguardo ad una criminalità organizzata di tipo mafioso, come si è poi accertato negli sviluppi del medesimo procedimento penale, questa Sezione ha ritenuto che: “Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che ha trovato un autorevole avallo da parte della Corte costituzionale, gli elementi di fatto valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale -che è alla base della teoria della prova indiziaria -quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità dell’impresa dell’appellante a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, “secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 759/2019)” (così da ultimo le sentenze n. 4837/2020 e n. 4951/2020). COnTEnzIOSO nAzIOnALE Come ha chiarito la sentenza n. 6105/2019, “Ciò che connota la regola probatoria del ‘più probabile che non’ non è un diverso procedimento logico, (…..), ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica”. Il princìpio è stato ribadito dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 57 del 2020: “Deriva dalla natura stessa dell’informazione antimafia che essa risulti fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari”. Ciò posto, nel caso di specie di fronte al rischio di infiltrazione desumibile (non già da una mera attività di indagine, ma) dall’adozione di un provvedimento applicativo di una misura cautelare personale coercitiva (che implica la delibazione della sussistenza del c.d. fumus commissi delicti: art: 273 cod. proc. pen.), e segnatamente dagli elementi nella stessa riportati, il Prefetto ha correttamente esercitato il potere in questione, non essendo illogico né irragionevole desumere, a quella fase e sulla base degli elementi non implausibili indicati dal giudice della cautela penale, che il contesto criminale in esso descritto (e conseguentemente qualificato) potesse esercitare un tentativo di infiltrazione (anche in tesi meramente soggiacente) delle realtà economiche ed imprenditoriali considerate”. 8.4 - Quanto alla tesi dell’appellante, secondo cui le pronunce del Tribunale di roma e della Corte di Cassazione non potrebbero considerarsi “elementi successivi” -poiché le predette pronunce si sono espresse sul medesimo quadro fattuale, probatorio e giuridico emergente dagli atti di indagine, dai quali erano stati tratti gli elementi confluiti nelle ordinanze di custodia cautelare pedissequamente richiamate, senza ulteriori verifiche, da parte del Prefetto questa Sezione ha ritenuto che: “L’argomento di censura è infondato per almeno un duplice ordine di ragioni. Esso, in primo luogo, poggia su di una inesatta rappresentazione del regime della prova nel procedimento penale: posto che il provvedimento cautelare esige unicamente la dimostrazione -ad un livello di cognizione sommaria -di gravi indizi di colpevolezza, mentre le sentenze che pronunciano sulla penale responsabilità dell’imputato devono fondarsi, in sede di cognizione piena, sulla prova vera e propria (diretta, od indiretta) della commissione del fatto. Già la stessa enunciazione della censura sconta dunque il vizio di ritenere che le sentenze assolutorie siano state rese “sul medesimo quadro fattuale, probatorio e giuridico emergente dagli atti di indagine”. In secondo luogo, giova rammentare che la legittimità dell’informativa antimafia interdittiva, al pari di ogni altro provvedimento amministrativo, va scrutinata sulla base dello stato di fatto e di diritto sussistente al momento della sua adozione, alla stregua del principio tempus regit actum. Il sopraggiungere di una sentenza penale assolutoria che operi -come ricordato, sulla base di diversi e più intensi poteri di valutazione probatoria -una ricostruzione difforme rispetto ad una precedente ordinanza di custodia cautelare, non può non essere qualificata come un fatto nuovo e successivo, a nulla rilevando in contrario la circostanza che abbia ad oggetto - in fasi e tempi diversi del medesimo procedimento penale - le stesse imputazioni. La censura in esame esige, contro l’evidenza del parametro normativo, che a seguito del- l’adozione dell’ordinanza di custodia cautelare il potere prefettizio nella fattispecie dovesse essere esercitato, con i tempi della prevenzione e della cautela, con lo stesso margine di approfondimento probatorio e valutativo dei provvedimenti adottati, a distanza di anni, dal giudice penale nel giudizio di merito. Laddove invece non solo tale esercizio era pienamente legittimo sulla base degli elementi raccolti a quella data e a quella fase […]”. rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 8.5 -In merito alla analoga doglianza relativa al principio generale relativo alla non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, questa Sezione ha ritenuto che: “Anche questo profilo di censura è manifestamente infondato, perché trascura che il processo penale sul reato associativo, ed il giudizio amministrativo sulla legittimità dell’esercizio del potere interdittivo, hanno oggetti diversi, e sono regolati da parametri normativi diversi. Quand’anche essi abbiano in comune una piattaforma fattuale, la stessa può costituire legittimo presupposto del potere prefettizio -che, giova evidentemente ricordarlo, presuppone unicamente una non illogica e non implausibile valutazione inferenziale di tali fatti -anche se successivamente il giudice penale dovesse ritenerla inidonea a fondare un’affermazione di penale responsabilità. Non si tratta pertanto di riferirsi, semplicisticamente, a “verità diverse”: ma di considerare la disciplina normativa del potere di valutazione del fatto nei differenti contesti ordinamentali in cui viene in rilievo, per finalità diverse, il medesimo fatto”. 8.6 -Anche nella precedente controversia era stata sollevata la medesima questione, relativa alla particolarità della vicenda nella quale era venuto meno -per effetto delle sentenze penali -il presupposto dell’esistenza del sodalizio di stampo mafioso, circostanza ben differente dai casi in cui si verifica l’assoluzione del soggetto “alfa” dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, pur essendo indiscussa l’esistenza di tale sodalizio; nella sentenza sopra richiamata questa Sezione ha ritenuto che: “Le appellanti lamentano che il T.a.r. non avrebbe colto la censura d’illegittimità dell’interdittiva per difetto del suo presupposto (presupposto che, seguendo questo argomentare, sarebbe da rinvenire nel definitivo accertamento giurisdizionale penale dell’esistenza di una associazione per delinquere di tipo mafioso) […]. Il fatto che le successive sentenze del giudice penale abbiano smentito l’esistenza di un sodalizio qualificabile -secondo il parametro penalistico e processualpenalistico -nello schema dell’art. 416-bis cod. pen., non implica affatto che il provvedimento interdittivo che -sulla base degli accertamenti del giudice della cautela penale -abbia desunto un pericolo di infiltrazione del medesimo sodalizio in determinate attività economiche sia illegittimo ab origine (neppure per difetto di istruttoria e di motivazione, come affermato a pag. 25 del ricorso in appello), in ragione della (successiva) diversa qualificazione ritenuta nei successivi stadi del processo penale (è sufficiente rinviare a quanto affermato, sul punto, ai punti precedenti)”. 8.7 -A tali condivisibili considerazioni occorre aggiungere che neppure il richiamo all’art. 654 c.p.p. risulta convincente, atteso che, ai sensi di tale disposizione, l’efficacia del giudicato penale nei giudizi civili e amministrativi diversi da quelli di danno, è limitata al solo accertamento dei fatti, ma non già quanto alla loro qualificazione, evidentemente operata ai soli effetti della sussistenza del reato imputato, rispetto alla quale il giudice amministrativo non è condizionato dalla pronuncia penale resa sugli stessi fatti materiali (cfr. Cons. Stato sez. IV, 7 gennaio 2021, n.169; Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2010 n. 8705; Cons. Stato, Sez. V, 31 gennaio 2006 n. 357). In definitiva tutte le doglianze proposte con i profili Ia), Ib), Ic), Id) vanno respinte. 9. -Vanno quindi esaminati i profili di doglianza relativi alla asserita tardività con la quale la Prefettura ha provveduto a riesaminare l’interdittiva antimafia, alla luce degli esiti del processo penale adottando il provvedimento liberatorio. 9.1 - La prospettazione dell’appellante non può essere condivisa. La tesi dell’appellante secondo cui si sarebbe dovuto provvedere al riesame dell’interdittiva a seguito della sentenza di primo grado del 20 luglio 2017, tenuto anche conto dell’archiviazione per insufficienza degli elementi probatori raccolti dalla Procura per sostenere l’accusa in giu COnTEnzIOSO nAzIOnALE dizio, non può accogliersi: correttamente il T.a.r. ha ritenuto che “la Corte d’Appello nel 2018 ha ritenuto l’esistenza di un’unica associazione ed ha riconosciuto ad essa il carattere mafioso, ripristinando l’aggravante e confermando il quadro indiziario di cui alle informative”. Ne consegue che va escluso un obbligo di aggiornamento della Prefettura fin dal 2017, atteso che, con la sentenza della Corte d’Appello dell’11 settembre 2018, l’ipotesi accusatoria della sussistenza di una associazione di stampo mafioso trovava ancora conferma in giudizio”. 9.2 -Quanto all’archiviazione del 6 febbraio 2017, era stata disposta per insufficienza di elementi probatori in sede giurisdizionale e come tale non poteva assumere una valutazione determinante. Solo con la sentenza della Cassazione pronunciata nel 2019, ma depositata nel giugno 2020, dalle condanne a carico degli imputati è sparita definitivamente l’aggravante mafiosa di cui al 416 bis c.p., con la riqualificazione dei reati ai sensi dell’art. 416 c.p., ed il parziale annullamento con rinvio per i vertici della associazione per delinquere. Correttamente la parte appellata ha dedotto che la conferma della responsabilità degli imputati per buona parte dei reati per i quali erano stati condannati in primo grado e l’accertata esistenza di due associazioni impegnate in una fitta rete di attività illegali, nonché la base soggettiva della esclusione della aggravante mafiosa (secondo la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito, gli autori dei reati non avrebbero utilizzato modalità tali da fare ritenere alle vittime che operassero per una associazione mafiosa -v. p. 328 della sentenza della Cassazione) giustificava la necessità di una approfondita verifica della insussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, anche a seguito della riforma della condanna operata dal giudice di legittimità, previa lettura della motivazione della decisione. 9.3 -La sentenza della Cassazione, peraltro, non è stata di assoluzione, ma di riqualificazione delle condotte che vedono “imprenditori che hanno accettato la logica spartitoria professata da omissis e dai suoi sodali, basata, però, non sull’intimidazione, bensì sugli accordi corruttivi” (così p. 326 sentenza omissis). ritiene, pertanto, il Collegio che non sussista un colpevole ritardo da parte dell’Amministrazione nel rilascio del provvedimento liberatorio: innanzitutto secondo la giurisprudenza di questa Sezione (sentenza n. 2410/2015) il termine per l’aggiornamento non può ritenersi perentorio, in quanto la maggiore durata dell’istruttoria può derivare da molte e complesse ragioni. Come ha precisato il T.a.r. “L’avvio dell’attività di acquisizione di informazioni ai sensi del- l’art. 91 d.lgs. 159/2011 risulta avviata all’indomani della presentazione della richiesta di parte ricorrente, il 19 novembre 2019 (vedi verbale del Gruppo Ispettivo dell’8 settembre 2021), e ciò è testimoniato dalle note del 28 dicembre 2019, del 28 febbraio 2020 con le più puntuali richieste di approfondimento rinvenibili nei verbali del 3 giugno 2021 e del 1° luglio 2021 della riunione del Gruppo Ispettivo Antimafia, 29 luglio 2021”. Quindi, il procedimento ha avuto inizio subito dopo la presentazione dell’istanza di aggiornamento da parte del Consorzio omissis; nel corso del procedimento sono stati acquisiti tutti gli elementi informativi necessari; nel frattempo è stata depositata la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione. Come ha rappresentato l’amministrazione nella propria memoria, il Gruppo Ispettivo Antimafia, costituito presso la Prefettura di roma, nel corso della riunione dell’8 settembre 2021, ha ritenuto che, in ragione degli attuali elementi informativi acquisiti anche sulla governance della società ed alla luce della suddetta nuova circostanza data dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 18125 del 21 ottobre 2019, le cui motivazioni sono state depositate in data 12 giugno 2020, si potessero considerare venute meno quelle ragioni di sicurezza e di ordine rASSEGnA AVVOCATurA DELLO STATO -n. 3/2023 pubblico in precedenza ritenute prevalenti sull’iniziativa e sulla libertà di impresa della società interessata e, conseguentemente, si potesse accogliere in senso favorevole la nuova istanza di riesame della posizione antimafia della società medesima. 9.4 -ne consegue che, solo al termine dell’istruttoria, la Prefettura ha potuto rilasciare la liberatoria antimafia; pertanto anche il profilo di doglianza relativo alla asserita tardività del- l’adozione di tale provvedimento non può essere condiviso. Quindi, va respinta la domanda relativa alla declaratoria di illegittimità di tutti gli atti adottati dopo il mancato aggiornamento a partire dalla pubblicazione della sentenza del Tribunale Penale di roma n. omissis o, a tutto voler concedere, da quella della Corte di Cassazione. 10. -Infine, quanto alla censura relativa alla condanna alle spese non si appalesa fondata tenuto conto che il giudice di primo grado si è attenuto al principio di soccombenza. 11. -Quanto alle spese del presente grado, ritiene il Collegio che ricorrano i presupposti per la loro compensazione tra le parti tenuto conto della peculiarità della vicenda sottesa al presente contenzioso. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese del grado di appello compensate tra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del regolamento (uE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare tutti i soggetti indicati nella sentenza. Così deciso in roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024. LegIsLAzIoneedAttuALItà AI Act, il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale: punti di forza e punti di debolezza Gaetana Natale* Augusto M. Lazzè** L’Europa è ormai giunta a definire un regolamento sull’intelligenza artificiale approvato dal Parlamento Europeo in data 13 marzo 2024. Ma che tipo di regolazione introduce: funzionale o strutturale, generica o per settori omogenei? A quali modelli culturali si ispirano le regole in esso introdotte? Possiamo parlare di eteroregolazione, co-regolazione o di self-regulation temperata da una compliance volontaria cd. Ai Pact? Introduce principles o model-rules o regole operative? Prevede solo obblighi o anche diritti tutelati da un efficace enforcement? È formalmente un regolamento, ma nella sostanza una direttiva per le clausole generali in esso contenute? È un regolamento sulle cd. certificazioni? rappresenta un valido compromesso tra l’esigenza di non bloccare lo sviluppo tecnologico e nel contempo tutelare il cd. human in the loop ex art. 22 del GDPr? È una regolazione future proof ? È volta alla realizzazione di un’armonizzazione o a creare una base di diritto uniforme? Come sono regolati i cd. “sistemi fondazionali” o i cd. “sistemi fondativi”? Il cd. FrIA, ossia il Fundamental Right Impact Assessment of Generative Artificial Intelligence può superare quella che Natalino Irti (1) definiva atopia ed anomia? Il nuovo regolamento definisce un nuovo concetto di accountability diverso da quello che abbiamo imparato a definire dal GDPr, nel senso che segue un approccio top-down e non bottom up (2)? (*) Avvocato dello Stato e Professore di Sistemi Giuridici Comparati. (**) Dottore in Giurisprudenza. (1) N. IrtI, Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Proviamo a fare un’analisi critica delle principali norme in esso contenute per poter tracciare le coordinate di tale nuovo orizzonte di senso, cd. Wertbegriff dell’Intelligenza Artificiale che già permea e conforma silenziosamente le nostre vite. Compiendo un’opera di normogenesi, così come richiesta da Betti (3), non si può non affermare che i principi sono espressione di valori (4): tra i valori e le regole il ponte sono i principi, intesi come metanorme (5) con funzione normogenetica (6) e normopoietica. Per Bobbio (7) i principi hanno 4 funzioni: interpretativa, integrativa, di direttiva e limitativa. Per Josef Esser (8) è importante la precomprensione e la scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto. Seguendo tale metodologia proviamo ad entrare nel core di questa nuova regolazione, confrontandola poi con quella degli altri Paesi, ossia degli Stati Uniti e della Cina. Il testo si compone di 113 articoli e tredici allegati (cd. tecnica degli annessi con una periodica revisione quinquennale). Il regolamento (che, in quanto tale, sarà effettivo senza bisogno che le singole nazioni lo recepiscano) è impostato su un’architettura di rischi, cd. Risk Assessment suddivisi in quattro categorie: 1) unaceptable risk, 2) high risk, 3) limited risk e 4) low and minimal risk: inaccettabili, alti, limitati, minimi. Maggiore è il ri (2) Sul punto è stato sostenuto che, mentre il GDPr introduce un principio di accountability inteso nel senso di responsabilizzare gli operatori coinvolti nel trattamento dei dati personali, attribuendo agli stessi un ruolo decisivo nella valutazione del rischio (e realizzando così un sistema decentralizzato), l’AI Act introduce invece una classificazione dei sistemi di IA in base all’entità dei rischi (il cd. risckbased approach) connessi alla loro operatività. Un simile quadro è definito direttamente dal nuovo regolamento, garantendo così una valutazione del rischio centralizzata (appunto per questo l’approccio si definisce “top-down”) e con la notoria forza cogente e immediatamente applicabile del regolamento (articolo 288 tFUE). Così, G. rEStA, Cosa c’è di “europeo” nella Proposta di Regolamento UE sull’intelligenza artificiale?, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica (II), fasc. 2, 2022, pp. 323-342. (3) E. BEttI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), II ed., a cura di G. CrIFò, Milano, 1971, pp. 112 e ss., ove l’Autore definisce la nomogenesi come il « (… ) modo come in origine la norma fu pensata e come i tipi di interessi in giuoco furono valutati e coordinati (…)». (4) C. SChMItt, La tirannia dei valori, III ed., presentazione a cura di G. ACCAME, Pellicani, roma, 1996. (5) Infatti, il termine “principio” è stato definito come «(…) il pensiero, l’idea germinale, il criterio di valutazione, di cui la norma costituisce la messa in opera, calata in una specifica formulazione. Esso fa riscontro al problema pratico risolto dalla norma: ne ispira la ratio iuris sotto l’aspetto teleologico, in quanto ne fornisce il criterio di soluzione», così E. BEttI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), cit., p. 312. (6) Circa la funzione normogenetica dei principi, v. F. MoDUGNo, Principi generali dell’ordinamento, in Enciclopedia giuridica, vol. XXIV, 1991, pp. 4, 8 e ss.; J. rAz, Legal Principles and the Limits of Law, 81 Yale Journal Law 823 (1972), p. 841; S. BArtoLE, Principi generali del diritto (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, 494, 1986, pp. 515 e 531. (7) N. BoBBIo, Studi per una teoria generale del diritto, edizione a cura di t. GrECo, Giappichelli, torino, 2012. (8) J. ESSEr, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, traduzione a cura di S. PIAttI, G. zACCArIA, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1983. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà schio (9), maggiori le responsabilità e i paletti per chi sviluppa o adopera sistemi di intelligenza artificiale, fino alle applicazioni considerate troppo pericolose per essere autorizzate. Gli unici casi che non ricadono sotto l’ombrello dell’AI Act sono le tecnologie adoperate per scopi militari (10) e per quelli di ricerca (11). Procediamo a considerare quattro macroaree, ossia: 1) gli usi proibiti; 2) le intelligenze artificiali ad alto rischio; 3) i sistemi di AI per uso generale e 4) il sistema degli uffici, innovazioni e controllo. Gli usi proibiti. L’AI Act mette subito in chiaro quali sono gli impieghi vietati. Sono elencati all’articolo 5 (12). tra questi vi sono sistemi che sfruttano tecnologie su (9) La cui nozione è fornita dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 2 dell’AI Act come «(…) la combinazione della probabilità del verificarsi di un danno e la gravità del danno stesso». Bisogna inoltre notare come la definizione del livello di rischio sia operata in relazione all’ambito di applicazione del sistema di IA. Ciò è dovuto al fatto che il rischio stesso è parametrato in base all’impatto non sui valori di mercato, bensì sui diritti fondamentali dell’Unione. Così, G. rEStA, Cosa c’è di “europeo” nella Proposta di Regolamento UE sull’intelligenza artificiale?, cit., p. 339. (10) Così come risulta già dal Considerando 24 dell’AI Act. Nell’ambito di quest’ultimo, il legislatore europeo ha in primo luogo escluso dall’ambito applicativo del regolamento i sistemi di IA sviluppati, immessi sul mercato, messi in servizio o utilizzati con scopo militare, di difesa o sicurezza nazionale, salvo poi precisare che ove temporaneamente o permanentemente quei sistemi fossero adoperati per scopi differenti, sarebbero destinatari della disciplina dell’AI Act. Da ciò deriva il conseguente obbligo in capo al soggetto che utilizza il sistema di garantire idonea compliance ai requisiti richiesti dalla normativa europea. (11) Il Considerando 25 precisa, infatti, che l’AI Act «(…) dovrebbe sostenere l’innovazione, rispettare la libertà della scienza e non dovrebbe pregiudicare le attività di ricerca e sviluppo. È pertanto necessario escludere dal suo ambito di applicazione i sistemi e i modelli di IA specificamente sviluppati e messi in servizio al solo scopo di ricerca e sviluppo scientifici. È inoltre necessario garantire che il regolamento non incida altrimenti sulle attività scientifiche di ricerca e sviluppo relative ai sistemi o modelli di IA prima dell’immissione sul mercato o della messa in servizio (…)». (12) Il cui paragrafo 1 dispone quanto segue: «Sono vietate le pratiche di IA seguenti: a) l’immissione sul mercato, la messa in servizio o l’uso di un sistema di IA che utilizza tecniche subliminali che agiscono senza che una persona ne sia consapevole o tecniche volutamente manipolative o ingannevoli aventi lo scopo o l’effetto di distorcere materialmente il comportamento di una persona o di un gruppo di persone, pregiudicando in modo considerevole la sua capacità di prendere una decisione informata, inducendo pertanto una persona a prendere una decisione che non avrebbe altrimenti preso, in un modo che provochi o possa provocare a tale persona, a un’altra persona o a un gruppo di persone un danno significativo; b) l’immissione sul mercato, la messa in servizio o l’uso di un sistema di IA che sfrutta le vulnerabilità di una persona o di uno specifico gruppo di persone, dovute all’età, alla disabilità o a una specifica situazione sociale o economica, con l’obiettivo o l’effetto di distorcere materialmente il comportamento di tale persona o di una persona che appartiene a tale gruppo in un modo che provochi o possa ragionevolmente provocare a tale persona o a un’altra persona un danno significativo; c) l’immissione sul mercato, la messa in servizio o l’uso di sistemi di IA ai fini della valutazione o della classificazione delle persone fisiche o di gruppi di persone per un determinato periodo di tempo sulla base del loro comportamento sociale o di caratteristiche personali o della personalità note, inferite o previste, in cui il punteggio sociale così ottenuto comporti il verificarsi di uno o di entrambi i seguenti scenari: i) un trattamento pregiudizievole o sfavorevole di determinate persone fisiche o di interi gruppi di persone in contesti sociali che non sono collegati ai contesti in cui i dati sono stati originariamente generati o rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 bliminali per manipolare i comportamenti di una persona; quelli che abusano di persone vulnerabili e fragili; la categorizzazione biometrica che fa riferimento a dati personali sensibili, come il credo religioso, l’orientamento politico o sessuale; la pesca a strascico (il cd. web scraping) da internet di volti, come fece anni fa la contestata startup Clearview AI; il riconoscimento delle emozioni sul posto di lavoro o a scuola; i sistemi di punteggio o social scoring. Il testo vieta anche la polizia predittiva, ossia la tecnica investigativa che utilizza informazioni come tratti della personalità, nazionalità, situazione familiare o economica, per stabilire la probabilità di commissione di un reato. tuttavia, sono previste alcune eccezioni. Per esempio, il divieto di categorizzazione biometrica non vieta l’etichettatura o il filtro di dataset biometrici, legalmente acquisiti, per scopi di polizia. E sono ammessi sistemi di analisi del rischio che non facciano profilazione di individui, come quelli per smascherare transazioni sospette o per tracciare le rotte del narcotraffico, sulla base dello storico accumulato nei database. E poi c'è il paragrafo h (13), uno dei più combattuti nelle negoziazioni raccolti; ii) un trattamento pregiudizievole o sfavorevole di determinate persone fisiche o di gruppi di persone che sia ingiustificato o sproporzionato rispetto al loro comportamento sociale o alla sua gravità; d) l’immissione sul mercato, la messa in servizio per tale finalità specifica o l’uso di un sistema di IA per effettuare valutazioni del rischio relative a persone fisiche al fine di valutare o prevedere la probabilità che una persona fisica commetta un reato, unicamente sulla base della profilazione di una persona fisica o della valutazione dei tratti e delle caratteristiche della personalità; tale divieto non si applica ai sistemi di IA utilizzati a sostegno della valutazione umana del coinvolgimento di una persona in un’attività criminosa, che si basa già su fatti oggettivi e verificabili direttamente connessi a un’attività criminosa; e) l’immissione sul mercato, la messa in servizio per tale finalità specifica o l’uso di sistemi di IA che creano o ampliano le banche dati di riconoscimento facciale mediante scraping non mirato di immagini facciali da internet o da filmati di telecamere a circuito chiuso; f) l’immissione sul mercato, la messa in servizio per tale finalità specifica o l’uso di sistemi di IA per inferire le emozioni di una persona fisica nell’ambito del luogo di lavoro e degli istituti di istruzione, tranne laddove l’uso del sistema di IA sia destinato a essere messo in funzione o immesso sul mercato per motivi medici o di sicurezza; g) l’immissione sul mercato, la messa in servizio per tale finalità specifica o l’uso di sistemi di categorizzazione biometrica che classificano individualmente le persone fisiche sulla base dei loro dati biometrici per trarre deduzioni o inferenze in merito a razza, opinioni politiche, appartenenza sindacale, convinzioni religiose o filosofiche, vita sessuale o orientamento sessuale; tale divieto non riguarda l’etichettatura o il filtraggio di set di dati biometrici acquisiti legalmente, come le immagini, sulla base di dati biometrici o della categorizzazione di dati biometrici nel settore delle attività di contrasto; h) (...)». (13) «(…) h) l’uso di sistemi di identificazione biometrica remota “in tempo reale” in spazi accessibili al pubblico a fini di attività di contrasto, a meno che e nella misura in cui tale uso sia strettamente necessario per uno dei seguenti obiettivi: i) la ricerca mirata di specifiche vittime di sottrazione, tratta di esseri umani o sfruttamento sessuale di esseri umani, nonché la ricerca di persone scomparse; ii) la prevenzione di una minaccia specifica, sostanziale e imminente per la vita o l’incolumità fisica delle persone fisiche o di una minaccia reale e attuale o reale e prevedibile di un attacco terroristico; iii) la localizzazione o l’identificazione di una persona sospettata di aver commesso un reato, ai fini dello svolgimento di un’indagine penale, dell’esercizio di un’azione penale o dell’esecuzione di una sanzione penale per i reati di cui all’allegato II, punibile nello Stato membro interessato con una pena o una misura di sicurezza privativa della libertà della durata massima di almeno quattro anni. La lettera h) del primo comma lascia impregiudicato l’articolo 9 del regolamento (UE) 2016/679 per quanto riguarda il trattamento dei dati biometrici a fini diversi dall’attività di contrasto». LEGISLAzIoNE ED AttUALItà tra Consiglio e Parlamento. Perché riguarda l’impiego di sistemi di riconoscimento facciale e biometrico in tempo reale. Applicazione proibita, perché, come si legge nelle premesse, può portare “a risultati marcati da pregiudizi e provocare effetti discriminatori”, salvo in tre “situazioni ampiamente elencante e ben definite”, nelle quali il ricorso al riconoscimento facciale “è necessario per raggiungere un sostanziale pubblico interesse, la cui importanza supera i rischi”. E i tre casi sono quelli annunciati a dicembre: la ricerca di vittime di reati e di persone scomparse; minacce certe alla vita o alla sicurezza fisica delle persone o di attacco terroristico; localizzazione e identificazione dei presunti autori di una lista di 16 reati contenuti nell’allegato II (14). L’elenco comprende: terrorismo; traffico di esseri umani; abusi sessuali su minori e pedopornografia; traffico di droghe e sostanze psicotrope; traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi; omicidio o gravi feriti; traffico di organi; traffico di materiale radioattivo e nucleare; sequestro di persona e ostaggi; crimini sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale; dirottamento di aerei e navi; stupri; crimini ambientali; rapine organizzate e armate; sabotaggio; partecipazione a una organizzazione criminale coinvolta in uno o più crimini tra quelli elencati. Il riconoscimento biometrico da remoto in tempo reale deve essere utilizzato “solo per confermare l’identità” della persona che è stata individuata come target, dopo aver bilanciato il rischio che si corre senza fare ricorso a questa tecnologia rispetto ai risultati consentiti dal suo impiego e per lo stretto necessario, “nello spazio e nel tempo”. Per adottare questi strumenti, le forze di polizia devono prima fare un controllo sugli impatti sui diritti fondamentali dei cittadini e avere il placet di un giudice o di un ente indipendente. L’AI Act, tuttavia, garantisce una procedura d’urgenza. In questo caso si può attivare la sorveglianza biometrica e ci sono 24 ore di tempo per richiedere l’autorizzazione. Se manca tale autorizzazione, l’uso del riconoscimento facciale va bloccato immediatamente e tutti i dati devono essere cancellati. I garanti nazionali dei dati personali e del mercato devono spedire ogni anno alla Commissione un rapporto sull’uso dei sistemi di riconoscimento biometrico in tempo reale, così come di eventuali usi proibiti. Ad ogni modo, gli Stati dell’Unione possono adottare leggi nazionali per ampliare il raggio (14) Il quale, sotto la rubrica “Elenco di reati di cui all’articolo 5, paragrafo 1, lettera e), punto iii)”, precisa che i reati richiamati dall’articolo menzionato nella rubrica sono da intendersi i seguenti: «terrorismo, tratta di esseri umani, sfruttamento sessuale di minori e pornografia minorile, traffico illecito di stupefacenti o sostanze psicotrope, traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi, omicidio volontario, lesioni gravi, traffico illecito di organi e tessuti umani, traffico illecito di materie nucleari e radioattive, sequestro, detenzione illegale e presa di ostaggi, reati che rientrano nella competenza della Corte penale internazionale, illecita cattura di aeromobile o nave, violenza sessuale, reato ambientale, rapina organizzata o a mano armata, sabotaggio, partecipazione ad un’organizzazione criminale coinvolta in uno o più dei reati elencati sopra». rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 d’azione della sorveglianza biometrica, nel rispetto dei paletti fissati dall’AI Act. Le stesse regole si applicano anche per il riconoscimento facciale usato ex post. In questo caso la finestra per ottenere l’autorizzazione in casi di urgenza è di 48 ore. Le intelligenze artificiali ad alto rischio. Sotto i sistemi vietati, si collocano quelli ad alto rischio, che pongono un significativo rischio per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali dei cittadini. A questa categoria è espressamente dedicato il titolo III dell’AI Act, il quale si apre con l’articolo 6. Questa disposizione è preordinata, nei paragrafi 1 e 2, all’individuazione dei sistemi classificabili come IA “ad alto rischio” (15). Vi rientrano sistemi di identificazione e categorizzazione biometrica o per il riconoscimento delle emozioni; applicativi di sicurezza di infrastrutture critiche; software educativi o di formazione, per valutare i risultati di studio, per assegnare corsi o per controllare gli studenti durante gli esami. E poi vi sono gli algoritmi usati sul lavoro, per valutare curriculum o distribuire compiti e impieghi; quelli adoperati dalla pubblica amministrazione o da enti privati per distribuire sussidi, per classificare richieste di emergenza, per smascherare frodi finanziarie o per stabilire il grado di rischio quando si sottoscrive un’assicurazione. Qui occorre fare il bilanciamento tra tecne ed episteme, affinché l’algoritmo “if this, then that” non si trasformi nel binomio servo-padrone di cui parla hegel nella Fenomenologia dello Spirito. Infine ricadono in questa categoria gli algoritmi usati dalle forze dell’ordine, dal potere giudiziario e dalle autorità di frontiera per valutare rischi, scoprire flussi di immigrazione illegale o stabilire pericoli sanitari, impedendo a una persona di varcare i confini dell’Unione. Se però l’algoritmo serve solo (15) «1. A prescindere dal fatto che sia immesso sul mercato o messo in servizio in modo indipendente rispetto ai prodotti di cui alle lettere a) e b), un sistema di IA è considerato ad alto rischio se sono soddisfatte entrambe le condizioni seguenti: a) il sistema di IA è destinato a essere utilizzato come componente di sicurezza di un prodotto, o il sistema di IA è esso stesso un prodotto, disciplinato dalla normativa di armonizzazione dell’Unione elencata nell’allegato I; b) il prodotto, il cui componente di sicurezza a norma della lettera a) è il sistema di IA, o il sistema di IA stesso in quanto prodotto, è soggetto a una valutazione della conformità da parte di terzi ai fini dell’immissione sul mercato o della messa in servizio di tale prodotto ai sensi della normativa di armonizzazione dell’Unione elencata nell’allegato I. 2. oltre ai sistemi di IA ad alto rischio di cui al paragrafo 1, sono considerati ad alto rischio i sistemi di IA di cui all’allegato III». Dunque, mentre il primo paragrafo pone due condizioni (rinviando all’Allegato I ove sono riportate normative europee di armonizzazione) al verificarsi delle quali il sistema di IA è da ritenersi ad alto rischio, il secondo paragrafo contiene una clausola residuale. Infatti, dall’analisi dell’Allegato III (cui rimanda l’articolo 6, paragrafo 2) si evince la decisione del legislatore comunitario di applicare ai sistemi di IA la disciplina prevista per i sistemi ad alto rischio in base all’ambito applicativo dello specifico sistema. La ratio di una simile posizione si coglie in considerazione del fatto che è proprio il contesto di utilizzazione di una determinata tecnologia di IA a definire il grado di impatto potenzialmente pregiudizievole sui diritti fondamentali. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà per svolgere una procedura limitata, per migliorare i risultati già ottenuti da un essere umano, per identificare deviazioni dagli usuali processi decisionali o per svolgere lavori preparatori di controllo, allora non può essere considerato ad alto rischio. Entro 18 mesi dall’entrata in vigore del regolamento, la Commissione fornirà linee guida per applicare in pratica le norme sui sistemi ad alto rischio. Così come modificare la lista degli algoritmi che ricadono sotto questa categoria. Per farlo occorre stabilire gli scopi della tecnologia, l’estensione d’uso e di autonomia decisionale, natura e quantità di dati processati, abusi su gruppi di persone, così come la possibilità di correggere un errore o i benefici ottenuti. Un database conterrà l’elenco aggiornato dei sistemi ad alto rischio usati in Europa. Sarà ad esempio ad alto rischio il nuovo sistema Life2vec di cui si sta parlando in questi ultimi giorni per predire e forse ritardare la morte? Come è noto i ricercatori di Copenaghen e della Northeastern University di Boston hanno sviluppato un algoritmo definito appunto Life2vec, utilizzando una vasta quantità di dati provenienti dall’anagrafe nazionale danese. Questi dati comprendono dettagli come istruzione, lavoro, stato di salute e altro ancora, trasformando ogni evento della vita in “parole” per l’algoritmo. Il risultato? Una previsione della mortalità prematura, con un’incredibile precisione del 79%, superando di gran lunga altri modelli predittivi. Sarà da considerare ad alto rischio il sistema algoritmico definito RAG, ossia il Retrieval Augmented Generation, un sistema che può portare ChatGPt ad un livello superiore, permettendo agli algoritmi di “attingere” informazioni da fonti esterne, quasi se potessero consultare in tempo reale un’enciclopedia o un database esterni per fornire risposte sempre più dettagliate? Di fronte a tale tecnologia siamo oltre il test di turing e la legge di Moore e oltre quello che ha immaginato Geoffrey hinton, padre dell’AI, psicologo cognitivo ed informatico che ha lasciato il suo ruolo in Google per poter parlare liberamente dei rischi dell’AI. Si ricorda che l’impatto di hinton su AI è dovuto, soprattutto, al suo lavoro sulle cd. backpropagation o retropropagazione, la base del deep learning (16): una tecnica di apprendimento che aiuta le reti neurali a migliorare le loro previsioni attraverso il sistema neurale convoluzionale. (16) Espressione coniata da A.L. SAMUEL, Some studies in Machine Learning using the game of Checkers, 3 IBM Journal of research and Development 210 (1959), la quale indica «(…) un campo di ricerca appartenente alla famiglia del machine learning (omissis) e dell’intelligenza artificiale (omissis), finalizzato alla creazione di un algoritmo di apprendimento capace di risolvere problemi complessi sulla base di informazioni catalogate e rielaborate in un ordine consequenziale di nozioni. Mediante l’impiego di calcoli matematici e informatici, definiti “reti neurali artificiali”, l’apprendimento profondo, che può seguire diversi modelli, si basa sulla raccolta, analisi e selezione di diversi dati al fine di raggiungere una determinata conclusione, al pari di quanto accade all’interno di un cervello biologico quando si debba trovare una soluzione ad un problema. Come un cervello umano, il deep learning, inoltre, sviluppa nuovi processi di apprendimento e ragionamento utilizzando e combinando in modo nuovo le maggiori informazioni acquisite», L. torChIA, Lo stato digitale, il Mulino, Bologna, 2023, p. 186. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Chi sviluppa sistemi di AI ad alto rischio è tenuto a stabilire sistemi di controllo, gestire in modo trasparente i dati (17), chiarendo l’origine delle informazioni usate e mantenendole aggiornate, e registrare in automatico i log, da conservare per tutta la vita commerciale dell’algoritmo (18), per poter risalire a eventuali situazioni di rischio e indagare sulle origini (compiendo il cd. reverse engineering). Sono centrali i concetti di security (19), safety (20), transparency (21) e explanibility (22). Inoltre devono essere forniti i documenti tecnici (da conservare per 10 anni) (23), in versione light per startup e piccole e medie imprese. Gli sviluppatori di sistemi ad alto rischio dovranno comunicare il livello di accuratezza dell’AI, compresa una serie di metriche stabilita dalla Commissione, robustezza e sicurezza informatica (24). Il tutto sotto il controllo di un essere umano, il quale, in caso di pericolo imminente, può bloccare l’intelligenza artificiale attraverso un “bottone di stop o una procedura simile, che consente al sistema di bloccarsi in modo (17) È infatti imposto ai fornitori di sistemi di IA ad alto rischio di porre in essere un “sistema di gestione della qualità” (ex articolo 17, AI Act) al fine di garantire la conformità al regolamento. oggetto di questo sistema di gestione sono anche gli aspetti concernenti i dati, a norma del paragrafo 1, lettera f dello stesso articolo 17. La menzionata disposizione sancisce infatti quanto segue: «I fornitori di sistemi di IA ad alto rischio istituiscono un sistema di gestione della qualità che garantisce la conformità al presente regolamento. tale sistema è documentato in modo sistematico e ordinato sotto forma di politiche, procedure e istruzioni scritte e comprende almeno i seguenti aspetti: (…) f) i sistemi e le procedure per la gestione dei dati, compresa l’acquisizione, la raccolta, l’analisi, l’etichettatura, l’archiviazione, la filtrazione, l’estrazione, l’aggregazione, la conservazione dei dati e qualsiasi altra operazione riguardante i dati effettuata prima e ai fini dell’immissione sul mercato o della messa in servizio di sistemi di IA ad alto rischio; (…)». (18) ex articolo 12, paragrafo 1 del regolamento in questione. (19) L’articolo 15 al paragrafo 1 sancisce infatti che i sistemi ad alto rischio devono essere sviluppati in modo tale da presentare un idoneo grado di accuratezza, robustezza e cibersicurezza. (20) A tal fine, è previsto dall’articolo 14 che sia garantita la supervisione umana sull’attività svolta dai sistemi ad alto rischio. Il paragrafo 2 dello stesso articolo prevede che «[l]a sorveglianza umana mira a prevenire o ridurre al minimo i rischi per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali che possono emergere quando un sistema di IA ad alto rischio è utilizzato conformemente alla sua finalità prevista o in condizioni di uso improprio ragionevolmente prevedibile, in particolare qualora tali rischi persistano nonostante l’applicazione di altri requisiti di cui alla presente sezione». (21) In specifico riferimento alla categoria dei sistemi di IA ad alto rischio, l’articolo 13 postula la necessità di progettazione e sviluppo degli stessi in modo trasparente, essendo questa una condizione necessaria e indefettibile affinché gli utenti possano fare degli output prodotti dai sistemi un utilizzo consapevole. Dunque, il paragrafo 2 dello stesso articolo prevede che «[i] sistemi di IA ad alto rischio sono accompagnati da istruzioni per l’uso in un formato digitale o non digitale appropriato, che comprendono informazioni concise, complete, corrette e chiare che siano pertinenti, accessibili e comprensibili per i deployer», demandando al seguente paragrafo 3 l’individuazione del contenuto minimo delle istruzioni per l’uso. (22) Elemento funzionale alla trasparenza, come evidenziato dal Considerando 27 nella parte in cui enuncia che «(…) [c]on “trasparenza” si intende che i sistemi di IA sono sviluppati e utilizzati in modo da consentire un’adeguata tracciabilità e spiegabilità, rendendo gli esseri umani consapevoli del fatto di comunicare o interagire con un sistema di IA e informando debitamente i deployer delle capacità e dei limiti di tale sistema di IA e le persone interessate dei loro diritti (…)». (23) A norma dell’articolo 18 dell’AI Act. (24) A norma del paragrafo 2 dell’articolo 15. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà sicuro” (25). Gli sviluppatori sono tenuti a istituire un sistema di verifica della qualità, a sottoporsi alle analisi di conformità, applicare il marchio CE, che identifica un prodotto autorizzato nell’Unione, comunicare eventuali incidenti alle autorità. Anche importatori o distributori sono tenuti a conservare i documenti sulla sicurezza dell’AI che hanno venduto. E a sottoporsi a più controlli, se modificano l’algoritmo al punto da farlo ricadere nella categoria ad alto rischio. È previsto anche un sistema di monitoraggio dopo l’immissione di un sistema sul mercato, dal quale sono escluse le forze dell’ordine. Primo problema: accanto a norme cd. prudenziali volte a definire il cd. pre-emptive remedy (rimedio preventivo ed ingiunzione dinamica) le certificazioni sono rimesse alle stesse società di sviluppatori. Siamo sicuri che in tal modo i soprarichaimati concetti di safety e security saranno salvaguardati o prevarranno le logiche del profitto? Per ora possiamo solo dire ai posteri l’ardua sentenza se è vero che dovrà prevalere la cd. “teoria della competenza specifica del rischio” in una logica Gaussiana e nella logica dell’insegnamento di Lessig (26) della Nuova Scuola di Chicago che vede una distinzione tra diritto, norme eterogiuridiche, mercato e architettura. In tale quadro problematica sarà la definizione del dato sintetico secondo la metodologia GANS (Generative Adversarial Network). I sistemi di AI per uso generale. Il testo regola i sistemi di AI per uso generale (i cd. general purpose AI models, o modelli GPAI) (27), in grado di svolgere compiti diversi (come creare un testo o un’immagine) (28) e allenati attraverso un’enorme mole di dati (i cd. Big Data) (29) non categorizzati, come GPt-4, alla base del potente (25) Articolo 14, paragrafo 4, lettera e). (26) L. LESSIG, The New Chicago School, 27 the Journal of Legal Studies 661 (1998). (27) Nozione di modello GPAI che è definita dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 63 come «(…) un modello di IA, anche laddove tale modello di IA sia addestrato con grandi quantità di dati utilizzando l’autosupervisione su larga scala, che sia caratterizzato da una generalità significativa e sia in grado di svolgere con competenza un’ampia gamma di compiti distinti, indipendentemente dalle modalità con cui il modello è immesso sul mercato, e che può essere integrato in una varietà di sistemi o applicazioni a valle, ad eccezione dei modelli di IA utilizzati per attività di ricerca, sviluppo o prototipazione prima di essere immessi sul mercato». (28) La cd. Intelligenza Artificiale Generativa o, nella denominazione anglosassone, Generative Artificial Intelligence. (29) Espressione che indica una particolare confluenza di volume, velocità e varietà di informazioni, così P. zIkoPoULoS, Harness the Power of Big Data: The IBM Big Data Platform, McGraw hill Professional, 2012, p. 61. In relazione al rapporto tra IA e big data, è stato sostenuto che maggiore è la velocità, l’ampiezza e la varietà dei dati immessi nel sistema, maggiore saranno le capacità e la qualità del sistema. In tal senso, A. GUADAMUz, A Scanner Darkly: Copyright Liability and Exceptions in Artificial Intelligence inputs and outputs, 2 GrUr International (di prossima pubblicazione, 2024), disponibile su SSrN: https://ssrn.com/abstract=4371204 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4371204, p. 3. Questa conclusione è confermata dal fatto che all’impiego di una più vasta scala di dati corrisponde una riduzione della cd. “loss function” (la funzione di perdita), la quale determina l’entità di errore del rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 chatbot ChatGPt, o LaMDA, dietro Google Bard. Gli sviluppatori devono assicurarsi che i contenuti siano marcati in un sistema leggibile da una macchina e siano riconoscibili come generati da un’AI (30). Un utente deve sapere se sta interagendo con un chatbot. E i contenuti deepfake devono essere etichettati come tali (attraverso sistemi come il watermarking, la filigrana digitale applicata a foto o video) (31). Previsioni che, tuttavia, non è detto siano sufficienti a impedire la diffusione di fake news (32). Unica eccezione: l’impiego di questi sistemi per perseguire reati. modello di IA (così J. DrEXL, r.M. hILtY, F. BENEkE, L. DESAUNEttES, M. FINCk, J. GLoBoCNIk, B. GoNzALEz otEro, J. hoFFMANN, L. hoLLANDEr, D. kIM, h. rIChtEr, S. SChEUErEr, P.r. SLowINSkI, J. thoNEMANN (gruppo di ricerca per la regolazione dell’economia digitale del Max Plank Institute for Innovation and Competition), Technical Aspects of Artificial Intelligence: An Understanding from an Intellectual Property Law Perspective, versione 1.0, 2019, disponibile su https://ssrn.com/abstract= 3465577, p. 7). (30) La scelta del sistema del cd. watermarking è stata condivisa anche da Cina e USA. Con particolare riferimento alla Cina, è stato precisato che sono previste tre forme di watermark: esplicito, implicito e per apposizione di metadati. Il primo consiste nell’indicazione della provenienza macchinica del contenuto in un formato leggibile agli esseri umani. Il secondo si realizza tramite l’apposizione di “etichette” impercettibili all’occhio umano, sulle quali risulti quantomeno il nome del provider del sistema di IA utilizzato per produrre il contenuto. L’ultimo tipo di watermark è imposto solo nei casi in cui il contenuto sia salvato in forma di file. In tal senso, v. P. hENDErSoN, Should the United States or the European Union follow China lead and require watermarks for generative AI?, in Georgetown Journal of International Affairs, 24 maggio 2023, disponibile presso https://gjia.georgetown.edu/2023/05/24/shouldthe- united-states-or-the-european-union-follow-chinas-lead-and-require-watermarks-for-generative-ai/. (31) Una simile previsione trova giustificazione nel Considerando 133, il quale enuncia quanto segue: «[d]iversi sistemi di IA possono generare grandi quantità di contenuti sintetici, che per gli esseri umani è divenuto sempre più difficile distinguere dai contenuti autentici e generati da esseri umani. L’ampia disponibilità e l’aumento delle capacità di tali sistemi hanno un impatto significativo sull’integrità e sulla fiducia nell’ecosistema dell’informazione, aumentando i nuovi rischi di cattiva informazione e manipolazione su vasta scala, frode, impersonificazione e inganno dei consumatori. Alla luce di tali impatti, della rapida evoluzione tecnologica e della necessità di nuovi metodi e tecniche per risalire al- l’origine delle informazioni, è opportuno imporre ai fornitori di tali sistemi di integrare soluzioni tecniche che consentano agli output di essere marcati in un formato leggibile meccanicamente e di essere rilevabili come generati o manipolati da un sistema di IA e non da esseri umani. tali tecniche e metodi dovrebbero essere sufficientemente affidabili, interoperabili, efficaci e solidi nella misura in cui ciò sia tecnicamente possibile, tenendo conto delle tecniche disponibili o di una combinazione di tali tecniche, quali filigrane, identificazioni di metadati, metodi crittografici per dimostrare la provenienza e l’autenticità dei contenuti, metodi di registrazione, impronte digitali o altre tecniche, a seconda dei casi. Nell’attuare tale obbligo, i fornitori dovrebbero tenere conto anche delle specificità e dei limiti dei diversi tipi di contenuti e dei pertinenti sviluppi tecnologici e di mercato nel settore, come rispecchia lo stato dell’arte generalmente riconosciuto. tali tecniche e metodi possono essere attuati a livello di sistema o a livello di modello, compresi i modelli di IA per finalità generali che generano contenuti, facilitando in tal modo l’adempimento di tale obbligo da parte del fornitore a valle del sistema di IA. Per continuare a essere proporzionato, è opportuno prevedere che tale obbligo di marcatura non debba riguardare i sistemi di IA che svolgono principalmente una funzione di assistenza per l’editing standard o i sistemi di IA che non modificano in modo sostanziale i dati di input forniti dal deployer o la rispettiva semantica». (32) Circa i limiti presentati dal sistema di watermarking, sono stati evidenziati i seguenti profili problematici: il fatto che l’implementazione tecnica di queste filigrane sia rimessa integralmente a carico dei fornitori dei sistemi di IA generativa, dovendo dunque affrontare questi ultimi le difficoltà esecutive (tra le quali rientra il dato per il quale l’apposizione di un watermark tramite una determinata tecnologia LEGISLAzIoNE ED AttUALItà Il regolamento fissa una soglia per identificare i sistemi ad alto impatto, che hanno maggiori effetti sulla popolazione e perciò devono rispettare obblighi più stringenti. L’articolo 51 dell’AI Act, sotto la rubrica “Classificazione del modelli di IA per finalità generali come modelli per finalità generali con rischio sistemico”, definisce al paragrafo 1 i criteri di qualificazione dei modelli di IA con scopi generali portatori di rischio sistemico (33), nelle lettere a) e b). La lettera a) fa riferimento all’elevata capacità di impatto valutata in base a strumenti tecnici adeguati e a indicatori e parametri di riferimento (34). La lettera b) riconosce alla Commissione il potere di adottare una decisione, ex officio o su qualificata segnalazione dello Scientific Panel, con la quale assoggetta uno specifico modello alla relativa disciplina poiché si ritiene che abbia capacità o un impatto equiparabile a quello di cui alla lettera a) (35). Il successivo paragrafo 2 prevede invece una presunzione di classificazione come general purpose AI model with systemic risk ove il modello raggiunga o superi una determinata soglia ivi fissata. Il valore, come dichiarato a dicembre, è un potere di calcolo pari a 10^25 FLoPs (floating point operations per second, un’unità di misura della capacità computazionale) (36). Al momento, solo GPt-4 di openAI, Gemini di Google e qualche modello cinese rispetterebbero questa caratteristica. Ma dovranno essere gli sviluppatori a comunicarlo alla Commissione, che per adesso non si esprime sui modelli già nei radar dell’AI Act e potrà intervenire se viene a sapere che un sistema ad alto impatto non si è dichiarato tale. Da Bruxelles fanno sapere possa rendere il marchio non leggibile tramite un altro sistema); la sussistenza di una percentuale di errore nel rilevamento del marchio apposto (determinando dunque la possibilità di falsi positivi nel processo di controllo circa l’origine macchinica del contenuto); dubbi circa la robustezza di questo sistema, dovuti alla possibilità di una manipolazione, alterazione o rimozione dei marchi apposti tramite il watermarking. In tal senso, PArLAMENto EUroPEo, Generative AI and watermarking, del 13 dicembre 2023, https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2023/757583/EPRS_BRI(2023)757583_EN.pdf, p. 3. (33) La nozione di “rischio sistemico” è definita invece dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 65 come un rischio «(…) specifico per le capacità di impatto elevato dei modelli di IA per finalità generali, avente un impatto significativo sul mercato dell’Unione a causa della sua portata o di effetti negativi effettivi o ragionevolmente prevedibili sulla salute pubblica, la sicurezza, i diritti fondamentali o la società nel suo complesso, che può propagarsi su larga scala lungo l’intera catena del valore; (…)». (34) «1. Un modello di IA per finalità generali è classificato come modello di IA per finalità generali con rischio sistemico se soddisfa uno dei seguenti requisiti: a) presenta capacità di impatto elevato valutate sulla base di strumenti tecnici e metodologie adeguati, compresi indicatori e parametri di riferimento; (…)». (35) «(…) b) sulla base di una decisione della Commissione, ex officio o a seguito di una segnalazione qualificata del gruppo di esperti scientifici, presenta capacità o un impatto equivalenti a quelli di cui alla lettera a), tenendo conto dei criteri di cui all’allegato XIII». (36) «2. Si presume che un modello di IA per finalità generali abbia capacità di impatto elevato a norma del paragrafo 1, lettera a), quando l’importo cumulativo del calcolo utilizzato per il suo addestramento misurato in FLoP è superiore a 10^25». rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 che la soglia potrà essere modificata in futuro, per meglio rispondere alle evoluzioni di mercato (37). Le AI ad alto impatto dovranno applicare ex ante delle regole su sicurezza informatica, trasparenza dei processi di addestramento e condivisione della documentazione tecnica prima di arrivare sul mercato (38). Al di sotto si collocano tutti gli altri foundational models. tra cui le due startup made in Europe: la francese Mistral e la tedesca Aleph Alpha. In questo caso l’AI Act scatta quando gli sviluppatori commercializzano i propri prodotti. E sono esclusi i modelli offerti con licenza open source a norma del Considerando 104, a meno che non siano qualificabili come modelli GPAI portatori di rischi sistemici. Il sistema degli uffici, innovazioni e controllo. L’AI Act delega una serie di controlli alle autorità locali, che entro due anni dall’entrata in vigore dovranno istituire almeno una sandbox regolatoria (o spazio di sperimentazione normativa per l’IA) (39) a livello nazionale (40). ossia uno schema che consente di effettuare test in sicurezza, in deroga alla legge, per non soffocare l’innovazione a causa dei troppi obblighi da rispettare e sostenere l’addestramento di algoritmi, anche con test condotti nel mondo reale. La Commissione si doterà di un Consiglio dell’AI, dove siede un esponente per ogni Stato dell’Unione. Il Garante europeo dei dati personali è invi (37) Infatti, il paragrafo 3 dell’articolo 51 prevede che la Commissione possa adottare «(…) atti delegati a norma dell’articolo 97 per modificare le soglie di cui ai paragrafi 2 e 3, nonché per integrare parametri di riferimento e indicatori alla luce degli sviluppi tecnologici in evoluzione, quali miglioramenti algoritmici o una maggiore efficienza dell’hardware, ove necessario, affinché tali soglie riflettano lo stato dell’arte». (38) A norma dell’articolo 55, paragrafo 1 il quale dispone ulteriori obblighi, oltre a quelli previsti dal precedente articolo 53 per tutti i modelli GPAI. Inoltre, il paragrafo 2 dello stesso articolo 55 prevede la possibilità, riconosciuta ai provider dei modelli GPAI portatori di rischio sistemico, di fare affidamento su codici di condotta (rimandando al seguente articolo 56), adeguandosi ai quali si può dimostrare la compliance alla disciplina in questione. (39) Definita dall’articolo 3, paragrafo 1, punto 55 come «(…) un quadro controllato istituito da un’autorità competente che offre ai fornitori o potenziali fornitori di sistemi di IA la possibilità di sviluppare, addestrare, convalidare e provare, se del caso in condizioni reali, un sistema di IA innovativo, conformemente a un piano dello spazio di sperimentazione per un periodo di tempo limitato sotto supervisione regolamentare». (40) Infatti, il Capo VI dell’AI Act (intitolato “Misure a sostegno dell’innovazione”) si apre con l’articolo 57 il quale, sotto la rubrica “Spazi di sperimentazione normativa per l’IA” sancisce quanto segue: «1. Gli Stati membri provvedono affinché le loro autorità competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa per l’IA a livello nazionale, che sia operativo entro ... [24 mesi dalla data di entrata in vigore del presente regolamento]. tale spazio di sperimentazione può essere inoltre istituito congiuntamente con le autorità competenti di uno o più Stati membri. La Commissione può fornire assistenza tecnica, consulenza e strumenti per l’istituzione e il funzionamento degli spazi di sperimentazione normativa per l’IA. L’obbligo di cui al primo comma può essere soddisfatto anche partecipando a uno spazio di sperimentazione esistente nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti». LEGISLAzIoNE ED AttUALItà tato come osservatore, così come l’Ufficio dell’AI collocato sotto la Direzione generale Connect. Il Consiglio sarà strutturato in due sotto-gruppi, uno dedicato alla sorveglianza del mercato e uno alle notifiche delle autorità, e assisterà la Commissione nell’implementazione del regolamento, nell’identificazione di tendenze tecnologiche da monitorare e nella modifica delle norme. A sua volta il Consiglio dell’AI sarà affiancato da un forum di consulenti tecnici, mentre la Commissione potrà avvalersi di un comitato indipendente di scienziati ed esperti, sulla falsariga del gruppo di tecnici del clima che aiuta l’onu nella regia delle politiche ambientali. L’AI Act stabilisce le modalità per segnalare un incidente occorso a un sistema ad alto rischio, entro due giorni da quando avviene o se ne ha contezza. La violazione degli obblighi di compliance posti dall’AI Act determinerà l’applicazione di sanzioni pecuniarie. L’articolo 99 del regolamento, sotto la rubrica “Sanzioni”, prevede al primo paragrafo che gli Stati membri dispongano un quadro normativo sanzionatorio che miri a realizzare un enforcement della disciplina dell’AI Act (41). Chi non si adegua all’AI Act rischia multe fino a 35 milioni di euro o al 7% del fatturato globale nel caso degli usi proibiti (ex articolo 99, paragrafo 3). Se a finire sotto la scure sono i sistemi ad alto rischio o quelli di uso generale, si arriva fino a un massimo di 15 milioni o del 3% del fatturato globale in caso di mancata ottemperanza alle regole (a norma dell’articolo 99, paragrafo 4). Altrimenti, se si contestano informazioni scorrette, la sanzione raggiunge un tetto di 7,5 milioni di euro o dell’1% del fatturato globale (secondo quanto disposto dall’articolo 99, paragrafo 5). L’articolo 99, al paragrafo 6 precisa inoltre che, nel caso in cui ad essere assoggettate a sanzione siano piccole o medie imprese o start-up, il valore da prendere in considerazione ai fini dell’irrogazione sia quello più basso tra i due indicati per ciascuna delle tre fasce appena richiamate (42). Questa disciplina riuscirà a dimostrarsi a prova di futuro? L’approccio regolatorio europeo sarà idoneo a far fronte ai futuri sviluppi, ovvero manca qualcosa, a questo fine, in tale regolamento? L’Europa rischia di diventare un (41) «1. Nel rispetto dei termini e delle condizioni di cui al presente regolamento, gli Stati membri stabiliscono le regole relative alle sanzioni e alle altre misure di esecuzione, che possono includere anche avvertimenti e misure non pecuniarie, applicabili in caso di violazione del presente regolamento da parte degli operatori, e adottano tutte le misure necessarie per garantirne un’attuazione corretta ed efficace, tenendo conto degli orientamenti emanati dalla Commissione a norma dell’articolo 96. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive. Esse tengono conto degli interessi delle PMI, comprese le start-up, e della loro sostenibilità economica». (42) «6. Nel caso delle PMI, comprese le start-up, ciascuna sanzione pecuniaria di cui al presente articolo è pari al massimo alle percentuali o all’importo di cui ai paragrafi 3, 4 e 5, se inferiore». Si tratta evidentemente di una previsione tesa a non impattare in misura sproporzionata su aziende che stanno cercando di farsi strada nel settore in questione, al fine di non minarne eccessivamente la concorrenza. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 gigante regolatorio e un nano tecnologico? La tecnica da seguire, forse, era quella del Foresight oltre alla prevista sandbox? Ebbene, nel panorama globale contemporaneo, in cui il progresso tecnologico avanza con una velocità sempre crescente, la “fluidità” e la “dinamicità” dell’innovazione prendono in contropiede il diritto (43). Gli operatori giuridici sono infatti abituati oramai a ragionare secondo approcci reattivi all’insorgere di problematiche che via via si pongono. tuttavia, questo tipo di metodologia può oggi comportare rischi di inefficienza del loro intervento (44). Il Foresight si presenta dunque come uno strumento di primaria importanza nel ragionamento su cui si fondano le decisioni di politica legislativa, essendo una disciplina che propone l’adozione di un approccio proattivo teso a prevedere la maggiore varietà possibile di scenari futuri, in modo tale da comprendere anticipatamente come farvi fronte (45). Questo metodo, implicando la proiezione del maggior numero possibile di accadimenti ipotetici futuri, è divenuto una tecnica sempre più multidisciplinare, in particolar modo dalla fine dello scorso secolo (46). Queste considerazioni preliminari sono già utili per riflettere circa l’opportunità, sfortunatamente persa dal legislatore sovranazionale, di adottare il foresight come metodo regolatorio in ambito di IA. (43) In specifico riferimento all’IA, si pensi alle numerose richieste di sospendere l’attività di ricerca e di sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale avanzate lo scorso anno (in particolare quelle di Samuel Altman, Elon Musk o del Future of Life Institute). Si tratta di tre posizioni accomunate dalla paura della rapidità dell’evoluzione tecnologica che caratterizza la cd. “quarta rivoluzione industriale”. (44) A. CAtALEtA, S. LEUCCI, G. rIzzo, G. VACAGIo, Privacy, anticipiamo il futuro: un nuovo approccio è necessario, Agenda Digitale, 20 settembre 2023, disponibile su https://www.agendadigitale. eu/sicurezza/privacy/i-futuri-della-privacy-perche-serve-un-approccio-anticipante-alle-nuovetecnologie/. (45) ibidem, ove viene inoltre precisato che il Foresight è una tecnica che «(…) non usa il futuro come obiettivo da raggiugere, ma piuttosto come un costrutto “usa e getta”, il cui solo scopo è di far accedere ad una comprensione più ampia delle decisioni che sono importanti nel presente». Nello stesso articolo viene inoltre accennata l’origine del metodo del Foresight. Si tratta di un approccio, un metodo ideato e sviluppato a partire dalla metà dello scorso secolo. La principale motivazione che comportò la nascita di questo modo di osservare all’avvenire fu la necessità di mantenere la pace. In quest’ottica, si percepì che “progettazione” e “pianificazione” sono metodi «(…) utili, ma limitati di pensare al futuro, perché mirano a conoscere un singolo futuro». Si avvertì dunque il bisogno di pensare al futuro come insieme di pluralità di possibili scenari, i quali non devono essere conosciuti, bensì usati in ottica pro- attiva, di anticipazione nell’adozione delle decisioni strategiche nel presente. In questa prospettiva assume dunque rilevanza primaria l’individuazione delle esigenze future, in tal senso v. D. MIEtzNEr, G. rEGEr, Advantages and Disadvantages of Scenario Approaches for Strategic Foresight, 1 International Journal Technology Intelligence and Planning 220 (2005), disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract= 1736110, p. 235. (46) A. CAtALEtA, S. LEUCCI, G. rIzzo, G. VACAGIo, Privacy, anticipiamo il futuro: un nuovo approccio è necessario, cit., ove si sottolinea che il foresight ha finito per inglobare elementi di sociologia, psicologia, economia e scienze ambientali. Una simile evoluzione della disciplina del foresight è giustificata, secondo i richiamati Autori, dal fatto che le sfide cui ci si trova oggi a dover far fronte (quali, ad esempio, il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali ed economiche e l’innovazione tecnologica) pongono l’esigenza di adottare un approccio interdisciplinare, essendo divenuto oramai obsoleto qualsiasi tentativo di intervento fondato di ragionamenti e valutazioni effettuate a compartimenti stagni. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà tuttavia, la consapevolezza, da un lato, dei limiti propri dei “canonici” approcci regolatori e, dall’altro, dei vantaggi che il foresight può comportare, ha raggiunto alcune Istituzioni, le quali hanno già iniziato a riconoscere a questa disciplina il rilievo che merita. Si intende fare specifico riferimento a tre autorità, due nazionali e una sovranazionale: la Commission Nationale de l’Informatique et des Libertès (o CNIL, autorità nazionale francese), la Information Commissioner’s Office (o ICo, autorità inglese) e l’European Data Protection Supervisor (o EDPS, autorità europea) (47). Ciò che accomuna questi soggetti è l’adozione del Foresight come metodo di osservare al futuro, per comprendere quali siano le migliori strategie regolatorie da attuare nel presente. La centralità del Foresight è stata evidenziata dall’EDPS, il quale ha sostenuto la centralità di questo metodo in base ad alcune constatazioni in relazione al contesto normativo europeo: in primo luogo il regolamento (UE) 2018/1725 (48) richiede espressamente che l’EDPS monitori gli sviluppi pertinenti all’impatto sui dati personali, con specifico riferimento alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (49); inoltre, il monitoraggio della tecnologia e il Foresight sono palesemente collegati al ruolo di autorità di controllo svolta dallo stesso EDPS (50). Lo stesso EDPS ha precisato che lo scopo strategico che persegue è quello di anticipare il più possibile i futuri sviluppi del progresso tecnologico, e a tal fine il Foresight rappresenta uno strumento assolutamente indispensabile (51). L’ICo ha dichiarato l’intenzione di adottare il metodo del Foresight in relazione a 65 tecnologie emergenti, selezionate sulla base di un coefficiente di priorità che esprima una classificazione delle stesse in base a “probability”, “scale”, e “associated harms and benefits” in riferimento alla normativa sulla privacy (52). La CNIL ha istituito al proprio interno un apposito comitato (il cd. Foresight Committee), composto (47) ibidem. (48) regolamento (UE) 2018/1725 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2018 sulla tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e sulla libera circolazione di tali dati, e che abroga il regolamento (CE) n. 45/2001 e la Decisione n. 1247/2002/CE. (49) X. LArEo, Continous improvement process, in European Data Protection Supervisor, techsonar 2023-2024 report, novembre 2023, su https://www.edps.europa.eu/data-protection/ourwork/ publications/reports/2023-12-04-techsonar-report-2023-2024_en, p. 1. (50) ibidem. (51) «The aim is to anticipate as far as possible future technology trends and the privacy and data protection challenges posed by new technologies», ibidem. (52) INForMAtIoN CoMMISSIoNEr’S oFFICE, Helping people understand how new technologies interact with the UK’s data protection framework. Tech Horizon Report, dicembre 2022, disponibile su https://ico.org.uk/media/about-the-ico/documents/4023338/ico-future-tech-report-20221214.pdf, p. 9. È stato sostenuto che, nel documento appena richiamato, «(…) l’ICo ha dato forma ad alcuni scenari futuri nel mondo di alcune tecnologie particolarmente invasive per analizzarne meglio le evoluzioni e gli impatti sulla protezione dei dati», così A. CAtALEtA, S. LEUCCI, G. rIzzo, G. VACAGIo, Privacy, anticipiamo il futuro: un nuovo approccio è necessario, cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 di 21 esperti con profili differenti al fine di implementare e arricchire il dibattito circa l’etica digitale (53). La giustificazione a fondamento della costituzione di un simile organo è stata individuata nella necessità di mostrare una maggiore apertura ad un lavoro coordinato con il mondo dell’innovazione tecnologica (54). L’utilità del foresight in relazione alle nuove tecnologie si coglie dunque se si prova a riflettere sulla considerazione per la quale la proiezione e la comprensione dei possibili scenari futuri sono fattori imprescindibili, qualora si volessero individuare le modalità migliori per perseguire gli scopi che ci si prefigge. Una simile conclusione è da ritenersi senz’altro applicabile anche all’intelligenza artificiale (55). Infatti, è stato sottolineato che, nella seppur inesorabile impossibilità di prevedere con certezza come la tecnologia si evolverà, resta ferma comunque la possibilità di informarsi sin da ora, al fine di prepararsi ed essere pronti ai possibili sviluppi futuri (56). A parere di chi scrive, un simile atteggiamento dovrebbe ritenersi doveroso nell’ambito della regolamentazione dell’IA, quantomeno in considerazione dei possibili risvolti che una simile tecnologia potrà avere (57). In conclusione, si può sin da ora affermare che il legislatore sovranazionale, accanto alla previsione di principi etici (58) e delle cd. regulatory sandboxes, avrebbe dovuto attuare con maggiore sicurezza un approccio teso alla previsione e all’anticipazione (caratteristiche proprie del foresight) degli scenari futuri di medio e lungo periodo, onde evitare di adottare una regolamentazione che rischia di presentarsi già nel breve termine obsoleta. (53) CoMMISSIoN NAtIoNALE DE L’INForMAtIQUE Et DES LIBErtÈS, Data footprint and freedoms. Exploring the overlaps between data protection freedoms and the environment, IP reports Innovation and Foresight n. 9, giugno 2023, disponibile su https://linc.cnil.fr/sites/linc/files/202309/ cnil_ip9_data_footprint_and_freedoms.pdf, p. 65. (54) ibidem. (55) È stato infatti precisato che «[t]he rapidly evolving technological landscape requires us to anticipate new technological challenges, to be able to influence their evolution and use. A clear signal in this direction is the increasing pace of deployment of artificial intelligence in everyday life and ma- chine learning applications, which requires a more proactive and anticipatory attitude towards an appropriate and effective governance of technology. (…) the need to become proactive in our relationship with technology has become increasingly compelling and has led us to start our foresight journey», w. wIEwIòrowSkI, Readiness and adaptability in an evolving technology landscape, in EUroPEAN DAtA ProtECtIoN SUPErVISor, Techsonar 2023-2024 Report, cit. (56) ibidem, ove si sottolinea inoltre che il metodo di foresight adottato dall’EDPS si coniuga con un approccio “risk-based” (lo stesso adottato dall’AI Act), rivolgendo maggiori attenzioni alle tecnologie che impattano maggiormente sui diritti di privacy e di protezione dei dati degli individui. (57) Si pensi al grado di autonomia con il quale i contemporanei sistemi di IA sono capaci di operare e migliorarsi in continuazione, attraverso le tecniche di deep learning. Una simile autosufficienza nello sviluppo delle macchine comporta il rischio che il loro controllo possa sfuggire all’essere umano, determinando la possibilità che si verifichino scenari potenzialmente pregiudizievoli nei riguardi dei diritti fondamentali. (58) tra i quali rientrano affidabilità, trasparenza, robustezza, cybersecurity, data governance, privacy e accountability. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà In tutta questa situazione resta comunque aperta (e auspicabile) la possibilità che le autorità costituite a livello europeo dal regolamento e quelle nazionali che dovranno essere autonomamente formate dai singoli Stati membri vadano “in controtendenza”, se così si può dire, rispetto all’AI Act sotto questo punto di vista, seguendo l’esempio dell’EDPS (il quale, come si è avuto modo di dare atto, ha già riconosciuto l’essenzialità di adottare un approccio di foresight non solo in relazione alla tutela dei dati personali, bensì anche in riferimento all’intelligenza artificiale). L’auspicio che si verifichi un simile sviluppo risulta ancor più plausibile ove si consideri l’obiettivo principe che si intende perseguire attraverso la regolamentazione dell’intelligenza artificiale: il mantenimento della centralità dell’essere umano, della sua dignità e della sua libertà di autodeterminazione. È assolutamente cruciale, in questo preciso momento storico, porre delle limitazioni, degli argini allo sviluppo tecnologico, senza però frenarlo. occorre indirizzarlo verso un ideale di “umanesimo tecnologico” (59), nel quale sia ben chiaro il ruolo della macchina come strumento posto a servizio dell’essere umano, senza sostituirsi a quest’ultimo (60). Considerando anche i molteplici campi di applicazione dell’intelligenza artificiale, il foresight, tramite la sua interdisciplinarità, risulta a maggior ragione una strada più che valida da seguire nel tentativo di regolamentare adeguatamente il fenomeno in questione già da oggi, nell’ottica di ciò che sarà. (59) Così come proposto in E. BAttELLI, Necessità di un umanesimo tecnologico, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 3, 1096, 2022. (60) E. BAttELLI, Necessità di un umanesimo tecnologico, cit., pp. 1107 e ss. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Perché il Consiglio di stato ha detto no alla tabella unica nazionale in materia di risarcimento del danno non patrimoniale? Gaetana Natale* Perché il Consiglio di Stato ha bloccato lo schema di d.P.r approvato il 16 gennaio 2024 che detta il “Regolamento recante la tabella unica del valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità tra dieci e cento punti, comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso” (1). Qual’era l’intenzione del legislatore e in cosa ha sbagliato visto che si attendeva da anni tale tabella unica nazionale? Il legislatore ha cercato una maggiore certezza di uniformità di trattamento tra i vari Uffici Giudiziari del nostro Paese a sicuro vantaggio degli operatori del settore (inclusi gli stessi assicuratori) e soprattutto delle vittime danneggiate che hanno bisogno di un riferimento unico (e non più le varie tabelle in uso nei singoli tribunali) per la quantificazione dei danni di cui chiedono il risarcimento. Il danneggiato ha diritto allo stesso risarcimento del danno non patrimoniale sia che proponga un’azione risarcitoria presso un tribunale civile del Nord Italia sia che proponga la stessa azione innanzi ad un tribunale del Sud. La tabella Unica, in particolare, è lo strumento per superare il sistema binario che attualmente opera tra le tabelle del tribunale di Milano e quelle del tribunale di roma strumenti cui, di fatto, gli stessi Giudici si sono visti costretti a ricorrere a causa del vuoto regolamentare oggi finalmente in via di definitivo superamento. La tabella Unica riguarda le lesioni di non lieve entità (macrolesioni dal 10% al 100% di invalidità) conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, nonché conseguenti all’attività dell’esercente la professione sanitaria e della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata (2). A tal fine sono adottate: a) le tavole contenenti i coefficienti moltiplicatori e demoltiplicatori del punto per il calcolo del danno biologico (3) e del danno morale (4); (*) Avvocato dello Stato e Professore di Sistemi Giuridici Comparati. Un ringraziamento alla Dott.ssa Sara Cardarelli per la redazione delle note. (1) Ai sensi dell’art. 138, I, D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 “Codice delle assicurazioni private”. (2) Si consideri che così come in caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione stradale, anche in materia di responsabilità civile derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie è prevista sia l’azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa per la responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria, sia il litisconsorzio necessario tra compagnia assicurativa ed esercente la professione sanitaria nel giudizio promosso dal soggetto danneggiato nei confronti della compagnia. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà b) la tabella unica nazionale del valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità, comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso; c) la tabella unica nazionale del valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità, comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso, incrementato del danno morale nei valori minimo, medio e massimo (5). La tabella unica nazionale stabilisce così un valore pecuniario univoco che si attribuisce a ogni singolo punto di invalidità (danno biologico), compreso tra dieci e cento punti, salvo poi ad essere integrata al fine del risarcimento del danno morale. Detta tabella tiene conto di tre specifici aspetti, indispensabili per stabilire il valore pecuniario del risarcimento al danneggiato: il danno biologico permanente, il danno morale (sofferenza psicologica interiore) e il danno biologico temporaneo (inabilità temporanea). In altre parole, nel dare attuazione all’art. 138 cit. si realizza un sistema a “punto” variabile per il quale il “punto” aumenta di valore più che proporzionalmente rispetto a lesioni sempre più gravi e, al contempo, va a decrescere con l’età della vittima, e cioè a dire con l’aumentare dell’età della vittima. È poi possibile il calcolo, a parte, del danno morale, fermo restando il principio della domanda e l’assolvimento degli obblighi di allegazione e prova in capo all’istante danneggiato (6) (si ha oggi un coefficiente moltiplicatore ad hoc per il danno morale). Il sistema così brevemente descritto dovrà essere necessariamente aggior (3) Per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito. Le lesioni nelle quali si concretizza il danno biologico possono distinguersi in macro- lesioni e in lesioni di lieve entità, a seconda che i postumi da lesioni siano o meno superiori al 9 per cento, come si evince dall’art. 139, c. 1, lett. a), D.Lgs. n. 209/2005. (4) trattasi dell’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sè, della paura, della disperazione). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26792/2008, hanno stabilito che il ristoro del danno morale compete: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato, potendo, in questo caso, essere oggetto di risarcimento qualsiasi danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, indipendentemente da una sua rilevanza costituzionale; b) quando sia la legge stessa a prevedere espressamente il ristoro del danno, limitatamente ai soli interessi della persona che il Legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto; c) quando il fatto illecito abbia leso in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale e non predeterminati, dovendo, volta a volta, essere allegati dalla parte e valutati caso per caso dal Giudice. (5) Ai sensi dell’art. 138, II, lett. e), D.Lgs. n. 209/2005. (6) Il danno, invero, non è in re ipsa riconducibile all’evento lesivo dell’interesse protetto, ma è sempre un danno conseguenza, che, come tale, deve essere in concreto provato, in termini di nesso di causalità giuridica, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 nato e a tanto si provvederà con decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, sentito l’IVASS. tali nobili intenzioni del legislatore si sono, però, scontrate con un errore metodologico che il Consiglio di Stato ha correttamente e puntualmente rilevato. Infatti, in data 20 febbraio 2024 con parere n. 164/2024 la Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Supremo Consesso Consultivo ha svolto una serie di osservazioni ostative all’approvazione dello schema di decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy. Per quali ragioni tale schema di decreto non ha ricevuto il placet del Consiglio di Stato? Ciò è avvenuto sia per motivi procedimentali che sostanziali. Sotto il profilo procedimentale il Consiglio di Stato ha rilevato che (si riporta una parte integrale del parere) “l’intelligibilità dell’intervento in esame risulta compromessa, in assenza di supporto documentale integrativo, dal tratto meramente formale ed inarticolato del concerto espresso dal Ministero della Giustizia. Si impongono, sul punto, una considerazione di carattere generale ed una di carattere specifico e contestuale. Sotto il primo profilo, la Sezione ha, ancora da ultimo, reitera- mente ribadito (cfr., per tutti, i pareri n. 53 del 22 gennaio 2024 e n. 131 del 30 gennaio 2024) che, negli “atti di concerto”, la valutazione dei Ministeri (competenti per legge) veicola ed esprime -in ordine alla proposta normativa elaborata, in via preliminare, dall’autorità concertante -una adesione sostanziale (di vero e proprio “accordo tra le amministrazioni statali coinvolte” fa espressa parola, in termini generali, l’articolo 17-bis comma 2 della legge n. 241 del 1990), conseguente al concreto apprezzamento degli interessi pubblici a confronto (anche, secondo i casi, di ordine organizzativo ed infrastrutturale), che abilita del resto alla formulazione di eventuali suggerimenti e alla elaborazione di proposte di modifica o di integrazione: sicchè, non a caso, nel conflitto, è prevista la composizione in sede di Consiglio dei ministri (cfr. articolo 5, comma 2, lettera c-bis) legge 23 agosto 1988 n. 400, nonché articolo 17bis, comma 2 l. 241/1990). Con ciò, pur con l’elevato tasso di politicità e l’ampia discrezionalità che connota l’attività di concertazione a livello ministeriale, la sua manifestazione, ancorchè non integri un atto unitario e formalmente complesso, ma si atteggi a mero modulo procedimentale, realizza (cioè, deve realizzare) una effettiva compartecipazione alla elaborazione del provvedimento o dell’atto, per la quale l’autorità concertata esprime sulla proposta elaborata dall’autorità concertante una sostanziale valutazione di compatibilità con gli interessi di cui è portatrice, con ciò realizzandosi una forma di “concorso nel volere”(enfasi aggiunta) che è, ad un tempo, sostanziale codeterminazione del voluto. Del resto, di là dalla formale attribuzione -con la facoltà di elaborare la proposta -dell’iniziativa procedimentale, il regolamento approvato in via concertata assume i tratti, quanto meno sostanziali, del decreto interministeriale (cfr. articolo 17, comma 3 legge n. 400 del LEGISLAzIoNE ED AttUALItà 1988), onde il concerto costituisce l’atto con cui il Ministero concertante (lungi dal limitarsi ad esplicitare l’assenza di ragioni meramente ostative) si rende positivamente partecipe dell’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne la responsabilità. Ne discende che la preventiva partecipazione istituzionale dei Ministri competenti ratione materiae non può essere surrogata da un mero, inarticolato e secco nulla-osta, con il quale il Ministro (o addirittura una mera struttura ministeriale, all’uopo eventualmente ed informalmente delegata) escluda, con formula essenzialmente negativa e sostanzialmente abdicativa, e senza fornirne neppure sintetico conto, la sussistenza di ragioni (eventualmente) preclusive alla decisione dell’autorità procedente”. In altre parole, il Consiglio di Stato con tale parere ha sostanzialmente rilevato che il Ministero della Giustizia non ha partecipato in modo sostanziale alla redazione dello schema di decreto, non ha realizzato il “concorso nel volere”. Ma perché il contributo del Ministero della Giustizia doveva essere sostanziale e non formale? È presto detto: il Consiglio di Stato precisa che “il coinvolgimento del Ministro della giustizia appare correlato alla necessaria ed impegnativa verifica, in chiave retrospettiva, della complessiva coerenza dell’intervento con gli orientamenti maturati dalla giurisprudenza “consolidata” in punto di risarcimento del danno non patrimoniale e, in chiave prospettica, dell’impatto della regolazione sulla attività giurisdizionale sulle modalità di liquidazione dei danni”. Il Consiglio di Stato ha dato, comunque, atto nel parere che l’Amministrazione ha provveduto a: a) Alla preliminare predefinizione del valore economico del “punto base” (destinato all’aggiornamento periodico con cadenza annuale, mediante decreto ministeriale, per tener conto dell’effetto inflattivo: cfr. articolo 138, comma 5), corrispondente al valore minimo della percentuale di invalidità (9 punti) che si è scelto di equiparare -per ragioni di coerenza e di continuità -al valore del punto base positivamente definito (all’articolo 139) per le cd. microlesioni, attualmente pari ad euro 939.78; b) Alla elaborazione di sistema di “moltiplicatori biologici”, di “demoltiplicatori demografici” e di “moltiplicatori per danno morale” (questi ultimi in misura alternativa minima, media e massima, per tenere conto delle esigenze di personalizzazione contestualizzate). Il Consiglio di Stato rileva, però, che in tale attività istruttoria vi è una surrettizia inversione metodologica e che il limite è rappresentato dal fatto che è stata recepita acriticamente la relazione tecnica dell’IVASS, incentrata su dati temporalmente risalenti, omettendo una puntuale descrizione della situazione attuale, aggiornata con gli ultimi dati disponibili relativamente alla consistenza numerica ed alla distribuzione frequenziale dei sinistri registrati ed alla relativa dinamica apprezzata in un congruo e significativo lasso temporale, sia nell’ambito della circolazione stradale che nel contesto sanitario e socio-sanitario. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Inoltre, -quanto al compiuto e circostanziato apprezzamento della concreta incidenza, sul piano delle tecniche, delle modalità e degli esiti risarcitori, della formalizzazione di una tabella unica, con valore normativo, destinata a soppiantare programmaticamente la valorizzazione, validata dalla giurisprudenza, delle tabelle elaborate dalla prassi degli uffici giudiziari -l’analisi trascura il complessivo confronto comparativo con lo status quo, sia in termini assoluti sia in termini relativi, in relazione ai diversi gradi di invalidità, in tal modo non offrendo elementi per scongiurare il rischio di regressione dei risarcimenti. Nella prospettiva solidaristica della sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale la necessità di razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo -che asseconda, per un verso, le aspettative di certezza, calcolabilità e prevedibilità degli operatori economici e dovrebbe contribuire a disincentivare, in prospettiva predittiva, il contenzioso e a favorire la definizione stragiudiziale delle pratiche di liquidazione -non va intesa quale ragione di deminutio della pienezza, effettività ed adeguatezza della tutela che va riconosciuta alle vittime di eventi dannosi. Il parere del Consiglio di Stato ha, dunque, sollecitato energicamente un rinnovo dell’istruttoria per un’attenta analisi di contesto volta ad aggiornare i dati sottostanti alla articolata elaborazione tabellare, esplicitando i termini di un confronto comparativo puntuale e circostanziato con i parametri tabellari attualmente utilizzati nelle varie sedi giudiziarie e validati dalla giurisprudenza di legittimità, illustrando le opzioni di standardizzazione ed uniformazione perseguite. Al di là delle osservazioni del Consiglio di Stato, occorre, però, chiedersi se è possibile realizzare una tabella Unica nazionale volta a superare il cd. isolamento cognitivo dei ctu, il cd. “imponderabile noto”, il cd. “Hindsight bias,o outcome bias ”. In altri termini si può realizzare una tabella Unica Nazionale senza un bareme unico? Si può superare una concezione geriniana soprattutto per il cd. danno biologico differenziale incrementativo? Il D.M. 10 luglio 2000 di rango normativo di secondo grado rimane fondamentale per la valutazione della percentuale di invalidità dall’1 al 9%: la sua violazione può certamente configurarsi nei ricorsi per cassazione come violazione di legge, cosi come si può invocare la violazione di legge ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. per la mancata applicazione della tabella da intendersi dopo la sentenza Amatucci come parametro paranormativo. Per i danni superiori al 9% (e non per gli incidenti stradali) vi sono vari bareme che possono portare a risultati completamenti differenti per la stessa patologia. In caso, ad esempio, di paraplegia la Guida del Prof. Flavio Buzzi di Pavia, Società italiana di medicina legale, individua una percentuale di invalidità tra il 41% e il 65%; la Guida del prof. Bargogna l’80%; quella di ronchi Mastroroberto Genovesi il 60%. La Cassazione con la sentenza del 5 maggio 2021 n. 11724 ha cercato di chiarire il concetto di bareme: deve essere scelto dal giudice e deve essere indicato nel quesito, deve essere unico per tutti i casi, deve essere scientifica LEGISLAzIoNE ED AttUALItà mente condiviso ed aggiornato secondo la cd. Daubert trilogy. I principi che devono essere presi in considerazione in tema di risarcimento sono: la sostenibilità, l’adeguatezza, l’effettività, la pienezza, intangibilità, certezza, equità, uguaglianza e prevedibilità. La tabella Unica Nazionale, in attesa della richiesta rinnovata attività istruttoria auspicata dal Consiglio di Stato, non può in ogni caso concepirsi come sistema rigido, ma come base normativa per l’applicazione della cd. “equità circostanziata” che tenga sempre conto del caso concreto per una reale personalizzazione del danno risarcibile. Certo molto tempo è trascorso dalla nota sentenza n. 184/1986 con cui la Corte Costituzionale ha richiesto una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 2043 c.c. e 2059 c.c. e molta giurisprudenza ha elaborato il concetto di danno biologico come danno dinamico-relazionale e il danno morale soggettivo da allegare e provare (7). Il parere del Consiglio di Stato precisa che la tabella Unica Nazionale deve tener conto di tutta la giurisprudenza nazionale e non solo delle tabelle di Milano. Si ricorda che la Cassazione ha riconosciuto maggiore attendibilità alle tabelle di roma per la liquidazione del danno parentale (8). tali tabelle sono state redatte grazie al lavoro dei giudici Parziale e Cisterna che hanno definito un aumento del valore del punto del 15,8%, chiarendo il concetto di curva di accrescimento del punto tabellare: il punto è una funzione crescente del risarcimento più che proporzionale. Cosa significa questo? Significa che si inserisce un cd. “meccanismo incrementale”. Le tabelle di Milano determinano, però, una curva di accrescimento all’inverso: i danni sino al 30% hanno un meccanismo di crescita maggiore rispetto a quelli del 50%. Nella tabella Unica Nazionale approntata vi è una curva di accrescimento che, però, non ha funzione progressiva, ma regressiva, ma è illogico prevedere un aumento più che proporzionale con una curva di accrescimento inverso. Paradossalmente, più è grave il danno, minore è il risarcimento. Se tale meccanismo volto a limitare la spesa pubblica e la sua incidenza sul PIL può valere per le strutture pubbliche, non può certo valere per le strutture private. ricordiamo che il sistema di responsabilità da circolazione stradale si applica anche ai natanti, alle grosse imbarcazioni che certo sono indici rivelatori di stati patrimoniali non esigui. È da escludere che la tabella Unica Nazionale preveda in via automatica la liquidazione del danno morale che va (7) Si fa riferimento, in particolare, a: tribunale di Milano, sentenza 18 gennaio 1971 c.d. “Gennarino”; tribunale di Genova, sentenza 15 dicembre 1975; Corte Cost. sentenza n. 184/86; Corte Cost. sentenza n. 372/94; Cassazione pen. Sez. Unite sentenza n. 30328/2002; Corte Cost. sentenza n. 233/2003; Cassazione civ. Sez. Unite nn. 26972/2008 e 26975/2008; Cassazione Sez. Unite n. 3677/2009; Cassazione pen. sentenza n. 12408/2011; Cassazione civ. sentenze nn. 28988/2019 e 28989/2019; Cassazione civ., sez. III, ordinanza n. 15733 del 17 maggio 2022; Cassazione civ., sez. III, ordinanza n. 19922 del 12 luglio 2023; Cassazione civ., sez. III, ordinanza n. 7892 del 22 marzo 2024. (8) Ex plurimis, Cassazione civ. sez. III, sentenza n. 10579/2021, Cassazione civ. sentenza n. 26300/2021; Cassazione civ. sez. III, sentenza n. 33005/2021. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 allegato e provato con approfondite istruttorie. orbene, le tabelle quale parametro paranormativo hanno una funzione retrospettica (guardano, cioè, a ciò che è avvenuto in passato) e una funzione prospettica, svolgendo una funzione predittiva. Ma è necessario che poggino su solide basi scientifiche, tenendo presente che non esistono danni uguali anche se le lesioni sono uguali: deve sempre prevalere, in base alla valutazione equitativa del giudice ex art. 1226 c.c., la cd. “personalizzazione del danno”, evitando troppi rigidi automatismi risarcitori. ricordiamo che la Legge Gelli Bianco, pur considerando che le aziende sanitarie sono in autoritenzione, richiama l’art. 590 sexies c.p. e l’art. 133 c.p., ossia l’intensità del dolo e il grado della colpa, prendendo in considerazione anche il danno morale soggettivo. Proprio per tale motivo lo scorso 13 aprile 2024 la Società Italiana di Medicina Legale, società scientifica riconosciuta dal Ministero, ha approvato delle Linee Guida con circa 250 voci volte a definire da un punto di vista clinico le percentuali di danno risarcibile. È un primo passo per la definizione di un bareme unico, perché il risarcimento del danno in una logica compensativa della responsabilità civile secondo il cd. “teorema dell’indifferenza” è sinonimo di equità e di giustizia sociale (9). Si ricorderà che il danno biologico è la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico/legale che esplica un’incidenza negativa sull’attività quotidiana e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulle sue capacità di produrre reddito (10). Gli elementi costitutivi del danno biologico (secondo la Cassazione, tra le tante vedi concetto di “vulnerabilità”, sentenza n. 26118/21) (11) sono: a) Fondamento medico-legale cd. evidence-based; b) Disfunzionalità (non basta la lesione di un diritto, occorre un pregiudizio anche se solo temporaneo); (9) r. PArDoLESI, (2018) Danno non patrimoniale, uno e bino, nell’ottica della Cassazione, una e Terza, in “La nuova giurisprudenza civile commentata”; U. GENoVESE, A. StEFFANo, M. roDoLFI, S. DEL SorDo, C. LoMBArDo, F. MArtINI, A. MAzzUCChELLI (2019), Guida alla liquidazione economica del danno alla persona in R.C., Maggioli; r. PArDoLESI, S. roBErto (2021), Le nuove tabelle milanesi e il fascino discreto della para-normatività, in “Danno e responsabilità”; r. PArDoLESI, S. roBErto (2021), Il danno da perdita del rapporto parentale: giudice (-legislatore?) in fuga da Milano, in “Foro Italiano”; r. PArDoLESI, Sofferenza morale e contorsioni tabellari in “Danno e responsabilità”; G. CAS- SANo (2021), Il danno alla persona, Giuffrè; A. BIANChI, G. CoMANDé, M. FrANzoNI, M. GroNDoNA, P.G. MoNAtErI, r. PArDoLESI, G. PoNzANELLI, r. SIMoNE, F. zAPPAtorE (2021), Danno alla persona e parametri di liquidazione, wolters kluwer; P. MINICANGELI, La liquidazione del danno alla persona: persistenti incertezze ed immutabili esigenze in Diritto di Famiglia e delle Persone (II), fasc. 3, 1 settembre 2022; E. CoLLEttI, Tabelle di Milano: l’evoluzione paranormativa dei criteri risarcitori tra adeguamenti e nuove prospettive in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 4, 1 aprile 2023. (10) G. ALPA, Il danno biologico. Percorso di un’idea (1987); G. PoNzANELLI (2004), Il “nuovo” danno non patrimoniale, CEDAM; E. NAVArrEtA (2010), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Giuffrè; G. ALPA (2019), Le persone e la famiglia. Le persone fisiche e i diritti della personalità, UtEt; G. PASCALE (2020), I danni non patrimoniali, Maggioli. (11) Cassazione civ., sez. III, sentenza n. 26118 del 27 settembre 2021. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà c) onnicomprensività senza duplicazioni di voci di danno che hanno una valenza spesso solo descrittiva; d) Arredittualità; e) Accertamento degli elementi costitutivi ex art. 2043 c.c. (fatto illecito, dolo o colpa e nesso di causalità secondo il principio della causalità adeguata, cd. “più probabile che non”). La massima tutela delle vittime imposto dalle norme costituzionali artt. 2, 3 e 32 Cost., impone il cd. “zelo solerte nella conduzione dell’istruttoria”: ma come si deve procedere in caso di lesioni concorrenti, coesistenti e concorrenti con doppie o triple percentuali di invalidità? La Cassazione, in occasione della nota pronuncia n. 28986/19 relativa alla valutazione e liquidazione del c.d. danno biologico differenziale (12), ha chiarito che: A. occorre stabilire il grado complessivo di IP; B. Stabilire il grado ipotetico di IP che, comunque, la vittima avrebbe potuto patire anche in assenza dell’illecito; C. Sottrarre B ad A. Delle patologie pregresse si deve tener conto nella liquidazione del danno. occorre precisare ed è questo un punto di cui la tabella Unica nazionale dovrà tener conto che la differenza in sede di liquidazione del danno deve essere svolta sui “soldi”, non “sulle percentuali di invalidità”. Il risarcimento dei danni deve riportare i costi sulla cd. “curva di indifferenza”: la sostenibilità si realizza con criteri: 1) oggettivi; 2) Prevedibili; 3) Comprensibili. Il risarcimento è un problema di “bilanciamento”: occorre considerare che risarcimenti elevati fanno aumentare i premi assicurativi con ricadute sulla fiscalità generale e con maggiori azioni di surroga da parte degli assicuratori. Ma occorre, anche, individuare con balance and wisdom una metodologia chiara che eviti “rigidità” ed automatismi risarcitori nella prospettiva costituzionale di tutela della persona ex artt. 2 e 32 Cost. Consiglio di stato, sezione Consultiva per gli Atti normativi, Parere 20 febbraio 2024 n. 164 -Pres. L. Barra Caracciolo, Est. G. Grasso. 1.- Con nota prot. n. 2308 del 31 gennaio 2024, il capo dell’ufficio legislativo del Ministero delle imprese e del made in Italy ha trasmesso, ai fini della acquisizione del prescritto parere, lo schema di decreto del Presidente della repubblica avente ad oggetto il “regolamento re (12) Cassazione civ. sez. III, sentenza n. 28986 del 11 novembre 2019. In tema di valutazione e liquidazione del c.d. danno biologico differenziale si veda anche Cassazione civ., sez. III, sentenza n. 26851 del 19 settembre 2023. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 cante la tabella unica del valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità tra dieci e cento punti, comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso, ai sensi dell’articolo 138, comma 1, lettera b), del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209”. A corredo della richiesta, sono stati trasmessi: a) la “relazione illustrativa”, predisposta dalla Direzione generale consumatori e mercato e munita del visto del Ministro e della pedissequa richiesta di parere ex articolo 36 r.d. 21 aprile 1942, n. 444; b) il testo dello schema di decreto, validato e ‘bollinato’ dal ragioniere generale dello Stato, unitamente alle “tavole” ed alle “tabelle” che integrano l’apparato degli allegati; c) la relazione di “analisi dell’impatto della regolamentazione” (AIr), accompagnata dalla relativa “valutazione” espressa dal “Nucleo di valutazione” (NUVIr), con nota prot. VII/23 del 18 dicembre 2023; d) la “analisi tecnico-normativa”, redatta in guisa informale; e) la “relazione tecnico-finanziaria”, con pedissequa e positiva verifica della ragioneria generale dello Stato, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196; f) la nota prot. n. 269418 in data 22 novembre 2023, con la quale l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) ha espresso il proprio “parere favorevole” sul testo normativo e delle allegate tabelle, “nel presupposto del recepimento delle modifiche [...] elencate”; g) la nota prot. n. 12671 del 13 dicembre 2023, con la quale il capo dell’ufficio legislativo del Ministero della giustizia ha formalizzato, d’ordine del Ministro, il “concerto” sul testo trasmesso, condizionato all’inserimento, in allegato al regolamento, delle tabelle “del danno biologico” e“del danno biologico comprensivo del danno morale, con aumento minimo, medio e massimo”; h) la attestazione, a cura del Segretario, della avvenuta approvazione, in esame preliminare, dello schema di regolamento nella riunione del Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2024; i) gli esiti, per quanto di ritenuto interesse, delle “consultazioni” con i “soggetti interessati”, e segnatamente: i1) le “osservazioni” formulate, in data 28 gennaio 2021, dalla Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA); i2) le “osservazioni”(sine data, ma post nota prot. n. 10074 del 13 gennaio 2021) del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti; i3) le “prime valutazioni” (s.d.) della Associazione italiana ospedalità privata (A.I.o.P.); i4) le “osservazioni” (s.d.) del Gruppo UNIPoL; i5) le “osservazioni critiche”, in data 21 gennaio 2021, della Associazione italiana familiari e vittime della strada (AIFVS), della Unione nazionale avvocati responsabilità civile e assicurativa (UNArCA) e del referente italiano della Pan European Organisation of Personal Injury Lawyers (PEoPIL); j) una “nota tecnica” dell’IVASS. 2.-osserva, in premessa, la Sezione che lo schema di decreto in esame è destinato a dare attuazione dell’articolo 138, comma 1 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), il quale -nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dapprima con l’articolo 1, comma 17 della legge 4 agosto 2017, n. 124 e, quindi, con l’articolo 3-ter, comma 1, lettera a) del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15 -prevede, relativamente alla valutazione e liquidazione del “danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità”, la predisposizione di “specifiche tabelle uniche per tutto il territorio della Repubblica”. In particolare -a fronte della originaria previsione di una “tabella unica” avente ad oggetto LEGISLAzIoNE ED AttUALItà sia l’individuazione delle “menomazioni all’integrità psico-fisica comprese tra dieci e cento punti”, sia del “valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità” -l’attuale norma primaria prefigura l’approvazione, con distinti e separati decreti, di una tabella preordinata alla determinazione (sotto il profilo medico-legale) della percentuale di invalidità correlata alle lesioni di maggiore entità e di una tabella destinata a definire (sotto il profilo economico-assicurativo) i parametri per la relativa quantificazione (avuto riguardo al valore, espresso in termini pecuniari, da attribuire a ciascun punto di invalidità, tenendo conto della “età del soggetto leso”). Mentre il primo decreto, allo stato non approvato, è affidato alla proposta del Ministro della salute, di concerto con il Ministero delle imprese e del made in Italy, con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro della giustizia, il secondo -che costituisce oggetto della presente richiesta di parere -è adottato su proposta del Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il Ministro della giustizia, sentito l’IVASS. In forza dell’articolo 7, comma 4 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti la professione sanitaria”), le tabelle in questione sono destinate a fungere da base anche per la liquidazione del danno conseguente all’attività delle strutture sanitarie o socio-sanitarie o dei professionisti del settore, al qual fine la regolamentazione attuativa è chiamata a “tener conto” delle afferenti fattispecie. 2.1.- Il termine per l’adozione del decreto -normativamente scolpito al 1° maggio 2022 -è ampiamente elasso. Non si tratta, peraltro, di ancoraggio temporale perentorio. Sul punto -ancorché non appaia lecito richiamare, relativamente ai regolamenti ministeriali di cui all’articolo 17, comma 3 della legge n. 400 del 1988 (che postulano, come tali, un espresso conferimento del potere, che normalmente incorpora un vincolo di ordine temporale) l’argomento diffusamente valorizzato dalla giurisprudenza, che fa leva sul carattere “generale” della potestà regolamentare del Governo, la quale può per ciò fare a meno di una esplicita integrazione normativa sub specie temporis della disposizione di rango primario (cfr., tra le molte, Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2013, n. 3687) -deve tenersi, comunque, per fermo che un termine cogente per l’esercizio di potestà normativa è espressamente previsto, nel nostro ordinamento, solo per l’emanazione dei decreti legislativi delegati (ex articolo 76 Cost. e, in attuazione, ex articolo 14 legge n. 400 del 1988). 2.2.- La complessiva finalità dell’intervento -che ne marca, ad un tempo, l’orizzonte assiologico e ne prefigura ed indirizza, anche in una rilevante prospettiva di ordine metodologico, le concrete modalità attuative -è individuata dalla legge nel duplice obiettivo: a) di “garantire il diritto delle vittime […] a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito”; b) di “razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori” (articolo 138, comma 1). Ancorché concorrenti -e tali da prefigurare un necessario e ragionevole bilanciamento -tali obiettivi non si collocano, tuttavia, sul medesimo piano. Direttiva primaria -per la quale opera, in chiave dichiaratamente garantistica, l’esplicita ed impegnativa valorizzazione positiva di un canone di pienezza e di effettività remediale -è quella che sollecita, in prospettiva essenzialmente vittimologica e solidaristica, la elaborazione di una criteriologia risarcitoria formulata in termini di tendenziale adeguatezza delle poste di danno, destinate a compensare, in via necessariamente equitativa, la compromissione della “integrità psico-fisica della persona”, nella sua attitudine ad incidere negativamente “sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”, non di rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 sgiunta dalla valorizzazione, essenzialmente soggettiva ed idiosincratica, di un concorrente “danno morale”. Sul piano operativo, ai fini della declinazione delle valutazioni tecnico-discrezionali rimesse all’autorità governativa, la priorità della direttiva è tradotta nell’obbligo -che precede e, con ciò, conforma l’indicazione prospettica degli specifici “principi e criteri” per l’esercizio della delega -di “tenere conto”, nella elaborazione e formalizzazione dei dati parametrici, dei “criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità” (comma 2). Il richiamo all’acquis giurisprudenziale mira, con ogni evidenza, a salvaguardare, negli intendimenti del legislatore, la garanzia di effettività e congruenza del risarcimento del danno anche nel quadro delle tabelle “ministeriali” di nuovo conio e a scongiurare, in prospettiva programmatica, valutazioni al ribasso rispetto agli assetti remediali da riguardarsi quali tendenzialmente consolidati. In questo senso, le plausibili esigenze di uniformità, omogeneità e certezza nella liquidazione dei danni non patrimoniali (che obbediscono ad un canone di uguaglianza tra situazioni comparabili ed agevolano una definizione stragiudiziale delle controversie) non possono andare a scapito della adeguatezza del ristoro riconosciuto alle vittime di incidenti o di malpractice sanitaria. A fronte di ciò, si atteggia a direttiva secondaria -che trova giustificazione nella esigenza, di rilievo sociale e di interesse generale, di favorire la calcolabilità e la prevedibilità dei costi transattivi a carico delle imprese assicurative -quella intesa alla salvaguardia della complessiva sostenibilità sistemica, al fine di scongiurare il rischio degli automatismi traslativi in danno della collettività dei consumatori e degli utenti, attraverso l’incremento dei premi contrattuali. Solo nella illustrata prospettiva, che mette in correlazione la primaria esigenza di tutela dei diritti con gli equilibri del mercato assicurativo, può acquisire specifica coerenza -anche avuto riguardo alla ambientazione dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale nel contesto settoriale del codice delle assicurazioni private, peraltro destinato a coprire, per la illustrata opzione positiva, l’articolato ambito della responsabilità professionale sanitaria -la programmatica rimessione, in via propositiva, dell’approntamento delle tabelle al Ministero delle imprese e del made in Italy, con il supporto tecnico-consultivo dell’Istituto di vigilanza, ma anche con il qualificato e necessario apporto codecisionale del Ministero della giustizia, in via di concerto. 2.3.-Sotto questo profilo -di ordine procedimentale, ma di incidenza sostanziale -il Collegio non può esimersi dal rilevare che l’intellegibilità dell’intervento normativo in esame risulta compromessa, in assenza di supporto documentale integrativo, dal tratto meramente formale ed inarticolato (fatta eccezione della richiesta, di rilievo del tutto secondario, di collocazione delle tabelle in apposito allegato) del concerto espresso dal Ministro della giustizia. Si impongono, sul punto, una considerazione di carattere generale ed una di carattere specifico e contestuale. Sotto il primo profilo, la Sezione ha, ancora da ultimo, reiteratamente ribadito (cfr., per tutti, i pareri n. 53 del 22 gennaio 2024 e n. 131 del 30 gennaio 2024) che, negli “atti di concerto”, la valutazione dei Ministeri (competenti per legge) veicola ed esprime -in ordine alla proposta normativa elaborata, in via preliminare, dall’autorità concertante -una adesione sostanziale (di vero e proprio “accordo tra le amministrazioni statali coinvolte” fa espressa parola, in termini generali, l’articolo 17-bis, comma 2 della legge n. 241 del 1990), conseguente al concreto apprezzamento degli interessi pubblici a confronto (anche, secondo i casi, di ordine organiz LEGISLAzIoNE ED AttUALItà zativo ed infrastrutturale), che abilita del resto alla formulazione di eventuali suggerimenti e alla elaborazione di proposte di modifica o di integrazione: sicché non a caso, nel conflitto, è prevista la composizione in sede di Consiglio dei ministri (cfr. articolo 5, comma 2 lettera c- bis) legge 23 agosto 1988, n. 400, nonché articolo 17-bis, comma 2 l. n. 241/1990 cit.). Con ciò, pur con l’elevato tasso di politicità e l’ampia discrezionalità che connota l’attività di concertazione a livello ministeriale, la sua manifestazione, ancorché non integri un atto unitario e formalmente complesso, ma si atteggi a mero modulo procedimentale, realizza (cioè: deve realizzare) una effettiva compartecipazione alla elaborazione del provvedimento o del- l’atto, per la quale l’autorità concertata esprime sulla proposta elaborata dall’autorità concertante una sostanziale valutazione di compatibilità con gli interessi di cui è portatrice, con ciò realizzandosi una forma di concorso nel volere che è, ad un tempo, sostanziale codeterminazione del voluto. Del resto, di là dalla formale attribuzione -con la facoltà di elaborare la proposta -dell’iniziativa procedimentale, il regolamento approvato in via concertata assume i tratti, quanto meno sostanziali, del decreto interministeriale (cfr. articolo 17, comma 3 legge n. 400 del 1988), onde il concerto costituisce l’atto con cui il Ministro concertante (lungi dal limitarsi ad esplicitare l’assenza di ragioni meramente ostative) si rende positivamente partecipe del- l’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne la responsabilità. Ne discende che la preventiva partecipazione istituzionale dei Ministri competenti ratione materiae non può essere surrogata da un mero, inarticolato e “secco” nulla-osta, con il quale il Ministro (o addirittura una mera struttura ministeriale, all’uopo eventualmente ed informalmente delegata) escluda, con formula essenzialmente negativa e sostanzialmente abdicativa, e senza fornirne neppur sintetico conto, la sussistenza di ragioni (eventualmente) preclusive alla decisione della autorità procedente. E benché rientri, realisticamente, nell’ordine del possibile che l’autorità interpellata nulla abbia da osservare sullo schema di atto, è bene rimarcare che si tratta pur sempre di un caso limite, che non può valere a ridurre né il concerto, né la previa audizione -svilendone importanza, senso e funzione -a mera formula di stile, ridotta a vacuo adempimento procedimentale. tale conclusione non è smentita, ma semmai corroborata, dalla sancita operatività del meccanismo semplificativo del silenzio-assenso introdotto, per garantire anche sul piano organizzativo ed infrastrutturale la celerità dell’azione amministrativa, dall’articolo 17-bis, comma 2 della legge n. 241 cit. Per un verso, infatti, la disposizione conferma l’obbligo, gravante sulla autorità concertata, di dare espresso, formale e motivato riscontro (arg. ex articoli 2 e 3 della legge n. 241 cit.) alla proposta dell’autorità concertata (sì che il valore legale di tacito assenso è posto a presidio di una inerzia ingiustificata, che si colloca in un quadro di patologia dell’azione amministrativa); per altro verso, il preciso e sintomatico riguardo alla figura codecisionale dell’accordo (e alla eventualità di interventi di modifica rimessi, nel mancato confronto interministeriale, al Presidente del Consiglio) testimonia a favore del necessario impegno argomentativo e giustificativo. 2.4.-Se tali considerazioni valgono in termini generali, con specifico riferimento allo schema di decreto in esame, si deve ripetere che il coinvolgimento del Ministro della giustizia appare correlato alla necessaria ed impegnativa verifica, in chiave retrospettiva, della complessiva coerenza dell’intervento con gli orientamenti maturati dalla giurisprudenza “consolidata” in punto di risarcimento del danno non patrimoniale e, in chiave prospettica, dell’impatto della regolazione sulla attività giurisdizionale e sulle modalità di liquidazione dei danni. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Un compito reso vieppiù necessario e qualificante dal fatto che, nella sua essenza, l’ordito normativo si limita, nei quattro articoli di cui si compone, a richiamare, al fine di conferir loro rilievo regolamentare, le tavole e le tabelle collocate in allegato, con le prefigurate modalità di aggiornamento (articolo 1); a fissare il valore del primo punto di invalidità (articolo 2); ad individuare il criterio di liquidazione del danno biologico temporaneo (articolo 3) e a sancire l’invarianza finanziaria dell’intervento (articolo 4). In definitiva, già sotto questo primo profilo, l’erogazione del parere deve essere sospesa, in attesa di una adeguata rinnovazione dell’attività di concertazione interministeriale. 3.- Ciò detto, l’articolo 138, comma 2 della legge n. 209 del 2005 fissa specifici criteri, principi e regole destinate ad orientare l’attività di elaborazione dei dati e di predisposizione della tabella. restano sullo sfondo di tale operazione -in quanto ne costituiscono, sotto distinto rispetto, un postulato -sia la nozione di danno non patrimoniale (avuto riguardo alla distinzione tra danno biologico e danno morale, che recepisce la consolidata elaborazione della giurisprudenza della Corte di cassazione), sia il parametro di riferimento medico-legale, espresso in termini di percentuale riconosciuta di invalidità. Si prevede, in dettaglio: a) l’adozione del “sistema del punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità” (comma 2, lettera b), tale che il “valore economico del punto” risulti funzione (“crescente”) della percentuale di invalidità e funzione (“decrescente”) dell’età del danneggiato; b) la prospettica incidenza “più che proporzionale” di ogni “aumento percentuale” della invalidità riconosciuta (nel senso che ad un aumento del punto di invalidità, in termini medico- legali, debba corrispondere un incremento più che proporzionale del corrispondente valore economico attribuito); c) una correlazione inversa tra l’età della vittima ed il valore economico del punto variabile, determinato sulla base “delle tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT, al tasso di rivalutazione pari all’interesse legale”; d) una modalità di “personalizzazione complessiva della liquidazione” -per tenere conto della “componente del danno morale” -mediante incremento “in via percentuale e progressiva per punto”. 3.1.- In tale quadro, l’Amministrazione ha provveduto, come evidenziato dalla relazione illustrativa: a) alla preliminare predefinizione del valore economico del “punto base” (destinato all’aggiornamento periodico con cadenza annuale, mediante decreto ministeriale, per tener conto dell’effetto inflattivo: cfr. articolo 138, comma 5), corrispondente al valore minimo della percentuale di invalidità (9 punti), che si è scelto di equiparare -per argomentate ragioni di “coerenza” e di “continuità” -al valore del punto base positivamente definito (all’articolo 139) per le c.d. microlesioni, attualmente pari ad € 939.78; b) alla elaborazione di un sistema di “moltiplicatori biologici”, di “demoltiplicatori demografici”, e di “moltiplicatori per danno morale” (questi ultimi in misura alternativa minima, media e massima, per tenere conto delle esigenze di personalizzazione contestualizzate). A tal fine, si è proceduto -“nel rispetto delle caratteristiche del mercato assicurativo, nonché dei vincoli di legge, in modo da garantire la congruità del valore con quanto previsto per le microlesioni, evitando effetti di maggior onere per il mercato assicurativo e per i consumatori danneggiati” -ad una strumentale “rilevazione dei dati di mercato”, operata con il “supporto tecnico” dell’Istituto di vigilanza, che ha valorizzato, quale ultimo dato disponibile, il “costo economico sopportato dal settore” nell’anno 2018, utilizzato “per la validazione del modello definito”. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà La relazione tecnica assume, senza peraltro fornirne puntuale riscontro documentale, che il contributo sia stato aggiornato (“a dicembre 2020 ” e -di seguito -a “ottobre 2022”) per tener conto dei dati aggregati disponibili “per il biennio 2021-2022”, e successivamente integrato “con dati più recenti” (in particolare, con riguardo alle “tabelle di mortalità ISTAT”). In pratica, la determinazione del fattore di moltiplicazione progressivamente correlato alla percentuale di invalidità ha preso le mosse (prescindendo dal decremento correlato all’età della vittima, per il quale è stata separatamente ed autonomamente elaborata una tabella di coefficienti demoltiplicatori) dalla programmatica imposizione del vincolo che l’ammontare complessivo dei risarcimenti corrispondesse all’importo tale pagabile (per il solo danno biologico) secondo le c.d. tabelle milanesi, per tutti i gradi di invalidità (ammontante, nella stima effettuata nel 2020, ad € 34.991.252,69). 3.2.-osserva il Collegio che la complessiva razionalità dell’operazione algoritmica implementata -di per sé non arbitraria ed anzi tecnicamente necessitata -appare, per un verso, concretamente compromessa, e resa non compiutamente intellegibile, da un approntamento non adeguato e non aggiornato dei dati aggregati di riferimento e, per altro verso, inficiata da una surrettizia inversione metodologica, rispetto alle direttive scolpite dalla base normativa. 3.2.1.- Sotto il primo profilo, l’analisi di impatto della regolazione -nella vicenda in esame particolarmente impegnativa e qualificante, rappresentando l’unico luogo idoneo ad evidenziare, esplicitare e riassumere la logica, i criteri, le operazioni e gli esiti della elaborazione della matrice tabellare -si limita a richiamare le risultanze della nota tecnica dell’IVASS, incentrata su dati temporalmente risalenti, omettendo una puntuale descrizione della situazione attuale, aggiornata con gli ultimi dati disponibili relativamente alla consistenza numerica ed alla distribuzione frequenziale dei sinistri (o degli eventi dannosi) registrati ed alla relativa dinamica apprezzata in un congruo e significativo lasso temporale, sia nell’ambito della circolazione stradale che nel contesto sanitario e socio-sanitario. Inoltre -quanto al compiuto e circostanziato apprezzamento della concreta incidenza, sul piano delle tecniche, delle modalità e degli esiti risarcitori, della formalizzazione di una tabella unica, con valore normativo, destinata a soppiantare programmaticamente la valorizzazione, validata dalla giurisprudenza, delle tabelle elaborate dalla prassi degli uffici giudiziari -l’analisi trascura il complessivo confronto comparativo con lo status quo, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, in relazione ai diversi gradi di invalidità, in tal modo non offrendo elementi per scongiurare il rischio di regressione dei risarcimenti. A tal fine, una adeguata disaggregazione dei dati disponibili dovrebbe tenere conto non solo della curva statistica dei punti di invalidità riconosciuti nell’arco temporale rappresentativo, ma anche della misura degli incrementi percentuali in funzione di differenziazione equitativa e di quantificazione idiosincratica del danno morale. Inoltre, appare necessario tenere in debito conto gli aggiornamenti nelle more approntati, sia alla luce della evoluzione della giurisprudenza, sia in ragione degli adeguamenti imposti dal fenomeno inflattivo, ai riferimenti tabellari utilizzati dagli uffici giudiziari sia milanesi che romani, con adeguata giustificazione dei relativi scostamenti e delle valorizzate opzioni di uniformazione. 3.2.2.-Sotto il secondo profilo, la sostenibilità degli impatti economici sul sistema assicurativo non può essere acquisita e valorizzata quale vincolo ex ante (ovvero limite rigido e predefinito) per una diluita scansione parametrica dei potenziali esiti remediali, in funzione di generalizzato ed ingiustificato temperamento o, perfino, di misurata e programmatica riduzione della tutela delle vittime. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Alla luce del bilanciamento sollecitato, nei termini di cui si è detto supra, dalle direttive evidenziate dalla norma primaria (imposte, del resto, dal quadro costituzionale), solo un eventuale e dimostrato esito di squilibrio macro-economico sulla complessiva redditività delle imprese di settore potrebbe legittimare, nella prospettiva solidaristica evocata dalla Corte costituzionale (cfr. la sentenza n. 235/2014, peraltro riferita alle lesioni c.d. micropermanenti), una opzione sostanzialmente calmierante. Ma una tale dimostrazione non emerge dai dati allegati, né è coonestata da un apprezzamento critico della redditività aggregata delle imprese di settore, per le quali -anche, e si pure non esclusivamente, in ragione delle recenti dinamiche inflattive - consta, all’incontro, di significativi incrementi dei profili tariffari. Merita, con ciò, di essere nuovamente rimarcato che la direttiva di razionalizzazione dei costi gravanti sul sistema assicurativo -che asseconda, per un verso, le aspettative di certezza, calcolabilità e prevedibilità degli operatori economici e dovrebbe contribuire a disincentivare, in prospettiva predittiva, il contenzioso e a favorire la definizione stragiudiziale delle pratiche di liquidazione -non va intesa quale ragione di deminutio della pienezza, effettività ed adeguatezza della tutela che va riconosciuta alle vittime di eventi dannosi. 4.-Alla luce delle considerazioni esposte, l’espressione del parere deve essere necessariamente sospesa, in guisa da consentire all’Amministrazione richiedente di riattivare (anche a mezzo di apposito confronto pubblico con i soggetti a vario titolo rappresentativi) l’analisi di contesto ed aggiornare (con il necessario supporto tecnico ed istruttorio) i dati sottostanti alla articolata elaborazione tabellare, esplicitando i termini di un confronto comparativo puntuale e circostanziato con i parametri tabellari attualmente utilizzati nelle varie sedi giudiziarie e validati dalla giurisprudenza di legittimità ed illustrando le opzioni di standardizzazione ed uniformazione perseguite. P.Q.M. sospende, nei sensi e per i fini di cui in motivazione, l’espressione del parere. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà evoluzione delle regole sulla concorrenza negli ordinamenti giuridici maggiormente rappresentativi Paolo Giangrosso* SOMMARIO: 1. I cartelli industriali e le restrizioni della concorrenza -2. Le diverse realtà economiche e di mercato nella prima metà del novecento -3. Trattato di Roma del 1957 e successiva configurazione del mercato europeo -4. Normative antitrust e gli indirizzi della politica europea -5. Regole sulla concorrenza nell’ordinamento giapponese -6. Diritto antitrust in altre esperienze giuridiche. 1. I cartelli industriali e le restrizioni della concorrenza. Un “cartello” è un gruppo di attori di mercato indipendenti che si uniscono per accrescere i propri guadagni e, soprattutto, per ottenere una posizione dominante all’interno del mercato. Quindi, un cartello è una sorta di organizzazione creata dai produttori allo scopo di ridurre al minimo la concorrenza e aumentare i prezzi creando carenze, spesso artificialmente, attraverso bassi limiti produttivi, di scorte e di quote di commercializzazione. Che siano orizzontali o verticali, i cartelli sono per loro stessa natura instabili a causa del forte “desiderio” di disertare e ridurre i prezzi per tutti i suoi membri. Con gli sviluppi tecnologici e con l’introduzione di prodotti sostitutivi è possibile ridurre il potere di determinazione dei prezzi di un cartello, portando al collasso della cooperazione necessaria per perpetuare il cartello. Questi, sovente, sono gruppi all’interno dello stesso settore e costituiscono, in pratica, un’alleanza di concorrenti. Queste tecniche sono state vietate dalla maggior parte degli Stati in quanto comportamento lesivo della concorrenza. L’attività di un cartello consiste, dunque, nella fissazione dei prezzi, nella manipolazione delle offerte e anche nei tagli alla produzione ed il concetto economico che li esamina è noto come “teoria dei cartelli” (1). Essi hanno diverse strutture e ruoli che, idealmente, possono consentire alle imprese di navigare e, soprattutto, di regolare l’instabilità di mercato ottenendo, contemporaneamente, profitti collusivi all’interno del settore in cui operano. Un’analisi di centinaia di studi economi e di sentenze giudiziarie delle autorità antitrust di tutto il mondo ha evidenziato come l’aumento medio dei prezzi raggiunto dai cartelli negli ultimi due secoli sia stato di circa il 23%. Essi, spesso, si impegnano nel fissare prezzi a livello mondiale e quando un accordo in tal senso è sancito da un trattato salvaguardato dalla sovranità nazionale è più difficile muovere accuse antitrust. Poiché questi (*) Dottore in relazioni internazionali. Un ringraziamento all’avv. Stato Mario Antonio Scino per l’invio dello studio a questa Rassegna. (1) F. SABrY, Cartello, Un Miliardo Di Ben Informato Editore, 2024. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 incidono sulle posizioni di mercato sono soggetti al diritto della concorrenza, il quale è amministrato dalle autorità governative di regolamentazione della concorrenza (2). La valutazione da fare, ai sensi dell’art. 101 tFUE, è se un accordo tra imprese che potrebbe pregiudicare gli scambi tra Stati membri abbia o meno un oggetto anticoncorrenziale oppure effetti restrittivi sulla concorrenza, siano essi potenziali o effettivi. Va, inoltre, determinato quali siano i benefeci per la concorrenza prodotti dall’accordo in questione e valutare se gli effetti favorevoli superano quelli restrittivi. La valutazione comparata degli effetti restrittivi e di quelli favorevoli per la concorrenza è condotta esclusivamente all’interno dell’ambito dell’art. 101.3, mentre ai sensi dell’art. 101.2, ossia nel caso gli effetti favorevoli non prevalgano sulla restrizione della concorrenza, l’accordo sarà nullo in maniera automatica. Secondo quanto disposto dall’art. 81, n. 1, CE l’Unione si prefigge in linea generale di muoversi contro l’impedimento, la restrizione o la distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune. Fra gli esempi presenti nell’art. 81, n. 1, lett. a) e lett. e) non sono presenti alcun tipo di restrizioni consistenti nel vietare pratiche commerciali anticoncorrenziali con effetti diretti sul consumatore. Invece, lo stesso articolo è parte integrante di un sistema volto a garantire che la concorrenza non venga falsata nel mercato interno, e non è soltanto destinato a tutelare gli interessi in via immediata dei singoli concorrenti e dei consumatori ma, piuttosto, la struttura del mercato e, quindi, la concorrenza in quanto tale. Così, indirettamente, è tutelato lo stesso consumatore giacché se la concorrenza (in quanto tale) subisce un pregiudizio gli svantaggi maggiori da temere sono a danno del consumatore. Una pratica concordata, dunque, non punta ad uno scopo anticoncorrenziale soltanto se è idonea ad esplicare direttamente effetti sia sui consumatori che sui prezzi che questi devono pagare. Uno scopo anticoncorrenziale va, invece, già assunto se la pratica concordata è idonea ad impedire, restringere o quanto meno a falsare la concorrenza all’interno del mercato comune. In questo modo essa può, in ogni caso, determinare indirettamente anche effetti negativi sui consumatori. restringere il divieto sancito dall’art. 81 soltanto alle pratiche che possono influenzare direttamente i prezzi al dettaglio priverebbe, infatti, questa stessa disposizione della sua importanza centrale nel mercato interno e di gran parte della sua efficacia. Inoltre, riguardo allo scambio di informazioni tra concorrenti vanno ricordati i criteri del coordinamento e della collaborazione che costituiscono una pratica concordata, i quali vanno visti alla luce della concezione inerente alla normativa del trattato sulla materia concorrenziale, secondo cui ogni operatore economico deve determinare autonomamente la propria condotta da se (2) F. SABrY, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà guire all’interno del mercato comune. Questa esigenza di autonomia se, da un lato, non esclude il diritto degli operatori economici di reagire in maniera intelligente al comportamento, noto o presunto, dei loro concorrenti, dall’altro vieta rigidamente che fra gli stessi vi siano contatti, in maniera diretta o indiretta, che possano influenzare il comportamento sul mercato di un concorrente attuale o potenziale oppure che rivelino allo stesso il comportamento che si intende tenere sul mercato, qualora questi contatti abbiano il fine, o determinino l’effetto, di realizzare condizioni concorrenziali diverse da quelle normali nello stesso mercato, tenuto conto anche della natura dei prodotti e delle prestazioni fornite oltre che dell’importanza, del numero delle imprese e del volume di questo mercato (3). La Corte ha dichiarato come, all’interno di un mercato oligopolistico fortemente concentrato, lo scambio di informazioni possa permettere alle imprese di conoscere le posizioni presenti sul mercato, la strategia dei concorrenti e, quindi, alterare in maniera importante la concorrenza fra gli operatori economici. Lo scambio di informazioni tra concorrenti, quindi, può essere contrario alle regole concorrenziali quando riduce o annulli il grado di incertezza riguardo al funzionamento del mercato in questione, determinando restrizioni della concorrenza tra le imprese. Dunque, attinente alla possibilità di considerare che una pratica concordata possegga uno scopo anticoncorrenziale, anche se priva di collegamenti diretti con i prezzi al dettaglio, va evidenziato come l’art. 81 CE non induca a ritenere che siano vietate soltanto quelle pratiche concordate che determinino conseguenze dirette sul prezzo pagato dai consumatori finali. Per contro, la lett. a) dello stesso articolo mette in evidenza come una pratica concordata possa avere un fine anticoncorrenziale quando fissi, direttamente o indirettamente, i prezzi d’acquisto o di vendita o anche altre condizioni di transazione. Ad ogni modo, l’art. 81 CE, come del resto altre regole enunciate dal trattato in materia di concorrenza, non tutela solamente gli interessi immediati dei singoli (concorrenti o consumatori) ma anche la struttura del mercato stesso e, conseguentemente, la concorrenza in quanto tale. La giurisprudenza comunitaria, nell’ambito valutativo del carattere anticoncorrenziale di un accordo, ha fatto sovente riferimento al tenore delle sue disposizioni, degli obiettivi che lo stesso intendeva perseguire oltre che al contesto economico e giuridico in cui l’accordo stesso si collocava. Va chiarito, inoltre, che, anche se le intenzioni delle parti non sono un elemento necessario a determinare la natura restrittiva di un accordo, la Commissione o i giudici comunitari possono comunque tenerne conto. Infatti, la Corte più volte ha avuto modo di chiarire che, in linea di principio, accordi che intendono impedire o limitare un commercio limitano ed impediscono la concorrenza (4). (3) P. MANzINI, Casi e materiali di diritto antitrust europeo, torino, Giappichelli, 2021. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Addentrandoci più a fondo in una valutazione del fenomeno dei cartelli industriali, e alla nascita del diritto statale dei cartelli oltre che del passaggio successivo al diritto comunitario di tutela della concorrenza, si possono evidenziare le cause e i motivi della nascita della CEE e del processo di integrazione europea avvenuto nel XX secolo. La CEE non è stata un’organizzazione istituita per facilitare la concentrazione del capitale né tantomeno per aprire i mercati interni degli Stati membri ma fu conseguenza della necessità impellente di disciplinare il fenomeno economico dopo la Seconda Guerra mondiale, a partire dal trattato Ceca per i settori del carbone e dell’acciaio. La nascita della Comunità Economica Europea derivò dalla crisi della forma di Stato nel nostro Continente, laddove per “Stato” si intende quell’ordinamento generale in grado di disciplinare ogni fenomeno socioeconomico. La dimensione dell’industria europea, infatti, e con essa i cartelli industriali, avevano, in sostanza, escluso che lo Stato potesse svolgere integralmente questa funzione. Nonostante profonde trasformazioni dell’iniziale CEE avvenute durante cinquant’anni di integrazione non è stata cancellata la radice economica di questo processo, così come avvenne nella seconda metà del Novecento (5). La situazione di uguaglianza tra gli Stati membri riconosciuta dal trattato Costituzionale Europeo all’art. 5 è, infatti, conseguenza del processo di integrazione europea che, a sua volta, è figlia della creazione di un mercato comune al cui interno le imprese possono svolgere la propria azione senza essere discriminate per via della loro nazionalità. Il principio essenziale dell’uguaglianza delle imprese nel mercato non poteva prescindere, necessariamente, che a monte il trattato di roma fosse fondato sull’uguaglianza dei Singoli Stati membri all’interno della stessa Comunità. Questa uguaglianza non è stata riconosciuta sotto altre forme di unione territoriale europea che non fosse fondata sul riconoscimento e sulla regolamentazione dell’iniziativa economica privata. Il principio di uguaglianza su citato deriva dalla regola basilare dell’esercizio del diritto di iniziativa economica in un sistema di concorrenza non falsato, e ha avuto in seguito delle conseguenze e ha determinato degli effetti per tutti i cittadini appartenenti agli Stati membri della Comunità. In origine, infatti, il principio di uguaglianza tra imprese di differenti Stati ha consentito la trasformazione del principio di uguaglianza tra tutti i cittadini di differenti Stati, e non più soltanto tra le imprese, fino al raggiungimento dell’istituzione della Cittadinanza europea, status per cui i cittadini di differenti Stati membri (4) P. MANzINI, op. cit. (5) L.F. PACE, Diritto europeo della concorrenza. Divieti antitrust, controllo delle concentrazioni e procedimenti applicativi, CEDAM, 2007. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà godono degli stessi diritti e sono soggetti agli stessi doveri, ai sensi dell’art. 10 Cost. eu. In breve, quindi, il processo di unificazione europea si fonda, ancora oggi, sulla capacità dei privati di esercitare il proprio diritto di iniziativa economica. Il futuro dell’Unione Europea, il suo successo o il suo insuccesso, dipenderà da come l’Unione Europea disciplinerà tale diritto, oltre che dalla capacità del sistema economico europeo di essere in concorrenza con altri e nuovi mercati comuni all’interno del vastissimo mercato globale (6). 2. Le diverse realtà economiche e di mercato nella prima metà del novecento. Agli inizi del secolo scorso l’economia mondiale fu attraversata da trasformazioni di rilievo, dovute a nuove invenzioni, scoperte, tecnologie oltre che a modelli di impresa, flussi commerciali e abitudini di consumo che si erano evolute parallelamente e avevano dato vita ad un nuovo tipo di capitalismo. La velocità e la spregiudicatezza di questa trasformazione fu sbalorditiva. L’acciaio sostituì il ferro, l’elettricità il gas, il telefono soppiantò il telegrafo, per tacere della nascita del cinema e dei tabloid. L’impennata data dalla produzione industriale permise la creazione di edifici spettacolari fatti in acciaio e che iniziarono a riempire le grandi città del mondo. Quello che preoccupava i capitani di industria era la relazione fra le grandi imprese e le forze di mercato. Per loro, dove possibile, le forze di mercato andavano abolite. James Logan, capo della US Envelope Company affermò, nel 1901, che la concorrenza era una guerra industriale e, in particolare, una concorrenza rozza senza restrizioni significava morte per alcune delle parti in causa e danni per la collettività. Va detto che Logan, all’epoca, godeva di un predominio quasi assoluto sul mercato americano. Anche theodore Vail, figura importante della Bell Telephone mise in guardia sul pericolo che una concorrenza aggressiva e senza controlli poteva determinare, direttamente o indirettamente, sui cittadini. La concorrenza in quegli anni creava il caos produttivo e deprimeva i prezzi al punto che diventava quasi impossibile trarre profitti da una nuova tecnologia. Le soluzioni, come abbiamo visto, furono tre: - monopolio; - manipolazione dei prezzi; - mercati protetti. Per raggiungere questi scopi si utilizzarono fusioni, favorite da nuove e aggressive banche d’affari, cartelli e cointeressenze per fissare i prezzi e restrizioni governative sulle merci importate. Negli Stati Uniti la United States Steel Corporation, creata nel 1901, sta (6) L.F. PACE, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 bilì quasi immediatamente un controllo sul 60% del mercato; la Standard Oil, possedeva il 90% delle capacità di raffinazione e usò il suo potere con tale spietatezza da costringere le compagnie ferroviarie a trasportare petrolio praticamente in perdita. La Bell Telephone, che aveva avuto il monopolio assoluto nel campo delle telecomunicazioni già nell’ottocento, lo riconquistò nel 1909 quando J.P. Morgan si alleò con Vail per rilevare tutti i concorrenti del settore. Sul Vecchio Continente la Germania vide raddoppiare nel primo decennio del Novecento il numero dei cartelli nati per manipolare i prezzi, anche grazie al potere politico che li sosteneva. Soltanto il Consorzio del carbone della renania- westfalia includeva settantasette aziende, godeva di ampio potere nella determinazione dei prezzi e controllava quasi totalmente il mercato energetico della regione. Nel 1915 il settore elettrico della Germania aveva due colossi predominanti così come soli due operatori avevano il monopolio dell’industria chimica, mineraria e navale. Al fine di creare e agevolare questi colossi l’intera finanza mondiale venne riorganizzata. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in Francia il mercato azionario e le banche d’affari trainarono l’intero processo, specialmente in Germania, dove il capitalismo industriale venne creato con “protezioni” dall’alto, sotto il controllo e con la compiacenza di governi autoritari (7). Soprattutto gli Stati dell’Europa centrale, quindi, non limitarono né tantomeno eliminarono i consorzi industriali e i cartelli ma si adoperarono per provare a controllarli. L’intervento statale diretto nell’economia e il controllo delle aggregazioni industriali furono importanti, infatti, per stabilizzare i cicli economici, impedendo guerre di prezzo onerose, abusi di potere delle imprese e vincoli e asservimenti del potere politico su quello economico. Gli accordi restrittivi della concorrenza vennero visti come leciti perché esprimevano il principio di libertà di contrattazione e quello di iniziativa economica. Per questo, a volte, vennero addirittura tutelati dalla legge, come fatto dall’art. 2596 del Codice civile italiano. La crisi economica e la Prima guerra mondiale non scosse questo stato di cose e i cartelli non vennero osteggiati praticamente mai, ma in alcuni casi soltanto sottoposti ad una regolamentazione più “attenta”. La Germania rese addirittura obbligatoria la partecipazione a cartelli in alcuni settori ritenuti “sensibili” o particolarmente di rilievo (8). Antenato dell’Unione Europea fu, paradossalmente, proprio un accordo di cartello, quello internazionale dell’acciaio creato nel 1926 da Germania, Francia, Belgio e Lussemburgo, tutti paesi che venticinque anni dopo costituiranno, poi, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, con Italia ed olanda. Le quote di produzione, esportazione e importazione fissate all’interno di questo accordo internazionale, per ciascun partecipante, servivano a stabi (7) P. MASoN, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Feltrinelli, 2016. (8) F. GhEzzI, G. oLIVIErI, Diritto antitrust, Giappichelli, 2023. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà lizzare i mercati interni in cui operavano cartelli nazionali. Da questo accordo venne fuori un sistema globale di controllo del settore siderurgico, nel 1933, che col tempo incluse anche gli Stati Uniti. Il cartello dell’acciaio fu un progetto di cooperazione internazionale che aveva il fine di favorire la pace e scongiurare ogni tipo di crisi economica, giacché il settore dell’acciaio non soltanto era molto strategico per la produzione bellica ma per gli approvvigionamenti di materie prime come il carbone dipendeva da aree di confine contese tra Francia e Germania. In quest’ottica i due Paesi gestirono in quegli anni le risorse di quelle zone secondo una logica di cooperazione e grazie a patti di non belligeranza. L’idea del cartello come portatore di prosperità e pace venne definitivamente a cadere con il regime nazista il quale, dal 1933, fece di cartelli e monopoli strumenti principali per convogliare l’economia a supporto dello sforzo bellico, attribuendo a questo scopo al ministro dell’economia il potere, nel 1938, di imporre a interi settori industriali la formazione obbligatoria di cartelli totalizzanti. Per capire la portata del processo innescato dal regime nazista, il gigantesco cartello chimico-farmaceutico IG Farben costruì uno stabilimento ad Auschwitz nel 1941 agevolando, in questo modo, attivamente i terribili atti di sterminio che vi avvennero (9). Con la minaccia della Seconda guerra il livello di dirigismo pubblico sull’economia aumentò ulteriormente, in quanto i regimi totalitari ritenevano che coordinare direttamente le imprese fosse la soluzione migliore per incrementare la produzione in vista dell’imminente conflitto mentre, per contro, gli Stati avversi alla Germania e all’Italia provarono a creare poli industriali per fronteggiare quelli nemici, in primis quelli nazisti che godevano dello strapotere dei cartelli tedeschi (10). Alla fine della Seconda Guerra la necessità di ricostruire una società europea che si discostasse dal suo recente passato portò ad una maggiore ostilità nei confronti dei cartelli. Inoltre, con la conclusione della guerra, gli Alleati imposero agli sconfitti di adottare norme antimonopolistiche, tant’è che in Germania la prima normativa da questo punto di vista fu emanata su pressione del Generale Clay che deteneva poteri straordinari in tal senso. Questa linea politica aveva l’intento, soprattutto, di evitare la formazione, nuovamente, di uno strapotere economico come quello che negli anni trenta si era dimostrato un potente mezzo per approvvigionamenti bellici ma aveva anche il fine di promuovere in Europa, così come avvenuto negli Stati Uniti, uno sviluppo economico democratico. I frutti si raccolsero a partire dal 1947 dopo che gli Stati Maggiori Alleati ridussero la Germania ad un livello di mero sostentamento. Percorso simile gli Stati Uniti lo imposero in Giappone allo scopo di (9) M. BErEttA, M. D’oStUNI, Il diritto della concorrenza in Italia, Giappichelli, 2024. (10) Ibidem. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 contenere la forza degli “zaibatsu”, i cartelli plurisettoriali che erano stati fondamentali per la creazione della forza bellica giapponese (11). 3. Trattato di Roma del 1957 e successiva configurazione del mercato europeo. Con le politiche di ricostruzione europea avviate dal 1945 in avanti anche in Europa nacque, di fatto, il moderno diritto della concorrenza che trovava il suo fondamento negli articoli 65-67 del trattato CECA del 18 aprile 1951 in materia di accordi e concentrazioni, fino ad arrivare al trattato che istituì la Comunità Europea (tCE), sottoscritto a roma nel 1957, e che prevedeva, tra gli obiettivi della stessa, la creazione di un regime che garantisse una concorrenza leale e non falsata nel mercato interno (art. 3.1, lett. g, tCE). Il diritto antitrust, così come sancito dagli artt. 85 e 86 tCE, era uno strumento volto a realizzare gli obiettivi fondamentali per cui era nata la Comunità, ossia l’occupazione, il miglioramento della vita, la coesione sociale ed economica, la solidarietà tra gli Stati membri e la creazione di un mercato unico. In questo senso, il trattato di roma aveva accolto un’interpretazione del concetto di concorrenza come mezzo per la protezione delle attività economiche dall’insorgenza di poteri economici pervasivi e, soprattutto, per la tutela dei mercati ancora fragili dopo il Secondo conflitto mondiale. L’analisi congiunta del quadro programmatico che, inizialmente, fu tracciato dal trattato di roma, oltre che degli obiettivi politici perseguiti dalla Commissione Europea e delle interpretazioni adottate dalla Corte di Giustizia, ha dimostrato che il concetto di concorrenza e le modalità con cui promuovere e realizzare la stessa hanno subito un’evoluzione costante e progressiva. La Corte di Giustizia confermerà, col tempo, la funzione svolta dalla disciplina in tema di concorrenza, ritenuta indispensabile alla realizzazione degli obiettivi economici, sociali e politici della Comunità (12). Nel caso Walt Wilhem (13) i giudici hanno riconosciuto come il trattato, oltre a puntare all’eliminazione degli ostacoli alla circolazione libera delle merci nel mercato comune e alla salvaguardia dell’unità dello stesso, permette alle autorità comunitarie di svolgere un’azione positiva, anche se indiretta, allo scopo di promuovere lo sviluppo armonico delle attività economiche nel complesso comunitario, in conformità al suo stesso art. 2. Inoltre, nel caso Continental Can (14), la Corte di Giustizia ha ribadito anche che l’effettività del regime di concorrenza come contemplata dal trattato è fortemente legata al complesso generale degli obiettivi perseguiti dalla Comunità. Infine, nel (11) F. GhEzzI, G. oLIVIErI, op. cit. (12) S. LAMArCA, La disciplina dei cartelli nel diritto antitrust europeo ed italiano. Una guida teorico-pratica, Giappichelli, 2017. (13) CGUE, 13 febbraio 1969, C-14/68 Walt Wilhem et alia c. Bundeskartellamt. (14) CGUE, 21 febbraio 1973, C-6/72, Continental Can c. Commissione. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà caso Metro (15) sempre la Corte si è pronunciata sugli obiettivi che gli articoli 3 ed 81 del tCE (oggi art. 101 tFUE) intendevano perseguire all’interno del- l’ambito comunitario, richiamando il concetto americano di concorrenza efficace (workable competition), definito come quell’attività concorrenziale sufficiente al rispetto delle esigenze primarie e delle finalità del trattato, in particolar modo riguardo la creazione di un mercato unico in grado di offrire le stesse condizioni di un mercato interno. Il trattato prevedeva numerosi obiettivi di crescita e di sviluppo che sovente non erano conciliabili tra loro e, per questo, hanno necessitato un’adeguata azione politica di direzione e coordinamento. A tale scopo, la Commissione inizialmente ha goduto di larghi poteri e di discrezionalità ampia nel determinare gli indirizzi e le priorità in tema d’agenda politica sulla concorrenza. La stessa ha perseguito, forse indebitamente, fini di politica industriale ed economica che avrebbero dovuto rimanere invece estranei ad una politica dell’antitrust (16). Il regolamento europeo n. 17 del 1962 ha attribuito alla Commissione competenza esclusiva nel concedere esenzione individuale alle imprese che avevano dimostrato di soddisfare i requisiti contemplati dall’art. 81.3 tCE (oggi art. 101.3 tFUE), affidando in questo modo alla discrezionalità dell’organo comunitario uno strumento di politica economica con il quale la Comunità ha potuto, in specifiche occasioni, modulare la tutela accordata nell’ambito della concorrenza. Successivamente al trattato di roma, nell’ambito della politica europea in tema di concorrenza, ha assunto importanza rilevante l’integrazione dei mercati nazionali e la realizzazione del mercato interno. A riguardo, la commistione tra politica concorrenziale e realizzazione del mercato comune fu dovuta al fatto che non si era in presenza di un ordinamento politico compiuto come quello vigente negli Stati Uniti, ma piuttosto all’interno di un’area caratterizzata dalla presenza di diversi Stati sovrani, al cui interno la circolazione libera di beni, servizi e persone era ostacolata da barriere di natura legislativa oltre che fiscale e commerciale. Ciò premesso, si comprende come la Commissione, immediatamente dopo l’entrata in vigore del trattato, abbia utilizzato le norme antitrust in maniera estensiva soprattutto per colpire le intese suscettibili di contribuire alla compartimentazione dei mercati nazionali ostacolando la circolazione e l’importazione di prodotti da uno Stato membro ad un altro. Un esempio è il caso di accordi distributivi esclusivi aventi lo scopo di creare aree in cui vigeva as (15) CGUE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV c. Stichting Bedriifspensioenfonds Textielindustrie. (16) S. LAMArCA, La disciplina dei cartelli nel diritto antitrust europeo ed italiano. Una guida teorico-pratica, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 soluta protezione territoriale a vantaggio dei distributori per mezzo di meccanismi che vietassero ad ogni operatore, coinvolto anche in via indiretta, di esportare i prodotti fuori dalla propria zona (17). Nonostante il primo caso di applicazione della normativa in tema di intese sia relativo ad un cartello orizzontale che aveva ad oggetto il mantenimento di prezzi molto elevati, l’investigazione e la repressione da parte della Commissione a lungo si è concentrata esclusivamente sulle intese verticali o sugli effetti da questi determinati sul mercato interno (18). Questa linea è stata sostenuta dalla Corte in diverse sentenze, con le quali essa ha ribadito lo stretto legame tra l’applicazione delle regole di concorrenza e l’abolizione delle barriere al commercio degli Stati della Comunità (19). Nel caso Grundig (20), in particolar modo, la Commissione sanzionò sia l’accordo di esclusiva tra un operatore francese e un distributore tedesco avente il fine di ripartire in maniera artificiosa due mercati contigui vietando rigorosamente, sia al distributore che a qualunque altro terzo cui il distributore avesse rivenduto, di esportare nuovamente il prodotto al di fuori della zona esclusiva, che lo stesso obbligo imposto dal produttore a tutti i distributori, diretti e non, che operavano in altri territori nazionali. Acconsentendo ad accordi che determinavano l’effetto di conferire una protezione territoriale assoluta a ciascun distributore, avrebbe comportato l’elevazione di barriere impenetrabili alla circolazione delle merci tra Stati membri, creando un pregiudizio enorme per lo sviluppo del nascente mercato interno. Per questo, i cittadini europei avrebbero notato prezzi e condizioni profondamente diverse tra i diversi Stati, senza poter trarre beneficio dalle opportunità di scelta presenti su un mercato in cui le merci, invece, potevano circolare in assoluta libertà. Ci volle del tempo prima che avvenisse un cambiamento degli indirizzi programmatici della Commissione atti all’affermazione della tutela della concorrenza come obiettivo da perseguire in quanto valore autonomo. tra i fattori che hanno determinato un cambio di prospettiva va citata la vasta e crescente diffusione dei cartelli in settori determinanti per l’economia comunitaria come, ad esempio, il settore dei prodotti chimici, farmaceutici ed industriali, e la formazione di ampie aree all’interno della Comunità in cui erano sorte condizioni di offerta determinate su base collusiva. Di fronte a ciò la Commissione spostò lentamente il suo raggio d’azione dalla protezione del mercato interno alla repressione dei cartelli, mostrando di essere in grado di reagire velocemente alle nuove forme di concertazione che, complice lo sviluppo tecnologico all’in (17) S. LAMArCA, op. cit. (18) Commissione, 16 luglio 1969, 69/240/CEE, Intesa internazionale della chinina. (19) Cfr. CGUE, 3 luglio 1974, C-192/73, Van Zuylen c. Hag, e CGUE, 22 giugno 1976, C-119/75, Terrapin c. Terranova. (20) CGUE, 13 luglio 1966, Cause riunite C-56/64 e C-58/64, Consten and Grundig c. Commissione. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà terno dei mercati, stavano iniziando a diffondersi. Decisioni adottate negli anni ottanta contribuirono a comporre la giurisprudenza prevalente tutt’oggi in tema di definizione e di individuazione della pratica concordata sui mercati oligopolistici (21). La Commissione, di fatto, ha recepito nel corso degli ultimi vent’anni dello scorso secolo l’approccio diritto/economia sempre più diffuso nello studio del diritto della concorrenza, attuando un processo di revisione dei suoi tradizionali orientamenti nel modo di concepire e di attuare la politica antitrust. riconoscendo la rilevanza dal punto di vista economico delle restrizioni della concorrenza e dell’utilità della teoria economia sia nella disamina dei temi generali che nella soluzione di casi specifici, la Commissione ha costituito, all’interno della Direzione generale della concorrenza, un apposito servizio permanente di consulenza nell’ambito economico (CEt) composto da una trentina di economisti altamente qualificati, guidati da un Chief economist dal mandato triennale (22). L’esigenza, inoltre, di concentrare le risorse della Commissione, assieme a quelle delle Autorità nazionali, sull’esame delle restrizioni orizzontali più gravi ha condotto alla nascita di tutta una serie di riforme, le quali avevano per oggetto, da una parte, la razionalizzazione dell’analisi sugli impatti effettivi degli accordi verticali sul mercato e la semplificazione dei meccanismi di esenzione individuale, passando da un sistema di proibizione soggetto a deroga specifica a quello dell’eccezione direttamente applicabile, e, dall’altra, la decentralizzazione del controllo antitrust che, di fatto, demandò alle Autorità nazionali anche l’applicazione delle norme antitrust europee e stabilì regole per la ripartizione delle competenze tra le stesse, e tra queste e la Commissione Europea. riguardo al primo aspetto, la Commissione emanò nel 1999 un nuovo regolamento (23) di esenzione per categoria delle intese verticali che rese più efficiente e contemporaneamente più semplice il controllo di quest’ultime grazie all’individuazione di una soglia presuntiva di potere di mercato, sotto la quale si poteva presumere che l’accordo non determinasse restrizioni concorrenziali. In merito al secondo aspetto, invece, nello stesso anno la pubblicazione del Libro Bianco avviò il processo di modernizzazione delle regole di applicazione dell’art. 101 tFUE. Parliamo di un documento programmatico con il quale la Commissione evidenziò la propria intenzione di riformare il sistema di applicazione centralizzato che fino a quel momento si basava sulla sua esclusiva competenza. (21) S. LAMArCA, op. cit. (22) A. PAPPALArDo, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea. Profili sostanziali, Milano, Utet Giuridica, 2018. (23) regolamento CE n. 2790/1999. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Quando entrò in vigore, poi, il regolamento CE n. 1/2003 avente ad oggetto l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del trattato, si compì la fase di creazione del mercato unico. Da quel momento fu possibile, per il legislatore europeo, togliere alla Commissione la potestà esclusiva nell’applicare l’esenzione individuale ai sensi dell’art. 81.3 tCE (oggi art. 101.3 tFUE), liberando quelle risorse da deputare all’esame delle tantissime notifiche individuali in favore della nuova priorità nella lotta ai cartelli. In questo modo si consolidò l’applicazione dell’art. 101 tFUE da parte delle Autorità nazionali che videro allargate le loro competenze all’interno di un network europeo fortemente istituzionalizzato, l’European Competition Network (o ECN) al cui interno vennero disciplinate le gerarchie tra Commissione ed Autorità nazionali, e tra le stesse Autorità nazionali che componevano la rete, con regole basate su criteri di stretta collaborazione, solidarietà e parità. Queste evoluzioni così delineate hanno determinato un quadro nuovo all’interno del quale la tutela della concorrenza e la difesa delle regole del mercato interno venivano bilanciate in maniera equa (24). Consolidati gli obiettivi che il trattato prevedeva ab origine, la Commissione e le Autorità nazionali hanno potuto concentrarsi, dunque, sul proteggere il benessere dei consumatori, diventato così l’obiettivo centrale dell’attività di enforcement da ottenere per mezzo della salvaguardia dei processi concorrenziali e rafforzando la posizione degli utenti sul mercato interno. Un obiettivo, questo, che presuppone, da una parte, che venga adottato un modello che a sua volta persegua ugualmente l’efficienza allocativa e la massimizzazione della ricchezza complessiva dell’intero sistema e, dall’altro, che si realizzi piena efficienza distributiva, impedendo effetti di trasferimento di risorse dai consumatori alle imprese che praticano condizioni d’offerta diverse da quelle concorrenziali. In questo senso, il motivo per cui l’azione dell’Unione Europea si sia concentrata sul reprimere le intese orizzontali più gravi va cercato nel fatto che i cartelli orizzontali non portano beneficio alcuno, fermo restando che creano distorsioni gravi nell’allocazione e nella distribuzione delle risorse creando illecitamente aggregazione di potere economico sui mercati senza portare, per contro, alcuna utilità in termini di efficienza. Nella lotta alle intese orizzontali da parte della Commissione vi è soprattutto la necessità di proteggere i diritti dei consumatori in quanto risorsa primaria della politica concorrenziale, la quale può realizzarsi solamente attraverso una politica effettiva di deterrenza nei riguardi delle intese orizzontali. L’azione della Commissione risponde anche all’esigenza di distinguere tra le restrizioni più gravi che vanno perseguite sistematicamente e altri tipi di accordo con effetti potenzialmente restrittivi ma dalla valenza antigiuridica più lieve, i quali possono assumere rilevanza soltanto in virtù dei loro effetti, (24) S. LAMArCA, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà tenendo conto della posizione e delle quote in possesso delle parti sui mercati di riferimento. Gli orientamenti sopracitati sono stati recepiti anche in giurisprudenza, come nel caso GlaxoSmithKline (25), dove venne valutato l’effetto di un accordo in virtù delle possibili ripercussioni sul benessere del consumatore, verificando concretamente le possibili conseguenze negative che si sarebbero avute per l’utenza finale se tale accordo fosse stato attuato. Nella sentenza relativa i Giudici hanno esplicitamente dichiarato che la finalità dell’art. 81 tCE è quella di impedire che certe imprese attuino una restrizione della concorrenza tra loro o nei rapporti con altri, riducendo conseguentemente il benessere del consumatore finale dei prodotti. La lotta ai cartelli, con queste nuove ed articolate forme, ha ottenuto risultati importantissimi sia dal punto di vista dell’accertamento che da quello sanzionatorio delle pratiche vietate. Infatti, le maggiori competenze sia ispettive che sanzionatorie date alla Commissione e l’aumento della cooperazione con le Autorità nazionali competenti, previste entrambe dal regolamento n. 1/2003, hanno permesso di adottare un numero sempre maggiore di decisioni in tema di intese, confermate sovente dai giudici europei, e un notevole aumento delle sanzioni comminate alle imprese partecipanti (26). Importantissima per capire l’ambito evolutivo degli strumenti giuridici e delle competenze affidate dalla Corte alle autorità nazionali nella lotta ai cartelli è stata la Sentenza CIF (27) che ha stabilito, a carico delle autorità nazionali, l’obbligo di disapplicare le normative nazionali che imponevano o favorivano comportamenti di imprese contrastanti con l’art. 101 tFUE o che ne avevano legittimato o addirittura rafforzato gli effetti. Nello specifico la Corte ha stabilito come, dinanzi a comportamenti in contrasto con l’art. 81 n. 2 tCE imposti da una normativa nazionale che ne ha legittimato o rafforzato gli effetti, riguardo specificamente alla determinazione dei prezzi e alla divisione del mercato, un’autorità nazionale alla quale è stato dato il compito di vigilare sul rispetto dell’art. 81 tCE ha il dovere e l’obbligo di non applicare la normativa nazionale. Dal punto di vista sanzionatorio questo risultato è stato ottenuto anche per mezzo dell’adozione di apposite Linee Guida della Commissione, le quali hanno introdotto severe modalità di quantificazione delle sanzioni che, non soltanto hanno preso in considerazione il fatturato dell’impresa, ma hanno contemplato ulteriori criteri in virtù dei quali si sono innalzate sensibilmente le sanzioni comminate. (25) tribunale, 27 settembre 2006, t-168/01, GlaxoSmithKline Services Unlimited c. Commissione. (26) S. LAMArCA, op. cit. (27) CGUE, 9 settembre 2003, C-198/01, Consorzi Industrie Fiammiferi. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 La disciplina antitrust in tema di intese è stata inoltre oggetto di tantissime innovazioni che avevano in comune la diffusione di strumenti alternativi all’obiettivo tradizionale di repressione delle pratiche vietate per mezzo di sanzioni pecuniarie. oltre al solito esercizio dei poteri di indagine e dei poteri di sanzione sono state aggiunte nuove misure aventi il fine di individuare e di combattere i cartelli, riducendo, allo stesso tempo, a vantaggio delle imprese aderenti le sanzioni naturalmente applicabili, fino alla loro totale esclusione. Questi nuovi mezzi permetteranno alle Autorità antitrust di ottenere la rimozione rapida delle violazioni, a vantaggio degli interessi dei consumatori, e un ingente risparmio delle risorse amministrative grazie ad una più rapida chiusura dei procedimenti permettendo allo stesso tempo di superare le asimmetrie informative che le Autorità hanno spesso incontrato nelle loro attività investigative relative ai cartelli (28). 4. Normative antitrust e gli indirizzi della politica europea. Con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009, su iniziativa soprattutto francese, il fine della concorrenza non falsata non è più tra gli obiettivi fondamentali dell’Europa. In particolar modo, l’art. 3 tFUE dopo Lisbona ha stabilito come, ora, l’Unione Europea debba prodigarsi al- l’instaurazione di un mercato interno, adoperandosi per uno sviluppo sostenibile dell’Europa che si basi su una crescita economica equilibrata e su prezzi stabili oltre che su un’economia sociale di mercato altamente competitiva che punti all’occupazione, al progresso sociale, alla tutela e al miglioramento del- l’ambiente, promuovendo il progresso scientifico e tecnologico. In aggiunta a questo, il Protocollo n. 27 allegato al tUE e al tFUE che, ai sensi dell’art. 51 tUE va considerato parte degli stessi trattati, precisa come il mercato interno si fondi su un sistema che assicura la concorrenza leale e non falsata. Non è stata fatta alcuna modifica, se non nella numerazione dei nuovi artt. 101 e 102 tFUE, alle norme riguardanti i divieti di intesa e di abuso di posizione dominante. Il significato e le conseguenze del cambiamento in merito alla tutela della concorrenza e delle politiche antitrust europee è stato ritenuto, per alcuni, irrilevante mentre altri lo hanno considerato il risultato di quel filone di pensiero che ha enfatizzato la dimensione semplicemente funzionale della concorrenza soltanto se e in quanto idonea a permettere il raggiungimento di una serie di obiettivi superiori, quali la crescita economica, il progresso sociale, l’ambiente, la coesione economica e sociale, l’occupazione. L’applicazione della disciplina antitrust deve tener conto di questi obiettivi ultimi e gerarchicamente sovraordinati che il trattato di Lisbona ha enunciato. Le politiche di concorrenza comunitarie sono state, e lo sono ancora, sep (28) S. LAMArCA, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà pur in maniera più lieve, influenzate dall’obiettivo di integrare le varie realtà nazionali all’interno di un mercato comune unico. Le unità sono intervenute, quindi, con particolare veemenza nei riguardi delle intese e degli accordi aventi lo scopo di erigere barriere o di ostacolare le transazioni commerciali tra gli Stati membri. Un’importante sentenza (29) della Corte di Giustizia del- l’Unione Europea in materia di intese ha affermato che un accordo tra produttore e distributore avente il fine di ristabilire le barriere nazionali nel commercio tra Stati membri può impedire il perseguimento dell’obiettivo del trattato, che è quello di realizzare l’integrazione dei mercati nazionali attraverso la creazione di un unico mercato. Sono per la Corte, dunque, comportamenti diretti a compartimentare i mercati secondo le frontiere nazionali quegli accordi che hanno lo scopo di vietare o di limitare le esportazioni parallele o quegli accordi che limitano la concorrenza. La Commissione europea ha anche sanzionato pesantemente l’impresa di abbigliamento Guess per aver attuato un sistema di geoblocking delle vendite sul web che impediva ai distributori di vendere i prodotti della stessa azienda fuori dal territorio assegnato (30). Altre decisioni e sentenze, in tal senso, hanno tenuto conto o sono state condizionate dagli obiettivi primari menzionati dai trattati europei. Da questo punto di vista è emblematica la decisione Ford/Volkswagen (31) con cui la Commissione ha consentito l’intesa che, invece, l’autorità antitrust tedesca voleva vietare, riguardo ad una joint venture creata in vista della produzione di una monovolume di ultima generazione. L’autorità tedesca considerava questo accordo pesantemente negativo dal punto di vista concorrenziale, giacché avrebbe eliminato la concorrenza nella produzione di monovolume tra due delle principali imprese automobilistiche sul mercato (32). La Commissione ha, invece, autorizzato l’accordo in via eccezionale per un insieme di valutazioni concorrenziale ma anche perché il progetto costituiva il più grande investimento singolo estero mai avvenuto in Portogallo, avente la possibilità di creare direttamente fino a cinquemila posti di lavoro e, indirettamente, fino a diecimila attraverso importanti investimenti nell’industria delle forniture. Questo progetto, dunque, contribuiva allo sviluppo armonioso della Comunità europea oltre che ridurre le disparità regionali, due degli obiettivi fondamentali del trattato, di fatto promuovendo anche l’integrazione europea di mercato vincolando ancor più il Portogallo alla Comunità attraverso una delle sue industrie principali. (29) CGUE, C-501/06 P, C-513/06 P, C-515/06 P e C-519/06 P, GlaxoSmithKline, in Racc. 2009, I-9291. (30) Commissione, 17 dicembre 2018, Guess. (31) Commissione, 23 dicembre 1992, Ford/Volkswagen, in GUCE L 020 del 28 gennaio 1993. (32) L.F. PACE, Diritto Europeo della concorrenza. Divieti antitrust, controllo delle concentrazioni e procedimenti applicativi, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Questi esempi dimostrano come la politica concorrenziale comunitaria, pur essendo in linea con il principio di salvaguardia del benessere economico generale, ha perseguito anche ulteriori obiettivi oppure che, con questi, si è dovuta confrontare. Va detto anche che, col tempo, è stato codificato e limitato il modo con cui tener conto di questi ulteriori obiettivi. Negli orientamenti più recenti, infatti, gli obiettivi perseguiti da altre disposizioni del trattato possono essere considerati esclusivamente se possono rientrare nelle quattro condizioni ex art. 101 e, quindi, solo se determinano miglioramenti per l’offerta e benefici per i consumatori. Aldilà della gamma di obiettivi da perseguire, la politica comunitaria di concorrenza non aveva avuto, fino a pochi anni fa, la considerazione e l’impatto avuto invece da quella statunitense. La politica delle autorità antitrust europee era molto rigida, non molto attenta all’analisi economica ed eccessivamente subordinata agli obiettivi integrazionistici. Le poche decisioni assunte, infatti, tendevano soprattutto a condannare quelle intese che erano dirette a creare quelle barriere commerciali che le politiche di integrazione e di liberalizzazione attuate dalle autorità comunitarie avevano abbattuto. Inoltre, ancor più rare erano state le decisioni sanzionatorie, in maniera efficace e decisiva, dei cartelli e di altre pratiche pesantemente lesive dalla concorrenza (33). Con il nuovo Millennio, obiettivi, priorità, metodi di valutazione e grado di efficacia della politica europea sulla concorrenza sono cambiati profondamente. In particolare, la cosiddetta “modernizzazione” delle regole di concorrenza a livello comunitario, e che ha portato all’emanazione del reg. CE n. 1/2003, disciplinante le procedure applicative riguardanti i divieti di intesa e l’abuso di posizione dominante, ha determinato una rivoluzione, di fatto, del diritto europeo della concorrenza delineato, sinteticamente, dai seguenti punti: -abbandono progressivo di approccio formale a vantaggio di uno più sostanziale e attento alle conseguenze economiche delle condotte oggetto di valutazione; -passaggio, nell’ambito delle intese, da un sistema di controllo generale ex ante, incentrato in particolare sulla Commissione europea, ad uno ex post in cui la Commissione, le autorità ed i giudici nazionali intervengono solo, e soltanto, in caso di sospetto di concorrenza ristretta; -focalizzazione, dal punto di vista delle politiche concorrenziali, sulla lotta alle condotte restrittive più dannose (cartelli, abusi di posizione dominante ecc.), aiutata dalla liberalizzazione delle risorse dovute all’abbandono dei controlli ex ante di cui sopra; -efficacia maggiore dell’applicazione della normativa comunitaria per mezzo di un coinvolgimento a pieno titolo di giudici e di autorità nazionali (33) L.F. PACE, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà nell’applicazione delle disposizioni in materia di intese e abusi come stabilite dal trattato; -rimodulazione dei poteri e degli strumenti di intervento e decisionali al fine di assicurare provvedimenti maggiormente incisivi oltre che spazi di intervento maggiore allo scopo di superare ostacoli strutturali al buon andamento dei mercati. riguardo al diritto europeo della concorrenza, i principali divieti sono presenti oggi in un pugno di disposizioni dal contenuto generale. Le norme europee antitrust con contenuto sostanziale sono previste da: -il trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, ai cui artt. 101 e 102 vieta, rispettivamente, le intese restringenti la concorrenza e gli abusi di posizione dominante; -il reg. CE n. 139/2004, che ha preso il posto del reg. CEE n. 406 del 1989, per il controllo delle operazioni di concentrazione di imprese (34). Questo corpus normativo è molto più simile a quello vigente negli Stati Uniti e, anche in virtù del processo di modernizzazione e della similitudine dei corpi normativi, a questo si è unita un’elevata convergenza nei modi e nei principi di applicazione dei precetti antitrust. Le autorità europee continuano ad essere scettiche sulle virtù in grado di redimere i mercati e sulle condotte delle grandi imprese ma, generalmente, condividono i principi di base. Inoltre, oltre ai tre tradizionali pilastri concorrenziali del divieto di intese restrittive, del divieto di abuso di posizione dominante e del controllo delle concentrazioni, il sistema comunitario ha previsto ulteriori disposizioni antitrust dal forte peso politico oltre che pratico. In particolar modo, l’art. 106 tFUE ha previsto che gli Stati membri non possono emanare né tantomeno mantenere, nei riguardi delle imprese pubbliche e di quelle imprese a cui sono stati riconosciuti diritti speciali o esclusivi, nessuna misura contraria alle norme del trattato. Niente vieta che uno Stato richieda ad un’impresa, pubblica o privata, di perseguire una missione di interesse economico generale, come può essere, ad esempio, la creazione di una rete telefonica o la produzione di energia, questa impresa, tuttavia, non è sottratta, per questo, dal rispettare le normative a tutela della concorrenza a meno che l’applicazione delle disposizioni antitrust contrasti esplicitamente con il perseguimento di questa specifica missione pubblica (35). Su questa stessa falsa riga anti protezionistica l’art. 107 tFUE ha stabilito come, in linea di principio, siano incompatibili con il mercato comune, quando incidono sugli scambi tra gli Stati membri, gli aiuti statali che favoriscono alcune imprese o alcuni settori produttivi nazionali, falsando o minacciando di farlo, di fatto, la concorrenza nel mercato comune. (34) L.F. PACE, op. cit. (35) Ibidem. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 I trattati europei, da Lisbona in avanti, si sono prefissati, dunque, finalità non tanto economiche quanto sociali, per via del fatto che fra la generalità delle norme dei trattati e quelle, più specifiche, relative alla tutela concorrenziale sia emersa una tensione via via sempre più ampia culminata, verso la fine del secolo scorso, nell’esigenza (che la Commissione Europea ha subito abbracciato) di accrescere il ruolo dell’economia nella valutazione delle restrizioni della concorrenza. Se dalle disposizioni di principio del tUE passiamo a quelle relative alle politiche dell’Unione, come disciplinate nella parte terza del tFUE, incontriamo la “regole di concorrenza” nel Capo I, titolo VII, suddivise a loro volta in due sezioni: -La prima, rubricata “Regole applicabili alle imprese”, dagli artt. 101 al 106; - La seconda, “Aiuti concessi dagli Stati”, dall’art. 107 all’art. 109. Importanti, in particolare, sono gli articoli 101 e 102, laddove il primo disciplina le intese restrittive della concorrenza ovvero gli accordi e le pratiche concordate tra imprese oltre che le decisioni di associazioni di imprese, e il secondo regolamenta, invece, lo sfruttamento abusivo ad opera di una o più imprese e la loro eventuale posizione dominante all’interno del mercato. Va citato anche l’art. 106, il quale tratta dei rapporti speciali fra lo Stato e alcune categorie di imprese. tutta la seconda sezione disciplina, infine, gli aiuti che gli Stati concedono ad alcune imprese o ad alcune produzioni (36). Gli aiuti di Stato sono consentiti a specifiche condizioni. Quando, cioè, si può dimostrare che essi perseguono obiettivi non contrastanti con quelli stabiliti dai trattati europei (protezione ambientale, tutela occupazionale, ecc.). In linea generale questi aiuti vanno comunicati preventivamente alla Commissione e devono risultare proporzionali e strettamente necessari nell’ottica di correzione di un fallimento di mercato. In caso contrario, quando attuati senza notifica preventiva o quando distorcono il corretto funzionamento dei mercati, celati dietro finalità protezionistiche o di salvaguardia nazionale, sono considerati illeciti e, per questo, combattuti pesantemente dalle autorità europee. Questo aspetto è molto importante nell’ambito delle politiche antitrust del- l’Unione Europea, tenendo conto che sono tantissime le aree in cui si sovrappongono la disciplina delle intese e quelle delle concentrazioni (37). Da quanto fin qui esposto è evidente come, al pari di altri atti delle istituzioni dell’UE anche la normativa e le decisioni del Consiglio e della Commissione in materia antitrust siano soggette al controllo della Corte di Giustizia. Questo è il motivo per cui, nel corso degli ultimi anni, migliaia e migliaia di imprese hanno chiesto a questa Corte l’annullamento di decisioni adottate dalla Commissione nei loro riguardi, la maggior parte accompagnate (36) A. PAPPALArDo, op. cit. (37) L.F. PACE, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà da pesantissime sanzioni pecuniarie. Da quando, poi, esiste il tribunale Europeo il contenzioso si è allargato a macchia d’olio, anche perché possono impugnare le decisioni della Commissione oltre ai destinatari di queste anche terzi e gli Stati membri. L’istituzione del tribunale ha profondamente cambiato il controllo dal punto di vista giurisdizionale da parte dell’Unione Europea, in quanto esso è l’unico giudice sia dei fatti che del diritto e contro le sue sentenze il ricorso alla Corte di Giustizia è ammissibile solo su punti di diritto. Il fondamento giuridico di questo aspetto, che costituisce la larghissima parte del contenzioso, è l’art. 263 tFUE ma vanno ricordate altre due disposizioni presenti nello stesso trattato, l’art. 267 e l’art. 265, laddove il primo attiene alle pronunce della Corte su rinvio a titolo pregiudiziale ad opera dei giudici degli Stati membri, ed il secondo ai ricorsi per carenza. Le fonti primarie del diritto della concorrenza applicabile alle imprese sono l’art. 3 tUE e il protocollo n. 27 che enunciano i principi di base, mentre gli artt. 101-106 sono provvisti di efficacia diretta. Fonti, invece, secondarie sono i regolamenti del Consiglio e i regolamenti della Commissione, quest’ultimi adottati su delega del Consiglio stesso, oltre che le direttive e le decisioni della Commissione, attuative delle disposizioni del tFUE e degli atti normativi secondari. regolamenti del Consiglio da menzionare con particolare attenzione sono il n. 1/2003, attinente all’applicazione delle regole concorrenziali contenute all’interno degli articoli 101 e 102, i regolamenti che hanno dotato la Commissione del potere di adottare, a sua volta, regolamenti di esenzione di categorie di intese dal divieto ai sensi dell’art. 101, il regolamento n. 139/2004 relativo al controllo delle concentrazioni fra imprese. Importanti fonti secondarie, inoltre, sono l’Accordo sullo Spazio Economico Europeo (Accordo SEE) che regola i rapporti fra l’Unione e i tre Stati appartenenti all’EFtA (Associazione europea di libero scambio) ossia l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia (ad eccezione della Svizzera che, seppur membro dell’EFtA, non ha ratificato tale accordo). Va detto che gli artt. 53 e 54 dell’Accordo SEE sono pressoché identici agli articoli 101 e 102 tFUE mentre l’art. 57 corrisponde al su citato regolamento n. 139/2004 (38). Di fatto, inoltre, altra fonte molto importante del diritto della concorrenza è la Giurisprudenza della Corte di Giustizia e del tribunale, anche se formalmente il diritto dell’Unione Europea non attribuisce valore assoluto ai precedenti giurisprudenziali. In pratica riveste enorme rilievo la prassi della Commissione, costituita in primo luogo dalle decisioni applicative delle disposizioni del tFUE. Nonostante la loro efficacia si limiti ai casi singoli queste decisioni rappresentano precedenti suscettibili di guidare in maniera utile le imprese nella conclusione di accordi e, in via generale, di determinare i loro comportamenti all’interno del mercato. (38) A. PAPPALArDo, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Da questo punto di vista importanti indicazioni possono essere desunte anche dalle numerose comunicazioni che la Commissione ha pubblicato allo scopo di far conoscere gli orientamenti che l’hanno ispirata (o la ispireranno) nel trattare determinate pratiche restrittive, a delimitare le competenze europee oppure nell’interpretare specifiche nozioni. Anche se non vincolanti dal punto di vista giuridico, sia per le imprese che per le autorità, giudiziarie o antitrust, degli Stati membri, le comunicazioni, conosciute anche come “orientamenti” o “Linee direttrici”, hanno assunto col tempo un peso molto rilevante, addirittura non inferiore a quello delle direttive e dei regolamenti. In ultimo, occorre ricordare anche le risposte della Commissione alle interrogazioni parlamentari europee ma, soprattutto, le “relazioni annuali” sulla politica della concorrenza con cui la Commissione, riassumendo gli eventi più significativi dell’anno, fornisce sovente indicazioni sugli orientamenti che essa stessa ha adottato o che intende seguire, sia nell’interpretazione di specifiche disposizioni che nel trattare determinate pratiche restrittive della concorrenza (39). In ultima sintesi il diritto antitrust dell’Unione Europea contiene le disposizioni seguenti: -l’art. 101.1 vieta tutte le intese, viste come quelle forme di cooperazione o di collusione fra due o più imprese restrittive della concorrenza, mentre l’art. 101.2 ne prevede la nullità e, infine, il 101.3 stabilisce le condizioni per cui un’intesa vietata è invece esente dal divieto; -l’art. 102 attiene allo sfruttamento abusivo, da parte di una o di più imprese, della posizione dominante da essa/esse detenuta/e nel mercato interno o in una sua parte sostanziale; -l’art. 106.1 vieta agli Stati membri di adottare, in rapporto ad alcune categorie di imprese, dipendenti in vario modo dallo Stato o comunque soggette ad esso, misure contrarie al trattato e alle disposizioni contenute negli articoli del punto precedente. Il comma 2 dello stesso articolo prevede, invece, una deroga limitata alle disposizioni del trattato a favore di alcune imprese, collegate o dipendenti dallo Stato; -il reg. n. 139/2004 attribuisce alla Commissione il controllo preventivo di concentrazioni di imprese che presentano la cosiddetta “dimensione europea”, consentendole, a determinate condizioni, di vietarne la realizzazione (40). Un approfondimento a parte, nell’ambito della modernizzazione dell’applicazione degli artt. 101 e 102, merita il regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002 che, di fatto, ha abrogato il regolamento n. 17/1962 che è stato per oltre quarant’anni pietra miliare della disciplina europea sulle (39) A. PAPPALArDo, op. cit. (40) A. PAPPALArDo, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà intese e sugli abusi di posizione dominante. Prima di addentrarci nell’approfondimento della portata della riforma è opportuno riassumere brevemente i principi che hanno ispirato il regolamento del 1962 e le sue disposizioni principali. Innanzitutto, le intese che corrispondevano alle condizioni di cui all’art. 101.1 erano soggette ad un regime di divieto con riserva di esenzione per cui, l’inapplicabilità del divieto (in pratica l’esenzione) prevista dal comma 3 non determinava alcun effetto fino a quando l’autorità competente, nel momento in cui accertava la realizzazione delle condizioni richieste a tale scopo, si pronunciava a riguardo. La Commissione era l’unica autorità competente a tale scopo e a rilasciare, oppure a rifiutare, la dichiarazione di inapplicabilità. Per la maggior parte delle intese, o comunque di quelle considerate più restrittive, la dichiarazione di inapplicabilità poteva essere rilasciata, aldilà del fatto se rispondevano o meno alle condizioni ex art. 101.3, a condizione solo che fossero state comunicate preventivamente alla Commissione, in conformità alla regola procedurale dell’onere di notificazione. Corollario della notificazione era costituita dall’immunità dalle sanzioni pecuniare per la quale, alle imprese che, consapevoli dell’applicabilità dell’art. 101.1 alle loro intese ma incerte sulla conformità a quelle ex art. 101.3, la notificavano e non potevano essere sanzionate ai sensi del regolamento n. 17 in caso di violazione dell’art. 101.1. Infine, le autorità degli Stati membri erano competenti nell’applicazione del- l’art. 101.1 e dell’art. 102 ma fin quando la Commissione non iniziava procedure ai sensi degli artt. 2, 3 o 6. Il regolamento n. 1 del 2003 ha innovato il tutto in maniera importante, sopprimendo tutte le disposizioni di cui sopra, fatta eccezione per quella sulla competenza degli Stati membri nell’applicazione degli artt. 101 e 102, che è stata invece modificata inserendo nuove regole sui rapporti fra le regole concorrenziali dell’Unione Europea e quelle vigenti nei singoli Stati, e sulle competenze della Commissione e delle autorità nazionali, giudiziarie e antitrust, nell’applicazione degli articoli 101 e 102 creando, in ultimo, una rete di cooperazione fra la Commissione e le autorità nazionali antitrust (41). Per concludere l’excursus degli orientamenti di politica europea della concorrenza non può non essere citata la recente attenzione nei riguardi delle potenziali barriere al mercato unico costituite da alcuni accordi, di tipo verticale, nell’ambito del commercio elettronico (e-commerce). Questi accordi hanno preoccupato, e tuttora preoccupano, la Commissione non soltanto perché possono presentare delle restrizioni della concorrenza ma anche perché alcune clausole al loro interno possono essere da ostacolo alla libera circolazione di servizi e di beni all’interno dell’Unione. La Commissione e le Autorità nazionali, in tal senso, hanno aperto numerosissime indagini riguardanti ac (41) A. PAPPALArDo, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 cordi tra produttori e distributori i quali si avvalgono del web come canale per rivendere beni e servizi. tali accordi possono avere ad oggetto non soltanto contenuti digitali come e-books, film, videogiochi, programmi televisivi ed eventi sportivi, ma anche veri e propri beni di consumo fisico (pensiamo all’abbigliamento, alle calzature ecc.) commercializzati attraverso Internet o altri tipi di servizi, come le prenotazioni di viaggi, biglietti aerei, soggiorni alberghieri effettuati online. Alcune delle clausole dall’enorme potenziale restrittivo contenute negli accordi verticali di rivendita sui quali le Autorità si sono concentrate possono essere brevemente riassunte nel seguente elenco: - divieto assoluto di vendere online; -limitazioni, nei riguardi del distributore, di vendita attraverso canali o siti e-commerce; -restrizioni imposte, sempre al distributore, sulla possibilità di rivendite a utilizzatori finali situati in territori diversi dal luogo in cui il distributore opera (attuate anche per mezzo di veri e propri “geo blocchi”); -clausole che impongono prezzi di rivendita differenti a seconda del canale (fisico o online) usato per la rivendita oppure, nell’ambito dell’e-commerce, della piattaforma web utilizzata; -clausole che prevedono l’obbligo in capo al fornitore di beni o servizi di garantire a favore delle maggiori piattaforme il prezzo migliore di rivendita online (42). L’importanza che la Commissione ha dato al vasto settore dell’e-commerce è testimoniata dall’indagine di settore avviata nel 2015 che ha coinvolto circa duemilacinquecento operatori e che si è conclusa con una relazione finale nel maggio 2017. In questa indagine la Commissione ha assunto posizioni molto dettagliate sulla valutazione concorrenziale di accordi specifici e verticali nel settore del commercio elettronico, andando in questo modo a perseguire il proprio intento di orientare e uniformare la prassi delle Autorità nazionali, fornendo un quadro giuridico più chiaro per gli operatori e, infine, indirizzare le revisioni future del regolamento di esenzione (43). 5. Regole sulla concorrenza nell’ordinamento giapponese. Le diverse culture della concorrenza riflettono i diversi valori culturali, per questo per comprendere una cultura dell’antitrust occorre analizzare i valori su cui la società corrispondente si fonda, un’analisi che deve essere transculturale e rappresentare, soprattutto, un valido strumento di lavoro in grado di confrontare le culture nazionali al fine di verificarne l’impatto sulle politiche antitrust. A questo fine gli psicologi hanno costruito una cornice di ri (42) S. LAMArCA, op. cit. (43) S. LAMArCA, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà ferimento dei valori della collettività su base statistica, da un lato, e su scala globale dall’altro, conosciuta con il nome di “Dimensione del Valore Culturale”. Questo studio fornisce un quadro nel quale disegnare le politiche della concorrenza allo scopo di comparare le politiche della concorrenza e le diverse culture nazionali su scala globale. All’interno di questo quadro si può trovare l’opposizione individualismo/collettivismo che rispecchia, ad esempio, la contrapposizione tra cultura statunitense e quella giapponese (44). Agli inizi del secolo scorso in Giappone l’intera economia era dominata da pochissimi “zaibatsu”, società commerciali che si erano evolute in veri e propri imperi industriali ad integrazione verticale che operavano intorno all’industria mineraria, navale, siderurgica e degli armamenti, protetti dall’intera istituzione bancaria. Il termine “zaibatsu” indicava quei grandi gruppi finanziari, commerciali ed industriali, originariamente a controllo familiare composti da un certo numero di persone, che hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dell’economia del Giappone dal periodo “Meiji” (verso la fine dell’ottocento) fino alla Seconda Guerra mondiale. tra i più importanti gruppi vanno ricordati Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo e Yasuda. Gli interessi economici legati a queste associazioni giocarono un ruolo fondamentale nella politica espansionistica giapponese della dirigenza Meiji e, successivamente, dell’imperialismo delle epoche “Taisho”e“Showa” (dal 1912 fino alla fine del conflitto mondiale del 1945), ma soprattutto nella modernizzazione industriale ed economica anche della Corea, che è stata del Giappone nel 1910, e della Manciuria, controllata dal governo giapponese dal 1930 fino alla fine del conflitto mondiale (45). Il concetto di impresa, in Giappone, a differenza di quello occidentale, nacque e si sviluppò all’interno di un sistema economico fortemente caratterizzato dalla volontà di produrre ricchezza attraverso dinamiche di crescita e di potenziamento del mercato interno, ispirato ad una sorta di protezionismo nazionale che va oltre ogni vincolo e legame esterno. realizzare un progetto così autarchico è stato possibile, principalmente, per via del sostegno che proprio lo Stato ha dato e riservato, quasi esclusivamente, a tale modello di sviluppo in modo da condizionare anche il percorso evolutivo delle diverse realtà aziendali. Gli assetti di quest’ultime, fortemente caratterizzate da una struttura ad alta concentrazione sono passati, nel corso degli anni e per via dello sviluppo dei mercati finanziari uniti alla totale assenza di leggi antitrust, dal settore industriale formato da grandi famiglie di mercanti a quello finanziario. In questo passaggio si sono determinate diverse filosofie di fondo dovute, a loro volta, a diverse necessità che dipendevano dalla natura dell’attività svolta. (44) E. PErUzzo, Concorrenza e contesto: il Giappone e la teoria dell’adattamento selettivo, 10 febbraio 2011, in www.diritto.it (45) “Zaibatsu”. Dizionario di Economia e Finanza (2012), in www.treccani.it/enciclopedia. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Gli “zaibatsu” avevano risorse finanziare da investire in aziende di dominio e guida all’interno del mercato locale. Questi gruppi di imprese, diverse e allo stesso tempo collegate tra loro da rapporti di reciproche partecipazioni, dal punto di vista strutturale evidenziarono una debolezza finanziaria nel breve termine anche se la gestione di queste difficoltà, almeno inizialmente, non risultarono particolarmente problematiche giacché il sistema bancario giapponese, rappresentato spesso da esponenti della stessa famiglia proprietaria di impresa, era parte integrante del capitale di proprietà aziendale e dettava, quindi, le proprie politiche gestionali allo scopo di sostenere il tessuto produttivo dell’impresa. In questa fase, inoltre, non vi erano ancora problemi di governo societario, di gestione di conflitti attinenti alla separazione tra proprietà e controllo ma, al contrario, si evidenziò un forte spirito di coalizione tra esponenti di una stessa impresa o di imprese differenti spesso organizzate in veri e propri cartelli, uniti tra loro da interessi comuni. Nell’obiettivo di ogni realtà aziendale convogliavano e si realizzavano gli interessi di una proprietà indivisa, protetta nelle sue scelte e nella realizzazione dei propri obiettivi istituzionali da un mercato in cui era talmente forte la presenza di cartelli e di accordi collusivi da agevolarne l’equilibrio (46). Prima della Seconda Guerra mondiale, inoltre, il Giappone non disponeva di alcuna normativa in materia di diritto della concorrenza fino a quando, cioè, intorno al 1940, gli Stati Uniti tentarono di esportare le loro tradizioni. La legge giapponese contro i monopoli ha diversi tratti comuni con lo Sherman Act, con alcune differenze, però, in tema di accordi verticali. Il Giappone può essere considerato una società collettivista all’interno della quale gli individui sono integrati fin dalla nascita in gruppi coesi che li proteggono per tutta la vita in cambio di lealtà. In questo tipo di società è fondamentale che ognuno rispetti il compito affidatogli, sia nel gruppo sociale che nell’istituzione cui è stato assegnato. Questo perché ogni individuo è una frazione individuale di un gruppo organico, caratteristica che deriva dall’etica confuciana che, a partire dal VII secolo si fuse e si adattò alla cultura autoctona fortemente legata alla trazione scintoista. L’ideologia confuciana, però, assunse una rilevanza tale da abbracciare in poco tempo l’intera vita sociale assieme alle istituzioni del Paese. L’orientamento di un gruppo enfatizza, a sua volta, il concetto di armonia sociale e di consenso, producendo un’avversione molto forte nei confronti della concorrenza e dei meccanismi di mercato, in quanto suscettibili di creare instabilità. Questo, unito alla propensione verso lo statalismo, determinò una serie di norme coerenti con l’intervento dello Stato nell’economia e col disinteresse per la politica concorrenziale. La storia industriale del Giappone è ca (46) F. FortUNA, Corporate e governance. Soggetti, modelli e sistemi, Milano, Franco Angeli Editore, 2002. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà ratterizzata, infatti, dalla concentrazione, dal coordinamento con l’attività economica e dalla collusione, all’interno di un sistema basato sul principio della politica industriale in cui è significativo l’intervento governativo, tratto comune a molti altri Paesi del sud-est dell’Asia. La politica antitrust in Giappone è stata oggetto di vicende interne iniziate dall’introduzione della prima legge in tema di diritto della concorrenza, nel 1947, fino ai giorni nostri. Quando venne emanata la legge contro i monopoli, durante il Secondo dopoguerra, il rapporto tra le società che operavano all’interno del mercato economico era improntato ad una cooperazione armoniosa. tale legge, come accennato, fu imposta dall’occupazione americana, giacché gli Stati Uniti, in quanto vincitori del conflitto, imposero la politica da seguire e i giapponesi non poterono far altro che piegarsi. Gli standard statunitensi vennero adottati a prescindere dalla compatibilità con le norme locali in termini di percezione, legittimazione e complementarità. Dal punto di vista percettivo, in particolar modo, vi furono molte discussioni riguardo alla nuova norma contro i monopoli. Da una parte vi fu chi affermò che i negoziatori del governo giapponese comprendevano perfettamente il contenuto di questa normativa ma, allo stesso tempo, molti dei termini in essa contenuti, come “interesse pubblico” e “concorrenza” non erano molto chiari alla maggior parte della platea che vi si doveva adeguare. hideaki kobazashi, funzionario giapponese della “Japanese Fair Trade Commission” (JFtC), l’autorità garante per la concorrenza, affermò, infatti, che, quando vide la luce la nuova legge a tutela della concorrenza essa era praticamente sconosciuta a politici, funzionari governativi e soprattutto al pubblico. Per contro, secondo altri la politica antitrust aveva il semplice scopo di indebolire il Giappone per asservirlo ancora di più agli Stati Uniti. In quest’ottica, dunque, andava letta la mancata adozione di politiche che favorissero la piena libertà di mercato (47). Il modello industriale degli “zaibatsu”, in questa fase, fu costretto a lasciare il passo alla guida dello sviluppo economico del Paese ai “keiretsu”, grandi gruppi industriali che misero in atto un’attività molto più diversificata. tra i nomi più noti vanno ricordati Hitachi, Matsushita, Nippon Steel, Toyota, Nissan, Toshiba e Sony. Questo passaggio e questa trasformazione dell’assetto istituzionale delle imprese avvennero grazie anche al tentativo di importare nell’economia interna del Giappone elementi caratteristici dei sistemi economici e aziendali occidentali ma, soprattutto, grazie all’intervento dello Stato (48). La legge giapponese contro i monopoli, imposta dalle forze occupanti, rappresentò lo specchio del potere economico, degli interessi e dei valori di quest’ultime. Quando entrò in vigore l’unica preoccupazione per i politici e (47) E. PErUzzo, op. cit. (48) F. FortUNA, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 gli economisti giapponesi era la ripresa economica del Paese. L’esperienza maturata prima della Seconda Guerra mondiale si caratterizzava per un rapido sviluppo grazie ad una guida amministrativa incentrata sulla cooperazione, anche se questa passava per una palese cartellizzazione tra aziende concorrenti. I politici giapponesi ritennero che questa fosse l’unica linea perseguibile per avviarsi alla ricostruzione del Paese, falcidiato dalla guerra. In quest’ottica la legge contro i monopoli venne vista come illogica da molti e subito emendata, appena avuta l’opportunità, anche per ritornare ai valori e alle priorità locali. La conclusione ufficiale dell’occupazione americana, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, determinò un cambiamento fondamentale nei rapporti tra gli stessi Stati Uniti ed il Giappone, consentendo, di fatto, alle élite locali di poter emanare proprie norme regolamentari. Infatti, fu considerato fondamentale riformare l’intera normativa relativa ai cartelli in quanto ritenuta un ostacolo alla ricostruzione del Paese e al raggiungimento di nuovi tassi di crescita dell’economia. Al fine di eliminare l’eccesso di concorrenza, dunque, venne abrogata l’illegalità oggettiva dei cartelli e vennero introdotte tutta una serie di deroghe ed esenzioni, sia implicite che esplicite, concentrate in settori economici a bassa produttività, caratterizzati da piccole e medie imprese. Va notato come la concessione di esenzioni riflettessero il processo di cambiamento in atto. Infatti, si aveva il timore in quella fase che il venir meno delle intese orizzontali avrebbe prodotto aggiustamenti strutturali che, però, rischiavano di minare l’armonia e la stabilità sociale. In questo periodo, infine, il modus operandi della JFtC si indirizzò verso una limitazione della tutela (49). In seguito, verso gli inizi degli anni Settanta, lo stato di adattamento selettivo delle norme antitrust cominciò a subire un’alterazione, a causa delle tantissime forze in gioco. Innanzitutto, l’inflazione prodotta dalla crisi petrolifera aveva causato un rallentamento della crescita economica del Paese e la diffusione dei cartelli venne considerata come una conseguenza e, allo stesso tempo, una causa della recessione determinando, quindi, l’effetto di delegittimare le norme regolamentari locali che promuovevano accordi orizzontali. L’attività della JFtC, quindi, si intensificò raggiungendo il suo apice nel 1973 ma l’azione antitrust da essa attuata non fu molto apprezzata dalle forze economiche in causa. Nel 1974, per intenderci, la JFtC iniziò un’azione penale contro un cartello del settore petrolifero ma la Corte Suprema stabilì, invece, che un accordo restrittivo della concorrenza, autorizzato da direttive o da incarichi governativi, può trovare giustificazione anche in assenza di esenzioni legislative. Questa sentenza non definì l’importantissima questione della legalità della guida amministrativa sui cartelli ma la legislazione, per contro, si allineò molto presto all’ostilità pubblica e diffusa nei riguardi dei cartelli. (49) E. PErUzzo, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà Nel 1977 la legge contro i monopoli fu emendata allo scopo di permettere di imporre una soprattassa amministrativa nei riguardi delle aziende interesse. Contemporaneamente, la JFtC ridusse notevolmente il numero di esenzioni esplicite. Con questa inversione di tendenza del fenomeno la spinta inflazionaria rallentò di molto. L’economia tornò, di fatto, a crescere parallelamente alla diminuzione delle disposizioni antitrust. Con gli inizi degli anni ottanta, però, si è assistito ad una forte erosione delle aspettative nei riguardi del modello regolamentare burocratico e, soprattutto, dell’incoraggiamento del modello competitivo. Questo perché, da un lato, la “bolla economica” scoppiò proprio a causa della guida amministrativa. Dall’altro, a causa del deficit commerciale statunitense nei confronti del Giappone, le pratiche anticoncorrenziale di questi ostacolarono le esportazioni. In questo scenario, agli inizi degli anni Novanta i rapporti tra Giappone e Stati Uniti tornarono ad essere molto tesi, fino a che i due Stati non sottoscrissero un importante accordo commerciale, l’“Iniziativa per gli Impedimenti Strutturali” (IIS), che testimoniò, di fatto, come fosse cambiato il rapporto di forza tra i due Paesi e rappresentando, allo stesso tempo, un momento di svolta nella politica antitrust giapponese. Il Giappone, infatti, al fine di evitare rappresaglie protezionistiche fece concessioni alla pressione estera in alcune aree di interesse, nonostante subisse anche altrettante pressioni in alcune questioni di politica antitrust (50). L’IIS prevedeva l’incremento delle sanzioni ai cartelli oltre che la riduzione del numero di deroghe e di esenzioni agli stessi, intensificando le azioni di tutela in linea con l’attività che la JFtC intendeva attuare fin dagli inizi del secolo. L’accordo con gli Stati Uniti ebbe, dunque, il merito di consolidare la politica concorrenziale giapponese per circa quindici anni. Nell’aprile del 2005, infatti, la legge contro i monopoli fu ancora emendata con l’innalzamento delle sanzioni assieme all’introduzione di un programma di clemenza, avente il fine di incoraggiare la denuncia da parte dei componenti il cartello. Questo programma, però, ha sollevato diversi dubbi dal punto di vista valoriale, in quanto il concetto di trattamento favorevole a vantaggio del denunciato non fu ben visto da tutti, giacché un programma di clemenza, all’interno di una società, come quella Giapponese, che da sempre incoraggia invece l’armoniosa cooperazione, è stato visto dall’opinione pubblica come un controsenso oltre che contrario al concetto di etica economica. La cultura dell’armonizzazione ha dominato la comunità economica in Giappone per tutti gli anni Sessanta e Settanta, periodo che la JFtC aveva chiamato “gli anni bui della legge contro i monopoli”. Durante il periodo di crescita economica, infatti, venne data priorità a considerazioni di politica industriale rispetto alla politica concorrenziale, poiché la comunità economica giapponese attribuì il proprio successo economico di quegli anni alla politica (50) E. PErUzzo, op. cit. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 del Ministero dell’Industria e del Commercio Internazionale giapponese (MItI) e alle relazioni governative, non lasciando alcun margine per l’attuazione di vere politiche antitrust (51). oggi la realtà economica è cambiata radicalmente anche perché il commercio mondiale si muove su larga scala e le economie più importanti sono improntate sul concetto di efficienza in quanto fondamentale per la crescita. Infatti, efficienza e stabilità sociale sono in rapporto inverso, poiché quando cresce la prima, diminuisce la seconda. Quest’incertezza ha, da sempre, costituito uno degli ostacoli maggiori all’accoglimento della politica antitrust sul modello occidentale all’interno del sistema giapponese. Da una parte è stata determinante una politica che ha sempre inseguito l’efficienza del mercato, e dall’altra l’attenzione del sistema giapponese verso la stabilità è ancora oggi una costante evidente in moltissimi aspetti della vita commerciale del Paese, come dimostrato dalla diffusione dell’impegno a vita, dall’instaurazione di relazioni durevoli con acquirenti e fornitori, la frequenza delle partecipazioni incrociate tra colossi aziendali e le caratteristiche del sistema bancario. Per trovare il giusto equilibrio tra questi due aspetti la JFtC sta provando a realizzare un ulteriore step in avanti nella politica antitrust, anche se questo ancora suscita malumore e frizioni nel mondo degli affari. La cultura dell’armonizzazione che per secoli ha dominato l’economia giapponese ha dovuto combattere per superare lo shock culturale scatenato dall’approccio verso una cultura (e una politica) della concorrenza. ogni cultura nuova necessità di un periodo per affermarsi e il Giappone, inteso come comunità economica, è ancora nel vivo di questo mutamento. 6. Diritto antitrust in altre esperienze giuridiche. Nell’ordinamento italiano il diritto antitrust fu introdotto nel 1990, con enorme ritardo rispetto a quanto previsto dal trattato di roma nel 1957 e in confronto ad altri Paesi europei. tale ritardo può trovare spiegazioni sia dal punto di vista politico che istituzionale e culturale, tutti aspetti che hanno favorito l’atteggiamento ostile del nostro paese verso un riassetto del mercato, dell’iniziativa economica privata e della concorrenza. Infatti, dopo il Secondo conflitto mondiale nel nostro Paese si è assistito ad un sempre più aggressivo intervento statale nell’economia nazionale attraverso imprese pubbliche e partecipazioni dirette dello Stato, dando vita a posizioni dominanti e comportamenti monopolistici nei mercati in cui operavano, sotto il controllo e l’influenza costante del potere politico. All’inizio, l’atteggiamento dei partiti ispirati dal socialismo e dal comunismo era naturalmente ostile all’introduzione di un libero mercato. Col tempo, però, questa ostilità si attenuò pian piano, propendendo verso uno sviluppo (51) E. PErUzzo, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà programmato dell’economia basata, però, sull’autoregolamentazione propria del mercato stesso. I cattolici, invece, avevano due visioni contrapposte in merito. Da un lato vi era la corrente guidata da Luigi Sturzo che credeva fortemente nella possibilità di una convivenza tra obiettivi di solidarietà e dinamiche di mercato, dall’altro quella legata al pensiero di Giuseppe Dossetti, convinto che solo un importante intervento pubblico che regolasse e controllasse il mercato poteva permettere l’attuazione di appropriate politiche sociali. L’influenza del pensiero liberale in Italia fu meno influente che in Gran Bretagna o in Germania; quindi, nel nostro Paese ebbe vita facile l’idea che solo l’intervento pubblico nell’economia nazionale potesse attuare miglioramenti importanti del benessere collettivo. Questi orientamenti politici e culturali erano già presenti nella Carta costituzionale. Infatti, nell’art. 41 della Costituzione troviamo una disposizione a tutela della libertà di iniziativa economica dando l’idea che i nostri padri costituenti propendessero verso il liberismo economico, anche se proseguendo attentamente la lettura del su citato articolo esso, in realtà, parla di tutela condizionata all’utilità sociale, prevedendo anche la possibilità di essere programmata e controllata (dallo Stato). In questo contesto, dunque, era quasi impossibile affermare l’esigenza di una normativa a tutela della concorrenza, visto che quest’ultima era vista più come un ostacolo all’iniziativa economica privata che come risultato di una libera interazione delle imprese. A far pendere la bilancia verso l’attuazione di una legislazione che tutelasse sia il buon andamento del mercato che la libera concorrenza tra operatori economici fu, intorno agli anni ottanta, la necessità sempre più impellente di integrare l’economia italiana a quella della Comunità europea, adeguando i cardini istituzionali nostrani alle linee guida della Comunità, limitando ad esempio l’intervento statale nell’economia, uno dei cardini per lo sviluppo del mercato unico europeo. Ecco, dunque, che il Parlamento italiano approvò, il 10 ottobre 1990, la legge n. 287, “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” la quale ha istituito anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, avente tre missioni da perseguire: -l’applicazione di regole nazionali antitrust che vietassero intese restrittive della concorrenza e l’abuso di posizione dominante; -il controllo preventivo delle operazioni di concentrazione, al fine di evitare che queste determinassero una riduzione importante e duratura della concorrenza all’interno dei relativi mercati; -promuovere la concorrenza, segnalando al Parlamento, al Governo e alle Amministrazioni interessate i casi in cui le regole vigenti e/o quelle in via di attuazione potessero comportare distorsioni non giustificate da esigenze di interesse generale all’interno del mercato. Su questa linea politica ha fortemente inciso la crisi politica registrata proprio agli inizi degli anni Novanta con la nota vicenda “tangentopoli” che rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 ha determinato uno strappo, insanabile per anni, nel rapporto di fiducia tra istituzioni e popolo. In questo senso, si è sentita molto la necessità di scindere le dinamiche di mercato dall’ingerenza totale dello Stato, visto agli occhi di tutti incapace di gestire le forti innovazioni che avevano migliorato tutti gli altri Stati europei (52). La politica in tema di diritto antitrust della Comunità europea e dei suoi partner commerciali è fortemente basata sulla cooperazione regionale. In tal senso, va sottolineato l’impegno degli Stati dell’Unione ad esportare il modello di concorrenza del trattato CE nelle norme sulla concorrenza dello SEE e degli Accordi europei oltre che il modello elaborato di cooperazione adottato all’interno dello stesso SEE, il quale ha comportato libero scambio di informazioni tra l’organo di Sorveglianza dell’EFtA e la Commissione Europea nell’ambito di controversie che interessano entrambi questi organismi. In virtù di ciò, ognuno di essi può esprimere opinioni su procedimenti condotti dall’altro. A questo scopo un Protocollo allegato all’Accordo ha previsto deroghe ben specifiche agli abituali criteri della riservatezza dell’informazione nei casi antitrust. Con l’ingresso nell’Unione Europea di Austria, Svezia e Finlandia si è notevolmente ristretta la portata, dal punto di vista pratico, di queste disposizioni anche se esse non sono state private del loro valore come modello per futuri accordi di cooperazione. riguardo ai Paesi dell’Europa centro-orientale la cooperazione è sancita ai sensi delle norme attuative degli Accordi europei. La Commissione assieme alle autorità antitrust nazionali dei singoli paesi attuano programmi di azioni congiunte che hanno il fine di creare sistemi di scambio di informazioni reciproche. Le autorità competenti in materia di antitrust si impegnano a comunicare tra loro in maniera vicendevole i casi di cui si stanno occupando e che interessano anche l’altra autorità e ognuna di esse si impegna, allo stesso tempo, a tener conto delle osservazioni dell’altra e alla possibilità di incontrarsi per discutere e trovare eventualmente una soluzione conveniente ad entrambi. A questo sistema di reciproco scambio di informazioni sono previste anche eccezioni, naturalmente. Soprattutto nei casi in cui la divulgazione sia vietata per legge o sia incompatibile con i rispettivi interessi delle autorità in causa (53). In russia verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso l’abolizione dei monopoli di stato e la conseguente creazione di un mercato concorrenziale sono state accompagnate da una forte crisi economica. La dinamica dei prezzi, l’inflazione, i mancati pagamenti ed il crollo produttivo hanno costituito lo scenario in base al quale la russia ha perseguito negli ultimi anni una politica antitrust. Questo, però, ha comportato limitazioni importanti, in quanto è stato (52) A. CAtrICALà, A. LALLI, L’antitrust in Italia. Il nuovo ordinamento, Giuffrè Editore, 2010. (53) C.D. EhLErMANN, Il dibattito sulla sussidiarietà nel diritto della concorrenza, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà impossibile garantire una sana concorrenza nell’immediato all’interno di un’economia zoppicante. Il Comitato antitrust russo si è venuto a trovare in una situazione alquanto complessa innanzitutto perché i ministeri e i dipartimenti hanno accolto con sospetto una struttura dagli ampi poteri nei riguardi di monopoli industriali e dipartimentali. Gli ambienti imprenditoriali, poi, hanno assunto un atteggiamento a dir poco indifferente verso la legislazione antitrust, preoccupati soltanto dell’accumulo di capitali senza tener in alcun conto l’attuazione di metodi “civili” da seguire operando sul mercato, sia quello dei beni che quello finanziario. Con lo sviluppo del federalismo le repubbliche, le regioni e i territori della Federazione russa nel passato sono stati sottoposti a riforme economiche ottenendo un’indipendenza economica di rilievo. In questo contesto i casi di restrizione della concorrenza da parte del potere pubblico sono raddoppiati. Il sistema delle licenze globali concesse alle imprese dalle autorità statali ha innalzato ancor più le già elevate barriere amministrative che ostacolavano le imprese private. Nonostante l’adozione di una normativa sulla concessione delle licenze per attività di determinato tipo, avente il fine di semplificare il procedimento per il rilascio delle stesse licenze, in molte regioni tuttora è in corso il ripristino del sistema delle licenze globali e di regolamentazione delle imprese private. La mancanza di una base legislativa e di un sistema inerente agli atti legittimi federali hanno causato nelle province russe il dilagare di attività spontanee per la concessione di licenze dal carattere prettamente burocratico e fiscale. Con la conclusione della fase della privatizzazione e la creazione di un mercato azionario le operazioni su titoli azionari si sono diffuse talmente tanto da rendere necessario l’ampliamento delle funzioni del Comitato antitrust, precisando giuridicamente, inoltre, le norme di controllo al fine di evitare la monopolizzazione dell’economia. Il tutto, va sottolineato, tenendo conto del- l’esperienza globale nel campo del controllo delle concentrazioni, obiettivo prioritario della politica antitrust russa dal 1995 in avanti (54). La legge cardine sulla concorrenza in russia è la n. 135-Fz del 26 luglio 2006. Va detto, però, che il concetto di concorrenza sleale in questa normativa è molto più ristretto rispetto alla nozione prevalente negli ordinamenti occidentali. ogni atto di concorrenza sleale, come definito dalla legge russa, costituisce un illecito amministrativo soggetto all’accertamento dell’Autorità Federale Antimonopolio. Il procedimento amministrativo è il mezzo più utilizzato e più efficace per la tutela della concorrenza sleale ma determina, come conseguenza, che dovrà attendersi prima l’accertamento dell’illecito da parte dell’autorità antitrust per agire, poi, in giudizio al fine di ottenere il risarcimento dei danni determinati da un atto di concorrenza sleale (55). (54) E.M. FoX, Accesso ai mercati, antitrust e sistema economico mondiale: in cammino verso misure antitrust connesse agli scambi commerciali. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 Nel Continente Americano, invece, i problemi relativi al diritto della concorrenza sono affrontati dall’Accordo per il libero scambio del Nord America (il NAFtA), il quale contiene numerose norme che esortano ogni paese membro a cooperare con gli altri su questioni attinenti all’applicazione delle leggi sulla concorrenza oltre ad obbligare sia le imprese statali che quelle private, in posizione di monopolio, a non servirsi del potere dato dalla loro posizione nel mercato per attuare pratiche concorrenziali scorrette in mercati non monopolistici fuori dal proprio paese. Il NAFtA ha istituito anche un comitato allo scopo di esaminare la connessione tra politiche commerciali e politiche concorrenziali, con l’obiettivo di gettare basi per un futuro coordinamento di queste politiche tra Stati Uniti, Canada e Messico (56). oltre a questi impegni a livello continentale, sono state adottate diverse iniziative bilaterali. Ad esempio, Stati Uniti e Giappone stanno esaminando insieme questioni legate alla concorrenza, in riferimento in particolare al sistema giapponese del “keiretsu” nell’ambito dell’Iniziativa relativa agli impedimenti strutturali. Con tokyo anche la Commissione Europea ha avviato una politica di cooperazione in tema di diritto antitrust, organizzando incontri bilaterali informali nei quali esaminare argomenti di interesse comune e scambiarsi opinioni. Modalità di cooperazione dello stesso tipo la Commissione ha avviato anche con Australia, Nuova zelanda e Canada. Con quest’ultimo Stato, in particolare con il “Canadian Bureau of Competition Policy”, all’interno del “Mutual Legal Assistance Treaty” (MLAt) stipulato tra Stati Uniti e Canada inizialmente sulla materia penale, il governo di washington ha ottenuto risultati importantissimi su due casi di cartelli internazionali per la determinazione dei prezzi, che coinvolgevano imprese sia statunitensi che canadesi e creavano ripercussioni negative sui consumatori di entrambi i Paesi. Stati Uniti e Canada non hanno attuato una semplice cooperazione ma un vero e proprio coordinamento delle attività applicative tra i due rispettivi organismi preposti alla concorrenza. oltre al MLAt i governi dei due paesi nordamericani hanno stipulato anche un accordo che riguardava l’applicazione delle rispettive leggi sulle pratiche commerciali ingannevoli (57). In Cina, la legge antimonopolio è stata promulgata il 30 agosto 2007 ma l’ultima revisione è entrata in vigore il 1° agosto 2022. Questa legge, contenente ben 70 articoli, punta a prevenire e, soprattutto a reprime comportamenti monopolistici tutelando la concorrenza leale del mercato. Essa si applica anche a comportamenti fuori dalla Cina che mirano a eliminare o, comunque, a li (55) C. MArtINEttI, M. GIorCELLI, Russia: la nuova Corte Specializzata delle Proprietà Industriale, 6 febbraio 2013 in www.mglobale.promositalia.camcom.it (56) C.D. EhLErMANN, op. cit. (57) C.D. EhLErMANN, op. cit. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà mitare la concorrenza nel mercato interno. Ai sensi dell’art. 56 di questa legge, gli organizzatori o i facilitatori di accordi di monopolio sono sottoposti alle disposizioni sulle sanzioni contro gli operatori e, per questo, si assumono le responsabilità legali del caso. Nel caso in cui l’impresa tenga un comportamento monopolistico, determinando un danno verso altri, il danneggiato può costituirsi parte civile. Se, per contro, un’impresa tiene un comportamento monopolistico causando un danno all’interesse pubblico, la procura del popolo, a livello comunale o superiore, può intentare causa civile di pubblico interesse davanti al tribunale del Popolo (58). La legge su citata ha istituito anche la Commissione antimonopolio avente la funzione di organizzazione, coordinamento e guida del lavoro contro i monopoli, mentre le autorità antitrust che hanno l’incarico di far applicare la legge comprendono il MoFCoM, la NDrC e la SAIC. La compresenza di ben tre autorità antitrust ha generato non poche problematiche di sovrapposizione nello scegliere, in particolare, quali fra queste dovesse farsi carico di un caso. La legge, inoltre, ha stabilito anche le modalità di indagine riguardo ad un’azienda sospettata di aver attuato comportamenti atti a danneggiare la concorrenza nei mercati e le conseguenze che scaturiscono dall’accertamento di tale violazione. Lo State Administration for Market Regulation (SAMr) è responsabile, a tutti i livelli, di indagare ed imporre sanzioni agli operatori resisi rei di atti di concorrenza sleale. Coloro che hanno subito violazione dei propri diritti possono anche intentare una causa contro tali operatori. Il governo cinese può recarsi presso l’ufficio di questi ultimi per effettuare indagini, informarsi sugli interessati, controllare i documenti, sequestrare proprietà e/o conti bancari e se l’atto che ha violato il diritto altrui costituisce reato può anche essere perseguito penalmente. L’applicazione della legge antimonopolio cinese è di competenza del- l’Amministrazione statale per la regolamentazione del mercato. Il “Quotidiano del Popolo”, di recente, ha scritto come, tra il 2008 ed il 2018, questa legge abbia generato oltre undici miliardi di rMB di sanzione. Il 24 giugno 2022, come accennato, la Cina ha ulteriormente revisionato la propria normativa antitrust. Questa modifica, oltre ad essere il primo emendamento da quando esiste la legge, ha fornito un importante chiarimento normativo sulle operazioni, soprattutto, dei giganti della tecnologia sul loro esponenziale aumento di potere sul mercato del Paese. Infatti, siccome l’economia digitale rappresenta un importante motore nello sviluppo cinese, la nuova legge antimonopolio ha prestato attenzione alle politiche preventive delle pratiche anticoncorrenziali da parte dei colossi digitali. La (58) S. hUANG, Legge anti-monopolio della Cina (2022), 16 novembre 2022 in www.it.chinajusticeobserver. com rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 vecchia legge, in vigore per circa un decennio, non era stata pensata per fronteggiare l’evoluzione dei giganti di questo settore e, per questo motivo, presentava importanti lacune. Allo scopo di tutelare la concorrenza e gli stessi consumatori su dati, algoritmi e tecnologie all’interno di piattaforme digitali, c’è stato bisogno di creare regole distinte e ben chiare per prevenire comportamenti scorretti da parte delle società dominanti nel settore. Negli ultimi anni, infatti, l’autorità antitrust cinese ha svolto numerosissime indagini sulle operazioni delle grandi piattaforme nazionali. Sono stati sanzionate “Alibaba”, azienda multinazionale cinese specializzata in e-commerce e servizi internet, per aver attuato accordi di esclusiva con i commercianti, tencent (fornitore di servizi per l’intrattenimento, mass media, telefonia e per aver sviluppato “Wechat”, app di messaggistica e social network) per non aver segnalato alcune sue transazioni, e “Meituan” (piattaforma cinese per acquisto di prodotti di consumo e di vendita al dettaglio) per aver sfruttato dati e algoritmi dei commercianti. Il nuovo emendamento non revisiona, però, completamente la normativa in materia antitrust ma si va ad aggiungere agli standard già esistenti per la determinazione del dominio o dell’abuso di posizione dominante sul mercato, recando disposizioni mirate alle azioni intraprese dalle aziende digitali. In particolare, la nuova legge prevede dei principi generali che vietano alle società di utilizzare dati, algoritmi, tecnologia e vantaggi di capitale e regola queste piattaforme nell’intraprendere comportamenti anticoncorrenziali, indipendentemente se tali imprese possano essere definite o meno dominanti nel mercato. A tal proposito, in realtà, la legge specifica come una società può essere definita “dominante” quando ha abusato della sua posizione sul mercato allo scopo di danneggiare la concorrenza utilizzando dati, tecnologia e algoritmi. Questo recente emendamento della legge antitrust cinese ha determinato anche che il controllo sulle attività delle grandi piattaforme digitali sia stato implementato stabilmente, vietando sempre l’uso della tecnologia per attuare comportamenti monopolistici. Questa modifica ha gettato le basi per un sano regime concorrenziale, i cui principi dovranno essere applicati, però, in maniera equa tra le diverse imprese, sia interne che estere, sui controlli delle fusioni societarie e sulle problematiche di condotta aziendale, integrandosi con altre regolamentazioni emanate dall’Autorità competente in materia, il SAMr (59). Ai sensi della legge cinese le autorità di regolamentazione antimonopolio hanno il potere di indagare e valutare lo stato generale della concorrenza all’interno del mercato e rilasciare rapporti di valutazione, e le agenzie ammi (59) C. D’ANDrEA, La nuova era dell’antitrust in Cina, 22 agosto 2022 in www.panorama.it/economia. LEGISLAzIoNE ED AttUALItà nistrative hanno il compito di condurre una revisione della concorrenza leale al fine di valutare l’impatto sulla concorrenza e prevenire qualsiasi tipo di preclusione o di restrizione della concorrenza nello sviluppo delle loro politiche. Gi uffici preposti a tale controllo, le riunioni congiunte del governo a tutti i livelli e le autorità decisionali possono anche avvalersi di istituzioni di terze parti per valutare l’attuazione del sistema di controllo della concorrenza leale, le politiche e le misure pertinenti di controllo della concorrenza leale nelle varie regioni o dipartimenti, preparando anche rapporti valutativi per agevolare i vari dipartimenti governativi nelle loro decisioni finali (60). Il 10 marzo dello scorso anno il SAMr ha emesso “Disposizioni sul divieto di atti di eliminazione o restrizione della concorrenza mediante abuso di poter amministrativo” le quali, in particolare, hanno sancito come le autorità amministrative e le organizzazioni autorizzate alla gestione della cosa pubblica non possano, direttamente o velatamente, impedire a chiunque di commerciare, acquistare o utilizzare beni o servizi forniti dai loro operatori designati attuando, di fatto, un abuso del proprio potere amministrativo. Nel caso le forze antimonopolio ritengano che vi siano atti di eliminazione o di restrizione della concorrenza a seguito di abuso di potere amministrativo, esse possono segnalare i casi in questione all’autorità competente di livello superiore. Se nel corso delle indagini l’entità sotto esame ha proattivamente adottato misure che pongano fine agli atti pertinenti ad eliminare la relativa restrizione della concorrenza, l’autorità può chiudere le indagini (61). In questa fase di liberalizzazione economica anche l’India ha rimosso i controlli economici e ha aperto la sua economia. Il governo indiano, riconoscendo l’era della liberalizzazione, della privatizzazione e della globalizzazione, ha provato ad aumentare la produttività della propria economia affrontando la concorrenza, sia nazionale che internazionale. Dal 2008 sono stati ben centoundici i Paesi che hanno promulgato leggi sulla concorrenza. Nell’ambito dell’istituzione della Comunità economica dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) gli Stati membri si sono impegnati a promulgare leggi e politiche sulla concorrenza (62). In Australia nel 2017 l’Australian Taxation Office, allo scopo di aiutare le piccole imprese nell’adempimento degli obblighi fiscali, ha attuato una campagna per proteggere le imprese oneste dalla concorrenza sleale, partendo da quelle che evadono innanzitutto il fisco. Nel settembre del 2023 l’Australia ha approvato anche una legge a sostegno della concorrenza nella liquidazione (60) Y. YIN, La Cina stabilisce la valutazione di terze parti nella revisione della concorrenza leale, 25 luglio 2023 in www.it.chinajusticeobserver.com. (61) Y. YIN, La Cina regola i monopoli causati dall’abuso del potere amministrativo, 31 maggio 2023 in www.it.chinajusticeobserver.com. (62) F. SABrY, Diritto della concorrenza. Padroneggiare il diritto della concorrenza, orientarsi nei mercati, responsabilizzare i consumatori, Un Miliardo di Ben Informato Editore, 2024. rASSEGNA AVVoCAtUrA DELLo StAto -N. 3/2023 compensazione post-negoziazione per i mercati finanziari allo scopo di sfidare il monopolio detenuto da ASX ltd., piattaforma di trading, per aprire l’ingresso nel mercato di altri operatori. Questa riforma ha consentito alla Reserve Bank of Australia e all’Australian Securities and Investiments Commission ulteriori e maggiori poteri per definire gli standard operativi allo scopo di intervenire anche sulle controversie riguardo ai prezzi (63). Le esigenze particolari dei Paesi in via di sviluppo hanno, invece, evidenziato come per questi la convergenza con i paesi sviluppati e le loro politiche sia una questione tutt’altro che chiusa. Molti dubitano, in questo senso, che la libera concorrenza sia la migliore soluzione per promuovere la crescita economica in questi Paesi e portarli ad un livello più alto di sviluppo e, per questo, credono che la non regolamentazione sia preferibile ad una specifica regolamentazione in quanto vedono la retorica sul libero mercato e gli obiettivi della ricchezza aggregata e del benessere sociale inappropriati a questo contesto. Leggi antitrust sono viste come strumento di sfruttamento da parte dei paesi sviluppati, per via della tendenza delle politiche di libero mercato a favorire chi è già in una posizione predominante. L’esito di uno dei meeting del “Forum Globale per la Concorrenza” dell’ “Organization for Economic Cooperation and Development” (oECD) ha risaltato ancor più questa riluttanza, giacché l’assemblea, composta da funzionari provenienti da più di trenta paesi in via di sviluppo, nonostante l’unanimità nell’individuare come obiettivo primario della politica della concorrenza il benessere ultimo dei consumatori, ha mostrato anche pareri di Paesi, come il Sud Africa, che hanno esplicitamente incorporato nelle proprie normative obiettivi non concorrenziali mentre altri Stati, più velatamente, li hanno perseguiti in fase di tutela. Per creare un mercato solido c’è bisogno di politiche governative che non siano carenti e di funzionari non corrotti, tutti elementi determinanti nell’introduzione di una politica antitrust agli stadi iniziali, in quanto possono essere ostacolo addirittura maggiore delle intese restrittive della concorrenza. Infatti, tutti i paesi industrializzati hanno adottato norme a tutela della concorrenza solo quando erano già in uno stadio avanzato del loro sviluppo economico, mentre per decenni (se non secoli) garantire efficienza e concorrenza non era stato per loro una priorità. Secondo alcune teorie economiche, i Paesi in via di sviluppo avrebbero più da imparare non dai governi di oggi bensì dai Paesi del secolo dell’industrializzazione, in quanto in quell’epoca i cartelli erano legali, o dalle esperienze degli anni del capitalismo (dal 1950 fino ai primi anni Settanta) quando si perseguivano obiettivi non economici. Questa tesi trova sostegno in tantis (63) L’Australia approva una legge per incoraggiare la concorrenza per l’operatore del mercato principale ASX, 6 settembre 2023 in www.it.marketscreener.com LEGISLAzIoNE ED AttUALItà simi esempi di Paesi che hanno visto recentemente una forte crescita economica interna senza dotarsi, per questo scopo, di una normativa antitrust. Si pensi al miracolo asiatico, dove le autorità garanti della concorrenza in Corea, taiwan, thailandia e Indonesia ostacolano una sana competizione legalizzando cartelli o fissando il prezzo con interventi governativi diretti (64). (64) E. PErUzzo, Paesi in via di sviluppo e concorrenza. Proposte per un accordo multilaterale, 5 maggio 2010 in www.filodiritto.com. ConTrIbuTIdIdoTTrIna I beni pubblici. Tipologia e disciplina. Cenni ai beni di interesse pubblico, con particolare riguardo ai beni collettivi (demanio civico ed immobili con uso civico) Michele Gerardo* Sommario: 1. Nozione soggettiva ed oggettiva di beni pubblici. Problematica della riconducibilità della titolarità dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili al diritto di proprietà in senso civilistico -2. Beni del patrimonio disponibile. in specie i beni vacanti ex art. 827 c.c. anche in conseguenza di rinuncia del titolare. Eventuali peculiarità nella disciplina: requisiti per l’acquisto e per l’alienazione dei beni; concorsualità nella concessione del godimento a terzi -3. Beni oggettivamente pubblici (demaniali e patrimoniali indisponibili) -4. Demanio necessario: demanio marittimo, idrico e militare -5. Demanio accidentale: demanio stradale, autostradale, ferroviario, aeronautico, acquedottistico, culturale, cimiteri e mercati. -6. Diritti demaniali su beni altrui: diritti reali demaniali su beni altrui (diritti di superficie; servitù prediali pubbliche) e diritti di uso pubblico (c.d. servitù di uso pubblico, tra cui quelle sulle strade vicinali). Distinzione dalle limitazioni di diritto pubblico alla proprietà -7. Beni patrimoniali indisponibili: c.d. “demanio forestale”; miniere, cave e torbiere; cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo; beni costituenti la dotazione della Presidenza della repubblica; caserme, armamenti, aeroplani e navi da guerra; edifici destinati a sede di uffici di tutti gli enti pubblici, territoriali e non territoriali, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio; fauna selvatica; aree, espropriate dal Comune, comprese nel piano di zona per l’edilizia economica e popolare; aree oggetto di retrocessione acquisite dal Comune mediante l’esercizio del diritto di prelazione -8. regime giuridico dei beni oggettivamente pubblici: inalienabilità dei beni demaniali e rispetto della destinazione dei beni patrimoniali indisponibili -9. Peculiarità della disciplina urbanistica ed edilizia dei beni oggettivamente pubblici -10. regime giuridico dei beni oggettivamente pubblici: disciplina tributaria -11. Beni oggettivamente pubblici e limitazioni a terzi nei (*) Avvocato dello Stato. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 rapporti di vicinato -12. Gestione dei beni pubblici -13. Utilizzazione dei beni oggettivamente pubblici. Uso diretto. Uso indiretto (generale o particolare) -14. Tutela giurisdizionale ed amministrativa dei beni oggettivamente pubblici -15. Vicende della qualità di bene pubblico: acquisto, modificazione ed estinzione della qualità di bene pubblico -16. Valorizzazione e dismissione dei beni appartenenti agli enti pubblici -17. aspetti generali dei beni di interesse pubblico -18. Beni collettivi. Demanio civico ed immobili con uso civico. regime giuridico. 1. Nozione soggettiva ed oggettiva di beni pubblici. Problematica della riconducibilità della titolarità dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili al diritto di proprietà in senso civilistico. Sono beni pubblici, da un punto di vista soggettivo, i beni economici rectius: i diritti sui beni -nella titolarità di un ente pubblico (proprietà pubblica, secondo l’art. 42, comma 1, Cost.). Vengono in rilievo beni demaniali, patrimoniali indisponibili e patrimoniali disponibili. Sono beni pubblici, da un punto di vista oggettivo, i beni economici rectius: i diritti sui beni -sottoposti ad un regime speciale rispetto alla disciplina di diritto comune. Vengono in rilievo beni demaniali e patrimoniali indisponibili. Trattasi di beni, nella titolarità dell’ente, strumentali rispetto all’esercizio dei compiti affidatigli, ossia destinati ad una funzione o servizio pubblico (1). È discusso se la titolarità dei beni pubblici in senso oggettivo sia riconducibile al diritto di proprietà in senso civilistico ex art. 832 c.c. (secondo cui la proprietà consiste nel diritto di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo) oppure costituisca una situazione soggettiva sui generis. Ad una tesi che accoglie la prima alternativa se ne contrappone altra secondo cui un proprietario, un dominus dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili non v’è, giacché si tratta di beni che appartengono allo Stato (o altro ente pubblico) che, lungi dal vantare la proprietà dei beni, li amministra per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali (2). Per quest’ultima tesi, il tratto caratterizzante della nozione di proprietà pubblica sta non tanto nel contenuto del diritto dominicale, quanto, nell’elemento finalistico, ossia nella destinazione del bene al soddisfacimento di interessi pubblici. All’uopo si rileva che, con riguardo ai beni pubblici, le norme del codice civile non impiegano il vocabolo “proprietà”, cui corrisponde la nozione accolta dal citato art. 832 c.c., bensì il verbo “appartenere” (artt. 822 e 824 c.c.), ovvero espressioni ancor più generiche -“fanno parte” (art. 826, comma 2, c.c.) la cui valenza tecnica di gran lunga più sfumata rimarca la distinzione tra il (1) Per un quadro generale: A.M. SAndulli, voce Beni pubblici, in Enc. Dir., vol. V, Giuffré, 1959, pp. 277-300; V. Cerulli irelli, voce Beni pubblici, in Digesto Disc. Pubbl., vol. ii, uTeT, 1987, pp. 273-303; n. CenTofAnTi, i beni pubblici. Tutela amministrativa e giurisdizionale, Giuffré, 2007. (2) in tal senso Cass., 22 marzo 2018, n. 7152. ConTribuTi di doTTrinA diritto di proprietà nell’accezione accolta dalla citata norma e la proprietà pubblica (3). 2. Beni del patrimonio disponibile. in specie i beni vacanti ex art. 827 c.c. anche in conseguenza di rinuncia del titolare. Eventuali peculiarità nella disciplina: requisiti per l’acquisto e per l’alienazione dei beni; concorsualità nella concessione del godimento a terzi. i beni del patrimonio disponibile appartenenti ad un ente pubblico sono sottoposti alla disciplina di diritto comune (4); sicché sono prescrittibili ed usucapibili da parte dei terzi secondo le norme del codice civile (tale regola era espressamente sancita dall’art. 2114 c.c. del 1865: “Lo Stato pei suoi beni patrimoniali e tutti i corpi morali sono soggetti alla prescrizione e possono opporla ai privati”). Vengono in rilievo: terreni, costruzioni, altri immobili descritti nell’art. 812 c.c. (5) e beni mobili diversi dal demanio e dal patrimonio indisponibile, ossia beni non destinati ad una funzione o ad un servizio pubblico. il danaro è il classico bene disponibile, a meno che la legge o un provvedimento amministrativo non lo destini specificamente al soddisfacimento di un interesse pubblico. in virtù dell’art. 827 c.c. “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato” (6). l’acquisto è a titolo originario. la fattispecie è diversa dall’acquisto dell’immobile, compreso nell’eredità, ex art. 586 c.c. secondo cui “in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta (3) Ancora in questo senso Cass., n. 7152/2018 cit. che così argomenta: “Tanto premesso, e certo senza che occorra cimentarsi con la nozione di bene pubblico nel suo complesso (tema su cui può richiamarsi Cass., Sez. Un., 14 febbraio 2011, n. 3665, la quale ha declinato in una prospettiva di massima estensione la nozione ‘funzionale’di bene pubblico anche qui rilevante), è sufficiente ora osservare che, rimanendo alle categorie regolate dal codice civile, il regime dei beni demaniali e di quelli patrimoniali indisponibili, laddove ne è sancita l’inusucapibilità, l’inalienabilità e l’inespropriabilità, pone l’accento sul carattere pubblico dei beni non tanto in dipendenza della loro titolarità, quanto per la natura dei poteri ad essi attinenti per i fini della realizzazione del pubblico interesse: sicchè si discorre in proposito in dottrina, e come si è accennato in giurisprudenza, di proprietà-funzione, riguardo alla quale, lungi dal prevalere il profilo dell’assolutezza del diritto, emerge semmai la doverosità della gestione mirata al soddisfacimento dell’interesse menzionato”. (4) Tanto è riconosciuto dall’art. 828, comma 1, c.c. per il quale “i beni che costituiscono il patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto, alle regole del presente codice”. regola analoga è disposta dall’art. 830, comma 1, c.c. con riguardo agli enti pubblici non territoriali. (5) “Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Sono reputati immobili i mulini, i bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo e sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. Sono mobili tutti gli altri beni”. (6) in alcune regioni a statuto speciale è la regione l’ente titolare dell’immobile vacante. Tanto è previsto per il Trentino-Alto Adige (art. 58, ultimo comma, dello Statuto speciale), per la Sicilia (art. 34 dello statuto della regione siciliana), per la Sardegna (art. 14, ultimo comma, dello Statuto speciale per la Sardegna). rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 allo Stato”. in quest’ultima evenienza l’attribuzione allo Stato avviene a titolo derivativo, iure successionis (7). la vacanza nella titolarità può essere anche la conseguenza della rinuncia al diritto di proprietà -fattispecie ammissibile argomentando da una serie di indici normativi tratti, in particolare, dagli artt. 827, 1118, comma 2 (a contrario), 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c. -salva la illiceità della causa concreta della rinuncia (8). la rinuncia de qua è un negozio giuridico unilaterale, a contenuto patrimoniale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, produce in via diretta e immediata, come effetto negoziale correlato alla dichiarazione, l’effetto dismissivo, abdicativo di una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto. Gli ulteriori effetti che possono anche incidere sui terzi, sono solo conseguenze riflesse, indirette e mediate del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto; la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto in capo al terzo e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge, senza che per il suo perfezionamento sia richiesto, pertanto, l’intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato. dall’atto di rinuncia, nel caso di specie, consegue, come effetto automatico ex lege in virtù del disposto di cui all’art. 827 c.c., l’acquisto a titolo originario dell’immobile in capo allo Stato, senza che quest’ultimo possa rifiutare l’acquisto, perché il nostro ordinamento non tollera l’esistenza di beni (7) Conf. Cass., 11 marzo 1995, n. 2862 secondo cui il disposto dell’art. 586 c.c., ove è previsto l’acquisto dell’eredità da parte dello Stato in caso di assenza di successibili, configura un’ipotesi di acquisto “iure successionis” a titolo derivativo; con la precisazione che detta norma non è una specificazione del fenomeno di acquisto a titolo originario contemplato all’art. 827 c.c. in materia di beni immobili vacanti ma configura una fattispecie di natura diversa. (8) Ex plurimis: T.a.r. lombardia, Milano, 18 dicembre 2020, n. 2553, il quale rileva che -nella situazione concreta -le rinunce potrebbero essere viziate da nullità: “Nella fattispecie, la circostanza che gli atti di rinuncia, come evidenziato nella ricostruzione in fatto, siano stati posti in essere dai proprietari dell’edificio pericolante soltanto dopo che il Comune aveva notificato loro un’ordinanza contingibile e urgente, con la quale si ordinava la messa in sicurezza dello stabile, costituisce un elemento grave, preciso e concordante ex se sufficiente a desumere che i negozi abdicativi in questione hanno una causa concreta illecita, consistente nell’elusione degli obblighi di ripristino dell’immobile in condizioni di sicurezza, già gravanti sui proprietari, con il contestuale acquisto (equivalente ad un sostanziale trasferimento) degli stessi in capo allo Stato -e dunque in capo alla collettività intera -in virtù dell’effetto acquisitivo automatico di cui all’art. 827 c.c., che necessariamente consegue alle rinunce. i negozi di rinuncia abdicativa posti in essere dai proprietari dell’immobile devono quindi ritenersi nulli sotto il profilo causale, perché si pongono in contrasto con le esigenze solidaristiche connesse alla funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42 Cost. e con l’obbligo del rispetto della sicurezza dei consociati, costituenti altrettanti limiti alle prerogative dominicali ai sensi dell’art. 832 c.c.”. ConTribuTi di doTTrinA immobili vacanti (come del resto confermato, in materia successoria, dall’art. 586 c.c., a tenore del quale “in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato. L’acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia”). Va rilevato che la questione della rinuncia al diritto di proprietà è dibattuto in dottrina e giurisprudenza. la qualità di ente pubblico può condizionare la dinamica delle vicende del bene, rispetto al bene appartenente ad un privato. Si citano i più rilevanti. - L’acquisto può essere sottoposto a particolari requisiti. Ad es., nelle operazioni di acquisto di immobili -da parte delle amm.ni inserite nel conto economico consolidato della P.A. come individuate dal- l’iSTAT ai sensi del comma 3 dell’art. 1 l. 31 dicembre 2009 n. 196, con l’esclusione degli enti previdenziali -giusta l’art. 12, commi 1 bis e1 ter d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. l. 15 luglio 2011, n. 111, è necessaria: a) la dichiarazione di indispensabilità ed indilazionabilità attestata dal responsabile del procedimento; b) ed altresì la dichiarazione della congruità del prezzo attestata dall’Agenzia del demanio. inoltre le operazioni di acquisto -ed altresì di vendita -di immobili, effettuate sia in forma diretta sia indiretta, da parte delle amm.ni inserite nel conto economico consolidato della P.A. come individuate dall’iSTAT ai sensi del comma 3 dell’art. 1 l. n. 196/2009, con l’esclusione degli enti territoriali, degli enti previdenziali e degli enti del servizio sanitario nazionale, nonché del Ministero degli affari esteri con riferimento ai beni immobili ubicati all’estero, sono subordinate alla verifica del rispetto dei saldi strutturali di finanza pubblica da attuarsi con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze (art. 12, comma 1, d.l. n. 98/2011 cit.). -Procedimentalizzazione della concessione del godimento e disciplina tipica del rapporto. la concessione del godimento del bene a terzi non è libera, ma va fatta su base concorsuale attivata d’ufficio o a istanza degli interessati. Gli strumenti utilizzabili sono quelli di diritto comune, sia contratti ad efficacia reale (es.: contratto costitutivo del diritto usufrutto o d’uso), sia contratti ad efficacia obbligatoria (es.: contratto di locazione o di affitto o di comodato). nel caso in cui vi sia la concessione del godimento a titolo gratuito, la qualità di ente pubblico del concedente comporta che la detta concessione deve essere funzionale alla soddisfazione dell’interesse pubblico in attribuzione all’ente. Tanto è confermato dal Codice dei contratti (d.l.vo 31 marzo 2023) che all’art. 8, comma 1, dispone “Nel perseguire le proprie finalità istituzionali le pubbliche amministrazioni sono dotate di autonomia contrattuale e possono concludere qualsiasi contratto, anche gratuito, salvi i divieti espressamente previsti dal codice e da altre disposizioni di legge”. Ad es. per incen rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 tivare il settore florovivaistico, tenuto conto dell’indotto in termini di nuove assunzioni ed aumenti di produzione, la regione concede gratuitamente una area sulla quale allocare una area mercatale degli operatori del settore (contratto di comodato con onere; usufrutto o uso gratuito con onere). Per i beni immobili appartenenti allo Stato la disciplina concernente i criteri e le modalità di locazione dei beni immobili -oltrecché della concessione in uso ove vengano in rilievo beni pubblici -è contenuta nel regolamento di cui al d.P.r. 13 settembre 2005, n. 296. il detto regolamento disciplina le concessioni e locazioni a canone ordinario (procedimento; stipulazione degli atti di concessione e del contratto di locazione; condizioni delle concessioni e delle locazioni; decadenza e revoca della concessione; risoluzione e recesso della locazione; oneri dei lavori di manutenzione; effetti della cessazione della concessione e della locazione con la statuizione che le addizioni o le migliorie apportate all’immobile sono di diritto acquisite gratuitamente alla proprietà dello Stato), le concessioni e locazioni a titolo gratuito e a canone agevolato ed altresì le concessioni e locazioni di beni immobili adibiti a luoghi di culto, con relative pertinenze, di beni immobili costituenti abbazie, certose e monasteri, nonché di beni immobili a favore di istituzioni di assistenza e beneficenza ed enti religiosi. - L’alienazione di immobili deve essere autorizzata con legge. Tanto è affermato dall’art. 21, comma 1, r.d. n. 2440/1923 (9) con riguardo allo Stato, ma il principio è applicabile, a fortiori, per tutti gli enti pubblici. Si pone il problema della specificità di tale autorizzazione per legge (se deve individuare l’immobile, le categorie, i presupposti). nelle varie leggi in materia -in special modo le periodiche leggi di bilancio -l’autorizzazione è prevista in modo generale, per categorie al ricorrere di determinati presupposti (ad es.: immobili non necessari come uffici dell’ente). 3. Beni oggettivamente pubblici (demaniali e patrimoniali indisponibili). i beni demaniali e patrimoniali indisponibili costituiscono i beni oggettivamente pubblici. essi sono sottoposti ad un regime speciale, rispetto ai beni di diritto comune. Tale regime è giustificato dalla circostanza che i detti beni sono -a seconda dei casi -necessari, strumentali o utili allo svolgimento delle funzioni pubbliche o del servizio pubblico dei quali l’ente è attributario. Tenendo conto della globalità delle fonti, a partire da quelle costituzionali (artt. 2; 9, commi 2 e 3; 42, comma 1, Cost.), i beni pubblici dovrebbero essere funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività, alla tutela dei diritti inviolabili della personalità umana. Tanto (9) “L’alienazione degli immobili dello Stato, quando non sia regolata, per determinate categorie di beni, da leggi speciali, deve essere autorizzata, caso per caso, con particolari provvedimenti legislativi”. ConTribuTi di doTTrinA dovrebbe orientare il legislatore ordinario nel perimetrare l’ambito dei beni qualificabili come pubblici. la distinzione tra beni demaniali e patrimoniali indisponibili, nell’attuale codice civile, è su basi formali: i beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili sono quelli riconducibili alla rispettiva categoria disegnata dal legislatore. demaniale dovrebbe essere il bene dove massimo è il rapporto di strumentalità rispetto alla tutela degli interessi pubblici in attribuzione al- l’amm.ne. Patrimoniale indisponibile dovrebbe essere il bene sempre funzionale alla tutela degli interessi pubblici, ma non al massimo grado come per il bene demaniale. Tale diversa intensità di destinazione comporta -pur nella specialità di disciplina per ambedue le categorie -una tutela più intensa dei beni demaniali rispetto a quelli indisponibili. la distinzione delineata nell’attuale codice civile tra beni demaniali e beni indisponibili, tuttavia, non sempre rispetta la diversa intensità di destinazione: la segmentazione dei beni culturali in demaniali (immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche) e patrimoniali indisponibili (le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo) è arbitraria, atteso che la densità di destinazione è unica. Analogamente è arbitrario ritenere che le foreste (patrimonio indisponibile) siano meno rilevanti degli aerodromi (demanio). egualmente è arbitrario il distinguo tra strade, autostrade, strade ferrate, acquedotti di enti territoriali (demanio) e rete telefonica di proprietà pubblica (patrimonio indisponibile): in ambedue i casi viene in rilievo il genere unitario della rete funzionale allo svolgimento di un pubblico servizio. Per quanto detto, il legislatore ordinario dovrebbe rivisitare la normativa in materia delineando la figura dei beni comuni, con identità di disciplina. Andrebbero configurati come beni comuni, tutti quei beni che -a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata -sono funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività, alla tutela dei diritti inviolabili della personalità umana. la categoria dei beni comuni determinerebbe il superamento dell’attuale distinzione tra i beni pubblici e i beni di interesse pubblico. 4. Demanio necessario: demanio marittimo, idrico e militare. i beni demaniali sono indicati nell’art. 822 c.c. e vengono distinti in beni appartenenti al demanio necessario e in beni appartenenti al demanio accidentale (10). Trattasi di beni appartenenti ad enti territoriali. nella Costituzione è (10) Per un quadro generale: G. inGroSSo, voce Demanio (diritto moderno), in Noviss. Digesto, vol. V, uTeT, 1960, pp. 427-438. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 previsto -all’art. 119, comma 6 -che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato”. la demanialità del bene, con il suo peculiare regime, si estende a situazioni complementari, quali a) le pertinenze (ex art. 817 c.c.: le cose, mobili o immobili, destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa); b) le servitù prediali costituite a vantaggio di beni demaniali e gravanti su fondi privati (art. 825 c.c.); c) i frutti, nel caso in cui la cosa madre sia un bene demaniale e fino alla loro separazione (art. 817, comma 2, c.c.). Giusta il primo comma dell’art. 822 c.c.: “appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale”. Vengono in rilievo i beni appartenenti al c.d. demanio necessario. oltre che lo Stato, anche gli altri enti territoriali possono essere titolari di beni riconducibili alla tipologia del demanio necessario. Tanto in applicazione delle regole sul c.d. federalismo demaniale ex d.l.vo 28 maggio 2010, n. 85 (11), oppure in considerazione della speciale autonomia di alcune regioni (12). inoltre, l’art. 11, comma 2, l. 16 maggio 1970, n. 281 trasferisce alle regioni i porti lacuali. i beni riconducibili alla tipologia del demanio necessario sono solo immobili e non possono che appartenere allo Stato o ad altro ente territoriale. -Demanio marittimo. l’art. 28 c. nav. precisa che fanno parte del demanio marittimo “a. il lido, la spiaggia, i porti, le rade; b. le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte del- l’anno comunicano liberamente col mare; c. i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo”. Allo stesso regime sono sottoposte le pertinenze -quali porti, (11) Vi è la disciplina del procedimento in virtù del quale beni statali possono essere attribuiti a titolo non oneroso dallo Stato a Comuni, Province, Città metropolitane e regioni. Tale vicenda riguarda anche beni appartenenti al demanio necessario (quale il demanio marittimo e il demanio idrico), al demanio accidentale (quale in demanio aeroportuale) e al patrimonio indisponibile (quali le miniere) con le caratteristiche e i requisiti previsti negli arrt. 3 e 5 del decreto. (12) Per la regione Sicilia l’art. 32 r.d.l.vo 15 maggio 1946, n. 455 (Statuto della regione siciliana) dispone: “i beni di demanio dello Stato, comprese le acque pubbliche esistenti nella regione, sono assegnati alla regione, eccetto quelli che interessano la difesa dello Stato o servizi di carattere nazionale”. Per la regione Sardegna l’art. 14, comma 1, l. Cost. 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) dispone: “La regione, nell’ambito del suo territorio, succede nei beni e diritti patrimoniali dello Stato di natura immobiliare e in quelli demaniali, escluso il demanio marittimo”. Per la regione Valle d’Aosta, l’art. 5 l. Cost. 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta) dispone: “i beni del demanio dello Stato situati nel territorio della regione, eccettuati quelli che interessano la difesa dello Stato o servizi di carattere nazionale, sono trasferiti al demanio della regione. Sono altresì trasferiti al demanio della regione le acque pubbliche in uso di irrigazione e potabile”. ConTribuTi di doTTrinA moli, darsene, banchine, fari, dighe, semafori ed altre opere poste al servizio della navigazione -in ordine alle quali l’art. 29 c. nav. enuncia: “Le costruzioni e le altre opere appartenenti allo Stato, che esistono entro i limiti del demanio marittimo e del mare territoriale, sono considerate come pertinenze del demanio stesso”; il concetto di pertinenza del demanio marittimo è più ampio di quello che si esprime nell’art. 817 c.c. attesa la irrilevanza della destinazione del bene pertinenziale al servizio o all’ornamento di quello principale (13). il lido del mare è quella porzione di terraferma a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, con esclusione dei momenti di tempesta (14). nella nozione di lido così determinata, peraltro, possono rientrare diverse categorie di beni, come i tratti di costa elevati o a picco sul mare, le scogliere, gli scogli ed i promontori che si presentino immediatamente a contatto col mare e siano appunto raggiunti dalle ordinarie mareggiate invernali (arg. ex art. 55 c. nav., che assoggetta ad autorizzazione la realizzazione di opere entro una fascia di rispetto dal demanio marittimo e “… dal ciglio dei terreni elevati sul mare ...”) (15). la spiaggia, ivi compreso l’arenile, comprende quei tratti di terra prossimi al mare, che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie (16); vengono in rilievo quei tratti di terra, sabbiosi o ghiaiosi o di altra natura, che dal lido del mare si estendono verso la terraferma, con estensione variabile a seconda dell’andamento delle mareggiate anche straordinarie. della spiaggia fanno parte altresì, costituendone una particolare tipologia morfologica, le dune costiere, vale a dire quegli accumuli sabbiosi originati dal vento e dai moti ondosi delle correnti marine, che sono interessate da costanti interazioni con la spiaggia antistante, attraverso continui apporti ovvero prelevamenti di sabbia, sì da costituire altresì la principale difesa naturale contro i fenomeni di erosione. in ragione di tali processi simbiotici naturali, il sistema dunale non è quindi naturalisticamente e giuridicamente distinguibile dal concetto di spiaggia (17). l’arenile è quel tratto di terraferma che risulti relitto dal naturale ritirarsi delle acque, restando potenzialmente idoneo ai pubblici usi del mare (18). Vengono in rilievo quei tratti di terra già alluviati ma non più bagnati dalle acque del mare neppure in occasione delle straordinarie mareggiate, che risultano pertanto relitti dal naturale ritirarsi delle acque, restando tuttavia idonei, per (13) Sui beni del demanio marittimo: A. lefebre d’oVidio, G. PeSCATore, l. Tullio, manuale di diritto della navigazione, X edizione, Giuffré, 2004, pp. 98-102. (14) Conf. Cass. 1 aprile 2015, n. 6619. (15) Per tale precisazione: Tribunale di Cagliari, Sezione ii civile, sentenza 27 giugno 2017 n. 2097, in rass. avv. Stato, 2018, 4, p. 93. (16) Conf. Cass. n. 6619/2015 cit. (17) Per tale precisazione: Tribunale di Cagliari, Sezione ii civile, sentenza n. 2097/2017 cit., in rass. avv. Stato, 2018, 4, p. 94. (18) Conf. Cass. 6 maggio 1980, n. 2995. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 la loro contiguità alla spiaggia ancora interessata dai cicli delle maree, ai pubblici usi del mare anche se in via soltanto potenziale. i porti sono tratti di costa, comprese le apposite strutture artificiali, nonché le zone di mare che, per la loro particolare conformazione, offrono riparo alle navi e ne agevolano l’approdo (19). le rade sono estensioni di mare, al di là dei porti, che, anche senza costituire necessariamente un seno naturale, servono all’ancoraggio delle navi. le lagune sono gli specchi d’acqua in immediata vicinanza del mare, talora con questo costantemente comunicanti (lagune vive), altre volte separate e stagnanti (lagune morte). i bacini di acqua salsa sono pozze di fango ribollente per emissione di metano dalle rocce del sottosuolo, mentre i bacini di acqua salmastra contengono sali marini in concentrazione inferiore a quella del mare. È necessario, per la qualificazione demaniale, che tali bacini comunichino liberamente col mare almeno durante una parte dell’anno. Vi rientrano le valli da pesca della laguna veneta “le quali consistono in bacini di acqua salsa o salmastra (stagni e/o paludi), inframmezzati da barene e terre emerse, con presenza di canali, posti fra il mare e la terraferma, e ricompresi nella laguna di Venezia” (20). non rientra nel demanio marittimo il mare territoriale (definito nell’art. 2 c. nav.) (21), il quale va considerato come res communis omnium (22). esso è quella porzione di mare adiacente alla costa degli Stati su cui, per diritto internazionale, lo Stato esercita la propria sovranità in modo del tutto analogo alla terraferma. -Demanio idrico. la definizione codicistica -“i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque de( 19) Giusta l’art. 4, comma 1, l. 28 gennaio 1994, n. 84 “i porti marittimi nazionali sono ripartiti nelle seguenti categorie e classi: a) categoria i: porti, o specifiche aree portuali, finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato; b) categoria ii, classe i: porti, o specifiche aree portuali, di rilevanza economica internazionale; c) categoria ii, classe ii: porti, o specifiche aree portuali, di rilevanza economica nazionale; d) categoria ii, classe iii; porti, o specifiche aree portuali, di rilevanza economica regionale e interregionale”. (20) Così Cass. S.u., 18 febbraio 2011, n. 3937, precisante altresì che “le valli da pesca configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico, inteso in senso non solo di oggetto di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali”. (21) il cui primo comma statuisce: “Sono soggetti alla sovranità dello Stato i golfi, i seni e le baie, le cui coste fanno parte del territorio della repubblica, quando la distanza fra i punti estremi del- l’apertura del golfo, del seno o della baia non supera le ventiquattro miglia marine. Se tale distanza è superiore a ventiquattro miglia marine, è soggetta alla sovranità dello Stato la porzione del golfo, del seno o della baia compresa entro la linea retta tirata tra i due punti più foranei distanti tra loro ventiquattro miglia marine”. Giusta l’art. 1 l. 7 aprile 1930, n. 538 “il «miglio marino internazionale», pari a metri 1852”. (22) Così A.M. SAndulli, manuale di diritto amministrativo, vol. ii, XV edizione, Jovene, 1989, p. 767. ConTribuTi di doTTrinA finite pubbliche dalle leggi in materia” -rimandava alla disciplina contenuta nel r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) secondo cui “Sono pubbliche tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l’ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse” (art. 1, comma 1; articolo poi abrogato dall’art. 2, comma 1, d.P.r. 18 febbraio 1999, n. 238). Tale disciplina ammetteva che acque interne -ad es. un piccolo lago, come il lago lucrino (23) -potessero appartenere a privati, ove non avessero attitudine ad usi di pubblico generale interesse. la circostanza che l’acqua è un bene prezioso e risorsa limitata ha condotto il legislatore negli anni ’90 del secolo scorso (art. 1 l. 5 gennaio 1994, n. 36: c.d. legge Galli) a pubblicizzare tutte le acque interne, a prescindere dalla loro importanza, pubblicizzazione confermata anche nell’attuale disciplina contenuta nell’art. 144, comma 1, d.l.vo ambiente, a tenor del quale: “Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato”. inoltre, giusta l’art. 945 c.c. “Le isole e unioni di terra che si formano nel letto dei fiumi o torrenti appartengono al demanio pubblico”. la demanialità idrica comprende anche l’alveo dei fiumi, torrenti, rivi, colatoi e i bacini invasi da laghi, oltre ai rami o canali benché asciutti in alcuni periodi dell’anno (24). fanno altresì parte del demanio fluviale le opere pertinenziali di quelle demaniali (25). la demanialità dell’acqua e quella dell’acquedotto sono tra loro indipendenti. difatti -giusta l’art. 822, comma 2, c.c. -gli acquedotti, i canali e gli altri rivi e laghi artificiali di proprietà statale destinati a convogliare acque a fine di utilizzazione rivestono carattere demaniale (demanio accidentale) indipendentemente dal fatto che convoglino acque pubbliche. - Demanio militare. Vengono in rilievo le opere, manufatti realizzati dall’uomo, destinate in modo permanente, diretto ed attuale alla difesa nazionale, quali le fortezze, le installazioni missilistiche, le linee fortificate e trincerate, le cose destinate al (23) del quale, in conseguenza della legge Galli è stata accertata dal giudice delle acque la qualità di demanio idrico, confermata dal giudice di legittimità: Cass. S.u. 17 settembre 2015 n. 18215. (24) Cass. S.u. 13 giugno 2017 n. 14645 precisa che gli alvei dei fiumi e dei torrenti, costituiti da quei tratti di terreno sui quali l’acqua scorre fino al limite delle piene normali, rientrano nell’ambito del demanio idrico, per cui le sponde o rive interne -ossia quelle zone soggette ad essere sommerse dalle piene ordinarie -sono comprese nel concetto di alveo, e costituiscono quindi beni demaniali, a differenza delle sponde e rive esterne che, essendo soggette alle sole piene straordinarie, appartengono, invece, ai proprietari dei fondi rivieraschi, e sulle quali può pertanto insistere un manufatto occupato da persone. in senso analogo Cass. S.u. 18 luglio 2019 n. 19366. (25) Conf. Cass. S.u. n. 19366 /2019 cit.; Cass. S.u. 18 dicembre 1998, n. 12701. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 servizio delle comunicazioni militari (strade, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.). in quanto non rientranti nella definizione legale non hanno la qualità di demanio militare: a) le difese naturali; b) i beni mobili destinati alla difesa nazionale; c) le opere destinate in modo indiretto alla difesa nazionale, quali le caserme, le polveriere, gli ospedali militari, i depositi e le officine, costituenti patrimonio indisponibile dello Stato. Tanto è confermato nell’art. 231 d.l.vo n. 66/2010 (26). 5. Demanio accidentale: demanio stradale, autostradale, ferroviario, aeronautico, acquedottistico, culturale, cimiteri e mercati. Giusta il secondo comma dell’art. 822 c.c.: “Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico” Vengono in rilievo i beni appartenenti al c.d. demanio accidentale. oltre che lo Stato, anche gli altri enti territoriali possono essere titolari di beni riconducibili alla tipologia del demanio accidentale. Trattasi di beni immobili e di particolari universalità di beni mobili (raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche). Per le regioni a statuto ordinario vi è la disciplina di cui all’art. 11, comma 1, l. n. 281/1970 secondo cui i beni della specie di quelli indicati dal- l’art. 822, comma 2, c.c., se appartengono alle regioni per acquisizione a qualsiasi titolo, costituiscono il demanio regionale e sono soggetti al regime previsto dallo stesso codice per i beni del demanio pubblico. il comma 3 del- l’articolo citato trasferisce alle regioni, se appartenenti allo Stato, gli acquedotti di interesse regionale. Per le regioni a statuto speciale vi sono puntuali disposizioni nei relativi statuti (27). Per le Province ed i Comuni vi è la previsione dell’art. 824 c.c. secondo (26) “1. appartengono al demanio militare del ministero della difesa le opere destinate alla difesa nazionale. 2. Gli aeroporti militari fanno parte del demanio militare aeronautico. […]. 4. Fatta salva l’applicazione dell’articolo 147, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio, rientrano tra le opere destinate alla difesa nazionale e sono considerati infrastrutture militari, a ogni effetto, tutti gli alloggi di servizio per il personale militare realizzati su aree ubicate all’interno di basi, impianti, installazioni militari o posti al loro diretto e funzionale servizio”. (27) Art. 57 l. Cost. 26 febbraio 1948, n. 5 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige): “Le strade, le autostrade, le strade ferrate e gli acquedotti che abbiano interesse esclusivamente regionale e che saranno determinati nelle norme di attuazione del presente Statuto costituiscono il demanio regionale”. Per la regione Sicilia si richiama l’art. 32 dello Statuto sopracitato. Per la regione Sardegna si richiama l’art. 14, comma 1, dello Statuto sopracitato. ConTribuTi di doTTrinA cui “i beni della specie di quelli indicati dal secondo comma dell’articolo 822, se appartengono alle province o ai comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico. allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati comunali”. i beni riconducibili alla tipologia del demanio accidentale possono appartenere a qualsivoglia soggetto, pubblico o privato. Tuttavia se appartengono allo Stato -o ad un ente territoriale -hanno la qualità di bene demaniale, con applicazione del relativo regime. - Demanio stradale. È costituito dalle strade destinate al pubblico traffico e dalle loro pertinenze (quali alberi, aiuole, paracarri, aree di servizio, ponti, viadotti, gallerie, sottopassaggi, ecc.) appartenenti ad enti territoriali. la strada è, come nel linguaggio comune, quella striscia di terreno più o meno lunga e di sezione sensibilmente costante, attrezzata per il transito di persone e di veicoli sia nei centri abitati sia fuori di questi (28). nella geografia economica e in cartografia il nome è limitato alle vie di comunicazione artificiali, riservandosi a quelle naturali il nome di piste, sentieri, tratturi, ecc.; nell’ambito giuridico non vi è la detta limitazione e tutte le dette vie integrano strade. la distinzione in strade “statali”, “regionali”, “provinciali”, “comunali” è regolata nell’art. 2, commi 5, 6 e 7, d.l.vo n. 285/1992. A tale stregua, in sintesi, sono statali (o nazionali), le grandi direttrici del traffico nazionale e le più importanti di quelle che collegano fra di loro i capoluoghi di regione ovvero i capoluoghi di Provincia situati in regioni diverse; sono strade regionali quelle che allacciano i capoluoghi di Provincia della stessa regione tra loro o con il capoluogo di regione ovvero allacciano i capoluoghi di Provincia o i Comuni con la rete statale se ciò sia particolarmente rilevante per ragioni di carattere industriale, commerciale, agricolo, turistico e climatico; sono strade provinciali quelle che allacciano al capoluogo di Provincia capoluoghi dei singoli Comuni della rispettiva Provincia o più capoluoghi di Comuni tra loro ovvero quando allacciano alla rete statale o regionale i capoluoghi di Comune, se ciò sia particolarmente rilevante per ragioni di carattere industriale, commerciale, agricolo, turistico e climatico; sono strade comunali quelle che allacciano al Comune le frazioni o altre località che abbiano importanza per il Comune stesso e quelle interne degli abitati. il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti procede alla classificazione delle strade statali, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio di amministrazione dell’Azienda nazionale autonoma per le strade statali (28) Ai fini dell’applicazione delle norme del Codice della strada “si definisce ‘strada’ l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali” (art. 2, comma 1, d.l.vo 30 aprile 1992, n. 285). rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 (AnAS s.p.a.), le regioni interessate, nei casi e con le modalità indicate dal regolamento. le regioni procedono, sentiti gli enti locali, alle classificazioni delle rimanenti strade. le strade così classificate sono iscritte nell’Archivio nazionale delle strade (art. 2, comma 8, d.l.vo n. 285/1992). Quando le strade non corrispondono più all’uso e alle tipologie di collegamento previste sono declassificate dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dalle regioni, secondo le rispettive competenze, acquisiti i pareri indicati nel citato comma 8 dell’art. 2 (art. 2, comma 9, d.l.vo n. 285/1992). le strade vicinali non rientrano nel demanio stradale, costituendo beni di interesse pubblico. Tuttavia, ai fini del codice della strada, le strade vicinali sono assimilate alle strade comunali (art. 2, comma 6, d.l.vo n. 285/1992). - Demanio autostradale. È costituito dalle strade a traffico selezionato e dalle loro pertinenze appartenenti ad enti territoriali. l’autostrada per il Codice della Strada è una “strada extraurbana o urbana a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di marcia, eventuale banchina pavimentata a sinistra e corsia di emergenza o banchina pavimentata a destra, priva di intersezioni a raso e di accessi privati, dotata di recinzione e di sistemi di assistenza all’utente lungo l’intero tracciato, riservata alla circolazione di talune categorie di veicoli a motore e contraddistinta da appositi segnali di inizio e fine. Deve essere attrezzata con apposite aree di servizio ed aree di parcheggio, entrambe con accessi dotati di corsie di decelerazione e di accelerazione” (art. 2, comma 3). la rete autostradale e stradale nazionale -in applicazione dell’art. 7, comma 1 bis, d.l. 8 luglio 2002, n. 138, conv. l. 8 agosto 2002, n. 178 -è stata trasferita dallo Stato all’AnAS società per azioni, ossia ad un soggetto di diritto privato (ancorché appartenente allo Stato che ne è l’azionista), con la precisazione che “il trasferimento non modifica il regime giuridico, previsto dagli articoli 823 e 829, primo comma, del codice civile, dei beni demaniali trasferiti”. il citato comma 1 bis è stato poi abrogato dall’art. 6 ter, comma 1, lett. a), d.l. 30 settembre 2005, n. 203, conv. l. 2 dicembre 2005, n. 248. All’attualità deve ritenersi che la titolarità della rete autostradale e stradale nazionale, in conseguenza della abrogazione del citato comma 1 bis è ritornata in capo allo Stato (29). - Demanio ferroviario. fanno parte del demanio ferroviario le strade ferrate con tutte le opere e pertinenze (stazioni, impianti, viadotti, ponti, gallerie, impianti di servizio, ecc.). i beni appartenenti al demanio ferroviario statale hanno mutato regime (29) Contra f.G. SCoCA (a cura di), Diritto amministrativo, iii edizione, Giappichelli, 2014, p. 525 per il quale sembrerebbero implicitamente fermi sia la proprietà, in capo all’Anas s.p.a., della rete autostradale e stradale nazionale, sia il regime demaniale di questi stessi beni. ConTribuTi di doTTrinA giuridico in conseguenza della privatizzazione del soggetto gestore del servizio. l’art. 15, commi 1 e 2, l. 17 maggio 1985, n. 210 -relativa alla istituzione dell’ente “ferrovie dello Stato” (30) -dispone che “1. i beni mobili ed immobili, trasferiti all’ente o comunque acquisiti nell’esercizio di attività di cui all’articolo 2 della presente legge, costituiscono patrimonio giuridicamente ed amministrativamente distinto dai restanti beni delle amministrazioni pubbliche e di essi l’ente ha piena disponibilità secondo il regime civilistico della proprietà privata, salvi i limiti su di essi gravanti per le esigenze della difesa nazionale. 2. i beni destinati a pubblico servizio non possono essere sottratti alla loro destinazione senza il consenso dell’ente”; in tal modo si è operata una sdemanializzazione ex lege delle strade ferrate (31). - Demanio aeronautico. ne fanno parte gli aeroporti civili (quelli militari, ovviamente, fanno parte del demanio necessario, come riconosciuto dall’art. 692, comma 2, c. nav. secondo cui: “Gli aeroporti militari fanno parte del demanio militare aeronautico”), i campi di volo e i campi di fortuna destinati al traffico civile, purché di appartenenza degli enti territoriali. il carattere di demanialità si estende a tutte le pertinenze, quali impianti e costruzioni al servizio della navigazione aerea, compresa l’area di sedime necessaria allo svolgimento di attività comunque connesse, anche in via indiretta, alla gestione dell’aeroporto e all’attività del volo (32). Con riguardo al demanio aeronautico statale, l’art. 692 c. nav. statuisce: “1. Fanno parte del demanio aeronautico civile statale: a) gli aeroporti civili appartenenti allo Stato; b) ogni costruzione o impianto appartenente allo Stato strumentalmente destinato al servizio della navigazione aerea. 2. Gli aeroporti militari fanno parte del demanio militare aeronautico”. - Demanio acquedottistico. l’acquedotto è il complesso degli impianti di attingimento, di trattamento, di trasporto e di distribuzione di acque sotterranee o superficiali. nella nozione di acquedotti sono compresi anche i canali e gli invasi artificiali per la conduzione e raccolta delle acque, che a differenza dei primi (in (30) Avente natura di ente pubblico economico, poi trasformato in società per azioni. nella proprietà e gestione della rete ferroviaria alla società ferrovie dello Stato s.p.a. -tenuto conto del principio comunitario della separazione della proprietà e della gestione delle reti dalla erogazione dei relativi servizi -è subentrata poi la società rete ferroviaria italiana s.p.a. -r.f.i. All’attualità la disciplina della materia è contenuta nel d.l.vo 15 luglio 2015, n. 112 recante “attuazione della direttiva 2012/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre 2012, che istituisce uno spazio ferroviario europeo unico”. (31) Conf. Cass. S.u., 27 febbraio 2006, n. 4269; Cass., 7 febbraio 2013, n. 2961 secondo cui il mutamento del regime giuridico di beni già appartenenti al demanio ferroviario, ai sensi dell’art. 15 l. n. 210/1985, ha reso gli stessi oggetto di una locazione privatistica, in luogo dell’iniziale concessione amministrativa che ne prevedeva il godimento dietro pagamento di un corrispettivo. Analogamente, in dottrina V. CAPuTi JAMbrenGhi, voce Uso pubblico (diritto di), in Digesto Disc. Pubbl., vol. XV, uTeT, 1999, p. 607. (32) Conf. su queste: T.a.r. Veneto, 31 agosto 1995, n. 1153. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 tesi in senso tecnico) consistono in condutture scoperte (33). Giusta l’art. 143, comma 1, d.l.vo ambiente “Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge”. in virtù dell’art. 11, comma 3, l. n. 281/1970 sono stati trasferiti al demanio regionale gli acquedotti statali interessanti il territorio di una sola regione. non è necessario alla demanialità che il bene sia situato solo nel territorio dell’ente proprietario: è possibile che l’acquedotto attraversi il territorio di enti diversi da quello di appartenenza. Gli acquedotti rivestono il carattere della demanialità indipendentemente dal fatto che convoglino acque pubbliche. All’evidenza, gli acquedotti realizzati da enti pubblici diversi da quelli territoriali hanno i caratteri dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile. - Demanio culturale. ossia “gli immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia” comprensivo anche di peculiari universalità di cose costituite dalle “raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche”. la disciplina dei beni culturali è dettagliata nel d.l.vo 22 gennaio 2004, n. 42, contenente il Codice dei beni culturali e del paesaggio, ove si precisa che beni culturali sono “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 (34) e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” (art. 2, comma (33) V. Cerulli irelli, S. Pelillo, voce acquedotti e canali pubblici, in Enc. Giur. Vol. i, Giuffré, 1988, p. 1, ove anche il rilievo che l’art. 12, comma 1, l. 27 dicembre 1977, n. 984 ha così disposto: “i canali demaniali di irrigazione tuttora amministrati dal ministero delle finanze sono trasferiti alle regioni e sottoposti alla disciplina prevista per le altre opere pubbliche di irrigazione d’interesse regionale ed interregionale”. (34) Che, tra l’altro, indica le cose immobili e mobili, appartenenti a soggetti pubblici e a soggetti privati assimilati a quelli pubblici che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (art. 10, comma 1, del Codice), purché l’autore dell’opera non sia vivente o la loro esecuzione risalga ad oltre settanta anni (art. 10, comma 5, del Codice). Giusta l’art. 10, comma 4, del Codice sono comprese tra le cose ora indicate: “a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio; e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio; f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico; g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico; h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico; l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale”. ConTribuTi di doTTrinA 2, d.l.vo n. 42/2004), appartenenti a qualsiasi soggetto, pubblico o privato. Giusta l’art. 53, comma 1, del Codice, i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali costituiscono il demanio culturale ove rientrino nelle tipologie indicate all’articolo 822 c.c., ossia: immobili riconosciuti d’interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche. All’evidenza il demanio culturale costituisce una parte dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici ed assimilati. difatti: a) da un punto di vista oggettivo il demanio culturale comprende le cose immobili descritte all’art.10, comma 1, del Codice (ad eccezione di quelle di interesse etnoantropologico) e le universalità di cose mobili descritte all’art. 10, comma 2, del Codice; non comprende le cose mobili descritte all’art. 10, comma 1, del Codice; b) da un punto di vista soggettivo il demanio culturale comprende i beni innanzi indicati appartenenti agli enti territoriali. - Demanio comunale specifico: cimiteri e mercati. nei cimiteri devono essere ricevuti quando non venga richiesta altra destinazione: “a) i cadaveri delle persone morte nel territorio del comune, qualunque ne fosse in vita la residenza; b) i cadaveri delle persone morte fuori del comune, ma aventi in esso, in vita, la residenza; c) i cadaveri delle persone non residenti in vita nel comune e morte fuori di esso, ma aventi diritto al seppellimento in una sepoltura privata esistente nel cimitero del comune stesso; d) i nati morti ed i prodotti del concepimento […]; e) i resti mortali delle persone sopra elencate” (art. 50 d.P.r. 10 settembre 1990, n. 285, regolamento di polizia mortuaria). il Comune può istituire usi particolari dei suoli cimiteriali, consentendo la sepoltura privata nei cimiteri a mezzo della concessione cimiteriale. Trattasi di concessione traslativa, in quanto con essa il Comune non fa che trasferire al privato una parte delle facoltà e dei poteri relativi al bene che istituzionalmente le spettano (35). Giusta l’art. 90, commi 1 e 2, d.P.r. n. 285/1990 “1. il comune può concedere a privati e ad enti l’uso di aree per la costruzione di sepolture a sistema di tumulazione individuale, per famiglie e collettività. 2. Nelle aree avute in concessione, i privati e gli enti possono impiantare, in luogo di sepolture a sistema di tumulazione, campi di inumazione per famiglie e collettività, purché tali campi siano dotati ciascuna di adeguato ossario”. le concessioni sono a tempo determinato e di durata non superiore a 99 anni, salvo rinnovo (art. 92, comma 1, d.P.r. n. 285/1990). il diritto del concessionario sull’area cimiteriale è un diritto reale limitato e, in specie, di superficie. (35) Conf. S. roSA, voce Cimitero. a) Diritto amministrativo, in Enc. Dir., Giuffré, vol. Vi, 1960, p. 995. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 6. Diritti demaniali su beni altrui: diritti reali demaniali su beni altrui (diritti di superficie; servitù prediali pubbliche) e diritti di uso pubblico (c.d. servitù di uso pubblico, tra cui quelle sulle strade vicinali). Distinzione dalle limitazioni di diritto pubblico alla proprietà. l’art. 825 c.c. dispone che sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni -rectius: agli enti territoriali, atteso che l’art. 11, comma 2, l. n. 281/1970 estende tale disposizione anche alle regioni -su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli artt. 822 e 824 c.c. o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi. - Diritti reali demaniali su beni altrui. nel primo caso descritto dalla norma (ossia diritti reali costituiti per l’utilità di alcuno dei beni demaniali) vengono in rilievo a) i diritti di superficie in base ai quali siano state realizzate opere rientranti nella categoria dei beni demaniali ai sensi dell’art. 822 c.c. b) ed altresì le servitù prediali (c.d. servitù prediali pubbliche) (36) nelle quali il fondo dominante è un bene demaniale e fondo servente un bene privato o altro bene pubblico. Sono tali, ad es. la servitù di scarico che grava sui terreni limitrofi ai laghi, al fine di consentire il deflusso delle acque in eccedenza oppure la servitù di elettrodotto per la quale “ogni proprietario è tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree o sotterranee che esegua chi ne abbia ottenuto permanentemente o temporaneamente l’autorizzazione dall’autorità competente” (art. 119 T.u. acque) (37). l’imposizione del vincolo prediale avviene, di solito, mediante l’emanazione di un provvedimento amministrativo; tanto nei casi specialmente determinati dalla legge ex art. 1032, comma 1, c.c. (ossia nei casi in cui la legge prevede tipicamente un provvedimento costitutivo della servitù) oppure -in via generale e residuale -con un provvedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità ex art. 1 d.P.r. 8 giugno 2001, n. 327 (T.u. in materia di espropriazione per pubblica utilità) atteso che l’atto di imposizione autori (36) Sulle quali V. Cerulli irelli, voce Servitù. d) Diritto pubblico, in Enc. Dir., vol. Xlii, Giuffré, 1990, pp. 332-342; A. AnGiuli, voce Servitù pubbliche, in Digesto Disc. Pubblic., vol. XiV, uTeT, 1999, pp. 56-64; A. PubuSA, voce Servitù pubbliche, in Enc. Giur., vol. XXViii, Giuffré, 1992, pp. 19; e C. ferrAri, voce Servitù prediali pubbliche, in Noviss. Digesto, vol. Xlii, uTeT, 1970, pp. 167188; questi due ultimi Autori rilevano che -per uniformità di disciplina, attesa la comune pubblica destinazione -l’art. 825 c.c. deve essere interpretato estensivamente ed applicato non solo ai beni demaniali, ma anche al patrimonio indisponibile (p. 2 il primo, pp. 175-177 il secondo). (37) la cui natura giuridica, invero, è discussa, negandosi da alcuni natura di servitù per la insussistenza di un fondo dominante, da individuarsi -invece per chi ne ammette la detta natura -nello stabilimento di produzione e distribuzione dell’energia elettrica. Per il dibattito: A. PubuSA, voce Servitù pubbliche, cit., pp. 5-6. ConTribuTi di doTTrinA tativa di servitù pubbliche è un provvedimento ablatorio da ascrivere al gruppo delle espropriazioni, la cui adozione fa sorgere in capo al proprietario del fondo servente un diritto all’indennità. Ciò sul rilievo che se si ammette la soppressione di una servitù esistente -e tanto è ammesso dall’art. 1 cit. che prevede l’espropriazione di diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità -non si vede perché non si possa interpretare la norma in modo da farvi rientrare anche il caso di costituzione di una servitù, ipotesi che attua, pur se solo parzialmente, il prelievo di una utilità dal fondo servente (38). Tanto è confermato dall’art. 44, comma 1, T.u. espropr. secondo cui “è dovuta una indennità al proprietario del fondo che, dalla esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità, sia gravato da una servitù o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà”. importanti servitù costituite con atto della P.A. sono le c.d. servitù militari (artt. 320-332 d.l.vo 15 marzo 2010, n. 66, Codice dell’ordinamento militare). i fondi limitrofi alle opere ed installazioni permanenti e semipermanenti destinate alla difesa militare possono subire una serie di limitazioni imposte con provvedimenti della P.A.; tanto per la durata massima di cinque anni -salva la possibilità di conferma, ogni cinque anni per analogo periodo, ove venga accertato che esse sono ancora necessarie per le esigenze della difesa nazionale -e nella misura direttamente e strettamente necessaria per il tipo di opere o di installazioni di difesa (art. 320). le limitazioni possono consistere, tra l’altro, nel divieto di fare elevazioni di terra o di altro materiale, costruire condotte o canali sopraelevati, impiantare condotte o depositi di gas o liquidi infiammabili, scavare fossi o canali di profondità superiore a 50 cm., installare macchinari o apparati elettrici e centri trasmittenti, aprire strade, fabbricare muri o edifici, sopraelevare muri o edifici esistenti (art. 321). Adottato il decreto impositivo della servitù, ai proprietari degli immobili assoggettati alle limitazioni spetta un indennizzo annuo (art. 325). Trattasi -come si evince dalla minuziosa normativa -di vere e proprie servitù e non di limiti legali alla proprietà. in alternativa all’imposizione autoritativa, la servitù può essere costituita convenzionalmente, ossia mediante la stipula di un contratto ad oggetto pubblico ex art. 11 l. proc. la costituzione della servitù in esame può aversi anche mediante usucapione o l’immemoriale (39). Alcune fattispecie di servitù sono (38) Per tali rilievi: C. ferrAri, voce Servitù prediali pubbliche, cit., pp. 184-185. Conf. altresì V. Cerulli irelli, voce Servitù. d) Diritto pubblico, cit., pp. 337-338 e A. PubuSA, voce Servitù pubbliche, cit., pp. 6-7. (39) l’immemoriale è un istituto per il quale il possesso che dura da tanto tempo (vetustas) da essersi smarrito il ricordo del suo nascere determina una presunzione di esistenza di un titolo corrispondente al diritto (per tale definizione, ex plurimis: Cass., 25 maggio 1992, n. 6231). Tale istituto è stato abolito nei rapporti privatistici ex art. 630, comma 2, c.c. del 1865, ma permane nei rapporti di diritto rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 fissate dalla legge, come ad es. la servitù di via alzaia o marciapiede che grava sui beni laterali ai fiumi navigabili (art. 52 r.d. 11 luglio 1913, n. 959) (40). deve tuttavia ritenersi che nel caso di servitù legali non si è in presenza tecnicamente di servitù, ma di limitazioni legali nel godimento della cosa prodotte dalla vicinanza della cosa stessa al bene demaniale indicato dalla legge. ossia: si è nell’ambito delle limitazioni legali alla proprietà ricondotte dal codice civile ai rapporti di vicinato (41). Modi di estinzione della servitù prediale pubblica sono la cessazione della demanialità del fondo dominante, un atto amministrativo che prenda atto del venir meno degli interessi pubblici per il cui soddisfacimento la servitù è sorta (ad es. la revoca), l’abrogazione delle leggi istitutive di servitù pubbliche, la confusione, le previsioni estintive contenute nel titolo convenzionale della servitù (ad es. scadenza del termine) (42). la disposizione dell’art. 825 c.c. ha una virtù espansiva: anche la servitù va qualificata bene demaniale, con il conseguenziale regime. - Diritti di uso pubblico. nel secondo caso descritto dalla norma (ossia diritti reali costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni demaniali) vengono in rilievo le c.d. servitù di uso pubblico (o diritti di uso pubblico) (43), a vantaggio di una collettività indeterminata di persone. pubblico. Conf. ex plurimis Cass. 18 giugno 1976, n. 2289 e Cass. 14 gennaio 2019, n. 587; quest’ultima precisa: l’istituto dell’immemorabile, non più applicabile ai rapporti privatistici in quanto abrogato dal codice civile del 1865 e non richiamato in vigore dall’attuale codice civile, è invece operante nei rapporti di diritto pubblico e in particolare in quelli che hanno a oggetto beni demaniali; esso, a differenza dello usucapione, non è un modo di acquisto del diritto, ma costituisce una presunzione di legittimità del possesso attuale, fondata sulla “vetustas”, e cioè sul decorso di un tempo talmente lungo che si sia perduta memoria dell’inizio di una determinata situazione di fatto, senza che ci sia memoria del contrario, di modo che la presunzione di corrispondenza dello stato di diritto allo stato di fatto implica che rispetto a quest’ultimo si presuma esistente il titolo legittimo e che, conseguentemente, possa ritenersi la legittimità dell’esercizio di diritti il cui acquisto non sarebbe attualmente possibile da parte di coloro che li esercitano. Perché possa ritenersi realizzata la prova di siffatta situazione, essa deve provenire da soggetti appartenenti ad almeno due generazioni, vale a dire non solo dagli ultracinquantenni della generazione attuale ma anche, secondo il loro ricordo, dai rispettivi genitori. (40) “i beni laterali ai fiumi navigabili sono soggetti alla servitù della via alzata, detta anche d’attiraglio o di marciapiede. Dove la larghezza di questa non è determinata da regolamenti e consuetudini vigenti, si intenderà stabilita a metri 5. Essa insieme alla sponda fino al fiume dovrà dai proprietari essere lasciata libera da ogni ingombro od ostacolo al passaggio d’uomini e di bestie da tiro. [...].” Sulla servitù di via alzaia: A. ColASurdo, voce alzaia, in Enc. Dir., Giuffré, vol. ii, 1958, pp. 114-116, anche per la illustrazione della diversa tesi secondo cui l’alzaia è una semplice limitazione del diritto di proprietà, imposta per i fini della navigazione. (41) in tal senso anche V. Cerulli irelli, voce Servitù. d) Diritto pubblico, cit., pp. 335-336. (42) Su tali modi A. PubuSA, voce Servitù pubbliche, cit., pp. 7-8; A. AnGiuli, voce Servitù pubbliche, cit., p. 61. (43) Sui quali C. ferrAri, voce Uso pubblico (diritto di), in Noviss. Digesto, vol. XX, uTeT, 1975, pp. 270-275; V. CAPuTi JAMbrenGhi, voce Uso pubblico (diritto di), cit., pp. 602-611. ConTribuTi di doTTrinA Trattasi di diritti reali di godimento, dei quali è titolare l’ente pubblico territoriale, incidenti su immobili di proprietà privata. la loro tutela, nei confronti del titolare del bene inciso il quale contesti l’esistenza della servitù, spetta all’ente territoriale titolare del diritto di uso pubblico e -si ritiene anche al singolo componente della collettività quale attore popolare sostitutivo; invece, nel caso che al singolo componente della collettività venga impedito il libero godimento del diritto, la possibilità di agire in giudizio spetta al detto componente, venendo in rilievo un diritto di libertà di godimento della c.d. servitù di uso pubblico del quale è titolare (44). esclusa l’ipotesi di costituzione ex lege, cause di costituzione di tali diritti possono essere: a) atto amministrativo di ordine espropriativo o ablatorio; b) atto negoziale tra ente pubblico e proprietario dei beni incisi (ricorrente è il negozio di liberalità, donazione o testamento); c) usucapione da parte di una collettività indifferenziata di soggetti e imputata nel proprio effetto acquisitivo all’amm.ne pubblica a ciò competente (come ad es. accade per l’ipotesi dell’usucapione dell’uso pubblico su di una strada privata); d) immemoriale; e) dicatio ad patriam ossia con il comportamento del proprietario che, seppure non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e dunque senza precarietà o spirito di tolleranza, un proprio bene a disposizione di una collettività determinata e ristretta ovvero indeterminata, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (la fattispecie configura un fatto giuridico e non un negozio giuridico) (45). Come nella servitù pubblica, anche nel caso della servitù di uso pubblico la situazione soggettiva va qualificata bene demaniale, con il conseguenziale regime. il fondamentale elemento distintivo tra servitù prediali pubbliche e diritti di uso pubblico risiede nell’assenza, nei secondi, di un rapporto funzionale tra i fondi. i diritti di uso pubblico sussistono infatti in questa evenienza a favore delle collettività non già per l’utilità di un bene demaniale, bensì in quanto ogni membro della collettività medesima può legittimamente fruire del (44) Per tali rilievi: C. ferrAri, voce Uso pubblico (diritto di), cit., pp. 272-273. (45) Sulle modalità dell’atto negoziale, della usucapione e della dicatio ad patriam, ricognitiva- mente: Cons. Stato, 12 maggio 2020, n. 2999. in dottrina: A.M. SAndulli, manuale di diritto amministrativo, vol. ii, cit., pp. 813-814 il quale rileva che rientrano nella categoria dei diritti di uso pubblico anche il diritto di visita pubblica agli immobili privati di interesse storico, archeologico, artistico e paesistico, nonché i diritti di visita, di visione e di consultazione che gli amministrati siano ammessi ad esercitare nei musei, nelle pinacoteche, negli archivi, nelle biblioteche o nei confronti di singole opere d’arte o di singoli documenti di proprietà privata; tali diritti vengono per lo più costituiti mediante un provvedimento della P.A. o una dicatio ad patriam; possono agire in giudizio per far valere i diritti in questione, oltre all’ente pubblico, anche -uti singuli -i soggetti ammessi a fruire del diritto civico di cui trattasi. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 bene asservito nei limiti del relativo vincolo al pubblico interesse, realizzato mediante la costituzione di un diritto reale parziale, non obliterante la proprietà privata, ma che ne funzionalizza il contenuto al pubblico interesse, coerentemente all’art. 42 Cost. e come conseguente obbligo contemplabile dall’ordinamento giuridico nel contesto del c.d. “statuto della proprietà privata”, ai sensi degli artt. 832 e ss. c.c. (46). Tra i casi più rilevanti di diritti di uso pubblico, abbiamo quello sulle strade vicinali, ossia della servitù di passaggio su strada privata, regolata dalla l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. f (artt. 1, 51-54 e 84), e dal d.l.vo luogotenenziale 1 settembre 1918, n. 1446 (disciplinante la facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse). i diritti demaniali su beni altrui, in ambedue le tipologie, vanno distinti dalle limitazioni di diritto pubblico alla proprietà. i diritti demaniali su beni altrui comportano sacrifici alla proprietà aliena, hanno la consistenza di diritti reali con diritto all’indennizzo (salva previsione in deroga) in capo al soggetto inciso. le limitazioni di diritto pubblico alla proprietà, invece, afferiscono alla conformazione del bene stabilita da norme imperative e, di conseguenza, non fanno germinare diritti reali e correlativi diritti all’indennizzo nei soggetti coinvolti. 7. Beni patrimoniali indisponibili: c.d. “demanio forestale”; miniere, cave e torbiere; cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo; beni costituenti la dotazione della Presidenza della repubblica; caserme, armamenti, aeroplani e navi da guerra; edifici destinati a sede di uffici di tutti gli enti pubblici, territoriali e non territoriali, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio; fauna selvatica; aree, espropriate dal Comune, comprese nel piano di zona per l’edilizia economica e popolare; aree oggetto di retrocessione acquisite dal Comune mediante l’esercizio del diritto di prelazione. il codice civile prevede che determinati beni ove appartenenti ad un qualsivoglia ente pubblico o ad uno specifico ente pubblico vanno qualificati beni pubblici, e in specie come beni del patrimonio indisponibile (47). Come per il demanio accidentale, tali beni potrebbero anche appartenere a privati, ed in questo caso valgono le regole del diritto comune. Ma ove appartenenti ad un ente pubblico, muta il regime giuridico. le disposizioni rilevanti sono gli artt. 826 e 830 c.c.: (46) in tali termini: Cons. Stato, n. 2999/2020 cit. (47) Per un quadro generale: G. inGroSSo, voce Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, in Noviss. Digesto, vol. Xiii, uTeT, 1965, pp. 665-676. ConTribuTi di doTTrinA “2. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra. 3. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle province e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio” (art. 826, commi 2 e 3, c.c.). “ai beni di tali enti [enti pubblici non territoriali] che sono destinati a un pubblico servizio si applica la disposizione del secondo comma dell’articolo 828” (art. 830, comma 2, c.c.). l’art. 11, comma 5, l. n. 281/1970 dispone poi: “Sono trasferite alle regioni e fanno parte del patrimonio indisponibile regionale le foreste, che a norma delle leggi vigenti appartengono allo Stato, le cave e le torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le acque minerali e termali. Gli edifici con i loro arredi e gli altri beni destinati ad uffici e servizi pubblici di spettanza regionale saranno trasferiti ed entreranno a far parte del patrimonio indisponibile delle regioni con i provvedimenti legislativi di cui al successivo articolo 17” (48). Anche la fauna selvatica rientra ex art. 1, comma 1, l. 11 febbraio 1992, n. 157 nel patrimonio indisponibile dello Stato. Coerentemente “L’attività venatoria si svolge per una concessione che lo Stato rilascia ai cittadini che la (48) Per la regione Trentino-Alto Adige è disposto: “Le foreste di proprietà dello Stato nella regione, le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, gli edifici destinati a sedi di uffici pubblici regionali con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio regionale costituiscono il patrimonio indisponibile della regione” (art. 58, comma 1, dello Statuto). Per la regione Sicilia è disposto: “Fanno parte del patrimonio indisponibile della regione: le foreste, che a norma delle leggi in materia costituiscono oggi il demanio forestale dello Stato nella regione; le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo; le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale; gli edifici destinati a sede di uffici pubblici della regione coi loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della regione” (art. 33, comma 2, dello Statuto). Per la regione Valle d’Aosta è disposto: “Fanno parte del patrimonio indisponibile della regione: le foreste che, a norma delle leggi vigenti, appartengono allo Stato; le cave, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo; gli edifici destinati a sede di uffici pubblici della regione e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della regione” (art. 6, comma 2, dello Statuto). Per la regione friuli-Venezia Giulia è disposto: “Sono trasferiti alla regione e vanno a far parte del patrimonio indisponibile i seguenti beni dello Stato: 1) le foreste; 2) le miniere e le acque minerali e termali; 3) le cave e torbiere, quando la disponibilità è sottratta al proprietario del fondo” (art. 55 dello Statuto). rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 richiedano e che posseggano i requisiti previsti dalla presente legge” (art. 12, comma 1, l. n. 157/1992); si dispone inoltre che “La fauna selvatica abbattuta durante l’esercizio venatorio nel rispetto delle disposizioni della presente legge appartiene a colui che l’ha cacciata” (art. 12, comma 6, l. n. 157/1992). inoltre hanno natura di patrimonio comunale indisponibile le aree, espropriate dal Comune, comprese nel piano di zona per l’edilizia economica e popolare (art. 35, commi 2 e 3, l. 22 ottobre 1971, n. 865). hanno tale natura altresì le aree oggetto di retrocessione acquisite dal Comune mediante l’esercizio del diritto di prelazione ex art. 48, comma 3, T.u. espropr. Circa la tipologia dei beni, si formulano le seguenti annotazioni. - c.d. “demanio forestale”. Comprende le foreste descritte nell’art. 106 r.d. 30 dicembre 1923, n. 3267 e, ora, nella titolarità delle regioni. Ai sensi dell’art. 107 r.d. n. 3267/1923 “i boschi e terreni che vengono comunque a formare parte del Demanio forestale di Stato sono inalienabili e devono essere coltivati ed utilizzati secondo un regolare piano economico” (49). Con il d.l.vo 3 aprile 2018, n. 34 è stato adottato il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali. - miniere. Sono regolate dal r.d. 29 luglio 1927, n. 1443. la loro titolarità spetta allo Stato. il godimento a terzi può essere conferito, per i principi, solo con atto amministrativo di concessione. - Cave e torbiere. Costituiscono patrimonio indisponibile -ora nella titolarità delle regioni ex art. 11, comma 5, l. n. 281/1970 (50) -allorché la loro disponibilità è sottratta, con atto di avocazione, al proprietario del fondo. diversamente sono lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo, con la conseguenza che il loro sfruttamento può essere ceduto da questi con contratti di diritto privato (51). Tanto è disposto dall’art. 45 r.d. n. 1443/1927 secondo cui “1. Le cave e le torbiere sono lasciate in disponibilità del proprietario del suolo. 2. Quando il proprietario non intraprenda la coltivazione della cava o torbiera o non dia ad essa sufficiente sviluppo, l’ingegnere capo del Distretto minerario può prefiggere un termine per l’inizio, la ripresa o la intensificazione dei lavori. Tra (49) la stessa legge prevede tuttavia “la facoltà” (art. 119) “di promuovere” l’alienazione di terreni “che, per la loro natura, ubicazione e limitata estensione, non corrispondano ai fini previsti dall’art. 108 od a quelli di utilità pubblica, di cui al titolo i del presente decreto, o non siano suscettivi d’importanti trasformazioni agrarie”, ovvero di piccoli appezzamenti “la cui cessione si riconosca necessaria per soddisfare esigenze locali di abitazione o di industria, sempre che tali alienazioni non riescano di pregiudizio alla foresta”. (50) Con d.P.r. 14 gennaio 1972, n. 2 è stato disposto il trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di acque minerali e termali, di cave e torbiere e di artigianato e del relativo personale. (51) Conf. Cass., S.u., 24 novembre 1989, n. 5070. ConTribuTi di doTTrinA scorso infruttuosamente il termine prefisso, l’ingegnere capo del Distretto minerario può dare la concessione della cava e della torbiera in conformità delle norme contenute nel titolo ii del presente decreto, in quanto applicabili. […]. 4. al proprietario è corrisposto il valore degli impianti, dei lavori utilizzabili e del materiale estratto disponibile presso la cava o la torbiera. […]”. All’evidenza, con l’atto di avocazione vi è il trasferimento coattivo di cave e torbiere a favore delle regioni in caso di insufficiente sfruttamento da parte del proprietario. l’atto ha, quindi, un carattere sanzionatorio atteso che si fonda sul presupposto che un bene socialmente utile debba essere adeguatamente utilizzato dal suo titolare. Ciò spiega la mancata previsione dell’indennizzo, ma solo un mero corrispettivo per il valore degli impianti, dei lavori utilizzabili e del materiale estratto disponibile presso la cava o la torbiera. -Cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo. Trattasi di cose diverse dalle demaniali, appartenenti agli enti territoriali. hanno tale qualità i beni mobili descritti nell’art. 10, comma 1, del Codice ritrovati nel sottosuolo, come confermato dall’art. 91, comma 1, del Codice. - Caserme, armamenti, aeroplani e navi da guerra. Tutti i beni destinati, in modo diretto o indiretto, alla difesa militare appartengono esclusivamente allo Stato; i più importanti fanno parte del demanio pubblico, gli altri del patrimonio indisponibile. Tanto è confermato nell’art. 232 d.l.vo n. 66/2010 (52). -Edifici destinati a sede di uffici di tutti gli enti pubblici, territoriali e non territoriali, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio. Molto importante è l’ultima tipologia -quella degli altri beni destinati a un pubblico servizio: la categoria è aperta, essendo sufficiente il vincolo di destinazione specifico ad un pubblico servizio non economico (es.: scuola, sanità, servizi sociali) od economico. A tale stregua, gli impianti sportivi di proprietà comunale (ad es., piscina comunale) appartengono al patrimonio indisponibile del Comune essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive (53). (52) “Fanno parte del patrimonio indisponibile del ministero della difesa, se a esso assegnati in uso, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra e comunque militari, gli edifici destinati a sede di pubblici uffici con i loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio della Difesa”. (53) Conf. Cass., S.u., 20 aprile 2015 n. 7959, la quale enuncia il corollario che qualora tali beni siano dati in concessione a privati, restano devolute al G.A. le controversie sul rapporto concessorio, inclusa quella sull’inadempimento degli obblighi concessori e la decadenza del concessionario. Analogamente: Cons. Stato, 27 febbraio 2018, n. 1172, con la precisazione che la gestione di tali impianti può essere effettuata dall’amministrazione competente in forma diretta oppure indiretta, mediante affidamento a terzi individuati con procedura selettiva. Ancora: Cons. Stato, 13 febbraio 2023, n. 1517: l’impianto sportivo rientra nella previsione ex art. 826, comma 3 (nel caso di specie: beni di proprietà dei Comuni destinati a un pubblico servizio) e, dunque, è assoggettato al regime dei beni patrimoniali indi rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 necessario, affinché una cosa abbia la qualifica di “bene destinato a un pubblico servizio”, e quindi di bene pubblico, è -oltre alla manifestazione di volontà, dell’ente titolare del diritto reale pubblico, di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio -anche la effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio (54). diversamente dai beni indisponibili descritti in precedenza (i quali sono pubblici se appartengono ad enti territoriali), i beni destinati a un pubblico servizio, compresi gli edifici destinati a sede di uffici con i loro arredi, sono pubblici (art. 830, comma 2, c.c.) se appartengono a qualsivoglia ente pubblico, territoriale o non territoriale, quali ad es. gli enti di previdenza. 8. regime giuridico dei beni oggettivamente pubblici: inalienabilità dei beni demaniali e rispetto della destinazione dei beni patrimoniali indisponibili. l’inalienabilità è il tratto caratterizzante i beni demaniali. Tanto viene enunciato dall’art. 823, comma 1, c.c. secondo cui “i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”. l’inalienabilità è assoluta con riguardo ai beni del demanio necessario ed ai beni del demanio accidentale indissolubilmente legati a un determinato ente territoriale (es. piazze dei centri urbani). l’inalienabilità è invece relativa quando, in base alla legge è possibile il trasferimento del bene da un ente territoriale ad altro ente territoriale, come previsto nel codice della strada con la riclassificazione delle strade. Peculiare è la disciplina del demanio culturale: i beni del demanio culturale -e quindi appartenenti allo Stato, alle regioni e agli enti locali -secondo la disciplina di diritto comune prevista nel Codice Civile dovrebbero essere tutti inalienabili. il Codice dei beni culturali (artt. 54-55) mantiene il regime della inalienabilità per una parte di tali beni (una parte degli immobili, ossia solo gli immobili e le aree di interesse archeologico, e le universalità); per la restante parte (la parte residuale degli immobili, ossia gli immobili riconosciuti di interesse storico e artistico) è possibile l’alienazione, ma questa deve essere autorizzata dall’amm.ne. Corollari della inalienabilità sono i seguenti: a) indisponibilità. non si può disporre del bene o di singole sue porzioni. il bene non può essere oggetto di atti di alienazione o costitutivi di diritti a carattere reale (di godimento o di garanzia) o personale di godimento a favore di terzi. Venendo in rilievo una sponibili, i quali non possono essere sottratti alla loro destinazione, sussistendo un vincolo funzionale all’impiego in favore della collettività; necessario corollario è che la conduzione degli impianti rientra nella concessione di servizi, e non già nella concessione di beni. (54) Conf. Cass. S.u., 23 giugno 1993, n. 6950; Cass., 13 marzo 2007, n. 5867; Cass. 22 giugno 2004, n. 11608. ConTribuTi di doTTrinA norma imperativa, quale è l’art. 823 c.c., ed altresì una qualità giuridica essenziale del bene, un negozio avente ad oggetto l’alienazione del bene è nullo ex art. 1418, comma 1 (“il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative”) e comma 2 (“mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346”, tra cui la possibilità giuridica) c.c. Va precisato che per alcune categorie di beni pubblici -come per i beni culturali, per quanto si illustrerà nella sedes materiae -leggi speciali consentono, con apposito procedimento amministrativo di autorizzazione, la alienazione; b) imprescrittibilità (art. 2934, comma 2, c.c.: “Non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge”); c) non usucapibilità (artt. 2934, comma 2, richiamato dall’art.1165 c.c. (55), in uno all’art. 1145 c.c. (56)); d) sottrazione del bene alla garanzia patrimoniale dei creditori dell’ente di appartenenza. il bene o singole sue porzioni non può essere assoggettato ad esecuzione sulla base di un titolo ex art. 474 c.p.c. (espropriazione forzata o esecuzione in forma specifica) e, quindi, neanche a sequestro. di conseguenza è inammissibile la costituzione di diritti reali di garanzia (pegno ed ipoteca), come è confermato dall’art. 2810 c.c. secondo cui “Sono capaci d’ipoteca: 1) i beni immobili che sono in commercio con le loro pertinenze”; e) non espropriabilità per pubblica utilità (57). i beni demaniali possono formare oggetto di diritti a favore di terzi solo nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano, ossia a mezzo di concessione. Solo l’autorità cui è rimessa la cura di beni può costituire diritti alieni sugli stessi; essa soltanto è infatti in grado di apprezzare se ed entro quali limiti sia possibile derogare alla regola per cui i beni stessi debbono restare nella disponibilità della P.A. il tratto caratterizzante dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile è il rispetto della loro destinazione. Tanto viene enunciato dall’art. 828, comma 2, c.c. secondo cui “i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Specifiche disposizioni potrebbero (55) “Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione e al computo dei termini si osservano, in quanto applicabili, rispetto all’usucapione”. (56) “il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto. Tuttavia nei rapporti tra privati è concessa l’azione di spoglio rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio e ai beni delle province e dei comuni soggetti al regime proprio del demanio pubblico. Se trattasi di esercizio di facoltà, le quali possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione, è data altresì l’azione di manutenzione”. il citato art. 1145 c.c. chiaramente enuncia che -con riguardo alle cose di cui non si può acquistare la proprietà, tra cui i beni demaniali -il possesso è senza effetto, sicché non può fondare il presupposto per l’esercizio delle azioni possessorie; solo nei rapporti tra privati (non quindi nei rapporti con la P.A. titolare del bene), a date condizioni, è esercitabile l’azione di spoglio o l’azione di manutenzione. (57) Art. 4, comma 1, d.P.r. n. 327/2001: “i beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione”. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 stabilire la inalienabilità del bene. Tanto è disposto per le foreste, costituenti il c.d. demanio forestale, dall’art. 107 r.d. n. 3267/1923 statuente la inalienabilità. in ogni altra circostanza il bene -se viene conservata la sua destinazione -è alienabile. ove non possa essere conservata la destinazione, il bene -in via implicita -non è alienabile; in questi casi la inalienabilità costituisce la necessaria conseguenza dei caratteri del bene e delle funzioni cui esso assolve; così è per i beni appartenenti alle forze armate, la cui alienazione comporta sempre e necessariamente il venir meno della loro destinazione e resta, pertanto, automaticamente esclusa (58); così è altresì per le miniere, le quali, giusta la disciplina di cui al r.d. n. 1443/1927, non possono appartenere che allo Stato, nonché le cave e torbiere che l’art. 45 r.d, cit. assimila al regime delle miniere (59). il bene appartenente al patrimonio indisponibile -attesa la destinazione pubblicistica -è altresì imprescrittibile e non può essere acquistato da altri per usucapione (arg. ex art. 1145 c.c.; artt. 1 e 2 r.d. 18 novembre 1923 n. 2440; art. 9, comma 1, r.d. 23 maggio 1924 n. 827). l’atto che determini un mutamento della destinazione è invalido in quanto in contrasto con norme imperative: annullabile ex art. 21 octies, comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241 se trattasi di provvedimento amministrativo e nullo ex art. 1418, comma 1, c.c. se trattasi di negozio. Tuttavia, ove in violazione della legge, un terzo acquisisca il possesso del bene, facendo cessare di fatto la destinazione pubblica ed in assenza di reazione di tutela dell’ente pubblico, sarà possibile l’acquisto per usucapione (sussistendo i requisiti del possesso ad usucapionem); tanto sempre che il bene non sia, in via espressa o in via implicita, inalienabile. l’acquisto di un bene mobile indisponibile ex art. 1153 c.c. (con il possesso vale titolo) è difficile da configurarsi, tenuto conto dei requisiti del titolo astrattamente idoneo all’acquisto del diritto e della buona fede (60). l’art. 9, comma 1, r.d. n. 827/1924 è coerente con la disciplina descritta: “Si considerano non disponibili quei beni che per la loro destinazione ad un servizio pubblico o, governativo ovvero per disposizioni di legge non possono essere alienati o comunque tolti dal patrimonio dello Stato”. inammissibile è l’esecuzione forzata nei confronti dei beni pubblici indisponibili ostandovi l’art. 828, comma 2, c.c., come confermato dall’art. 514 n. 5 c.p.c. per il quale non si possono pignorare “le armi e gli oggetti che il debitore ha l’obbligo di conservare per l’adempimento di un pubblico servizio”. A date condizioni fissate dalla legge, può anche venire meno la specifica (58) Per questo rilievo: G. inGroSSo, voce Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, cit., p. 669. (59) Conf. A.M. SAndulli, voce Beni pubblici, cit., p. 292 e C. ferrAri, voce Servitù prediali pubbliche, cit., p. 176, nota 4. (60) Così G. inGroSSo, voce Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, cit., p. 669. ConTribuTi di doTTrinA destinazione del bene. Ciò è previsto, in tema di espropriazione per pubblica utilità, dall’art. 4, comma 2, d.P.r. n. 327/2001 secondo cui: “i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione”. 9. Peculiarità della disciplina urbanistica ed edilizia dei beni oggettivamente pubblici. le cose immobili delle categorie riservate (demanio marittimo, acque pubbliche, beni minerari) sono in via di principio sottratte alla disciplina urbanistica, sia con riguardo alla necessità della adozione del titolo abilitativo alla edificazione, sia con riguardo ai vincoli della pianificazione (61). infatti, le discipline di specie relative a tali cose prevedono che il governo delle trasformazioni strutturali delle stesse nella loro globalità è riservato all’autorità preposta alla loro amministrazione. Vi è un procedimento amministrativo di controllo della conformità urbanistica di dette opere regolata con il d.P.r. 18 aprile 1994, n. 383. Ai sensi dell’art. 2 del detto d.P.r. per le opere pubbliche da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e per le opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti “l’accertamento della conformità alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi, salvo che per le opere destinate alla difesa militare, è fatto dallo Stato di intesa con la regione interessata”. È consentita altresì la localizzazione delle opere di interesse statale in difformità agli strumenti urbanistici: giusta l’art. 3 del d.P.r. citato “Qualora l’accertamento di conformità di cui all’articolo 2 del presente regolamento, dia esito negativo, oppure l’intesa tra lo Stato e la regione interessata non si perfezioni entro il termine stabilito, viene convocata una conferenza di servizi ai sensi degli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241. alla conferenza di servizi partecipano la regione e, previa deliberazione degli organi rappresentativi, il comune o i comuni interessati, nonché le altre amministrazioni dello Stato e gli enti comunque tenuti ad adottare atti di intesa, o a rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta, previsti dalle leggi statali e regionali”. Ciò non di meno, la normazione urbanistica, contenente prescrizioni circa la realizzazione delle trasformazioni immobiliari (di fonte legislativa, regolamentare, di piano regolatore) circa le distanze, le altezze, il rapporto dei singoli interventi con le opere di urbanizzazione, ecc., si applica anche alle trasformazioni delle cose immobili comprese in categorie riservate, sempre che siano ad esse applicabili per omogeneità di contenuto. (61) Su tali aspetti: V. Cerulli irelli, voce Beni pubblici, cit., p. 301. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 Anche gli altri beni a destinazione pubblica sono da ritenere in via di principio sottratti alla pianificazione urbanistica. All’evidenza, la regola circa la non sottraibilità di detti beni alla destinazione deroga a tutto il diritto dei beni (non solo al diritto civile); e perciò i poteri nei quali si esprime la pianificazione urbanistica non possono estendere la loro efficacia ai beni a destinazione pubblica: questi, insomma, non possono in concreto essere sottratti alla loro destinazione per effetto degli atti di pianificazione territoriale (62). Per il resto le cose immobili non rientranti nelle categorie riservate, ancorché aventi una destinazione pubblica, devono essere munite del titolo edilizio (63). 10. regime giuridico dei beni oggettivamente pubblici: disciplina tributaria. i beni pubblici -demanio ed indisponibili -ove non produttivi di reddito, non sono soggetti ad imposte (64). Giusta l’art. 73, comma 1, d.P.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.u. delle imposte sui redditi) sono soggetti all’imposta sul reddito delle società: “b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato; d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato”. Giusta l’art. 74 d.P.r. n. 917/1986 “1. Gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, le unioni di comuni, i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demanio collettivo, le comunità montane, le province e le regioni non sono soggetti all’imposta. 2. Non costituiscono esercizio dell’attività commerciale: a) l’esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici; b) l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie da parte di enti pubblici istituiti esclusivamente a tal fine, comprese le aziende sanitarie locali nonché l’esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria”. in sintesi: l’imposta sul reddito si applica anche agli enti pubblici (ivi compreso lo Stato) ove essi esercitino una attività commerciale. Ciò indipen (62) Conf. Cons. Stato, Ad. Plen., 27 maggio 1983, n. 13 secondo cui è illegittima l’approvazione da parte della regione di uno strumento urbanistico che muta la destinazione di un bene appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato, senza previa intesa fra le due amministrazioni. (63) Così, con riguardo agli acquedotti, V. Cerulli irelli, S. Pelillo, voce acquedotti e canali pubblici, cit., p. 6. (64) Così A.M. SAndulli, voce Beni pubblici, cit., p. 299. Conf. art. 18, comma 3, lett. a), r.d. 8 ottobre 1931, n. 1572. G. inGroSSo, voce Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, cit., pp. 669-670. ConTribuTi di doTTrinA dentemente dalla natura del bene utilizzato. Se lo Stato esercita una miniera (bene riservato) è certamente soggetto all’imposta. Se possiede immobili urbani, è soggetto all’imposta se li utilizza concedendoli in locazione a privati e non vi è soggetto se li utilizza come sede dei propri uffici (come bene a destinazione pubblica). Sono esenti dall’iMu (imposta municipale propria), attualmente regolata dall’art. 1, commi da 739 a 783, l. 27 dicembre 2019, n. 160, “gli immobili posseduti dallo Stato, dai comuni, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dagli enti del Servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali” (art. 1, comma 759, lett. a, l. n. 160/2019). 11. Beni oggettivamente pubblici e limitazioni a terzi nei rapporti di vicinato. un’altra peculiarità inerente il regime dei beni pubblici -e specificamente di quelli immobili -è costituita dalle limitazioni che la loro prossimità spesso comporta per le proprietà limitrofe. Si cita, ad es., la sottrazione al diritto potestativo del vicino di costruire in aderenza all’edificio demaniale (art. 879, comma 1, c.c.) (65). 12. Gestione dei beni pubblici. i beni pubblici di norma sono gestiti direttamente dall’ente pubblico competente. i beni immobili dello Stato (oltre che pubblici anche quelli posseduti a titolo di privata proprietà) “sono amministrati a cura del ministero delle finanze, salve le eccezioni stabilite da leggi speciali” (art. 1, comma 1, r.d. n. 2440/1923). il Ministero delle finanze era il soggetto al quale si collegava, per ragioni organizzative -attesa la natura dello Stato di amministrazione disaggregata (persona giuridica complessa composta da un coacervo di soggetti di diritto, quali sono i Ministeri e le amministrazioni statali autonome) -l’appartenenza dei beni. All’attualità, nella materia si è avuta una successione ex lege delle competenze in favore dell’Agenzia del demanio ex art. 65 d.l.vo n. 300/1999 (66). in deroga alla competenza generale attribuita in materia all’Agenzia del demanio “i beni immobili assegnati ad un servizio governativo s’intendono concessi in uso gratuito al ministero da cui il servizio dipende e sono da esso amministrati. Tosto che cessi tale uso passano all’amministra( 65) “alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, né gli edifici che sono riconosciuti di interesse storico, archeologico o artistico, a norma delle leggi in materia. il vicino non può neppure usare della facoltà concessa dal- l’articolo 877”. (66) Conf. Cass., 8 febbraio 2012, n. 1797 secondo cui nel subingresso ex lege dell’Agenzia del demanio al Ministero dell’economia e delle finanze si è realizzato “un fenomeno di successione a titolo particolare nella titolarità del bene” (in un’azione di acquisto per usucapione). nello stesso senso Cass., 22 marzo 2018, n. 7152 (causa involgente l’actio negatoria). rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 zione delle finanze” (art. 1, comma 2, r.d. n. 2440/1923). in virtù di quest’ultima disposizione il Ministero assegnatario dell’immobile in uso governativo amministra, gestisce e tutela i beni immobili patrimoniali (67). l’Agenzia del demanio può tornare ad esercitare i propri poteri di amministrazione ed autotutela solo quando cessi l’uso gratuito che forma oggetto della concessione per una delle cause che comportano il venir meno del provvedimento concessorio; la concessione gratuita, finchè perdura, preclude all’Agenzia di ingerirsi nell’uso del bene demaniale affidato a terzi; solo ove vi sia contestazione del diritto di proprietà dei beni pubblici concessi in uso governativo, legittimata ad agire è l’Agenzia del demanio, in quanto attributaria della proprietà dei beni pubblici (68). Sia per gli immobili che per i mobili dello Stato sono previsti degli speciali inventari (art. 2, r.d. n. 2440/1923). Quando i beni pubblici, come di norma, sono gestiti direttamente dall’ente pubblico competente viene in rilievo l’ente titolare, ma in dati casi -ove sia separata la titolarità dalla gestione - viene in rilievo l’ente gestore. Casi di scissione della titolarità dalla gestione si hanno, ad es. e per citare i casi più rilevanti, nel demanio marittimo ed idrico. Per il demanio marittimo viene in rilievo l’art. 59, comma 1, d.P.r. 24 luglio 1977, n. 616 secondo cui sono delegate alle regioni le funzioni amministrative sul demanio marittimo quando la utilizzazione prevista abbia finalità turistiche e ricreative ed altresì l’art. 105 d.l.vo n. 112/1998 che ha completato il conferimento delle funzioni alle regioni sul demanio marittimo salve le ipotesi escluse di cui alla lettera l) del comma 2. Per il demanio idrico tanto è disposto dall’art. 86 d.l.vo n. 112/1998 secondo cui “1. alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le regioni e gli enti locali competenti per territorio. 2. i proventi dei canoni ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono introitati dalla regione”. la gestione della regione, da un punto di vista civilistico, configura un possesso utile di detti beni del demanio, specie idrico, ovvero la titolarità di un diritto reale, attesa l’ampiezza dei poteri e delle facoltà attribuiti appunto alle regioni dalla legge (in tema di demanio idrico; artt. 86 e 89 del d.l.vo n. 112/1998) con riguardo a tali beni, sostanziantesi in quelli propri di un usufruttuario ex lege. i beni pubblici possono essere gestiti indirettamente dall’ente pubblico competente, con l’adozione di un atto attributivo della gestione a terzi. lo (67) Conf. Cass., 7 dicembre 2000, n. 15546; T.a.r. Campania napoli, 24 gennaio 2007, n. 660; T.a.r. lazio roma, 10 maggio 2006, n. 3432; T.a.r. Marche, 28 maggio1999, n. 649 e T.a.r. lazio, 10 febbraio 1987, n. 287 (queste tre ultime sentenze precisano che il Ministero il quale abbia in uso un immobile appartenente al patrimonio dello Stato assegnatogli dall’amministrazione delle finanze è legittimato ad agire in via di autotutela per riottenere la disponibilità dell’immobile o reprimere eventuali turbative al godimento del bene). (68) Conf. Cass., n. 15546/2000 cit. ConTribuTi di doTTrinA strumento non può essere -per quanto detto in ordine alla indisponibilità dei beni demaniali e all’immutabilità della funzione dei beni patrimoniali indisponibili -il negozio giuridico di diritto privato, ma il provvedimento amministrativo o l’accordo sostitutivo di provvedimento ex art. 11 l. n. 241/1990. il provvedimento è la concessione amministrativa. Come innanzi evidenziato la disciplina concernente i criteri e le modalità di concessione della gestione e dell’uso dei beni immobili appartenenti allo Stato è contenuta nel regolamento di cui al d.P.r. n. 296/2005. numerose sono le disposizioni speciali dettate solo per alcuni tipi di beni demaniali, come ad esempio l’art. 35 d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, conv. l. 28 febbraio 2020, n. 8, recante disposizioni in materia di concessioni autostradali (69). 13. Utilizzazione dei beni oggettivamente pubblici. Uso diretto. Uso indiretto (generale o particolare). i beni pubblici possono essere utilizzati sia dagli enti proprietari (utilizzazione diretta), sia da altri soggetti dell’ordinamento, ancorché privati (utilizzazione indiretta, che può essere generale o particolare). - Uso diretto. l’uso diretto può essere coessenziale alla cura degli interessi pubblici in attribuzione. Vi è una riserva in favore dell’utilizzazione amministrativa, con preclusione all’uso generale. È il caso questo, ad es., del demanio militare o degli edifici del demanio culturale utilizzati come sede di pubblici uffici. nel caso in cui sia consentito anche l’uso ad estranei si parla di uso promiscuo. È il caso delle strade militari (demanio militare) aperte all’uso pubblico. - Uso indiretto. ove non ricorra il caso della utilizzazione diretta, i beni pubblici possono formare oggetto di diritti a favore di terzi ed essere da questi usati, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. l’utilizzazione indiretta può essere generale o particolare. - Uso indiretto generale. (69) “1. in caso di revoca, di decadenza o di risoluzione di concessioni di strade o di autostrade, ivi incluse quelle sottoposte a pedaggio, nelle more dello svolgimento delle procedure di gara per l’affidamento a nuovo concessionario, per il tempo strettamente necessario alla sua individuazione, aNaS S.p.a., in attuazione dell’articolo 36, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, può assumere la gestione delle medesime, nonché svolgere le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria e quelle di investimento finalizzate alla loro riqualificazione o adeguamento. Sono fatte salve le eventuali disposizioni convenzionali che escludano il riconoscimento di indennizzi in caso di estinzione anticipata del rapporto concessorio, ed è fatta salva la possibilità per aNaS S.p.a., ai fini dello svolgimento delle attività di cui al primo periodo, di acquistare gli eventuali progetti elaborati dal concessionario previo pagamento di un corrispettivo determinato avendo riguardo ai soli costi di progettazione e ai diritti sulle opere dell’ingegno di cui all’articolo 2578 del codice civile. […]. L’efficacia del provvedimento di revoca, decadenza o risoluzione della concessione non è sottoposta alla condizione del pagamento da parte dell’amministrazione concedente delle somme previste dal citato articolo 176, comma 4, lettera a)”. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 nell’uso generale, potenzialmente, tutti i componenti della collettività, uti cives, possono usare il bene per ricavarne la tipica utilitas. la latitudine dell’uso generale coincide -tendenzialmente -con la demanialità marittima, con quella idrica, con quella stradale e autostradale, infine con la demanialità culturale per i suoi aspetti prevalenti. l’uso generale non costituisce -tuttavia -un dato ontologico del bene, ma è il frutto delle scelte della P.A. attributaria degli interessi rilevanti. il lido e la spiaggia non hanno quale utilizzazione unica e vincolata la destinazione all’uso generale; la P.A. può decidere di utilizzarla per esigenze militari (uso diretto), oppure può darla in concessione (uso indiretto particolare) per uso balneare o per la realizzazione di un “marina” (porto turistico attrezzato per il soggiorno degli utenti) (70). Vi è un diritto soggettivo all’uso, al godimento del bene; il pubblico potere può però intervenire a limitare l’uso per particolari ragioni di interesse pubblico ed allora germina altresì un interesse legittimo (71). la dottrina prevalente, invece, ritiene che i consociati vantino interessi semplici (c.d. “diritti civici”), ossia interessi non qualificati e non, quindi, diritti soggettivi o interessi legittimi. Ciò in quanto: “da un lato, non sussiste un obbligo giuridico dell’amministrazione di assicurare ai singoli il godimento dei beni; e, dall’altro, il dovere a essa imposto dell’ordinamento di curare la gestione dei beni non è giuridicamente correlato -sia pure in modo indiretto -con gli interessi dei singoli, sicché questi possano dirsi occasionalmente protetti dalla norma che quel dovere impone” (72). l’uso generale è consentito direttamente dalla legge (rectius: dalla conformazione normativa dei beni pubblici); esso può richiedere all’usuario secondo le previsioni normative -il pagamento di una somma (prezzo o tassa) o il rilascio di un titolo (biglietto, permesso, ecc.) oppure un’autorizzazione dall’ente pubblico (es. scarico nelle acque pubbliche); questi requisiti non comportano una limitazione al diritto all’uso potenzialmente (70) Si rileva in dottrina che “Con un suo noto parere [C. St. sez. ii, 14 dicembre 1976, n. 1144], sinora non contraddetto da pronunce successive, il Consiglio [di Stato] ha ritenuto anzitutto che la «soddisfazione di interessi collettivi di genere diverso dal materiale godimento del bene» rientra nelle finalità che la pubblica amministrazione può legittimamente proporsi in sede di gestione della proprietà pubblica. Se, anzi, il pubblico uso «scaturisce direttamente ed originariamente dalla demanialità del bene, non esaurisce l’attitudine di questo ad essere destinato ad altri fini di utilità generale e spetta all’amministrazione... contemperare gli interessi volta a volta emergenti con una discrezionalità che, essendo manifestamente tipica di una potestà amministrativa, né può essere usurpata da organi cui è attribuito l’esercizio di diverse funzioni, né può essere da costoro conculcata ovvero repressa»”. Così: V. CAPuTi iAMbrenGhi, voce Beni pubblici (uso dei), in Digesto Disc. Pubblic., vol. ii, 1987, uTeT, p. 310. (71) Conf. G. inGroSSo, voce Demanio (diritto moderno), cit., p. 431 secondo cui gli usi generali sono diritti pubblici subiettivi, garantiti dalla Costituzione e derivano dal diritto di libertà civile (artt. 16 e 41 Cost.). (72) Così A.M. SAndulli, voce Beni pubblici, cit., pp. 287-288. Analogamente, ex plurimis: e. CASeTTA, manuale di diritto amministrativo, XVi edizione, Giuffré, 2014, p. 222. ConTribuTi di doTTrinA indifferenziato da parte della collettività, ma sono in funzione del miglior uso generale (73). nel demanio marittimo, quisque de populo, può usare la spiaggia c.d. libera (cioè non attribuita in concessione) a fine di balneazione (74). l’uso resta generale anche ove vi siano limiti di capienza fisica -distanziamento per ragioni di igiene e sanità -atteso che ciò è funzionale a garantirne un uso potenzialmente generale a tutti. nel demanio idrico “La navigazione nei fiumi, laghi e canali naturali è libera” (così art. 17, comma 1, r.d. 11 luglio 1913, n. 959), sicché può essere esercitata da chiunque. nel demanio autostradale (sia nel caso di gestione diretta ad opera del- l’ente competente, che nel caso di concessione) quisque de populo, può usare l’autostrada al fine della circolazione motorizzata. l’uso resta generale anche ove vi sia il pagamento di un biglietto (c.d. pedaggio autostradale) del quale è discussa la natura giuridica (75). nel demanio culturale quisque de populo, può visitare un museo. l’uso resta generale anche ove vi sia il pagamento di un biglietto o dei contingentamenti al fine della corretta fruizione da parte di tutti. - Uso indiretto particolare. nell’uso particolare solo alcuni componenti della collettività, uti singuli, possono usare il bene per ricavarne la tipica utilitas. il titolo dell’uso può essere direttamente la legge. in casi particolari il titolo può essere costituito dall’usucapione: è il caso dell’acquisto, da parte di terzi, di diritti reali diversi dalla proprietà (ad es. diritti di servitù) con il possesso sempre che si tratti di diritti non incompatibili con la conservazione del bene alla sua destinazione (76). il caso normale, tuttavia, è che il titolo è costituito dal provvedimento amministrativo, sub specie di concessione; la scelta del concessionario, in quest’ultima evenienza, deve avvenire tramite procedure concorsuali (77). (73) Conf. A.M. SAndulli, manuale di diritto amministrativo, vol. ii, cit., p. 783 e pp. 786-787. (74) T.a.r. Puglia lecce, 5 maggio 2005, n. 2654 osserva che “il contenuto del diritto soggettivo di godere del bene marittimo si esplica nel diritto ad accedere liberamente alla spiaggia, senza imposizione di oneri economici, nel diritto di potersi posizionare ovunque, senza preclusioni, di godere del- l’habitat marino e nel diritto a non utilizzare strutture offerte da terzi, che intendono ritrarre utilità economiche dall’offerta dei vari servizi. Siffatto diritto spetta ai componenti della collettività, non solo come uti cives, ma addirittura come uti homines”. (75) il rapporto di utenza autostradale viene a volte qualificato di natura privatistica (sicché il pedaggio avrebbe natura di corrispettivo contrattuale) e a volte qualificato di natura pubblicistica (sicché il pedaggio avrebbe natura di tassa); sulla problematica: l. oruSA, voce Pedaggio (diritto vigente), in Noviss. Digesto, vol. Xii, uTeT, 1965, pp. 759-761. Per la tesi privatistica: A.M. SAndulli, voce autostrada, in Enc. Dir., vol. iV, 1959, Giuffré, pp. 527-528. (76) Così A.M. SAndulli, voce Beni pubblici, cit., p. 293. (77) Conf. ex plurimis Cons. Stato, 31 maggio 2011, n. 3250, la quale precisa che la mancanza di una procedura competitiva circa l’assegnazione di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento econo rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 nel demanio marittimo l’utilizzo dell’area per l’esercizio di un cantiere navale esclude che altri possano egualmente utilizzare la stessa area. nel patrimonio minerario l’utilizzo della miniera da parte del concessionario esclude chiunque altro da quell’uso. 14. Tutela giurisdizionale ed amministrativa dei beni oggettivamente pubblici. l’art. 823, comma 2, c.c. -con riguardo al demanio pubblico -enuncia: “Spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice”. la disposizione è dettata per i beni demaniali, ma il pacifico orientamento giurisprudenziale è nel senso di applicarla anche con riguardo ai beni del patrimonio indisponibile (78). la P.A. può ricorrere, rivolgendosi all’A.G.o., ai mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso. ossia alle azioni a difesa della proprietà (artt. 948-951 c.c.: rivendicazione; negatoria; di regolamento di confini; per apposizione di termini) e a difesa delle servitù (art. 1079 c.c.) ed alle azioni a difesa del possesso (artt. 1168-1170 c.c.: di reintegrazione e di manutenzione; artt. 1171-1172 c.c.: denunzia di nuova opera e di danno temuto). Ciò costituisce estrinsecazione della capacità di diritto comune degli enti pubblici (79). la P.A. può altresì procedere in via amministrativa, ossia in autotutela, liberando -con propri uomini e mezzi -il bene pubblico dall’occupatore abusivo, dopo il provvedimento, ineseguito, intimante il rilascio del bene. la dottrina prevalente ritiene che la disposizione di cui al comma 2 del- l’art. 823 c.c. sul potere di autotutela -per la sua formulazione generica, la quale non individua il contenuto del potere di autotutela ed i soggetti titolari -sia solo ricognitiva di un potere specificamente disciplinato in disposizioni ad hoc (80) e che non sussisterebbe, sulla sola base dell’art. 823 c.c., un gemico, introduce una barriera all’ingresso al mercato, determinando una lesione alla parità di trattamento, al principio di non discriminazione ed alla trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei principi comunitari di concorrenza e di libertà di stabilimento. (78) Ex plurimis: Cons. Stato, 1 ottobre 1999, n. 1224; T.a.r. Campania, 5 gennaio 2007 n. 67. (79) Ex plurimis: V. Cerulli irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Vi edizione, Giappichelli, 2017, p. 244. (80) disposizione ad hoc è ad esempio, in tema di demanio marittimo, l’art. 54 c. n. secondo cui “Qualora siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate, il capo del compartimento ingiunge al contravventore di rimettere le cose in pristino entro il termine a tal fine stabilito e, in caso di mancata esecuzione dell’ordine, provvede d’ufficio, a spese dell’interessato”. Altra disposizione ad hoc è l’art. 378, commi 1 e 2, l. 20 marzo 1865, n. 2248 legge sui lavori pubblici (All. f): “1. Per le contravvenzioni alla presente legge, che alterano lo stato delle cose, è riservato al prefetto l’ordinare la riduzione al primitivo stato, dopo di aver riconosciuta la regolarità delle denuncie, e sentito l’ufficio del Genio civile. Nei casi di urgenza il medesimo fa eseguire immediatamente di ufficio i lavori per il ripristino. 2. Sentito poi il trasgressore per mezzo dell’autorità locale, il prefetto provvede al rimborso a di lui carico delle spese degli atti e della esecuzione di ufficio, ConTribuTi di doTTrinA nerale potere di autotutela della P.A. (81). Tesi, questa, che sarebbe confermata dal disposto dell’art. 21 ter, comma 1, l. n. 241/1990 (82). l’orientamento prevalente in giurisprudenza -condivisibile -è diverso: la disposizione in esame è direttamente precettiva, venendo in rilievo un caso, in materia di tutela dei beni pubblici, stabilito dalla legge e, quindi, rispettoso del principio di legalità (83). Per la riscossione dei crediti -certi, liquidi ed esigibili -collegati con il godimento da parte di terzi di beni pubblici, la P.A. può ricorrere alla adozione della ingiunzione fiscale, strumento di autotutela regolato dal r.d. 14 aprile 1910 n. 639, e confermato dal comma 2 dell’art. 21 ter l. n. 241/1990. Autotutela consentita anche nell’ipotesi che il credito germini dal godimento sine titulo da parte di terzi di beni pubblici, in virtù dell’art. 1, comma 274, l. 30 dicembre 2004, n. 311 secondo cui “relativamente alle somme non corrisposte all’erario per l’utilizzo, a qualsiasi titolo, di immobili di proprietà dello Stato, decorsi novanta giorni dalla notificazione, da parte dell’agenzia del demanio ovvero degli enti gestori, della seconda richiesta di pagamento delle somme dovute, anche a titolo di occupazione di fatto, si procede alla loro riscossione mediante ruolo, con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali”. 15. Vicende della qualità di bene pubblico: acquisto, modificazione ed estinzione della qualità di bene pubblico. -acquisto della qualità di bene pubblico. una cosa ha la qualità di bene pubblico allorché abbia, oggettivamente, i caratteri delineati dalla legge. la legge può richiedere che la cosa abbia determinati aspetti fisici e/o naturali. Può richiedere altresì che, in aggiunta rendendone esecutoria la nota, e facendone riscuotere l’importo nelle forme e coi privilegi delle pubbliche imposte”. Ancora art. 30, commi 2 e 3, d.l.vo n. 285/1992: “2. Salvi i provvedimenti che nei casi contingibili ed urgenti possono essere adottati dal sindaco a tutela della pubblica incolumità, il prefetto sentito l’ente proprietario o concessionario, può ordinare la demolizione o il consolidamento a spese dello stesso proprietario dei fabbricati e dei muri che minacciano rovina se il proprietario, nonostante la diffida, non abbia provveduto a compiere le opere necessarie. 3. in caso di inadempienza nel termine fissato, l’autorità competente ai sensi del comma 2 provvede d’ufficio alla demolizione o al consolidamento, addebitando le spese al proprietario”. (81) Ex plurimis: e. CASeTTA, manuale di diritto amministrativo, cit., p. 209 e M. oliVi, voce Beni pubblici, in il Diritto, Enciclopedia Giuridica del Sole 24 ore, Corriere della Sera il Sole 24 ore, vol. 2, 2007, p. 506. (82) “Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge”. (83) Conf. Cons. Stato, 20 aprile 2000, n. 2428, secondo cui il potere ex art. 823, comma 2, c.c. “in base ad un orientamento della giurisprudenza della Sezione (cfr. 19 dicembre 1988, n. 1073) ha un ambito di applicazione generale, costituendo ipotesi autonoma, rispetto alle singole disposizioni di legge, che prevedono particolari procedimenti a tutela dei beni demaniali”. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 agli elementi naturali, la cosa sia altresì destinata, in modo effettivo ed attuale, ad una specifica funzione o ad uno specifico servizio. la qualificazione di bene pubblico ad opera dell’amm.ne mediante un proprio atto, mediante l’inserimento in un elenco ha un carattere meramente dichiarativo e non costitutivo. Sicché, nel caso in cui un bene assuma i connotati di lido, spiaggia, ecc. esso -in modo automatico -appartiene al demanio marittimo, indipendentemente da un atto costitutivo della P.A. o da opere pubbliche sullo stesso realizzate, mentre il preesistente diritto di proprietà privata subisce una corrispondente contrazione, fino, se necessario, alla totale eliminazione, sussistendo, ormai, quei caratteri che, secondo l’ordinamento giuridico vigente, precludono che il bene possa formare oggetto di proprietà privata (84). Allo stesso modo, l’appartenenza dei laghi al demanio pubblico prescinde dall’inserimento nell’elenco delle acque pubbliche, data la natura dichiarativa del relativo provvedimento, essendo sufficiente, per l’attribuzione della demanialità, l’accertamento in uno specchio d’acqua dei caratteri idrografici di un lago e non di uno stagno (85). Analogamente l’iscrizione delle strade negli appositi elenchi riveste natura dichiarativa, sicché è irrilevante la mancata inclusione nell’elenco delle strade comunali, se viene provata l’appartenenza della stessa all’ente pubblico territoriale (86). Per le cose d’interesse culturale aventi i requisiti fattuali di cui all’art. 10, comma 1, Codice beni culturali che siano opera di autore non più vivente o la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, vi è una presunzione legale relativa del possesso della qualità di bene culturale. Presunzione superabile all’esito della verifica (con esito negativo) dell’interesse culturale ex art. 12 del detto Codice. Trattasi di procedimento, attivabile d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono, all’esito del quale il Ministero della cultura adotta -entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta -un provvedimento, espressione di discrezionalità tecnica, di verifica con esito positivo oppure con esito negativo circa l’accertamento dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. Qualora sia stato riscontrato l’interesse culturale il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dall’art. 15, comma 2, del detto Codice, ed i beni restano definitivamente sottoposti alle disposizioni di tutela; qualora non sia stato riscontrato il detto interesse, si dispone l’esclusione dall’applicazione delle disposizioni di tutela e, ove vengano in rilievo cose appartenenti al demanio pubblico, i risultati vengono trasmessi ai competenti uffici affinché ne dispongano la sdemanializzazione (87). (84) Conf. Cass. 1 aprile 2015, n. 6619. (85) Conf. Cass. S.u. 30 aprile 2008, n. 10876. (86) Conf. Cons. Stato, 8 ottobre 2013, n. 4952. ConTribuTi di doTTrinA - modificazione della qualità di bene pubblico. un bene pubblico può perdere i connotati di un dato tipo ed acquistare quelli di un tipo diverso. Ad es. viene costruita una strada su di una spiaggia. - Estinzione della qualità di bene pubblico. Simmetricamente all’acquisto della qualità di bene pubblico, la perdita dei caratteri del bene pubblico delineati dalla legge determina la cessazione della qualità di bene pubblico. l’atto dell’amm.ne che attesti la cessazione della qualità (c.d. sdemanializzazione) ha un rilievo puramente dichiarativo. Tanto è confermato dall’art. 829 c.c. (88). rileva, quindi, anche la sdemanializzazione tacita. A tale stregua, la sdemanializzazione d’una strada può anche verificarsi senza l’adempimento delle formalità previste dalla legge in materia, ma occorre che essa risulti da atti univoci, concludenti e positivi della P.A., incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all’uso pubblico. né il disuso da tempo immemorabile o l’inerzia dell’ente proprietario possono essere invocati come elementi indiziari dell’intenzione di far cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all’uso pubblico, poiché è pur sempre necessario che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella che la P.A. abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo (89). Tuttavia in due specifici casi, ossia per il demanio marittimo e per quello idrico, la mera perdita delle caratteristiche naturali rilevanti della demanialità non è sufficiente a determinare la perdita della qualità di demanio in quanto è richiesto un provvedimento espresso che attesti ciò. Sicché il ripascimento definitivo della spiaggia o l’essiccamento del fiume non determina la cessazione della qualità, rispettivamente, di demanio marittimo ed idrico. Tanto per la rilevanza dei beni in gioco in correlazione alla circostanza che la cosa potrebbe riacquistare i connotati della demanialità. Per il demanio marittimo tanto è statuito dall’art. 35 c. nav. secondo cui “Le zone demaniali che dal capo del compartimento non siano ritenute uti (87) Per le cose aventi i requisiti fattuali di cui all’art. 10, comma 2, Codice dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici -ossia: a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi; b) gli archivi e i singoli documenti; c) le raccolte librarie delle biblioteche -vi è una presunzione legale assoluta del possesso della qualità di bene culturale: non è prevista la verifica dell’interesse culturale ex art. 12 del Codice (che potrebbe anche condurre alla esclusione dell’interesse culturale). (88) “il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato dev’essere dichiarato dall’autorità amministrativa. Dell’atto deve essere dato annunzio nella Gazzetta Ufficiale della repubblica. Per quanto riguarda i beni delle province e dei comuni, il provvedimento che dichiara il passaggio al patrimonio deve essere pubblicato nei modi stabiliti per i regolamenti comunali e provinciali”. disposizione analoga è fissata dall’art. 5 r.d. n .827/1924 secondo cui “i beni del pubblico demanio che cessano dalla loro destinazione all’uso pubblico passano al patrimonio dello Stato”. (89) Conf. Cass., 3 giugno 2008, n. 14666; Cass. 30 agosto 2004, n. 17387; Cass. 12 aprile 1996, n. 3451. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 lizzabili per pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del ministro per le comunicazioni di concerto con quello per le finanze” All’evidenza, la c.d. sdemanializzazione non può verificarsi tacitamente, ma richiede un espresso e formale provvedimento dell’autorità amministrativa, di carattere costitutivo (90). Pertanto, in difetto di tale provvedimento, l’arenile, ad es., non perde la propria qualità di bene demaniale, con la conseguenza che il possesso del medesimo da parte del privato è improduttivo di effetti nei rapporti con l’amm.ne (art. 1145, comma 1, c.c.), e, in particolare, è inidoneo all’acquisto della proprietà per usucapione. diversa dalla sdemanializzazione è la delimitazione di zone del demanio marittimo ex art. 32 c. nav. la quale tendendo a rendere evidente la demarcazione fra tale demanio e le proprietà private finitime, si presenta quale proiezione specifica della normale azione di regolamento di confini di cui all’art. 950 c.c., e si conclude con un atto di delimitazione, il quale ha una funzione di mero accertamento, in sede amministrativa, dei confini del demanio marittimo rispetto alle proprietà dei privati, senza l’esercizio di un potere discrezionale della P.A.; ne consegue che il privato, il quale contesti l’accertata demanialità del bene, può invocare la tutela della propria situazione giuridica soggettiva dinanzi al giudice ordinario, abilitato alla disapplicazione dell’atto amministrativo, se od in quanto illegittimo (91). Per il demanio idrico la regola della sdemanializzazione espressa con portata costitutiva è fissata dall’art. 947, comma 3, c.c. secondo cui “in ogni caso è esclusa la sdemanializzazione tacita dei beni del demanio idrico”. Cessata la qualità di bene pubblico, questo resta nella titolarità della P.A. a titolo di patrimonio disponibile. 16. Valorizzazione e dismissione dei beni appartenenti agli enti pubblici. lo Stato e gli altri enti pubblici hanno un immenso patrimonio immobiliare, sia con la qualità di bene pubblico che di patrimonio disponibile. essi per incapacità, inesatta ricognizione del patrimonio, carenza di personale, carenza di risorse finanziarie -non sono in grado di gestire in modo efficiente il loro patrimonio con una adeguata manutenzione ordinaria e straordinaria o se il bene non è necessario alle pubbliche funzioni -mediante concessione in godimento o alienazione. non di rado accade che un ente -specie quelli territoriali, a partire dallo Stato -ha propri immobili inutilizzati o concessi in godimento a terzi e, per cattiva amministrazione, prende in godimento beni di terzi pagando un canone per allocare propri uffici. Ciclicamente vengono adottate leggi per la valorizzazione ed alienazione (90) Conf. Cass., 19 febbraio 2019, n. 4839; Cass., 18 ottobre 2016, n. 21018; Cass. 11 maggio 2009, n. 10817. (91) in tal senso, Cass. 10817/2009 cit. ConTribuTi di doTTrinA (previa sdemanializzazione, se pubblico) del patrimonio immobiliare pubblico (92), ma l’esito è fallimentare. 17. aspetti generali dei beni di interesse pubblico. Accanto ai beni pubblici abbiamo i beni di interesse pubblico. Trattasi di beni appartenenti a privati, con un regime, fondamentalmente, di diritto comune. Tuttavia il bene riveste importanza non solo per il titolare, ma anche nell’interesse pubblico, atteso che assolve ad una finalità di pubblico interesse essendo anche funzionale al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività, in attuazione dei principi costituzionali (artt. 2; 9, commi 2 e 3; 42, comma 1, Cost.). Sicché, per tale ragione, vi possono essere peculiari limiti (93) ed obblighi (94) con speciali poteri, di norma conformativi, in capo alla P.A. il tutto, quindi, nelle coordinate del diritto comune per le quali “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico” (art. 832 c.c.). Peculiari limiti ed obblighi alla proprietà privata -rectius: in regime di diritto privato appartenenti a soggetti pubblici o privati -delineati dalla legge “allo scopo di assicurarne la funzione sociale” (art. 42, comma 2, Cost.). Vuol dirsi che la legge tiene conto degli interessi ultraindividuali collegati alla situazione dominicale. Salvatore Pugliatti, nel secondo dopoguerra del secolo passato, evidenziò che non vi è “la proprietà”, ma vi sono “le proprietà”: il regime proprietario dei beni non è fisso ed invariabile, ma mutabile in base a date circostanze ritenute rilevanti: una cosa è la proprietà urbana, altra quella rurale; una cosa è un bene produttivo, altra un bene improduttivo, ecc. (95). (92) d.l. 25 settembre 2001, n. 351, conv. l. 23 novembre 2001, n. 410 avente ad oggetto “Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare”; d.l. 15 aprile 2002, n. 63, conv. l. 15 giugno 2002, n. 112 relativo, tra l’altro, alla cartolarizzazione degli immobili e alla valorizzazione del patrimonio; art. 58 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. l. 6 agosto 2008, n. 133 relativo alla ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali. (93) i limiti implicano una impossibilità giuridica, hanno un contenuto negativo. delineano il confine del contenuto del diritto sulla cosa, toccano le facoltà di godimento e di disposizione del soggetto. Con il limite viene definito il contenuto del diritto di proprietà. il limite nella vicenda ora esaminata è, all’evidenza, di diritto pubblico, ossia ha per oggetto immediato la tutela di un interesse pubblico (così: S. PuGliATTi, Strumenti tecnico-giuridici per la tutela dell’interesse pubblico nella proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Giuffré, 1954, p. 114). (94) Gli obblighi implicano una obbligazione giuridica collegata alla situazione dominicale. Si tratterà di prestazioni di fare, poiché gli obblighi di dare hanno generalmente il carattere di tributi: così S. PuGliATTi, Strumenti tecnico-giuridici per la tutela dell’interesse pubblico nella proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, cit., p. 117. (95) S. PuGliATTi, La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera), in La proprietà nel nuovo diritto, cit., pp. 145-309. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 l’interesse ultraindividuale collegato alla situazione dominicale può germinare in base a specifiche circostanze rilevanti. Può venire in rilievo, quale circostanza discriminante: a) il tempo. una stessa cosa -ad es., una automobile, un libro, una vanga, un edificio -può avere regimi giuridici diversi a seconda del tempo trascorso dalla sua creazione. una auto d’epoca non è liberamente trasferibile ed utilizzabile alla stessa stregua di una auto nuova; b) la allocazione spaziale. la vicinanza ad un ospedale, può limitare le possibili coltivazioni di un dato fondo; c) la quantità. la rarefazione di una cosa comporta, di solito, un restringimento della sua circolazione giuridica fino, in casi limite, alla eliminazione della sua commercialità. Ciò è accaduto per le acque interne non aventi attitudine ad un pubblico generale interesse: tali acque erano commerciabili nel secolo scorso, poi la riduzione della quantità delle acque ha condotto, nel 1994 con la legge Galli, alla incommerciabilità di tutte le acque interne, conseguenza della demanializzazione delle stesse; d) la qualità dell’artefice. un documento (es. tema scolastico) redatto da francesco de Santis ha un regime giuridico diverso da analogo documento redatto nello stesso contesto da un compagno di scuola, non altrettanto importante, del de Santis. limiti alle facoltà dominicali si hanno con le norme sulle distanze tra costruzioni e standard urbanistici (l’interesse ultraindividuale è l’igiene e sanità degli abitati), sui boschi e terreni montani (lo scopo perseguito è l’equilibrio idrogeologico) (96), sull’accesso ai fondi -a date condizione -per l’esercizio della caccia (art. 842, commi 1 e 2, c.c.), con le norme limitative delle facoltà di disporre dei beni culturali e paesaggistici. obblighi collegati alla situazione dominicale sono gli oneri reali e quelli conseguenti alla vicinanza ad un bene pubblico. di quest’ultimo tipo sono le ipotesi di cui all’art. 60 (97) e 75, comma 1 (98), della l. 20 marzo 1865, n. 2248 (All. f) ed altresì le c.d. fasce di rispetto limitanti la libera attività edilizia (la quale viene vietata o sottoposta a speciale autorizzazione) in considerazione di un fine di superiore interesse pubblico, in determinate località, o ad aree prossime o circostanti a luoghi o ad opere di pubblico interesse. Vengono in rilievo limitazioni legali al diritto di proprietà riguardanti tutti i beni che si trovino in determinate condizioni previste dalla legge. non costituiscono, per (96) il vincolo idrogeologico comporta notevoli restrizioni per i terreni interessati, imposte dalla necessità di impedire il dilavamento dei terreni e per migliorare il regime delle acque. l’art. 7 r.d. n. 3267/1923 stabilisce che “Per i terreni vincolati la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale [ora regione] e alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo di prevenire i danni”. (97) “Debbono i proprietari mantenere le ripe dei fondi laterali alla strada in istato tale da impedire lo scoscendimento del terreno ad ingombro dei fossi e del piano viabile”. (98) “i proprietari sono obbligati a tener regolate le siepi vive, in modo da non restringere o danneggiare la strada, e a far tagliare i rami delle piante che si protendono oltre il ciglio stradale”. ConTribuTi di doTTrinA tanto, una forma di espropriazione del diritto di costruire. Tra le altre citiamo le fasce di rispetto a) delle strade pubbliche e delle autostrade (artt. 16-18 d.l.vo 30 aprile 1992 n. 285; b) delle ferrovie (artt. 36-63 d.P.r. 11 luglio 1980, n. 753); c) del demanio marittimo (artt. 55 (99), 76-78 c. nav.); d) delle acque pubbliche (artt. 96-97 r.d. 25 luglio 1904, n. 523); e) degli aeroporti (artt. 707 c. nav.); f) dei cimiteri ex art. 338 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 (100) con i connessi vincoli di inedificabilità (101); g) degli elettrodotti (art. 4, comma 1, lett. h, l. 22 febbraio 2001, n. 36) (102). i più rilevanti beni di interesse pubblico sono: beni componenti il patrimonio culturale (beni culturali e paesaggistici); le reti strumentali al servizio pubblico; i beni collettivi (demanio civico ed immobili con uso civico); le aree naturali protette (l. 6 dicembre 1991 n. 394); gli alloggi popolari ed economici di proprietà delle cooperative edilizie a contributo statale; le strade vicinali; gli aerodromi e gli altri impianti aeronautici privati. Sono tali anche i beni privati oggetto di servitù pubbliche o di diritti di uso pubblico ex art. 825 c.c. esaminati nel precedente paragrafo 6. Sono tali altresì i bene immobili connotati sotto il profilo ambientale secondo la specifica disciplina contenuta nel Codice dell’ambiente (d.l.vo 3 aprile 2006, n. 152). 18. Beni collettivi. Demanio civico ed immobili con uso civico. regime giuridico. Tra i più rilevanti beni di interesse pubblico abbiamo i beni collettivi (demanio civico ed immobili con uso civico). i beni collettivi sono beni appartenenti a soggetti pubblici o privati (individualmente o in comunione) con destinazione agro-silvo-pastorale in favore di una determinata collettività; la destinazione può specificarsi con la titolarità, da parte della collettività, di un (99) il cui primo comma stabilisce: “La esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all’autorizzazione del capo del compartimento”. (100) “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge. […] all’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457”. (101) Cons. Stato, 3 marzo 2022, n. 1513: il vincolo cimiteriale (d’indole conformativa) determina un regime di inedificabilità legale, integrando una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con il perimetro dell’area cimiteriale. (102) Sulle fasce di rispetto: G.C. MenGoli, manuale di diritto urbanistico, Vii edizione, Giuffré, 2014, pp. 555-589. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 diritto d’uso funzionalizzato alla soddisfazione di un interesse pubblico (in questa evenienza abbiamo il diritto di uso civico). una disciplina di sintesi è contenuta nella l. 20 novembre 2017, n. 168 recante “Norme in materia di domini collettivi” (103). il genus “bene collettivo” (la cui tipologia è descritta nell’art. 3 l. n. 168/2017) comprende, quali species, il patrimonio antico dell’ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico, ed i beni immobili sui quali insistono diritti di uso civico. -Patrimonio antico dell’ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico. Comprende i beni di cui al citato art. 3, comma 1, lettere a), b), c), e) e f) (104), ossia: “a) le terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio di un comune o di una frazione, imputate o possedute da comuni, frazioni od associazioni agrarie comunque denominate (105); b) le terre, con le costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento esercitato su terre di soggetti pubblici e privati; c) le terre derivanti: da scioglimento delle promiscuità di cui all’articolo 8 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (106); da conciliazioni nelle materie regolate dalla predetta legge n. 1766 del 1927; dallo scioglimento di associazioni agrarie; dall’acquisto di terre ai sensi dell’articolo 22 della medesima legge n. 1766 (103) Sulla materia: r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017, n. 168, in materia di domini collettivi, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2018, 5, pp. 1067 e ss., per il quale la nuova definizione legale di dominio collettivo individua un terzo ordinamento civile della proprietà, intendendo il bene come di proprietà originariamente riservata ex art. 43 Cost. alla popolazione residente, con numerose conseguenze sulla sua amministrazione come parte del territorio e sulla sua gestione come bene patrimoniale. (104) i beni di cui alla lettera f) -“i corpi idrici sui quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici” -vengono qualificati patrimonio antico dell’ente collettivo. Gli stessi, tuttavia, per i loro connotati, vanno qualificati come usi civici. (105) Si rileva da r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017, n. 168, in materia di domini collettivi, cit., che questa categoria di beni di demanio civico è data dalle terre continuamente aperte al godimento di una generalità di utenti e sulle quali non si è mai costituita, per questo, una proprietà privata. Questa è l’ipotesi più frequente. (106) “Le comunioni generali per servitù reciproche, qualora esistano, e tutte le comunioni particolari nelle quali non siano demani comunali, salvo il caso di cui all’ultimo comma del presente articolo, saranno sciolte senza compenso. Le comunioni generali per condominio, e le particolari, sia per condominio sia per servitù, fra Comuni, fra Comuni e frazioni, o fra due frazioni anche dello stesso Comune, si scioglieranno con l’attribuzione a ciascun Comune o a ciascuna frazione di una parte delle terre in piena proprietà, corrispondente in valore all’entità ed estensione dei reciproci diritti sulle terre, tenuto conto della popolazione, del numero degli animali mandati a pascolare, e dei bisogni di ciascun Comune e di ciascuna frazione. Si considerano comunioni generali quelle costituite sugli interi territori delle comunità partecipanti; si considerano particolari quelle che comprendono solo una parte di detti territori. in considerazione dei bisogni dell’economia locale potranno essere conservate le promiscuità esistenti nel qual caso ne sarà fatto rapporto motivato al ministero dell’economia nazionale, che provvederà”. ConTribuTi di doTTrinA del 1927 (107) e dell’articolo 9 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102 (108); da operazioni e provvedimenti di liquidazione o da estinzione di usi civici; da permuta o da donazione; e) le terre collettive comunque denominate, appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo, nonché le terre collettive disciplinate dagli articoli 34 della legge 25 luglio 1952, n. 991 (109), 10 e 11 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102 (110), e 3 della legge 31 gennaio 1994, n. 97 (111)”. (107) “Qualora l’estensione delle terre da ripartire non sia sufficiente per soddisfare tutte le domande delle famiglie che vi hanno diritto, si potrà provvedere all’assegnazione mediante sorteggio fra le famiglie indicate nel primo comma dell’art. 13. allo scopo di aumentare la massa da dividere fra gli aventi diritto, è tuttavia consentito tanto ai Comuni quanto alle associazioni degli utenti di avvantaggiarsi delle disposizioni del decreto-legge Luogotenenziale 14 luglio 1918, n. 1142, diretto ad agevolare l’acquisto di nuovi terreni. La stessa facoltà è data ai Comuni ed alle associazioni per affrancare i canoni enfiteuci che gravano le terre da ripartire. Qualora occorra pagare quote di ammortamento per debiti incontrati dal Comune per l’acquisto delle terre, si applicherà la disposizione del capoverso del- l’art. 20 limitatamente alla parte che viene ripartita”. (108) “oltre alle regioni, le Comunità montane e i comuni sono autorizzati ad acquistare o a prendere in affitto per un periodo non inferiore ad anni 20 terreni compresi nei rispettivi territori montani non più utilizzati a coltura agraria o nudi o cespugliati o anche parzialmente boscati per destinarli alla formazione di boschi, prati, pascoli o riserve naturali. Quando sia necessario per la difesa del suolo e per la protezione dell’ambiente naturale in conformità agli scopi di cui al precedente comma, le regioni, le Comunità montane e i comuni possono, in mancanza di accordo per l’acquisto ai valori correnti, procedere anche ad espropriare i terreni sopraindicati e quelli di cui al primo comma dell’articolo 29 della legge 27 ottobre 1966, n. 910, con le modalità di cui agli articoli 112, 113, 114 e 115 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267. ai beni acquistati o espropriati si applica l’articolo 107 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267 […].” (109) “Nessuna innovazione è operata in fatto di comunioni familiari vigenti nei territori montani nell’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale; dette comunioni continuano a godere e ad amministrare i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore”. (110) Art. 10: “Per il godimento, l’amministrazione e l’organizzazione dei beni agro-silvopastorali appresi per laudo, le comunioni familiari montane (anche associate tra loro e con altri enti) sono disciplinate dai rispettivi statuti e consuetudini. rientrano tra le comunioni familiari, che non sono quindi soggette alla disciplina degli usi civici, le regole ampezzane di Cortina d’ampezzo, quelle del Comelico, le società di antichi originari della Lombardia, le servitù della Val Canale. La pubblicità di statuti, bilanci, nomine di rappresentanti legali è disciplinata da apposito regolamento emanato dalla regione. L’atto relativo all’acquisto e alla perdita dello stato di membro delle comunioni, disciplinato dallo statuto, è registrato a tassa fissa senza altre imposte”. Art. 11: “il patrimonio antico delle comunioni è trascritto o intavolato nei libri fondiari come inalienabile, indivisibile e vincolato alle attività agro-silvo-pastorali e connesse. Quei beni che previa autorizzazione regionale venissero destinati ad attività turistica dovranno essere sostituiti in modo da conservare al patrimonio comune la primitiva consistenza forestale. Solo i beni acquistati dalle comunioni dopo il 1952 possono formare oggetto di libera contrattazione; per tutti gli altri la legge regionale determinerà limiti, condizioni, controlli intesi a consentire la concessione temporanea di usi diversi dai forestali, che dovranno comunque essere autorizzati anche dall’autorità forestale della regione”. (111) “al fine di valorizzare le potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva indivisibile ed inusucapibile, sia sotto il profilo produttivo, sia sotto quello della tutela ambientale, le regioni provvedono al riordino della disciplina delle organizzazioni montane, anche unite in comunanze, comunque denominate, ivi comprese le comunioni familiari montane di cui all’articolo 10 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102, le regole cadorine di cui al decreto legislativo 3 maggio 1948, n. 1104, e le associazioni di cui alla legge 4 agosto 1894, n. 397, sulla base dei seguenti principi: a) alle organizza rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 Vengono in rilievo beni appartenenti a soggetti di diritto in comunione ex art. 1100 c.c. (gli abitanti di un comune o di una frazione; gli appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo). Viene in rilievo una proprietà collettiva (comunanza (112), partecipanza), “ossia di quella forma di proprietà fondiaria che non è riferibile a un singolo o a un ente pubblico, ma a una collettività di persone, le quali hanno il pari diritto di trarre utilità dalla cosa e di escluderne i terzi” (113). l’uso e il godimento da parte dei cives grava su terre appartenenti alla collettività (“iura in re propria”), a cui competono tutte le utilità che da tali beni si possono trarre. in siffatte fattispecie, in cui i beni costituenti il demanio civico sono specificamente destinati all’uso da parte dei consociati, l’esercizio del potere di godimento del civis rappresenta l’estrinsecazione del peculiare rapporto di appartenenza intercorrente fra la comunità e la terra, caratterizzato dalla presenza di un vincolo di destinazione dei beni civici a favore dei consociati. i diritti di uso civico “in re propria” sono facoltà costituenti estrinsecazione di una proprietà collettiva, in cui la titolarità sostanziale dei beni appartiene alla collettività, ancorché nelle intestazioni catastali i terreni risultino di titolarità dei Comuni in quanto enti esponenziali delle collettività locali interessate. le facoltà e i diritti di cui godono i componenti della collettività sono di mero godimento promiscuo, mai di disposizione. il titolare del diritto di uso civico, infatti, non ha la legittimazione a disporre di tale diritto: non può trasmetterlo né inter vivos né mortis causa. né tale diritto può prescriversi per non uso: esso, infatti, potrà cessare soltanto con la perdita della qualità di civis. il demanio civico, dunque, lungi dal rappresentare l’oggetto di un diritto di proprietà individuale dell’ente pubblico che ne assume l’intestazione, rappresenta l’oggetto di una proprietà collettiva, di cui è titolare la comunità. zioni predette è conferita la personalità giuridica di diritto privato, secondo modalità stabilite con legge regionale, previa verifica della sussistenza dei presupposti in ordine ai nuclei familiari ed agli utenti aventi diritto ed ai beni oggetto della gestione comunitaria; b) ferma restando la autonomia statutaria delle organizzazioni, che determinano con proprie disposizioni i criteri oggettivi di appartenenza e sono rette anche da antiche laudi e consuetudini, le regioni, sentite le organizzazioni interessate, disciplinano con proprie disposizioni legislative i profili relativi ai seguenti punti: 1) le condizioni per poter autorizzare una destinazione, caso per caso, di beni comuni ad attività diverse da quelle agro-silvo-pastorali, assicurando comunque al patrimonio antico la primitiva consistenza agro-silvo-pastorale compreso l’eventuale maggior valore che ne derivasse dalla diversa destinazione dei beni; […]; 3) forme specifiche di pubblicità dei patrimoni collettivi vincolati, con annotazioni nel registro dei beni immobili, nonché degli elenchi e delle deliberazioni concernenti i nuclei familiari e gli utenti aventi diritto, ferme restando le forme di controllo e di garanzie interne a tali organizzazioni, singole o associate; […]”. (112) le comunanze, titolari della proprietà collettiva, potevano anche avere, secondo le evenienze, la soggettività giuridica; su tale aspetto: S. PuGliATTi, La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera), in La proprietà nel nuovo diritto, cit., pp. 215-220. ora, alla luce del- l’art. 1, comma 2, l. n. 168/2017 hanno, ope legis, personalità giuridica di diritto privato. (113) Così r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017, n. 168, in materia di domini collettivi, cit. ConTribuTi di doTTrinA Sotto il profilo della qualificazione giuridica, il demanio civico integra un peculiare schema di appartenenza -riassumibile, appunto, nella locuzione proprietà collettiva -strutturata come una comunione atipica, in cui peraltro difetta la ripartizione in quote, sul modello della comunione a mani riunite, di diritto germanico (114). - Beni immobili sui quali insistono diritti di uso civico. Comprende i beni di cui al citato art. 3, comma 1, lettere d) e f), ossia: “d) le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati”. Sono i casi in cui i residenti hanno il diritto di raccogliere la legna nel bosco o la frutta in un frutteto (c.d. legnatico, fruttatico, ecc); “f) i corpi idrici sui quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici”. Sono i casi in cui i residenti hanno il diritto di pescare su un dato braccio di mare (c.d. pescatico). i diritti di uso civico, come è noto, erano sconosciuti al diritto romano, con un regime di proprietà su base essenzialmente individualistica. Sorsero nel medio evo, con l’economia feudale e, quindi, con l’intreccio delle situazioni dominicali: il feudatario, laico od ecclesiastico, era titolare del latifondo ed accadeva che -per concessione o tolleranza del signore o per usurpazione -una data comunità (gli abitanti di una frazione latistante un bosco o un lago, un’intero borgo vicino ad un frutteto) usava in un certo modo il terreno (ad es. vi passeggiava) o ne ricavava dati frutti appropriandosene. Con il tempo la situazione di fatto è divenuta una situazione di diritto, con la germinazione di un diritto reale di godimento (usi civici) spettante alla detta collettività indifferenziata, avente ad oggetto il godimento di specifiche utilità in perpetuo. la figura di diritto reale alla quale è riconducibile l’uso civico è il diritto di uso ex artt. 1021-1026 c.c., con elementi di specialità tra cui la perpetuità e l’uso specifico a fronte -rispettivamente -della temporaneità (artt. 979 e 1026 c.c.) e dell’uso generale (art. 1021 c.c.) del tipico diritto reale di uso. i diritti di uso civico sono diritti spettanti ad una intera comunità (di solito comunale) e ne sono indeterminati i soggetti singoli, sicché la titolarità del diritto dipende dall’accertamento dell’appartenenza del singolo a quella comunità; i soggetti singoli hanno diritto all’uso e al godimento dei beni uti cives; l’interesse che sta alla base della tutela di tali diritti è extraindividuale (115). Con la rivoluzione francese, con il trionfo della borghesia si ebbe la restaurazione della pienezza ed esclusività del diritto di proprietà individuale (116), sicché divennero intollerabili le promiscuità, i diritti collettivi insistenti (114) Su tali aspetti: S. orrù, voce Usi civici (i agg.), Digesto delle Discipline Privatistiche/Civile, 2018. (115) S. PuGliATTi, La proprietà e le proprietà (con particolare riguardo alla proprietà terriera), in La proprietà nel nuovo diritto, cit., pp. 214-215. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 sul diritto di proprietà fondiaria. Si avviò, anche in italia, sulla scia delle riforme napoleoniche, la c.d. liquidazione degli usi civici, ossia la divisione delle proprietà sulle quali esistevano usi civici, con la germinazione di proprietà esclusive ripartite -in date proporzioni -tra il proprietario del latifondo e la comunità che su di esso vantava diritti di uso. Ad es., nel sud italia, nel decennio francese (1806-1815) si ebbe una sistematica legislazione di abolizione della feudalità, divisione dei demani ed abolizione degli usi civici (117). Tale procedimento fu lento e complesso, tant’è che ancora negli anni ’20 del secolo scorso si dovette dare ad esso impulso con l’adozione della l. 16 giugno 1927, n. 1766, prevedente la figura di commissari per la liquidazione degli usi civici. Procedimento, allo stato non ancora definito (118), sicché gli usi civici sussistono, importanti, nell’attuale ordinamento giuridico. Anzi la legislazione recente punta alla loro valorizzazione, quali strumenti di tutela dei diritti fondamentali della persona ex art. 2 Cost. (119). - regime giuridico. i beni collettivi sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili e con destinazione perpetua agro-silvo-pastorale (art. 3, comma 3, l. n. 168/2017), salva la alienabilità delle terre di proprietà di privati, sulle quali i residenti del Comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati (120). il detto regime è conseguenziale alla peculiare funzione dei beni collettivi, ossia al vincolo di destinazione degli stessi alla fruizione collettiva, in un’ottica volta al soddisfacimento di fondamentali interessi della collettività. l’art. 3, comma 5, l. n. 168/2017 prescrive che “L’utilizzazione del demanio civico avviene in conformità alla sua destinazione e secondo le regole d’uso stabilite dal dominio collettivo”; con tale precetto vi è il rimando alla disciplina di dettaglio contenuta nella l. n. 1766/1927. l’art. 1 l. n. 168/2017 enuncia: “1. […] la repubblica riconosce i do (116) il codice civile del 1865 -diretto discendente del Codice napoleone del 1804 -enunciava che “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta” (art. 436 c.c.). (117) Sulla quale: r. feolA, Dall’illuminismo alla restaurazione, Jovene, 1982, pp. 307-326. (118) Giusta l’art. 3, comma 6, l. 168/2017, con l’imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici di cui all’art. 142, comma 1, lett. h), del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.l.vo n. 42/2004), l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici. (119) Si rileva che la legge n. 168/2017 “individua nella proprietà collettiva una situazione da preservare per il futuro, non più un anacronismo da liquidare, per come era per la legge che disciplina ancora la materia, la l. 16 giugno 1927 n. 1766, che non viene tuttavia abrogata” (così r. VolAnTe, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017, n. 168, in materia di domini collettivi, cit.). (120) l’eccezione scaturisce dalla sentenza n. 119 del 15 giugno 2023, n. 119 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato comma 3, nella parte in cui, riferendosi ai beni indicati dall’art. 3, comma 1, non esclude dal regime della inalienabilità le terre di proprietà di privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati. ConTribuTi di doTTrinA mini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie: a) soggetto alla Costituzione; b) dotato di capacità di autonormazione, sia per l’amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l’amministrazione vincolata e discrezionale; c) dotato di capacità di gestione del patrimonio naturale, economico e culturale, che fa capo alla base territoriale della proprietà collettiva, considerato come comproprietà inter-generazionale; d) caratterizzato dall’esistenza di una collettività i cui membri hanno in proprietà terreni ed insieme esercitano più o meno estesi diritti di godimento, individualmente o collettivamente, su terreni che il comune amministra o la comunità da esso distinta ha in proprietà pubblica o collettiva. 2. Gli enti esponenziali delle collettività titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria”. l’art. 2, comma 4, l. n. 168/2017 statuisce: “i beni di proprietà collettiva e i beni gravati da diritti di uso civico sono amministrati dagli enti esponenziali delle collettività titolari. in mancanza di tali enti i predetti beni sono gestiti dai comuni con amministrazione separata. resta nella facoltà delle popolazioni interessate costituire i comitati per l’amministrazione separata dei beni di uso civico frazionali, ai sensi della legge 17 aprile 1957, n. 278” (121). il diritto dei cittadini componenti la comunità di riferimento sulle terre di collettivo godimento si caratterizza per: a) avere normalmente, e non eccezionalmente, ad oggetto utilità del fondo consistenti in uno sfruttamento di esso; b) essere riservato ai componenti della comunità, salvo diversa decisione dell’ente collettivo (art. 2, comma 3, l. 168/2017). le regioni e le Province autonome di Trento e di bolzano possono autorizzare trasferimenti di diritti di uso civico e permute aventi a oggetto terreni a uso civico appartenenti al demanio civico in caso di accertata e irreversibile trasformazione, a date condizioni secondo la disciplina contenuta nei commi 8 bis,8 ter,8 quater, dell’art. 3 l. n. 168/2017; destinatari del trasferimento o della permuta sono terreni di superficie e valore ambientale equivalenti che appartengono al patrimonio disponibile dei Comuni, delle regioni e delle Province autonome di Trento e di bolzano i quali, conseguentemente, acquistano le qualità demaniali e paesaggistiche. i terreni dai quali sono trasferiti i diritti di uso sono sdemanializzati e su di essi è mantenuto il vincolo paesaggistico. (121) l’art. 1 della legge n. 278/1957 dispone che “all’amministrazione separata dei beni di proprietà collettiva della generalità dei cittadini abitanti nel territorio frazionale provvede un Comitato di cinque membri eletti, nel proprio seno, dalla generalità dei cittadini residenti nella frazione ed iscritti nelle liste elettorali. il Comitato dura in carica quattro anni”. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 - in specie: peculiarità del regime giuridico degli usi civici. le zone gravate da usi civici sono ex lege sottoposte a vincolo paesaggistico in virtù dell’art. 142, comma 1, lettera h), d.l.vo n. 42/2004 in funzione dell’interesse “della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici” (così art. 3, comma 6, l. n. 168/2017). inoltre, i beni gravati da uso civico “non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico” (art. 4, comma 1 bis, T.u. espropr.) (122). l’art. 4, commi 1 ter e1 quater, T.u. espropr. chiarisce: “1 ter. Fermo restando il rispetto della normativa paesaggistica, si intendono di norma compatibili con l’esercizio dell’uso civico gli elettrodotti di cui all’articolo 52quinquies, comma 1, fatta salva la possibilità che la regione, o un comune da essa delegato, possa esprimere caso per caso una diversa valutazione, con congrua motivazione, nell’ambito del procedimento autorizzativo per l’adozione del provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’infrastruttura. 1 quater. Fermo restando il rispetto della normativa paesaggistica, si intendono sempre compatibili con l’esercizio dell’uso civico le ricostruzioni di elettrodotti aerei o interrati, già esistenti, di cui all’articolo 52-quinquies, comma 1, che si rendano necessarie per ragioni di obsolescenza, purché siano realizzate con le migliori tecnologie esistenti e siano effettuate sul medesimo tracciato della linea già esistente o nelle sue immediate adiacenze”. (122) in coerenza a tale precetto Cass. S.u., 10 maggio 2023, n. 12570 enuncia che “i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poichè la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione”. ConTribuTi di doTTrinA Il rapporto bilaterale Stato -Chiesa nell’ottica comune della difesa della persona umana Gaetana Natale* “Non possiamo non dirci Cristiani” scriveva benedetto Croce e certamente tale frase incide sulla nostra formazione culturale, ponendo alla base il c.d. “rapporto di bilateralità necessaria tra Stato e Chiesa” ex art. 7 della nostra Costituzione. Tale articolo recita espressamente: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Si ricorda che i Patti lateralensi furono sottoscritti in roma l’11 febbraio 1929 (l. 27 maggio 1929 n. 8109) ed entrarono in vigore il 7 giugno 1929. furono in seguito modificati da un ulteriore Accordo tra Santa Sede e repubblica italiana con Protocollo Addizionale entrambi firmati a roma il 18 febbraio 1984 (l. 25 marzo 1985 n. 121) c.d. Accordi di Villa Madama. ulteriori Protocolli hanno riguardato le norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici (l. 20 maggio 1985 n. 206) e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi (l. 20 maggio 1985 n. 222). occorre riflettere sulla scelta operata dai nostri padri costituenti (Giuseppe dossetti, enrico de nicola, Alcide de Gasperi): la scelta fu di non costituzionalizzare le norme dei Patti lateralensi che restano norme ordinarie, ossia norme “non di produzione, ma sulla produzione”, ma di costituzionalizzare il “principio concordatario” (sentenza Corte Costituzionale n. 30/1971) nel rispetto della “teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici” di Santi romano. Per la modifica di tali Patti non è prevista, infatti, la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost. e l’intesa Stato-Chiesa presenta delle caratteristiche del tutto autonome rispetto alle intese tra Stato-regioni, in quanto siamo in presenza di due Stati autonomi e sovrani. Se da una parte lo Stato italiano ha modificato nel corso degli anni la propria Costituzione (ad esempio, la modifica del titolo V della Costituzione, modifica dell’art. 9 cost. e la riforma in itinere del regionalismo differenziato), vi è da chiedersi come la Chiesa abbia nel corso di questi anni modificato la propria Costituzione Apostolica e se da questa modifica risultano mutati anche i rapporti con lo Stato italiano. (*) Avvocato dello Stato e Professore di Sistemi Giuridici Comparati; Membro dell’Associazione Giuristi Cattolici e Presidente dal 2019 al 2021 della Commissione Stato-Confessioni religiose. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 ebbene la nuova Costituzione Apostolica del marzo 2022 entrata in vigore nel giugno 2022 voluta da Papa francesco “Praedicate Evangelium” realizza una vera e propria rivoluzione all’interno della Chiesa: “siamo in presenza non di un’epoca di cambiamento, ma di un cambiamento d’epoca”, volendo citare testualmente le parole dell’attuale Pontefice. Qual è la novità più significativa di tale nuova Costituzione Apostolica? Tale Costituzione fa assumere alla Curia romana uno spirito più missionario, pastorale, determinando una modifica significativa anche delle strutture e dell’organizzazione della Chiesa (vedi opera del prof. Sergio Aumenta dal titolo “La curia romana secondo Praedicate Evangelium”, 2023). Tale Costituzione, formata da 250 articoli, costituisce il diaframma tra il Papa e il territorio, eliminando la natura strettamente tecnica della Curia che non è più solo al servizio del governo centrale della Chiesa universale, ma è anche al servizio in maniera orizzontale delle conferenze episcopali, del territorio, dei parroci e delle parrocchie anche periferiche in un’ottica place based. Tale principio sembra molto simile ai concetti laici di “sussidiarietà” e di “prossimità”. Papa francesco ha introdotto 16 dicasteri di cui quello più importante dedicato alla c.d. “evangelizzazione” è da lui stesso presieduto. la novità più significativa è che tali dicasteri possono essere presieduti da laici, in quanto Papa Francesco ritiene che i laici possano costituire una spinta riformatrice ed innovatrice della Chiesa. Ad esempio il dicastero per la Comunicazione è presieduta da un giornalista Paolo ruffini. Certo la collocazione dei laici in posizione di direzione all’interno della Chiesa pone delicati questioni in merito al diritto canonico che riconosce tali posizioni solo a chi è titolare del c.d. “potere ordinato”. non solo, ma il Papa sta ponendo sempre più al centro la figura femminile, avendo, ad esempio, nominato per la prima volta come Segretario Generale Suor raffaella Petrini. Al centro di tale Costituzione vi è l’elemento centrale della “sinodalità” che richiede un dialogo continuo tra curia, conferenze episcopali, parrocchie e cooperazione tra i vari dicasteri. Anzi, ponendo la Curia al servizio anche delle periferie, il Papa ha posto come centrale anche la totale trasparenza in campo economico e finanziario, avendo creato un dicastero per l’economia con efficienti uffici di controllo. Si colgono in tale nuova Costituzione che richiederà appositi regolamenti, dei principi che sono fondamentali anche per l’attività dello Stato italiano: i concetti di trasparenza, correttezza, piani di anticorruzione, di explainability (Right to explaination, ossia diritto alla spiegazione), accountability che sembrano costituire un filo comune tra i due ordinamenti. Vi è una condivisione di valori tra Stato italiano e Chiesa Cattolica che poggia su un terreno comune: la tutela della persona umana, della sua dignità, ConTribuTi di doTTrinA della sua centralità, della solidarietà e dell’inclusione: declinate per il primo nel rispetto della laicità dello Stato e della pluralità delle confessioni religiose e per il secondo nella valorizzazione dello spirito evangelico. basti pensare alle posizioni convergenti in materia di intelligenza Artificiale, argomento che vede per entrambi gli ordinamenti lo sviluppo di un pensiero antropocentrico strutturato su una forte “Etica dell’algoritmo”. Si pensi alla figura autorevole del prof. benanti che presiede la Commissione per l’Ai in materia di editoria e comunicazioni o agli acuti interventi del Sottosegretario Parolin in molti eventi e convegni, da ultimo quello tenutosi il giorno 12 marzo 2024 con il dipartimento per la transizione digitale e Agid dal titolo “L’intelligenza artificiale per l’italia”. Questo dialogo continuo tra Stato e Chiesa rappresenta oggi il prisma valoriale attraverso cui capire la “complessità” della post-modernità in un periodo caratterizzato da grandi trasformazioni e tensioni che impongono una “rivalutazione cognitiva” della realtà e dei processi evolutivi in corso. la valenza culturale della tradizione cristiana e l’onda riformatrice di Papa francesco (si pensi al dibattito intorno alla Fiducia Supplicans) si impongono oggi all’attenzione anche del giurista laico che non può non coglierne la funzione di mediazione tra trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche, politiche ed esigenze di tutela della persona umana. Si pensi anche al ruolo internazionale della Chiesa svolto nell’ambito degli attuali conflitti in corso, o ancora alla tutela dell’ambiente e degli ecosistemi posta in essere con l’enciclica papale “Laudato si”in totale assonanza ontologica con il New Green Deal. benedetto Croce nel suo breve saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani” scritto nel 1942 sosteneva che il Cristianesimo ha compiuto una rivoluzione “che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità e che per merito di quella rivoluzione non può non dirsi cristiana”. Per benedetto Croce e il suo neohegelismo, storicismo la storia è pensiero ed azione, per cui “ogni genuina conoscenza è conoscenza storica”. non è un caso che tale intellettuale venisse definito “il Papa laico” agli inizi del ‘900, quasi a voler indicare questa crasi concettuale e valoriale tra cultura laica e cultura cattolica. nelle facoltà di giurisprudenza italiane ed europee restano fermi gli insegnamenti del diritto ecclesiastico e del diritto canonico. d’altronde nello Stato italiano la facoltà di legge è da sempre denominata “iurisprudentia”, dalla parola latina “prudens” che significa “esperto del diritto”. la Chiesa ci offre degli strumenti interpretativi di valenza culturale e per chi ha fede anche di valenza spirituale: il termine religione deriva dal latino “religio”, verbo religere che significa legare, ossia legarsi a principi e/o valori. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 ognuno di noi in base alla propria formazione può secondo il suo “libero arbitrio” decidere se ispirarsi ai principi e ai valori spirituali della Chiesa Cattolica, ma è innegabile la sua importanza culturale e storica per l’italia e per l’intera europa. ConTribuTi di doTTrinA Il principio della fiducia nel nuovo Codice dei contratti pubblici Antonino Ripepi* Sommario: 1. Premessa -2. La fiducia nella teoria generale del diritto -3. il principio della fiducia nell’ordinamento positivo -4. il problema (o l’opportunità) della discrezionalità -5. il principio della fiducia nella giurisprudenza -5.1. La giurisprudenza consolidata in materia di offerte anomale e il perimetro del sindacato del G.a. -5.2. il principio della fiducia e l’art. 2 D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36. -5.3. Principio della fiducia e sindacato giurisdizionale a confronto sul terreno della valutazione di anomalia dell’offerta. T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 7 febbraio 2024, n. 478 - 6. Conclusioni. 1. Premessa. Come noto, il d.lgs. n. 36/2023 si contraddistingue, rispetto al precedente Codice dei contratti pubblici, per una nuova impostazione normativa: la disciplina di dettaglio è preceduta da una Parte i (“dei principi”), contrassegnata da un Titolo i (“i principi generali”) il cui contenuto presenta molteplici profili di rilevanza: guida per l’interprete a fronte di casi dubbi (1), funzione integrativa a fronte di lacune normative involontarie, espressione dei valori di fondo che permeano la materia. Particolare interesse ha destato l’innovativo principio della fiducia, cui è dedicato questo contributo. 2. La fiducia nella teoria generale del diritto. “Quando il diritto interviene è perché ormai la fiducia è diventata rischio insopportabile e, quindi, bisogna abbassare la soglia della gratificazione e innalzare quella della delusione” (2). È l’efficace sintesi della tradizionale impostazione secondo la quale il diritto si lega indissolubilmente a un’idea di sospetto e sfiducia: «è perché non abbiamo fiducia che “contrattiamo” e che rientriamo nella logica simmetrica del rapporto creditore- debitore» (3). essa è stata individuata con la locuzione “machiavellismo giuridico”, in quanto l’autore del Principe aveva individuato un preciso legame tra concezione dell’uomo e natura della legge: “è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque (*) Procuratore dello Stato -Avvocatura distrettuale di reggio Calabria, referente distrettuale per la “rassegna dell’Avvocatura dello Stato”. (1) Tutt’altro che infrequenti nella complessa materia dei contratti pubblici. (2) e. reSTA, Le regole della fiducia, laterza, 2009, p. 8. (3) M. MArzAno, avere fiducia, Mondadori, 2012, p. 9. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 volta ne abbiano libera occasione … Gli uomini non operorono mai nulla bene se non per necessità” (4). la concezione negativa dell’essere umano è molto vicina a quella di un filosofo pur diversissimo come Thomas hobbes, il quale aveva negato l’idea dell’uomo naturalmente portato ad associarsi sin dalla nascita per affermare, invece, la dipendenza dei legami umani dalla convenienza e dalla costrizione (5). È un paradigma che ritroviamo anche nella scienza economica, ove la nascita dell’homo oeconomicus è legata alla convinzione che i consociati, laddove ne abbiano possibilità, “tendono ad agire da furfanti o imbroglioni” (6), sebbene non manchino impostazioni in senso contrario, secondo cui l’idea che l’uomo sia individualista in senso assoluto e privo di scrupoli non ha fondamento nella scienza antropologica e psicologica. Anche sul piano sociologico, nell’ambito di una ricerca attinente alle basi morali di una società arretrata, banfield aveva individuato il modello del familismo amorale, nell’ambito del quale si sarebbe agito in violazione della legge ogni qualvolta non vi fosse ragione di temere una punizione (7). lo studio concerneva classi sociali e zone geografiche ben definite (i contadini meridionali; l’indagine è ambientata in un paesino immaginario), ma è stato successivamente generalizzato e posto alla base di un paradigma sfiduciario capace di spiegare tutte le relazioni umane. Anche in questo settore, tuttavia, si è osservato che l’immagine di un’italia affetta dalla sindrome particolarista non è nient’altro che uno stereotipo (8). in tale quadro, di recente, un filosofo del diritto ha proposto di superare il paradigma secondo il quale, quando agiamo secondo norme giuridiche, lo facciamo pensando agli altri come nostri nemici, ciò che è frutto di una “percezione distorta” (9). infatti, l’obbligo derivante da una norma o da un contratto non può prescindere dal riconoscimento delle reciproche aspettative, che è momento essenziale della dinamica giuridica e si pone in rapporto di essenziale circolarità con la fiducia (10). in tale concezione, mettere innanzi la minaccia della sanzione vuole dire avvelenare la relazione, soffocando sul nascere la fiducia (11). d’altronde, il (4) n. MAChiAVelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, i, 3, in Niccolò machiavelli. Tutte le opere, a cura di M. MArTelli, Sansoni, 1971, p. 282. (5) T. hobbeS, De Cive, i, 2, trad. it. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di n. bobbio, utet, 1948, p. 73. (6) b.S. frey, Non solo per denaro. Le motivazioni disinteressate dell’agire economico (1997), Mondadori, 2005, p. 49. (7) e.C. bAnfield, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, 2010, p. 101. (8) l. SCiollA, italiani. Stereotipi di casa nostra, il Mulino, 1997. (9) T. GreCo, La legge della fiducia. alle radici del diritto, laterza, 2021, p. 60. (10) b. PASTore, Pluralismo, fiducia, solidarietà. Questioni di filosofia del diritto, Carocci, 2007, p. 11. (11) n. luhMAnn, La fiducia, il Mulino, 2002, p. 55. ConTribuTi di doTTrinA diritto positivo conosce clausole generali quali la buona fede, che si fondano su doveri di cooperazione (12), sulla necessaria valutazione della posizione altrui e, in definitiva, sulla fiducia, nonché principi costituzionali, quali la solidarietà ex art. 2 Cost., che secondo una consistente corrente dottrinale e giurisprudenziale costituisce il fondamento ultimo della buona fede (13). Proseguendo l’esame del modo di concretizzarsi della fiducia nelle varie entità giuridiche, si è recentemente evidenziato come “le regole implicano certamente un livello piuttosto ridotto di fiducia sia nei confronti dei consociati, sia nei confronti dei funzionari e degli apparati burocratici, sia di coloro che sono chiamati ad intervenire in caso di disobbedienza alle norme” (14). la normazione per principi, invece, implica un maggiore intervento del- l’interprete, chiamato a concretizzare il precetto e, conseguentemente, una maggiore fiducia nei confronti degli apparati burocratici e degli esecutori in generale, che devono modulare la portata del principio a seconda della situazione concreta che si palesa all’attenzione di chi deve applicarlo (15). infatti, i sistemi di regolamentazione troppo severi e restrittivi, oltre a restringere “gli spazi nei quali può operare e manifestare i suoi effetti positivi la fiducia interpersonale” (16), rischiano di produrre una limitazione dell’autodeterminazione da cui deriva la deresponsabilizzazione degli individui, esprimibile nell’adagio “non sono io, sono le regole!” (17). in definitiva, “alle regole si ubbidisce”, mentre “ai principi si aderisce” (18). 3. il principio della fiducia nell’ordinamento positivo. e proprio le sembianze di un principio ha acquisito la fiducia nell’ambito dei contratti pubblici. Come noto, il d.lgs. n. 36/2023, attuativo della delega al Governo in materia di contratti pubblici ex art. 1 l. n. 78/2022 e recante il “nuovo codice dei contratti”, si apre con una Parte i del libro i dedicata ai principi, di cui viene codificata la forza ordinante, secondo una scelta che non ha precedenti in materia di contratti pubblici (19). (12) f. PoGGi, La buona fede e il principio di cooperazione. Una proposta interpretativa, in rivista critica di diritto privato, n. 2/2012, pp. 241-268. (13) basti citare le note ordinanze della Corte costituzionale 24 ottobre 2013, n. 238 e 2 aprile 2014, n. 77. Con riferimento alla giurisprudenza di legittimità, si rinvia a Cass. Sez. un., 4 novembre 2019, n. 28314, ove si legge che “l’affidamento, che costituisce il nucleo costitutivo della nozione di buona fede, ha un sicuro ancoraggio costituzionale nell’art. 2 Cost.”. (14) T. GreCo, op. cit., p. 116. (15) ivi, p. 118. (16) V. PelliGrA, i paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, il Mulino, 2007, p. 88. (17) T. GreCo, op. cit., p. 126. (18) G. zAGrebelSky, Diritto allo specchio, einaudi, 2018, p. 233. (19) A. Cioffi, Prima lettura del nuovo Codice dei contratti e dei suoi tre principi fondamentali, rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 Tra questi annoveriamo il principio della fiducia, che ha portata bidirezionale, concernendo sia la P.A. che il cittadino, in quanto “ad un’amministrazione trasparente e corretta deve rapportarsi un cittadino -nella specie, un operatore economico -altrettanto trasparente e corretto” (20), e prevede quale termine di riferimento l’“azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici” (art. 2, c. 1, d.lgs. n. 36/2023). il principio in esame, che non ha valenza esclusivamente e semplicemente declamatoria, come rivela il comma 4 dell’art. 2 in tema di copertura assicurativa dei dipendenti e formazione degli stessi, è animato da una filosofia di fondo descritta in modo illuminante dalla relazione di accompagnamento: si tratta di “un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni […] e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento” (21), le quali hanno generato «“paura della firma” e “burocrazia difensiva”», a loro volta “fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente” (22). Si tratta del fenomeno precedentemente descritto, cui il nuovo Codice vorrebbe porre rimedio dando, “sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che -fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità -miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato” (23). Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma culturale, ancor prima che giuridico-normativo, che aveva già manifestato un punto di emersione con il d.l. n. 76/2020, teso a limitare i confini della responsabilità (penale ed era 2023, disponibile in https://www.apertacontrada.it/2023/01/16/prima-lettura-del-nuovo-codice-deicontratti- e-dei-suoi-tre-principi-fondamentali/. (20) f. SAiTTA, i principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici, 2023, disponibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/2799-i-principi-generali-del-nuovocodice- dei-contratti-pubblici. (21) relazione agli articoli e agli allegati dello Schema definitivo di Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, disponibile in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/ 20142/17550825/3_CoDiCE+CoNTraTTi+rELaZioNE.pdf/d3223534-d548-1fdc-4be4e9632c641eb8? t=1670933091420, p. 14. (22) ibidem. (23) ivi, p. 15. ConTribuTi di doTTrinA riale) dei dipendenti pubblici, concepita quale fattore alla base di rallentamenti e inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa, non ammissibili in un’epoca in cui il Paese si avviava a superare i danni cagionati dalla pandemia attraverso l’utilizzo dei fondi collegati al Pnrr. in tale contesto, e in disparte l’intervento sull’art. 323 c.p., il legislatore ha ritenuto opportuno contenere in via transitoria la responsabilità per colpa grave alla sola ipotesi omissiva, quale stimolo all’azione e all’adozione di decisioni necessarie per evitare la paralisi burocratica. È fuor di dubbio che tale intervento normativo abbia attirato numerose critiche, incentrate sull’indebita equiparazione della condotta gravemente colposa (ma non sanzionabile) al comportamento rispettoso del dovere costituzionale di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore e pienamente conforme agli obblighi di servizio (24), sul rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza pubblica (25), sulla implicita legittimazione di un ampio catalogo di fattispecie gravemente lesive dell’integrità patrimoniale pubblica ex artt. 81 e 97 Cost. (26), sull’impatto negativo dell’attenuazione dei controlli giurisdizionali contabili sulle strategie di prevenzione della corruzione, dovuto alla creazione di ampie aree di deresponsabilizzazione e di impunità nell’ipotesi di utilizzo improprio degli aiuti comunitari (27). Tuttavia, è altrettanto certo che il concetto di lotta alla “burocrazia difensiva” sia riemerso, a distanza di quasi tre anni, nella ratio dell’art. 2 d.lgs. n. 36/2023 e sia stato espressamente citato dalla relazione di accompagnamento al nuovo codice dei contratti (28), simbolo di un chiaro (e perdurante) intento del legislatore che, in quanto frutto del recepimento di istanze sociali ben definite, non può essere tout court ignorato dall’interprete. 4. il problema (o l’opportunità) della discrezionalità. Tali considerazioni inducono ad affermare che il legislatore abbia inteso segnare il punto di emersione di un radicale cambio di paradigma: il codice dei contratti pubblici non è più il presidio dell’anticorruzione e del sospetto (24) l. CArbone, Una responsabilità erariale transitoriamente “spuntata”. riflessioni a prima lettura dopo il d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. “decreto semplificazioni”), in federalismi.it, n. 30/2020, p. 10. (25) M. GerArdo, i quattro pilastri governativi per l’utilizzo efficiente del recovery Fund: scelta di “buoni” progetti, semplificazione delle procedure, reperimento di adeguate professionalità, limitazione delle responsabilità gestorie. analisi e rilievi, in rassegna avvocatura dello Stato, n. 4/2020, p. 233. (26) d. iMMordino, responsabilità erariale e “buona amministrazione” nell’evoluzione dell’interesse pubblico, in rivista Corte dei conti, n. 3/2022, p. 75. (27) f. Albo, Limitazione della responsabilità amministrativa e anticorruzione: il PNrr è adeguatamente protetto?, 2021, disponibile in https://dirittoeconti.it/limitazione-della-responsabilitaamministrativa- e-anticorruzione-il-pnrr-e-adeguatamente-protetto/. (28) V. nota 27. rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 nei confronti del pubblico dipendente, ma è il corpus normativo che regolamenta le procedure di evidenza pubblica avendo costante riguardo alle stelle polari del risultato, dell’accesso al mercato e, soprattutto, della fiducia. Queste coordinate ermeneutiche, come si è cercato di argomentare recentemente in altre sedi (29), potrebbero costituire il sostrato di fondo da cui muovere per reinterpretare anche il sistema dell’anticorruzione. infatti, in quella sede si è detto come, in base alle formalizzazioni matematiche del fenomeno corruttivo, la discrezionalità compaia -almeno secondo le acquisizioni dominanti -tra i fattori che lo alimentano, in quanto consente al decisore pubblico di fruire di una possibilità di scelta tra più soluzioni consentite nella quale potrebbero allignare deviazioni dal perseguimento dell’interesse pubblico. di conseguenza, all’atto della mappatura dei processi si consiglia di porre particolare attenzione ai settori in cui sussistono tali possibilità di manovra, con particolare riferimento al settore della contrattualistica pubblica. Tali acquisizioni sono frutto di una precisa evoluzione storica. le vicende di Tangentopoli dimostrarono l’inadeguatezza dell’assetto normativo allora vigente e suggerirono l’irrigidimento del sistema, con preferenza per l’azzeramento della discrezionalità dei funzionari pubblici e il ricorso alla gara per esigenze di trasparenza, unitamente alla diffusione del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, che avrebbe reso meccanicistiche le procedure nella misura in cui il privato si limitava a indicare il corrispettivo in denaro, “la sola cosa rimasta in bianco dello schema adottato dalla pubblica amministrazione” . il d.lgs. n. 163/2006 confermò questa tendenza alla iper-regolamentazione, ma fu accusato di rigidità e di sostanziale inidoneità a combattere il fenomeno corruttivo; inoltre, andò consolidandosi la consapevolezza del fatto che a poco serve limitare la discrezionalità dei funzionari se il quadro normativo è denso e incerto, aperto a diverse possibili interpretazioni, nell’ambito di una complessità che rende difficile distinguere condotte in buona fede o meno, con il rischio di eccessiva pressione sugli operatori pubblici e conseguente paralisi dell’azione amministrativa. il d.lgs. n. 50/2016 avrebbe dovuto risolvere questo problema di “bulimia e incertezza legislativa, ponendo ex ante le regole certe (perché prodotte dell’autorità di regolazione e validate dal Consiglio di Stato), tramite linee guida prontamente aggiornate e aggiornabili a fronte di eventuali modifiche legislative sopravvenute”. nonostante gli aspetti indubbiamente positivi, quali l’istituzione della banca dati nazionale dei Contratti pubblici, ne è risultato (29) Sia consentito il richiamo ad A. riPePi, anticorruzione e fiducia: un binomio possibile (?), in rivista ratio iuris, 2024, disponibile in https://www.ratioiuris.it/anticorruzione-e-fiducia-unbinomio- possibile/. ConTribuTi di doTTrinA un complesso normativo in cui la parola “corruzione” era reiterata numerose volte, senza trascurare l’impressione generalizzata di una certa sfiducia nei confronti delle stazioni appaltanti e l’eccessiva preoccupazione di evitare reati piuttosto che garantire il buon funzionamento del mercato dei contratti pubblici. d’altronde, lo stesso legislatore sembra aver manifestato insofferenza nei confronti del soffocamento dell’iniziativa dei dipendenti preposti all’aggiudicazione delle gare, come dimostra l’imporsi di modelli alternativi, quali il “contromodello Genova” , il decreto “sblocca-cantieri” e, da ultimo, l’avvento del Pnrr, in cui si avverte l’esigenza di realizzare le opere pubbliche nel minor tempo possibile al fine di rendicontare in sede europea, come dimostra -prima ancora dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti -l’impostazione del d.l. n. 77/2021, recante “un binario parallelo per gli investimenti che riguardano il Pnrr”. l’affresco storico rapidamente tratteggiato dimostra come l’eccessiva enfatizzazione della “lotta alla discrezionalità”, nel settore dei contratti pubblici così come in qualsiasi altro ambito dell’azione amministrativa, possa condurre a conseguenze paradossali, pervenendo a una visione razionalistica e meccanicistica della pubblica amministrazione che, con l’eliminazione dell’elemento personale come fattore di insicurezza, riesce a concepirsi in modo ideale. Si tratta dell’estremizzazione di quell’impostazione di base secondo cui “il civil servant è intrinsecamente visto come un potenziale corrotto, a cui va messa una stretta briglia con finalità contenitive e preventive”. Tuttavia, tale filosofia di fondo appare controproducente, in quanto mortifica l’iniziativa del pubblico dipendente, in netto contrasto con il principio della fiducia che, come anticipato, è oggi desumibile da una norma cogente di legge, senza trascurare l’ulteriore conseguenza negativa dell’incremento dei costi di transazione e controllo (maggiori tempi per le decisioni, rigidità operative, più personale coinvolto). d’altronde, è lo stesso legislatore a fare riferimento all’iniziativa e autonomia decisionale dei funzionari pubblici (art. 2, c. 2, d.lgs. n. 36/2023) e la relazione di accompagnamento afferma che “il nuovo codice vuole dare, sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che -fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità -miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici”. la discrezionalità, infatti, è il nucleo essenziale del potere amministrativo, implicante la ponderazione di interessi primari e secondari, pubblici e privati, che è il proprium della funzione amministrativa. un sistema anticorruzione che voglia dirsi rivisitato nelle fondamenta e adeguato alla nuova visione legislativa, più che irreggimentare i procedimenti e i processi sino a soffocare qualsiasi spiraglio di discrezionalità, dovrebbe focalizzarsi sull’adeguatezza rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 della motivazione, presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo nonché presidio di legalità sostanziale insostituibile. Solo la motivazione, a prescindere dal singolo e atomistico adempimento procedimentale, può dare evidenza delle scelte compiute e delle ragioni di fatto e di diritto che le sorreggono, così consentendo la comprensibilità del provvedimento, il sindacato giurisdizionale e il controllo diffuso da parte della collettività. Tale rivoluzione culturale condurrebbe a superare quello che autorevole dottrina definisce “declino della decisione motivata” e che incide negativamente sulla legittimazione dei pubblici poteri (che un sistema anticorruzione virtuoso dovrebbe aiutare a recuperare, più che ad annullare del tutto). 5. il principio della fiducia nella giurisprudenza. occorre, conclusivamente, dare atto dei più recenti interventi della giurisprudenza in punto di applicazione concreta dell’innovativo principio della fiducia. in quest’ottica, di grande interesse risulta T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 7 febbraio 2024, n. 478, recentissima pronuncia che rivela l’impatto del nuovo principio della fiducia sul sindacato del Giudice Amministrativo sulla discrezionalità tecnica della stazione appaltante in tema di anomalia dell’offerta (30). 5.1. La giurisprudenza consolidata in materia di offerte anomale e il perimetro del sindacato del G.a. Ai sensi dell’art. 110, comma 1, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, “Le stazioni appaltanti valutano la congruità, la serietà, la sostenibilità e la realizzabilità della migliore offerta, che in base a elementi specifici, inclusi i costi dichiarati ai sensi dell’articolo 108, comma 9, appaia anormalmente bassa. il bando o l’avviso indicano gli elementi specifici ai fini della valutazione”. i commi successivi prevedono, nell’ambito del subprocedimento di valutazione dell’anomalia delle offerte, l’attivazione di un contraddittorio endoprocedimentale tra la stazione appaltante e le imprese interessate, e disciplinano le circostanze che possono essere addotte a fondamento del prezzo o dei costi proposti (comma 3) e i profili in relazione ai quali “non sono ammesse giustificazioni” (comma 4) per esigenze di tutela dei lavoratori. l’illustrazione del quadro normativo non sarebbe completa senza la menzione dell’art. 54 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, il quale stabilisce, al comma 1, che “Nel caso di aggiudicazione, con il criterio del prezzo più basso, di (30) Per una disamina più approfondita della pronuncia, sia consentito il richiamo ad A. riPePi, Principio della fiducia ed estensione del sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, in Giurisprudenza italiana, 4/2024, in corso di pubblicazione. ConTribuTi di doTTrinA contratti di appalto di lavori o servizi di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea che non presentano un interesse transfrontaliero certo, le stazioni appaltanti, in deroga a quanto previsto dall’articolo 110, prevedono negli atti di gara l’esclusione automatica delle offerte che risultano anomale, qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque. il primo periodo non si applica agli affidamenti di cui all’articolo 50, comma 1, lettere a) e b). in ogni caso le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”. il meccanismo dell’esclusione automatica viene, tuttavia, meno con riferimento alle forme di affidamento di cui all’art. 50, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, prevedendo che le stazioni appaltanti possano comunque valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa. Viene, così, confermata la disciplina già recata dall’art. 97, comma 6, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in tema di “verifica facoltativa” della congruità dell’offerta. Già prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, si era consolidato un indirizzo della giurisprudenza amministrativa in virtù del quale, dal momento che la stazione appaltante esercita discrezionalità tecnica nel vagliare l’anomalia delle offerte presentate e nel valutare le eventuali osservazioni delle imprese interessate, il sindacato del G.A. sulla medesima sarebbe stato senz’altro possibile, purché limitato a profili di manifesta illogicità, incongruità e irragionevolezza (Cons. St., sez. V, 29 novembre 2021, n. 7951), ferma restando l’impossibilità di operare un’analitica verifica delle singole voci dell’offerta (Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione Siciliana, 16 gennaio 2024, n. 5). la valutazione di anomalia dell’offerta costituisce, infatti, espressione della discrezionalità tecnica, di cui l’Amministrazione è titolare per il conseguimento e la cura dell’interesse pubblico ad essa affidato dalla legge; detta valutazione è di norma sottratta al sindacato di legittimità del G.A., salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti (Cons. St., sez. V, 1° giugno 2021, n. 4209). 5.2. il principio della fiducia e l’art. 2 D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36. Con un approccio innovativo e radicalmente diverso rispetto all’impostazione di fondo del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il nuovo Codice dei contratti pubblici, come già detto, prevede che “L’attribuzione e l’esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici. 2. il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con rASSeGnA AVVoCATurA dello STATo -n. 3/2023 particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato”. il principio della fiducia, tuttavia, dev’essere rettamente inteso: esso intende esprimere un incoraggiamento di fondo per il pubblico dipendente che è costantemente chiamato ad affrontare problemi di particolare complessità avvalendosi dello strumento della discrezionalità amministrativa, ma non costituisce fonte di deresponsabilizzazione del decisore pubblico e, per altro verso, non può erodere i margini del sindacato giurisdizionale sulle scelte amministrative. 5.3. Principio della fiducia e sindacato giurisdizionale a confronto sul terreno della valutazione di anomalia dell’offerta. T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 7 febbraio 2024, n. 478. Sulla questione è intervenuto, di recente, T.a.r. Sicilia-Catania, sez. iii, 7 febbraio 2024, n. 478, affermando che il principio della fiducia non può essere invocato al (preteso) fine di limitare il sindacato del G.A. sulla discrezionalità tecnica che la stazione appaltante esercita in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta, purché lo stesso, conformemente ai principi generali, sia limitato a profili di manifesta illogicità, incongruità e irragionevolezza. A fronte di una fattispecie concreta in cui la stazione appaltante ha effettuato valutazioni scarsamente verosimili in punto di congruità dell’offerta presentata da alcune tra le imprese concorrenti, il T.a.r. Sicilia-Catania non può esimersi dal rilevare come l’esercizio della discrezionalità tecnica risulti, nel caso di specie, inficiato da irragionevolezza e illogicità manifesta e contrario al principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., con la conseguenza del necessario intervento caducatorio dell’Autorità giurisdizionale. infatti, è indubbio che il principio di fiducia sia stato introdotto, all’art. 2 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con il preciso fine di valorizzare l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni oggetto di gara, come già evidenziato nel paragrafo precedente. Tale principio, dunque, è animato dalla funzione di ampliare e incoraggiare i poteri valutativi e la discrezionalità della stazione appaltante, in chiave di funzionalizzazione verso il miglior risultato possibile. Tuttavia, la latitudine applicativa del principio non può essere estesa sino a pretendere che il sindacato giurisdizionale receda a fronte di ipotesi concrete in cui il potere amministrativo viene esercitato, come nel caso in commento, in modo assolutamente arbitrario e illogico. A tale conclusione si giunge non solo ribadendo i tradizionali principi in materia di sindacato del G.A. sulla discrezionalità tecnica della stazione appaltante, bensì valorizzando, in ottica sistematica, anche il principio del risultato, di cui all’art. 1 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36. ConTribuTi di doTTrinA infatti, considerato che le stazioni appaltanti, ai sensi dell’articolo da ultimo citato, “perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza”, laddove ciò non accada a causa di valutazioni illogiche e antieconomiche, non può invocarsi il principio della fiducia al preteso fine di legittimare ex post scelte discrezionali che tradiscono l’interesse pubblico sotteso ad una gara, le quali, invece, dovrebbero in ogni caso tendere al suo miglior soddisfacimento. in definitiva, la sentenza in esame consente di comprendere come il principio della fiducia, seguendo un monito già esplicitato nella “relazione agli articoli e agli allegati” del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, debba essere sicuramente valorizzato, ma anche rettamente inteso. 6. Conclusioni. la panoramica offerta in questo breve scritto rispecchia un quadro variegato e sicuramente suscettibile di interessanti sviluppi. Attraverso l’art. 2 del “nuovo Codice”, il legislatore ha inteso esplicitare una nuova e diversa filosofia di fondo del sistema della contrattualistica pubblica, che potrebbe innervare, in chiave assolutamente innovativa, anche l’apparato normativo preventivo dell’anticorruzione. Tuttavia, il principio della fiducia non può spingersi sino a erodere i tradizionali margini di sindacato del Giudice Amministrativo sui provvedimenti emanati dalle stazioni appaltanti, soprattutto laddove affetti da illogicità o incongruità e, in generale, da vizi dell’azione amministrativa rispetto ai quali il principio in esame non può certamente avere alcuna efficacia “sanante”. (*) COMUNICATO DELL’AVVOCATO GENERALE Oggi lascia il servizio, dopo oltre trentasette anni di significativa presenza, l’Avv. Andrea Michele Caridi in servizio presso l’Avvocatura Distrettuale di Milano. Al caro Collega e Amico che ha onorato l’Istituto con la Sua professionalità e con la Sua dedizione alla cura degli interessi del Paese, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, lunedì 1 luglio 2024 08:00. Finito di stampare nel mese di settembre 2024 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma