ANNO LXXVI - N. 1 GENNAIO - MARZO 2024 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi -Natalino Irti -Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Stefano Varone. CONDIRETTORE: Gianni De Bellis per la cura del “Contenzioso tributario. Osservatorio”. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli -Carlo Maria Pisana -Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Stefano Maria Cerillo -Pierfrancesco La Spina Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Antonino Ripepi -Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Ennio Antonio Apicella, Adele Berti Suman, Giuseppe Coccia, Enrico De Giovanni, Massimo Di Benedetto, Emanuele Feola, Antonio Ferraioli, Andrea Ferri, Michele Gerardo, Domenico Maimone, Gaetana Natale, Giovanni Palatiello, Gabriella Palmieri Sandulli, Stefano Emanuele Pizzorno, Marco Stigliano Messuti. E-mail Giuseppe fiengo rassegna@avvocaturastato.it gianni.debellis@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it stefano.varone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA -Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario Comunicati dell’Avvocato Generale: Pensionamento Avv. Gianni De Bellis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pensionamento Avv. Gianni Cortigiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pensionamento Avv. Guido Denicolò . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 . . . . . . . . . . . . . . . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di presentazione della Relazione sull’attività della Giustizia Amministrativa per l’anno 2024. Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 presso il Consiglio di Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Aggiunto in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2025 presso la Corte di appello di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Un modello di museo diffuso: l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Obbligo del versamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo delle cause civili a decorrere dal 1° gennaio 2025, Circolare A.G. del 14 gennaio 2025 prot. 31846 n. 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Modifiche al processo civile introdotte dal D.Lgs. 31 ottobre 2024, n. 164. Le novità di rilievo per l’attività dell’Avvocatura dello Stato, Circolare A.G. del 14 gennaio 2025 prot. 31876 n. 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conferimento incarico di Vice Avvocato Generale dello Stato, Avv. Paolo Gentili, Circolare A.G. del 30 gennaio 2025 prot. 71899 n. 15 . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Massimo Di Benedetto, La sentenza Cesarano. La CEDU si confronta con ipotesi specifiche sinora inesplorate e spiega come i principi Scoppola debbano trovare applicazione (Corte EDU, Sez. I, sent. 17 ottobre 2024, ricorso n. 71250/16, causa Cesarano c. Italia). . . . . . . . . . . . . . . . Emanuele feola, La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sulla nozione di vittima e su quella di rimedio interno effettivo, nel caso di presunte violazioni del diritto alla privacy (Corte EDU, Sez. I, sent. 28 novembre 2024, ricorso n. 25578/11, causa Casarini c. Italia) . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Stefano Emanuele Pizzorno, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 (causa C-406/22) sui Paesi sicuri con riferimento alle conseguenze sul contenzioso nazionale. I recenti arresti della Cassazione. . pag. 1 ›› 4 ›› 7 ›› 10 ›› 14 ›› 29 ›› 30 ›› 43 ›› 45 ›› 67 ›› 83 Enrico De Giovanni, Responsabilità civile dello Stato per illeciti penali di dipendenti pubblici. La sentenza del Tribunale di Roma, Sezione seconda civile, 14 gennaio 2025 n. 594, fa chiarezza sulla sussistenza del “nesso di occasionalità necessaria” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 116 CONTENZIOSO TRIBUTARIO - OSSERVATORIO Istituenda sezione “Contenzioso tributario -Osservatorio” a cura del- l’Avv. Gianni De Bellis, Presentazione del Direttore responsabile . . . . . ›› 125 Gianni De Bellis, La responsabilità dei soci verso il fisco a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese (Cass. civ., Sez. Un., sent. 12 febbraio 2025 n. 3625) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 126 Giovanni Palatiello, In tema di IMU. I principi di diritto enunciati da Corte di Cassazione, ordinanza 11 gennaio 2025 n. 727 sulla legittimazione attiva e passiva nelle azioni reali con riguardo ai beni dello Stato (Cass., Sez. Trib., ord. 11 gennaio 2025 n. 727). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 152 Antonio ferraioli, Appunti sul D.Lgs. n. 139/2024. Modifiche in materia di trust. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 168 I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Domenico Maimone, Istituto della prenotazione a debito di cui all’art. 158 del T.U. in materia di spese di giustizia: sulla esenzione dal pagamento del contributo unificato da parte della Regione Siciliana nei giudizi promossi innanzi alla Corte Suprema di Cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 179 Marco Stigliano Messuti, Adele Berti Suman, Interpretazione delle previsioni del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di esclusione a fronte della novella introdotta dal d.lgs. n. 150/2022 sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta . . . . . . . ›› 187 LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Carlo Maria Pisana, Processi al gruppo Al Qaeda di Roma: la Jihad mediatica vista da dentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 199 Andrea ferri, Gli uffici per i procedimenti disciplinari nelle amministrazioni pubbliche; una analisi giurisprudenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 211 Giuseppe Coccia, Operazioni sotto copertura. Nuovi possibili orizzonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 233 CONTRIBUTI DI DOTTRINA Ennio Antonio Apicella, Collegi consultivi tecnici: il correttivo al codice conferma l’applicabilità solo residuale delle linee guida M.I.T. del 2022 ›› 243 Gaetana Natale, La sanità in Italia. Il futuro delle competenze nell’era dell’Intelligenza Artificiale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 250 Carlo Maria Pisana, Il versamento diretto dell’assegno periodico di mantenimento al figlio maggiorenne non economicamente autonomo: un diritto negato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 261 A ricordo dell’Avv. Raffaello Martelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’Avv. Giovanna Maria Cuccia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’Avv. Giacomo Arena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . dell’Avv. Maria Grazia Scalas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (*) COMUNICATO D LL’AVVOCATO G N RALE Oggi lascia il servizio, per raggiunti limiti di età, dopo oltre quarantadue anni di prestigiosa e significativa presenza, l’Avv. Gianni De Bellis, già Vice Avvocato Generale dello Stato, che ha onorato l’Avvocatura e il Paese con la Sua altissima professionalità, con il Suo costante impegno e con le Sue elevate doti professionali e umane, riconosciute anche dalle Supreme Magistrature e tali da rappresentare un esempio e un punto di riferimento non solo per i più giovani. Al carissimo Gianni, indimenticabile Collega e Amico, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, martedì 17 dicembre 2024 08:01. (*) COMUNICATO D LL’AVVOCATO G N RALE In occasione del collocamento a riposo, dopo quarantasette anni di significativa presenza, dell’Avv. Gianni Cortigiani, già Avvocato Distrettuale di Firenze, desidero porgergli gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Come Avvocato Distrettuale si è sempre impegnato per tenere alto il livello professionale e organizzativo della Sede, con la passione e l’impegno che hanno caratterizzato anche la Sua attività sia come componente del Comitato Consultivo, sia come componente del Consiglio degli Avvocati e Procuratori dello Stato, partecipando ai due Organi Collegiali con intelligenza ed equilibrio. Al caro Gianni, Collega e Amico che ha sempre svolto le Sue funzioni onorando l’Istituto con grande professionalità e con profonda dedizione, ogni saluto e augurio più sincero. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, sabato 18 gennaio 2025 08:11. (*) COMUNICATO D LL’AVVOCATO G N RALE Oggi lascia il servizio, dopo oltre trentotto anni di significativa presenza, l’Avv. Guido Denicolò, in servizio alla Distrettuale di Trento. Al caro Collega e Amico che ha onorato l’Istituto con la Sua professionalità e la Sua dedizione, vanno i saluti e gli auguri più affettuosi miei e di tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato e del Personale dell’Avvocatura. Gabriella Palmieri Sandulli (*) E-mail Segreteria Particolare, mercoledì 5 febbraio 2025 08:01. TemiisTiTuzionali Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Signor Presidente della Repubblica, Signora Prima Presidente, Signor Procuratore Generale, Autorità, Gentili Ospiti, prendo la parola in questa solenne Cerimonia per porgere il saluto del- l’Istituto che ho l’alto onore e il privilegio di dirigere. 2. La Prima Presidente ha illustrato i “lusinghieri”, “straordinari” risultati raggiunti dalla Suprema Corte nell’anno 2024, frutto del grandissimo impegno profuso dai Magistrati e da tutto il Personale amministrativo, ai quali va il più vivo ringraziamento. 3. Il considerevole volume di contenzioso che ha impegnato la Corte nelle materie che vedono coinvolta l’Avvocatura dello Stato ha trovato una parziale riduzione, sia grazie allo svolgimento di udienze tematiche, sia grazie all’individuazione di significative questioni da sottoporre alle Sezioni Unite al fine di determinare un indirizzo giurisprudenziale univoco. Risulta, infatti, confermata la riduzione del numero dei giudizi relativi alla protezione internazionale e alla espulsione di cittadini extracomunitari, passati dagli oltre 1200 nuovi ricorsi del 2022 agli attuali 580. 4. L’efficace assolvimento del compito di difesa in giudizio delle Amministrazioni patrocinate dall’Avvocatura dello Stato dipende non solo, evidentemente, dalla collaborazione con queste ultime, ma anche e soprattutto dalla possibilità di affidarsi a indirizzi giurisprudenziali consolidati. Come la sentenza delle Sezioni Unite n. 5792/24 che, in una rilevante causa in materia di beni culturali, ha delineato con chiarezza la differenza tra azione revocatoria e vizio di nullità della sentenza per difetto di motivazione. La funzione nomofilattica è, infatti, indispensabile anche per orientare l’agire amministrativo nell’esercizio delle funzioni consultive attribuite all’Avvocatura dello Stato e così favorire la deflazione del contenzioso, ove quegli indirizzi rendano evidente la non utile perseguibilità della fase giudiziale. 5. In questa prospettiva e nell’ottica della costante, leale collaborazione istituzionale con la Suprema Corte, l’utilizzo della decisione ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., che pur assolve compiutamente al suo scopo, potrebbe giovarsi di qualche affinamento per favorire l’immediatezza della decisione nel caso di questioni di particolare complessità, meritevoli di maggiore approfondimento in udienza pubblica, essendo, allo stato, comunque, necessaria la previa trattazione in camera di consiglio. 6. La speditezza ed efficacia del giudizio si realizzano anche grazie alle ulteriori novità del processo civile telematico, in particolare, le nuove specifiche tecniche in vigore dal 30 settembre 2024 e quelle contenute nel D.lgs. n. 164/24, ispirate al principio generale del definitivo superamento degli adempimenti analogici, come la nota di iscrizione a ruolo, e per la completa informatizzazione del processo civile con le modifiche alla disciplina del processo esecutivo. 7. L’informatizzazione del processo deve, però, sempre coniugarsi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali; in tal senso la pronuncia delle Sezioni Unite n. 6477/24 che l’ha ribadito anche in chiave sovranazionale. Come l’applicazione dell’intelligenza artificiale, pure in chiave deflattiva del contenzioso, non potrà prescindere dalla presenza e dal controllo umano per la tutela dei diritti. 8. Nel quadro descritto, l’Avvocatura dello Stato, che già da tempo è passata a una modalità di lavoro quasi interamente digitale, si è tempestivamente conformata alle novità introdotte, modificando i propri sistemi in funzione delle diverse realtà tecnico-informatiche; tanto che si è verificato un ulteriore incremento dei depositi telematici, innanzi alla Cassazione, passati dai 13 mila del 2023 ai 16 mila del 2024. 9. Alcuni dati numerici sono indicativi della complessa attività e dell’impegno profuso dall’Avvocatura dello Stato. Nel 2024 i nuovi affari trattati sono stati oltre 167mila, con un incremento di circa il 14 % rispetto al 2023. Gli esiti dei giudizi, con particolare riferimento al rilevante contenzioso tributario, confermano una percentuale di successo nella media superiore al 68 %. 10. Infine, dall’osservatorio privilegiato dell’Avvocatura che assiste la Repubblica Italiana in tutti i giudizi dinanzi alle giurisdizioni sovranazionali (Corte di giustizia e tribunale dell’Unione europea e Corte europea dei Diritti dell’Uomo) ricordo come sia efficacemente proseguito il dialogo tra la Corte di cassazione e la Corte di giustizia dell’Unione europea. Nel 2024 sono state proposte nove questioni di rinvio pregiudiziale, in aumento rispetto al 2023, su diverse tematiche di rilevante interesse come parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, tutela dei consumatori e protezione dei marchi. In questo proficuo dialogo fra le Alte Corti va ricordata la recentissima ordinanza n. 34898/24, che -nel disporre una sospensione impropria in attesa della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea su una questione sollevata dal tribunale di Roma -ha formulato ampie riflessioni sul tema sottoposto al suo esame. 11. Concludo questo mio intervento confermando che l’Avvocatura dello Stato e tutti i suoi Componenti continueranno a profondere il massimo impegno per essere sempre all’altezza delle rilevanti funzioni loro assegnate. Grazie per l’attenzione. Roma, 24 gennaio 2025 Palazzo di Giustizia, Aula Magna Cerimonia di presenTazione della relazione sull’aTTiviTà della giusTizia amminisTraTiva per l’anno 2024 inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 presso il Consiglio di sTaTo Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente del Consiglio di Stato, Signor Presidente Aggiunto, Signor Segretario Generale, Signori Magistrati, Gentili Ospiti, sono onorata di prendere la parola in questa solenne Cerimonia per portare -come da tradizione -il saluto dell’Istituto che ho il privilegio di dirigere, nel segno della consolidata reciproca collaborazione istituzionale, della quale ringrazio Lei, Signor Presidente, e tutti i Magistrati e il Personale amministrativo. * La continua sinergia e il dialogo costruttivo fra tutti i protagonisti del processo amministrativo hanno contribuito, anche nell’anno appena trascorso, all’elaborazione di soluzioni condivise, che costituiscono presupposto essenziale per una sempre più efficiente amministrazione della giustizia. Con lo spirito collaborativo proprio dell’Avvocatura dello Stato, pertanto, auspico si possa proseguire, insieme, in questo percorso virtuoso. * L’attività dell’Avvocatura dello Stato si svolge in misura rilevantissima dinanzi alla Magistratura amministrativa. Il dato numerico è un’espressione sintetica, ma efficace della rilevanza del lavoro svolto dall’Avvocatura dello Stato. Il numero di nuovi contenziosi che, per l’anno 2024, la vedono coinvolta, dinanzi al Consiglio di Stato, come appellante o come resistente, si attesta, infatti, su oltre 5.500 affari; mentre i depositi effettuati sono stati oltre 11.500. L’Avvocatura dello Stato, che, già da tempo, ha completato il processo di digitalizzazione e dematerializzazione degli atti, si è conformata a tutte le novità tecnico-informatiche imposte dal PAt, il processo amministrativo telematico. Proprio in connessione logica con esso -sulla quale si è già soffermato, peraltro, qualche attento commentatore -è opportuno riflettere sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel processo in generale e in quello amministrativo in particolare, superando quella -forse troppo semplicistica -distinzione, in base alla quale il PAt avrebbe effetti essenzialmente sulla forma, mentre l’I.A. finirebbe per incidere sull’attività sostanziale del giudicare. Anche perché l’utilizzo del PAt riguarda proprio le modalità di esercizio dei diritti delle parti nel processo, ovvero i contenuti del processo, come si evince dall’ordinanza n. 5/24 dell’Adunanza Plenaria, in tema di accesso al fascicolo digitale, previa autorizzazione del giudice, per gli interventori volontari. Comprendere il cambiamento derivante dall’applicazione dell’I.A., come, ad esempio, l’applicazione del LLM -Large Language Model, il programma di I.A. per riconoscere e generare un testo, significa governarlo, ma sempre senza prescindere dal controllo umano, dalla tutela dei diritti, dalla sicurezza e dall’affidabilità dei dati, come da Lei ricordato, Signor Presidente, nella Sua relazione odierna (1). L’esperienza maturata dal 2017 con l’applicazione di modalità esclusivamente telematiche nel processo sarà, senz’altro, un ausilio prezioso, come i principi, nel frattempo, elaborati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di utilizzo degli algoritmi. * All’esame del dato numerico si accompagna la considerazione circa l’importanza e la centralità degli ambiti e delle materie che vedono impegnata l’Avvocatura dello Stato davanti al Consiglio di Stato, come quelle ambientali e urbanistiche, della concorrenza, della regolazione dei settori della comunicazione, delle controversie in materia di opere pubbliche. Segnalo, in particolare, il recentissimo decreto monocratico, ampiamente motivato, di sospensione della esecutività della sentenza in tema di “congelamento” di una risorsa, riconducibile ad un oligarca russo e, sempre, sullo stesso tema la sentenza n. 9330/24, nel solco di quell’indirizzo giurisprudenziale iniziato con la sentenza n. 10187/23, menzionata nel mio intervento dello scorso anno; la sentenza n. 9614/24 in tema di raccolta e tutela dei dati personali, in relazione alla nozione di pratica commerciale ingannevole; e, infine, la sentenza n. 6943/24 in tema di conservazione degli habitat naturali e degli habitat di specie alla luce della direttiva 92/43/Cee del Consiglio del 21 maggio 1992. * È continuato anche nel 2024 l’impegno innanzi alle giurisdizioni sovranazionali, Corte di giustizia e tribunale della Ue e CeDU, essendo sempre sentita l’esigenza di confrontarsi con la normativa europea e la tutela uniforme dei diritti che da essa scaturisce, con riferimento ai principi dell’ordinamento europeo, di recente, autorevolmente definito come uno “spazio costituzionale comune” (2). (1) Si segnala il documento del 30 settembre 2024 del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa Servizio per l’informatica, in tema Intelligenza artificiale e Giustizia amministrativa, quanto a “strategie di impiego, metodologie e sicurezza”. (2) Dal Presidente della Corte costituzionale Giovanni Amoroso nel corso della conferenza stampa in occasione della Sua elezione (28 gennaio 2025) e nel corso della Sua prima intervista televisiva. In questo delicato compito le Sezioni giurisdizionali e consultive del Consiglio di Stato hanno continuato a svolgere un importante ruolo di indirizzo, essendo, peraltro, giudici di ultima istanza. Nel 2024, i Giudici amministrativi hanno sollevato 34 domande pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea (con un significativo aumento rispetto all’anno 2023), di cui 21 provengono dal Consiglio di Stato e riguardano questioni di notevole interesse, in tema di tutela dei consumatori, procedimenti sanzionatori da parte delle autorità nazionali di regolazione, equipollenza dei titoli di studio, di sostegno alla produzione di energie rinnovabili, di affidamento di appalto ed effetti delle misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina, approfondimento della giurisprudenza già ricordata in materia. L’importanza del rinvio pregiudiziale, strumento di cooperazione “da giudice a giudice”, è stata costantemente sottolineata dalla stessa Corte di giustizia come “chiave di volta” del sistema giurisdizionale della Ue. Come già osservato, proprio nel meccanismo del rinvio pregiudiziale l’Avvocatura dello Stato svolge un ruolo fondamentale in chiave di collaborazione istituzionale con il Consiglio di Stato, assicurando il circuito virtuoso attraverso la presenza (nella maggior parte dei casi) nei giudizi nazionali a quibus, rappresentando le ragioni del Governo italiano anche innanzi alla Corte di giustizia, e, poi, raffigurandone esiti e conseguenze, alla ripresa del giudizio, dinnanzi al giudice nazionale. * Concludo questo mio intervento confermando che l’Avvocatura dello Stato e tutti i suoi Componenti continueranno a profondere il massimo impegno nello svolgimento delle importanti funzioni loro assegnate. Grazie per l’attenzione. Roma, 3 febbraio 2025 Palazzo Spada Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 del Tribunale amminisTraTivo regionale del lazio Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Gabriella Palmieri Sandulli Signor Presidente, Signori Magistrati, Autorità, Colleghi Avvocati, Gentili Ospiti, 1. È con grande piacere che prendo la parola in questa Cerimonia per portare il saluto dell’Istituto che ho l’alto onore e il privilegio di dirigere. Questa partecipazione, della cui conferma -anche per quest’anno -ringrazio il Presidente Politi, ribadisce ancora una volta l’importanza dello spirito di collaborazione istituzionale che sussiste e deve esserci tra il Giudice amministrativo e gli Avvocati, che si traduce in una visione integrata della valutazione giuridica delle questioni, al fine dell’ottimizzazione dell’efficienza della giustizia. D’altronde, di questo dialogo costruttivo, Signor Presidente, Lei è stato sempre convinto assertore, perché, già, nel 2018, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del tar Brescia, da Lei autorevolmente presieduto, aveva sottolineato l’importanza della “…necessaria interlocuzione con tutti i protagonisti dell’ambiente-Giustizia”. Colgo l’occasione anche per rinnovare a Lei, Signor Presidente, a nome dell’Avvocatura dello Stato e mio personale, le più sincere congratulazioni per la prestigiosa nomina a Presidente del tar Lazio che rappresenta l’alto riconoscimento delle Sue elevatissime doti professionali e umane, testimoniate anche dall’attenzione con la quale, innovando “il rito” della presente Cerimonia, ha lasciato spazio alla voce dei neo-Referendari: i giovani Colleghi sono il futuro e la linfa vitale delle nostre Istituzioni. * 2. Nella Sua Relazione, Signor Presidente, ha ricordato l’attività svolta e i risultati raggiunti nell’anno appena trascorso; che sono il frutto, ancora una volta, del grandissimo impegno profuso dai Magistrati e da tutto il Personale amministrativo, ai quali va, dunque, il più vivo ringraziamento. 3. Come è stato più volte ricordato anche in occasione dei Convegni che, nel 2021, hanno celebrato i 50 anni dell’istituzione dei tribunali Amministrativi Regionali e del recente Convegno dell’ottobre 2024 in occasione dei 50 anni di funzionamento dei tt.AA.RR., il tar del Lazio è un organo giudiziario che costituisce un unicum non solo nel panorama nazionale, ma anche in quello europeo. Peculiarità sottolineata nella Sua Relazione odierna. Quale giudice amministrativo di primo grado, infatti, concentra in sé le competenze di tar regionale e di tar centrale, in quanto decide sugli atti dei Ministri e del Governo, degli organi a rilevanza costituzionale, come il CSM, delle Autorità indipendenti. Il contenzioso che gli è riservato è, dunque, tanto numeroso quanto delicato, incidendo nei più rilevanti settori della vita economica del Paese, reso ancora più importante dall’attuale momento storico in cui anche la Pubblica Amministrazione deve affrontare, nel perseguimento dell’interesse pubblico, sempre nuove sfide, dovendosi confrontare con il complesso e delicato quadro socio-politico internazionale. Si comprende, quindi, perché il tar Lazio sia stato definito il tribunale dell’economia (1), o anche il tar dei tar (2). Mi limito, poi, per evidenti ragioni di brevità a citare solo alcune, fra le tante, rilevanti sentenze rese dal tar Lazio nell’ultimo anno, nelle quali il denominatore comune è rappresentato da un’equilibrata valutazione e dal bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nelle singole fattispecie. La sentenza n. 1279/2024, che ha riconosciuto la legittimità dell’operato dell’Amministrazione, anche sotto il profilo del corretto bilanciamento tra le esigenze di approvvigionamento energetico nazionale e gli aspetti connessi alla tutela dell’ambiente e della salute, nonché della sicurezza delle persone. La sentenza n. 6694/2024, che ha riaffermato importanti principi in tema di discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice sulla valutazione delle offerte e l’attribuzione dei punteggi. Sul peculiare ruolo dell’Avvocatura dello Stato vanno, infine, menzionate le sentenze in tema di accesso ai pareri resi nell’attività consultiva dall’Istituto, che affermano importanti e decisivi principi per assicurare un equilibrato bilanciamento tra interessi privati ed effettività ed efficacia dell’attività professionale a tutela dell’interesse pubblico: tra le altre, la n. 8892/24, n. 18678/24 e la recentissima n. 22271/24. 4. L’evoluzione del quadro normativo interno è ormai sempre più influenzata e compenetrata con l’ordinamento eurounitario. Nel 2024, i Giudici amministrativi hanno proposto 34 domande pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione europea (con un significativo aumento rispetto all’anno 2023), di cui 13 provengono dal tar del Lazio, che ha (1) Lei stesso, Signor Presidente, in una intervista resa in occasione della Sua nomina a Presidente del tar Brescia aveva sottolineato che “Il sistema economico ha come primo interfaccia l’esercizio del potere pubblico. Rispetto a questi protagonisti il Tar non svolge un ruolo di mediazione, non è un attore, ma deve guardare la legittimità degli atti, svolgere un ruolo arbitrale di controllo della correttezza delle parti ”. Corriere di Brescia, “tar, il nuovo presidente: «Noi a tutela dei cittadini»”, 4 ottobre 2017. (2) Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022 del Presidente del tar Lazio, Antonino Savo Amodio. proposto il rinvio pregiudiziale, pur non essendo giudice di ultima istanza a dimostrazione dell’importanza attribuita al proficuo dialogo tra le Corti ai fini di un sempre maggiore adeguamento dell’ordinamento interno alle regole comuni dell’Unione europea. Le questioni pregiudiziali sollevate sono di particolare rilievo; come i rinvii pregiudiziali che riguardano il sistema della giustizia sportiva, l’interpretazione; l’applicazione dell’art. 2 del Regolamento Ue n. 269/2014 del 17 marzo 2014, in tema di “…misure restrittive … integrità territoriale … sovranità e …‘indipendenza dell’Ucraina’ ”; il riconoscimento dei titoli abilitativi conseguiti all’estero. * 5. In tale complesso e delicato contenzioso il tar Lazio vede nell’Avvocatura dello Stato, quale difensore istituzionale delle pubbliche Amministrazioni, il principale interlocutore. Il dato numerico è un’espressione sintetica, ma efficace della rilevanza del lavoro svolto dall’Avvocatura dello Stato e ne costituisce evidente rappresentazione: nel 2024 sono stati impiantati oltre 12.000 nuovi affari di competenza delle Sezioni romane del tar Lazio e sono stati effettuati oltre 29.000 depositi telematici. A tale riguardo auspico, per il futuro, una armonizzazione dei processi telematici di tutte le giurisdizioni, con l’approdo a sistemi, regole e strumenti, per quanto possibile, comuni o almeno uniformi; guardando con attenzione all’applicazione di sistemi di intelligenza artificiale, nei quali siano indefettibili il controllo e la gestione umani. 6. Concludo, ringraziando Lei, Signor Presidente, i Magistrati e il Personale amministrativo del tar Lazio e associandomi ai calorosi saluti e ai profondi ringraziamenti al Presidente Savo Amodio e al Presidente Riccio. Grazie per l’attenzione. Roma, 28 febbraio 2025 Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 presso la CorTe di appello di roma Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Aggiunto Avv. Marco Corsini Signor Presidente, signor Procuratore Generale, signor Presidente della Corte Costituzionale, signor Rappresentante del Governo, Autorità tutte presenti: religiose, militari e civili, gentili ospiti. È davvero con vivo piacere che prendo la parola nella solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 presso la Corte d’Appello di Roma. Porgo il saluto dell’Istituto cui ho l’altissimo onore di appartenere, rivestendo una carica che - ahimè - rivela da sola l’anzianità di chi vi parla. Porto il saluto dell’Avvocato Generale dello Stato, di tutti gli avvocati e procuratori dello Stato, delle colleghe e dei colleghi che ogni giorno profondono i propri immani sforzi nella difesa dell’interesse pubblico. e porto il mio saluto personale, sincero e cordiale ai Magistrati e agli avvocati del libero foro, che io considero -tutti -colleghi in senso vero, perché tutti impegnati nei rispettivi ruoli nell’assolvere la missione di dare giustizia. tutti chiamati a recitare una parte ineliminabile nel rito del processo, collaborando (ecco perché dico “colleghi”) in modo che nessuno di noi potrebbe esistere se non esistessero nello stesso momento anche gli altri. Chi propone una tesi, chi ne sostiene l’antitesi e chi deve fare la sintesi. Nella sua approfondita ed ampia relazione il Presidente della Corte ha riferito in modo analitico sui risultati raggiunti dalla Corte nell’anno 2024 che, nonostante le difficoltà connesse alle riforme del “sistema giustizia” nei settori civile e penale, confermano l’encomiabile impegno di tutte le categorie coinvolte: magistrati, avvocati e personale amministrativo. Non posso che esprimere, a nome mio e dell’Istituto, il vivo apprezzamento e sentita gratitudine per il grandissimo impegno e l’alta professionalità dei Magistrati del Distretto nonché per la dedizione del personale amministrativo che vi opera in un contesto ove, come ricordato nella relazione del Presidente della Corte d’Appello dell’anno 2024, “viene in gioco la credibilità della giurisdizione e la fiducia dei cittadini verso l’amministrazione della giustizia, verso una delle funzioni fondamentali dello Stato”. In linea con quanto già evidenziato nella cerimonia dello scorso anno, le recenti riforme del processo civile e del processo penale consolidano e prose guono le innovazioni procedimentali ed organizzative introdotte nel periodo pandemico per contrastare gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria. Il progresso tecnologico e, in particolare, quello informatico, ha consentito di mutare rapidamente -ma sarebbe meglio dire, di migliorare il sistema processuale e giudiziario con il fine di realizzare una riduzione dei tempi di trattazione dei procedimenti civili e penali. La “rivoluzione digitale” -in ambito civile -è ormai in fase avanzata (tant’è che da un lato scompare dal codice di procedura ogni riferimento al processo cartaceo, implementando il riferimento ai concetti di fascicolo telematico e di duplicato informatico, e dall’altro viene esteso l’ambito delle note di trattazione scritta anche per l’udienza di discussione e la possibilità di ricorrere all’udienza da remoto). Per contro, in ambito penale, si devono gestire difficoltà maggiori di natura applicativa stante l’innegabile delicatezza degli interessi in gioco, difficoltà cui ha portato un certo beneficio il recente Decreto Ministeriale 27 dicembre 2024, n. 206, che introduce rilevanti novità in materia di tempi e modi del deposito telematico degli atti nel processo penale. L’Avvocatura dello Stato nel 2024 ha patrocinato davanti alle diverse Sezioni civili e alla Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma, oltre che in tutti i tribunali del distretto. La partecipazione dell’Avvocatura dello Stato è stata altresì rilevante, oltre che dinanzi alle Sezioni civili del Distretto, anche nell’ambito di diversi processi penali di impatto sociale e mediatico nei quali la difesa erariale affianca, quale parte civile, la Pubblica Accusa facendo valere le ragioni del- l’amministrazione rappresentata. In altre e non poche occasioni l’Avvocatura dello Stato ha assunto la difesa delle Amministrazioni quale responsabile civile o del dipendente pubblico che può avvalersi del nostro patrocinio. I dati, come già anticipato ieri dall’Avvocato Generale dello Stato nel discorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, sono numericamente impressionanti. In tutta Italia gli affari consultivi e contenzioni di nuovo impianto superano i 160.000, con un incremento del 14% rispetto all’anno scorso. Solo presso l’Avvocatura Generale gli affari nuovi impiantati sono più di 40.000, numero sostanzialmente in linea con l’anno precedente. Il dato nazionale però non costituisce una notizia incoraggiante perché qualche dubbio lo pone sull’effettivo successo dei tanti tentativi abbozzati dalle ripetute riforme nel senso della deflazione del contenzioso. e la dice lunga circa l’animo storicamente e incorreggibilmente causidico del nostro popolo. venendo alla Corte d’Appello di Roma, i nuovi giudizi radicati nel 2024 sono ben più di 2000 relativamente alla giurisdizione civile, mentre 150 sono quelli nella giurisdizione penale. Si è tuttavia confermato anche per l’anno appena trascorso (un piccolo indizio di ottimismo…) un aumento degli affari consultivi, segnale di una sempre rinnovata volontà delle Amministrazioni patrocinate di prevenire il contenzioso sia con soluzioni conciliative sia con il convincimento delle controparti delle buone ragioni dell’amministrazione con conseguente rinuncia all’azione giurisdizionale. tale attività tiene conto anche delle pronunce del giudice che consentono di indirizzare l’esercizio delle funzioni e delle attività svolte dalle pubbliche amministrazioni da Noi patrocinate. L’Avvocatura dello Stato, anche nel corso del 2024 e nell’ottica di una sempre maggiore interazione con le istituzioni giudiziarie ha manifestato il suo massimo impegno e la sua più ampia collaborazione in tutte le iniziative alle quali è stata chiamata, finalizzate a rendere più efficiente il sistema giudiziario italiano, rinnovando l’interesse per le nuove sfide che anche i sistemi di intelligenza artificiale offrono a tutti gli operatori del sistema giustizia e che il Governo ha posto al centro dell’agenda del G7 sotto la presidenza italiana. Analoghe iniziative per una sempre maggiore implementazione della digitalizzazione del processo sono costantemente portate avanti con la magistratura amministrativa, contabile e tributaria con le quali prosegue la costante interlocuzione per risolvere sempre nuove emergenti problematiche. La digitalizzazione degli strumenti del sistema giudiziario, anche alla base delle ultime modifiche introdotte dal c.d. correttivo Cartabia è un obiettivo nel quale l’Avvocatura dello Stato crede in quanto fattore importante per la transizione digitale; una sfida delle Istituzioni e un obiettivo del PNRR ove è inserita tra le c.d. riforme orizzontali o di contesto, ossia innovazioni strutturali dell’ordinamento, tali da interessare, in modo trasversale, tutti i settori di intervento del Piano. tale è lo spirito che intendiamo mantenere vivo nell’Avvocatura dello Stato che certamente è parte processuale, ma una parte da sempre portatrice di una missione che non è di parte in senso stretto sul piano sostanziale per la semplice e decisiva ragione che lo Stato in causa è in diverse occasioni Stato/collettività. Il decalogo di Giuseppe Mantellini, fondatore dell’Avvocatura dello Stato e primo avvocato generale, ci ricorda sempre che gli avvocati dello Stato “Nel trattare gli affari erariali (che sono gli affari dei contribuenti) sono prima giudici che avvocati”. Nessun timore, non siamo aspiranti magistrati. “Giudici” nel rapporto con la parte perché primi percettori della legittimità dei suoi atti e primi consiglieri nell’indirizzarne l’azione. Ma quando dico “avvocati” dico avvocati fermi e decisi nella difesa, con la missione di tutelare una parte del processo con pienezza dei poteri. e con un’ambizione: far comprendere sempre di più che l’interesse pubblico che noi difendiamo non è solo l’interesse di una parte, di una controparte, ma deve coincidere con l’interesse generale, che è l’interesse di tutta la collettività. e quando dico “consiglieri” mi riferisco ad una funzione che non è utilitaristica, ma che è anch’essa ispirata al risultato della giustizia. Perché -parafrasando l’insegnamento di un mio maestro -l’obiettivo dello stato non è di pagare tanto o poco, ma di pagare il giusto. Signor Presidente, signor Procuratore Generale, colleghi Magistrati, sappiamo che l’anno che verrà sarà di forte impegno professionale e morale, nella consapevolezza del fatto che tutto il mondo giudiziario vivrà un’epoca storica assai delicata sotto il profilo dell’identità e della propria funzione. e per questo il mio - il nostro augurio - è di buon lavoro. Accompagnato da una raccomandazione, che è nello stesso tempo un auspicio: continuiamo nell’opera di riduzione della durata dei giudizi, oggi ancora troppo lunga. Perché il tempo impiegato per dare giustizia è arte essenziale della Giustizia stessa. Mi rivolgo tuttavia ad un ipotetico legislatore, quella figura dalla mitologica saggezza che dalle XII tavole ad oggi regola i nostri comportamenti. La riduzione della durata dei processi non può e non deve realizzarsi con l’inasprimento delle decadenze e delle preclusioni, perché un sistema basato su un’implacabile griglia di decadenze e preclusioni si traduce in un sistema di denegata giustizia. Concludo questo mio intervento certo di poter confermare a Lei Presidente e a tutti i presenti che l’Avvocatura dello Stato e tutti i suoi componenti faranno la loro parte con lo spirito di sempre -quello che attraversa i 150 anni della nostra storia -continuando a profondere il massimo impegno e collaborazione per essere all’altezza delle rilevanti funzioni loro assegnate, e per non deludere la fiducia che quotidianamente viene riposta in loro. Grazie per la pazienza con cui mi avete ascoltato. Roma, 25 gennaio 2025 un modello di museo diffuso: l’avvocatura distrettuale dello stato di napoli Michele Gerardo* SOMMARIO: 1. Introduzione -2. Musei tradizionali, ecomusei, musei diffusi -3. Il sito, l’ubicazione degli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli -4. Aspetti architettonici del Palazzo degli Uffici Finanziari e dell’Avvocatura dello Stato -5. La pinacoteca dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli -6. Patrimonio librario dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli -7. Patrimonio librario (segue) Testi di precipuo interesse dell’Avvocatura dello Stato (Relazioni periodiche dell’Avvocato Generale; Rassegna dell’Avvocatura dello Stato; Allegazioni dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli) -8. Conclusioni. 1. Introduzione. Nel presente scritto vi è la descrizione dell’ufficio dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli come ipotesi di museo diffuso, attesa la stretta connessione tra le caratteristiche dell’immobile, la sua destinazione, la pinacoteca (che costituisce sia arredo che bene culturale tematico avente ad oggetto la pittura napoletana dell’ottocento), il patrimonio librario (biblioteca storicizzata e biblioteca corrente) e il patrimonio archivistico. Il tutto unito alla fruizione del complesso -rectius: visite consentite in periodi prestabiliti -da parte del pubblico. Giusta l’art. 101, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L.vo 22 gennaio 2004, n. 42) “Si intende per: a) «museo», una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio; b) «biblioteca», una struttura permanente che raccoglie, cataloga e conserva un insieme organizzato di libri, materiali e informazioni, comunque editi o pubblicati su qualunque supporto, e ne assicura la consultazione al fine di promuovere la lettura e lo studio; c) «archivio», una struttura permanente che raccoglie, inventaria e conserva documenti originali di interesse storico e ne assicura la consultazione per finalità di studio e di ricerca; […]”. Il museo può abbracciare anche oggetti di biblioteche o archivi allorché questi acquisiscano la qualità di beni culturali, ossia cose mobili “che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” (art. 2, comma 2, D.L.vo n. 42/2004), come confermato dall’art. 10, comma 4, lett. c), D.L.vo n. 42/2004 secondo cui sono comprese tra le cose ora indicate -ove (*) Avvocato dello Stato. appartenenti a soggetti pubblici e a soggetti privati assimilati a quelli pubblici -“i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio”. 2. Musei tradizionali, ecomusei, musei diffusi. Accanto ai musei tradizionali, si individuano altre tipologie di musei, tra cui gli ecomusei ed i musei diffusi. Il museo tradizionale si connota, in sintesi, per la triade , laddove l’ecomuseo si connota per la triade . L’ecomuseo, infatti, si configura come una nuova forma di museo, un museo che esce da un luogo chiuso e si riappropria del territorio, con il quale reinstaura un legame. L’ecomuseo pone al centro la relazione che il territorio ha avuto, ha ed avrà con la sua comunità di appartenenza. Il museo diffuso, invece, pone al centro la relazione tra gli oggetti, i contesti e il territorio, che è allo stesso tempo contenuto e contenitore. L’intuizione di creare -nel contesto dell’ufficio dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli -un museo diffuso, si deve a Giuseppe Fiengo, Avvocato Distrettuale dello Stato di Napoli nel 2010-2013. All’esito dei lavori di ristrutturazione delle porzioni dell’edificio in uso all’Avvocatura, del restauro e della ricollocazione, con un nuovo criterio espositivo, di stampe, dipinti e arredi originari -attività che hanno trovato il loro epilogo con una mostra delle opere di Hans Hartung -si è reso accessibile l’edificio al pubblico con visite guidate. In tal modo si è creato -per usare le parole di Beppe Fiengo -“un museo diffuso che offra in simultanea, alla fruizione collettiva, la realtà di quadri […] e di libri […] sconosciuti e l’ospitalità di un ufficio pubblico, quello dell’Avvocatura dello Stato, che intende aprirsi alla città di Napoli”(1). 3. Il sito, l’ubicazione degli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli sono ubicati nel Palazzo degli Uffici Finanziari (c.d. P.U.F.) in Napoli alla via Diaz, n. 11. Il P.U.F. è localizzato nel centro storico napoletano, a ridosso del quartiere Carità, ed appartiene al tessuto urbanistico e architettonico oggetto dei vasti piani di recupero negli anni ’30 e ’40 del Novecento estesi su quella porzione di città che, dalla calata dei quartieri spagnoli seicenteschi, avrebbe fatto da cerniera con i quartieri della marina oggetto dell’ottocentesco Risanamento Na (1) Così G. FIeNGo, Il deposito“aperto”dell’Ottocento napoletano, in Ottocento in Avvocatura dello Stato. Una mostra permanente, a cura di MARIASeReNA MoRMoNe, Arte’m, 2013, p. 4. poletano. tali piani di recupero portarono alla realizzazione di un comparto edilizio caratterizzato da uno stile architettonico unitario composto da immobili aventi i caratteri di imponenza e propaganda tipici dell’architettura del ventennio, pressocché tutti dotati di un rivestimento marmoreo chiaro su ordini giganti, come a determinare un forte richiamo all’architettura neoclassica e romana tardoimperiale cui si ispiravano i principali progettisti del periodo. Le strutture portanti furono realizzate per l’intero Rione Carità in calcestruzzo armato, secondo le tecnologie peculiari dell’epoca che risultavano essere, in ambito napoletano, di certo avveniristiche o, più consono alla temperie culturale dell’epoca, “futuriste”. Il Palazzo degli Uffici Finanziari si caratterizza per essere un edificio a doppio cortile interno, sul tracciato degli edifici a blocco tardo ottocenteschi a doppia chiostrina, esteso su una pianta che, vuoto per pieno, ha un ingombro di circa 4400 m2 per otto livelli complessivi, oltre due entro terra. Le coperture sono piane e protette dalle infiltrazioni di acque meteoriche con guaina impermeabile. I prospetti esterni sono in larga parte ricoperti da mattoncini di rivestimento e marmi bianchi, mentre gli otto prospetti dei due cortili interni sono rifiniti a clinker, marmi bianchi o intonaco e pittura. La struttura portante è intelaiata in calcestruzzo armato. L’ingresso del- l’edificio (lato anteriore, a sud) è su via Armando Diaz; gli altri confini del- l’edificio sono i seguenti: via Fabio Filzi sul lato destro (ad est); via Guglielmo oberdan sul lato sinistro (ad ovest); via Cesare Battisti sul lato posteriore (a nord). La pianta è sub rettangolare, presentando due vaste aree scoperte interne e un’area semicircolare in capo al lato lungo via Battisti. I lati dell’edificio lungo via Filzi, via oberdan e via Diaz sono costituiti da blocchi di dimensioni in pianta pari a ca. 15 m x 55 m, quello lungo via Battisti da uno di ca. 8 m x 30 m e da un blocco semicilindrico di diametro pari a ca. 35 m. Alle aree scoperte fanno capo tutti i vani scala presenti nell’edificio, i locali adibiti a deposito/box nonché gli archivi ai locali seminterrati. Le aree scoperte sono destinate a sosta temporanea per un numero limitato di autovetture. L’edificio presenta un’altezza massima rispetto al piano stradale di ca. 38 metri lungo via Diaz e via Filzi (ove è presente il maggior salto di quota del piano stradale) e un’altezza massima interrata di ca. 4 metri. Inoltre, il blocco lungo via Diaz si sviluppa su soltanto dieci degli undici piani totali dell’edificio (per un’altezza totale fuori terra di ca. 30 m). L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli è ubicata al quinto piano ed in parte del quarto piano dell’edificio degli Uffici Finanziari sito a Napoli in via A. Diaz. La porzione dell’immobile di pertinenza dell’Avvocatura occupa un’area di circa m2 4.400. I piani fuori terra dell’intero edificio sono dieci, per un’altezza in gronda superiore a 24 m. trattasi di edificio a pianta rettangolare, che si sviluppa intorno ad una corte interna divisa a sua volta da un corpo centrale che collega i fronti lungo via oberdan e via Filzi. Lungo via Battisti è presente una propaggine semicircolare che trova riscontro in una seconda propaggine semicircolare, di minore dimensione che si sviluppa lungo il fronte interno di via Diaz. I collegamenti verticali sono consentiti da otto scale ubicate in numero di quattro lungo il fronte di via Diaz, in numero di due agli angoli del fronte di via Battisti e in numero di due poste all’estremità del corpo di fabbrica che collega via oberdan e via Filzi. vi sono, poi, otto ascensori posti presso le predette scale. Gli uffici del quinto piano hanno superfici lorda di circa 3.150 m2 . Gli uffici al quarto piano occupano la parte di edificio che si sviluppa intorno alla porzione di corte ubicata nel lato nord, per una superfice lorda di circa 1.600 m2. Inoltre, sono nelle disponibilità dell’Avvocatura dei locali, al pianterreno, destinati a deposito. I locali al quinto piano comprendono un ingresso presidiato dal lato Diaz, un’ampia sala riunioni a forma semicircolare posta presso l’ingresso, uffici per avvocati e dipendenti disimpegnati da un ampio corridoio centrale, sei sale destinate a biblioteca, un vasto salone destinato ad archivio, ove vengono eseguite attività di fotocopiatura, ubicato nella parte centrale del corpo semicircolare del fronte su via Battisti. I locali al quarto piano sono tutti destinati a uffici, occupano i fronti lungo via oberdan, via Battisti e via Filzi. La disposizione planimetrica ripropone quella del piano superiore. L’edificio è sottoposto a vincolo monumentale archeologico ai sensi della L. 1 giugno 1939 n. 1089. 4. Aspetti architettonici del Palazzo degli Uffici Finanziari e dell’Avvocatura dello Stato. Progettato in occasione del concorso bandito ai primi del 1933, realizzato a partire dal 1935 al posto della demolita chiesa di San tommaso d’Aquino e inaugurato due anni dopo, il palazzo degli Uffici Finanziari e dell’Avvocatura dello Stato è, probabilmente, l’opera più riuscita di Marcello Canino (2) all’interno di una nuova idea di città che agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso si materializzò in luogo del preesistente rione Corsea. In esso sembra aver preso forma nel modo più convincente quella ‘inattuale (2) Marcello Canino (ingegnere-architetto, 1895-1970) ha rappresentato a Napoli una diversa modernità rispetto a quella dell’avanguardia razionalista. La sua strada, alla ricerca di “armonia e ordine” attraverso l’esaltazione del rapporto con la storia e con le tradizioni, e soprattutto con quel classicismo che permea la terra napoletana, ha prodotto significative architetture, palazzi e nuovi brani di città moderna come la Mostra d’oltremare che esprimono una lezione di qualità nella progettazione dei luoghi urbani di cui oggi si sente sia la mancanza sia la lontananza. modernità’ dell’architetto napoletano che, attraverso una mediazione tra classicismo e razionalismo d’ascendenza mitteleuropea, interpretava una via italiana al rinnovamento dell’architettura. volendo considerare quest’edificio come testimonianza del ruolo di chi opera sul territorio per interpretarne le vocazioni originarie e, al contempo, le istanze di cambiamento, potremmo ascriverlo a un’idea di storia intesa come processo continuo piuttosto che come una serie d’eventi di radicale rottura col passato e di rivoluzionaria ripresa per un diverso futuro. In quegli anni nella cultura architettonica nazionale si registrava una rottura tra gli architetti più giovani, fautori del rinnovamento ispirato dall’architettura razionalista, e gli uffici tecnici delle amministrazioni pubbliche, attestati sui linguaggi accademici. Più concretamente, ai primi che aspiravano a nuovi incarichi si contrapponevano i gruppi professionali forti delle posizioni ormai consolidate. In tale quadro i concorsi, attraverso le prescrizioni contenute nei bandi e la selettività delle valutazioni, costituivano uno strumento di controllo e di unificazione dei linguaggi, che non avrebbero potuto rinunciare, in opere pubbliche importanti, a un adeguato livello di rappresentatività; ma, al tempo stesso, i concorsi erano un mezzo attraverso il quale il Sindacato fascista tentava di ridimensionare il potere degli uffici tecnici. In un quadro così complesso, il palazzo degli Uffici Finanziari, senz’altro debitore alla tradizione del classicismo e del barocco italiano, si distingue tuttavia per un’autonoma cifra espressiva, del tutto coerente con la statura e il ruolo svolto da Marcello Canino nel panorama napoletano e nazionale. Il bando del “concorso Nazionale per il palazzo degli uffici finanziari e della R. Avvocatura di Stato a Napoli”, per buona parte pubblicato su “Architettura” nel febbraio del 1933, prescriveva un organismo a doppia corte interna, con struttura in cemento armato e forniva criteri per la scelta dei materiali di finitura. L’edificio di Canino ne rispettò in pieno le indicazioni. Su un lotto allungato e irregolare è impostato un fabbricato compatto, con i prospetti laterali lievemente ripiegati e, pertanto, di diversa lunghezza: l’uno, su via oberdan, convesso; l’altro, su via Filzi, concavo. tale differenza, tuttavia, non si percepisce in quanto i lunghi fronti, rivestiti di mattoni “romani” e ritmati dalle profonde finestre rettangolari, sono interrotti al centro dall’arretramento dei corpi scala, risultando così entrambi divisi in due tratti rettilinei con inclinazioni lievemente divergenti. La testata principale prospetta con l’ingresso su via Diaz; quella posteriore, su via Cesare Battisti, è caratterizzata dall’alto semicilindro destinato ad accogliere l’archivio che, attraverso l’intrinseca autonomia formale, risolve l’ambiguità dell’orientamento della testata, lievemente girata sul lato opposto rispetto a piazza Carità. Attorno ai due cortili interni, separati da un corpo-galleria, si svolgono ai piani inferiori le grandi sale per il pubblico; ai piani superiori, gli ambienti di lavoro, alcuni molto grandi. Complessivamente, trecentoquaranta stanze collegate da percorsi pubblici, privati e di rappresentanza. I sette livelli della costruzione sono collegati da dieci gruppi scale, di cui quattro, agli angoli dell’edificio, sono destinati agli impiegati; i due centrali, per i visitatori, servono la galleria; le scale a tre rampe ai lati dell’ingresso su via Diaz, con al centro il lungo tubo di vetro fluorescente e la calotta di chiusura in vetrocemento, sono destinate alla rappresentanza. Per quest’opera sono stati chiamati in causa vari protagonisti dell’architettura mitteleuropea della cui carica innovativa Canino era ben consapevole, dall’austriaco otto Wagner ai tedeschi della prima metà del Novecento, quali Peter Behrens, Paul Bonatz, o agli scandinavi Gunnar Asplund e Kay otto Fisker. La decisa originalità dell’edificio è legata ad alcune specifiche caratteristiche compositive, in varia misura ricorrenti nelle architetture di Marcello Canino, ma in nessun’altra tutte compresenti e felicemente integrate come nel palazzo dell’Avvocatura. Il primo carattere sta nell’accentuazione dimensionale e nel rilievo del portale d’ingresso inquadrato nell’altissima nicchia traforata in travertino e delle alte partiture vetrate dell’esedra semicircolare posteriore che, impostate l’una sull’altra in tre registri differenti, le conferiscono una sorta di dinamica rotatoria. Secondo le ricorrenti modalità compositive dell’epoca, questi elementi, ‘fuori scala’ rispetto alla dimensione architettonica ad essi ordinariamente conferita, sono pienamente ‘in scala’ dal punto di vista urbano: appartengono, cioè, più alla città che all’edificio, in piena coerenza con le esigenze di rappresentatività dettate dal carattere pubblico dell’opera, col risultato che le facciate di quest’ultima si trasformano in vere e proprie quinte urbane, pregne di valori figurativi assolutamente autonomi. La seconda caratteristica è costituita dal fatto che, lungi dall’essere episodi decorativi fini a sé stessi, la nicchia d’ingresso, l’esedra posteriore, gli stessi schermi delle scale sui lati sono intimamente legati al concatenarsi degli spazi retrostanti, interni ed esterni. Le aperture determinano, ogni volta secondo un diverso disegno, una qualità degli spazi interni tutta giocata sul contrasto tra la mutevolezza delle declinazioni luministiche in ogni ora del giorno e l’ineffabile fermezza dell’aria di marmo che spira tra i pavimenti e le pareti di spazi senza tempo. Nell’alternanza d’ambienti coperti e scoperti, uno degli aspetti più originali dell’opera è determinato dall’articolazione dei pieni e dei vuoti animati dalla perentoria qualità figurativa dei piloni, delle sfere, delle curve pareti vetrate, delle scale che, interpretando in modo essenziale le esigenze statiche o distributive, configurano la scena di una rappresentazione metafisica. Il terzo carattere sta nel senso tettonico che connota le figurazioni sui prospetti dell’edificio. La gigantesca esedra traforata su via Diaz; le grandi cornici con grigliati geometrici in travertino che schermano i corpi-scala laterali, il cui disegno è riportato sul selciato stradale dal lato di via oberdan come un’ombra proiettata; la monumentale esedra semicilindrica sul retro: queste animazioni astratte incidono il tessuto delle facciate erose dal ruvido chiaroscuro dei mattoni e, assieme all’ordinato seguire delle profonde finestre, qualificano il massiccio blocco edilizio. ognuna di queste ‘figure’, pur nella sua autonomia, non è pura rappresentazione bidimensionale, essendo singolarmente dotata di un rilievo e di una profondità che l’arricchisce di una inedita spazialità e la trasforma da pura immagine in episodio architettonico dotato di peso e volumetria (3). 5. La pinacoteca dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli sono allocati numerosi dipinti di pertinenza del Museo di Capodimonte e di Palazzo Reale già a varie riprese concessi in deposito temporaneo dal Ministero per i Beni e Attività Culturali fin dagli anni trenta del secolo ventesimo. A partire dall’Unità d’Italia per arredare le sedi di uffici pubblici e ministeriali non solo sul territorio nazionale, ma anche nelle ambasciate italiane all’estero, si è attinto a dipinti e arredi conservati nei magazzini dei musei statali. tra le amministrazioni statali ubicate a Napoli, analoghe concessioni di arredi e dipinti di musei statali si sono avute -tra l’altro -in favore della Prefettura di Napoli, degli uffici giudiziari del tribunale ubicati nella storica sede di Castelcapuano e delle Caserme. Quasi sempre le opere d’arte che avrebbero dovuto abbellire gli ambienti di rappresentanza degli enti pubblici -ma spesso anche gli uffici, nonché gli alloggi demaniali dei massimi responsabili -dovevano rispondere ad alcuni requisiti. oltre al carattere prevalentemente ornamentale i dipinti richiesti dovevano avere come soggetto preferito paesaggi, eventi storici e in qualche caso ritratti. Spesso nelle lettere di richiesta erano indicate addirittura le dimensioni e la preferenza per un formato con andamento orizzontale o verticale per meglio adattarle agli spazi previsti, con l’unica funzione quindi di arredamento, svilendone così il valore artistico nonché la storia delle provenienze e degli acquisti, caratteristiche queste significative del gusto dell’epoca di formazione della collezione di appartenenza. Per questi motivi molte opere d’arte sono rimaste a lungo poco note, se non del tutto ignote anche agli studiosi, poiché da lungo tempo affidate e spesso sprovviste di adeguata campagna fotografica. Rileggendo la cartella conservata nell’archivio della Soprintendenza per il Polo Museale di Napoli, dove sono custodite le pratiche relative ai depositi presso l’Avvocatura di Napoli, che va comunque integrata con l’analoga pratica esistente a Palazzo Reale (un tempo la Soprintendenza affidataria aveva (3) Quanto riportato -con riguardo agli aspetti architettonici -è stato desunto da U. CARUGHI, L’edificio degli Uffici Finanziari e dell’Avvocatura dello Stato di Marcello Canino, in Ottocento in Avvocatura dello Stato. Una mostra permanente, a cura di MARIASeReNA MoRMoNe, cit., pp. 9-17. sede lì), si può ricostruire la cronologia dei vari invii dagli anni trenta del ventesimo secolo fino ai nostri giorni, comprendendo così la storia e i criteri delle richieste, comuni a tutti i casi analoghi non solo a Napoli ma in tutta l’Italia. A tal proposito si ricorda una lettera “riservata personale” del 30 novembre 1938, indirizzata all’allora Soprintendente all’Arte Medioevale e Moderna Armando vené, nella quale l’avvocato dello Stato Mariano Rocco rivolgeva “viva preghiera di assegnare in deposito…una dozzina di quadri (possibilmente paesaggi o soggetti storici) e stampe all’Avvocatura di Napoli che da poco aveva trasferito gli uffici negli ampi e più adeguati locali del nuovo palazzo degli Uffici Finanziari”. La richiesta evidentemente era giustificata dalla volontà di conferire una sistemazione dignitosa alla nuova sede dell’Avvocatura “… la cui attività sovente viene esplicata a tutela del patrimonio storico-artisticoarcheologico dello Stato”. Si aggiungeva, inoltre, che almeno due quadri avrebbero dovuto misurare in larghezza circa due metri per essere collocati in una gran Sala di rappresentanza destinata alle riunioni. In questa occasione furono inviati i due grandi dipinti raffiguranti due zone della Villa Reale di Monza di Hermann David Salomon Corrodi (1844-1905) e la Veduta del lago di Agnano di Achille Carrillo (1818-1880), che si aggiunsero alle opere con soggetto storico come Alfonso di Aragona che fa dispensare il pane agli affamati di Giuseppe Mancinelli (1813-1875) e La comunione di santa Vittoria nelle catacombe di Federico Maldarelli (1826-1893) già inviate nel 1929. Al 1948 risale il deposito più cospicuo consistente in un nucleo di dipinti raffiguranti sempre paesaggi, episodi storici e alcuni ‘interni’. L’attuale sistemazione della pinacoteca presso l’Avvocatura consente di aggiungere un altro tassello alla ricostruzione della storia delle raccolte dei dipinti dell’ottocento di Capodimonte, recuperando così “alcune maglie sfuggite ad una trama” già delineata con il riordino dei nuclei originari in occasione della riapertura, nell’anno 2012, della sezione permanente dell’ottocento di Capodimonte cui la pinacoteca presso l’Avvocatura si collega. Si tratta, quindi, di disporre definitivamente l’apertura al pubblico e agli studiosi di un nucleo di dipinti statali che finalmente vengono valorizzati, dopo un completo intervento conservativo reso possibile grazie al sostegno di alcuni illuminati sponsor che hanno affiancato nell’iniziativa l’Avvocatura napoletana. Dopo il completo riassetto degli uffici, che ha consentito il recupero della spazialità originaria al quarto e al quinto piano dell’edificio progettato da Marcello Canino, le opere d’arte sono state oggi completamente riallestite negli studi degli avvocati e nei corridoi più rappresentativi, corredate da un’adeguata illuminazione e da didascalie esplicative della data di deposito, degli autori, della tecnica e delle notizie inventariali che ne hanno ricostruito la provenienza nonché gli acquisti effettuati alle esposizioni delle Biennali Borboniche per i dipinti della prima metà dell’ottocento o alle esposizioni della Società Pro motrice di Belle Arti di Napoli per quelli della seconda metà del secolo XIX, così da costituire una specie di deposito consultabile della sezione ottocento del Museo di Capodimonte (4). I dipinti, tutti a olio su tela, costituiscono una rilevante testimonianza della cultura figurativa a Napoli dai primi decenni dell’ottocento fino agli inizi del secolo scorso. Importanti sono anche le cornici dei quadri, tutte di manifattura ottocentesca, la maggior parte in legno modanato e decorato a pastiglia dorata. La pinacoteca è così composta: Vestibolo della chiesa dei Santi Severino e Sossio a Napoli con mausoleo (1867 ca.), di Domenico Battaglia (1842-1921) Veduta di Ponte Milvio al tramonto (1859 ca.), di Consalvo Carelli (18181900) Interno di stalla (1859 ca.), di Consalvo Carelli (1818-1900) Interno di stalla con figure (1859 ca.), di Consalvo Carelli (1818-1900) Veduta del lago di Agnano (1860 ca.), di Achille Carrillo (1818-1880) Sala del pittore Tiepolo in palazzo Clerici a Milano (1866), di Paolo Catalano (1843-1890) Cristoforo Colombo dissuaso dalla moglie a partire (1864), di Arcangelo Ciampoli (1835-1902) L’eremitaggio di Sant’Eframo vecchio (1845 ca.) di Giovanni Cobianchi (notizie dal 1814 al 1847) Studio di paese (1859 ca.), di Nicola Coda (1820-1881) Veduta del bosco con daini nella Real Villa di Monza (1900 ca.), di Hermann David Salomon Corrodi (1844-1905) Veduta del laghetto con cigni nella Real Villa di Monza (1900 ca.), di Hermann David Salomon Corrodi (1844-1905) Champigny/Rive de la mer (1880 ca.), di Federico Cortese (1829-1913) Giacomo di Thiene conquista la città di Rovereto (1859), di vincenzo Dattoli (1831-1899) In cortile. Contadinella assalita dalle oche (1880), di ettore De Maria Bergler (1850-1938) In riva al fiume (1887 ca.), di Giuseppe Fabozzi (1845-1934) Il coro della chiesa dei Cappuccini a Roma (1853), di orsola Faccioli Licata (1825-1906) Veduta di Napoli dalle Paludi (1837 ca.), di Gioacchino Giusti (1815notizie fino al 1841) San Giovanni Evangelista in Patmos (secondo-terzo decennio del XvII secolo), di Antiveduto Gramatica (1569-1626) (4) Quanto riportato -con riguardo alla pinacoteca -è stato desunto da M. MoRMoNe, Dipinti svelati, in Ottocento in Avvocatura dello Stato. Una mostra permanente, a cura di MARIASeReNA MoRMoNe, cit., pp. 19-23. La forza data dalla Religione ad una donna (1859 ca.), di Achille Guerra (1832-1903) Madonna incoronata (seconda metà del XvIII secolo), ignoto del XvIII secolo Marina con barcaccia a vela (prima metà del XIX secolo), ignoto del XIX secolo Bernini nel suo studio modella una scultura (1877), di Francesco Jacovacci (1838-1908) Ruderi del Teatro di Taormina (1864), di Alessandro La volpe (18201887) Veduta dell’Arno a Firenze (1863 ca.), di Filippo Liardo (1834-1917) La comunione di santa Vittoria nelle catacombe (1845 ca.), di Federico Maldarelli (1826-1893) Alfonso di Aragona durante l’assedio di Gaeta fa dispensare i pani agli affamati (1845 ca.), di Giuseppe Mancinelli (1813-1875) Famiglia di beduini nomadi in viaggio. Ricordo dell’Alto Egitto (1859), di vincenzo Marinelli (1820-1892) Sine sanguine effusione non fit remissio (1862 ca.), di Angelo Maria Mazzia (1823-1891) San Pancrazio annuncia la persecuzione di Massimiano ad alcuni cristiani (1859), di emanuele Mollica (1820-1877) Il riposo in Egitto, di Salvatore Fergola (1796-1874) La lettura della lettera (metà XIX secolo), di Achille Mollica (1832-1885) Il cantastorie del molo (1884), di vincenzo Montefusco (1852-1912) Benvenuto Cellini nell’anticamera della duchessa d’Ètampes (1864), di Attilio Pagliara (notizie dal 1862 al 1888) Interno del Duomo di Milano (1863), di Giovanni Pessina (1836-1904) Lago di Lecco (1877 ca.), di Silvio Poma (1840-1932) Copia parziale dell’Ultima comunione di san Gerolamo di Domenichino (1827), di Gaetano Prota (prima metà del XIX secolo) La Tomba di Sergianni Caracciolo in san Giovanni a Carbonara (1892), di Ciro Punzo (1850-1923) Veduta di Piazza San Pietro a Roma dal colonnato del Bernini (18301840), di Domenico Semeraro (notizie prima metà del XIX secolo) Da Napoli a Miano (1890 ca.), di Alfonso Simonetti (1840-1892) Dopo il ballo (1876), di Attilio Simonetti (1843-1925) Napoli dal Parco di Capodimonte (1859), di Francesco Sorrentino (notizie metà del XIX secolo) Estate. Paesaggio (1890 ca.), di Amelia tessitore Gelanzè (1866-1933) Una canzone d’amore (1884 ca.), di Francesco Saverio torcia (1840-1891) Paesaggio. La preghiera (1864), di Luigi torre (notizie a Napoli dal 1862 al 1877) Una interruzione piacevole (1877 ca.), di vincenzo volpe (1855-1829) Te es refugium meum (1881 ca.), vincenzo volpe (1855-1829). Multiforme è lo spaccato della pittura, prevalentemente napoletana (ma non solo) dell’800: pittori appartenenti alla Scuola di Posillipo (come Consalvo Carelli, Achille Carrillo, Alessandro La volpe, Amelia tessitore Gelanzè e Salvatore Fergola considerato uno degli esponenti più autorevoli della scuola) (5), paesaggisti e vedutisti (è il caso di Hermann David Salomon Corrodi, di Silvio Poma e di Francesco Saverio torcia), pittori di impronta accademica neoclassica (come Federico Maldarelli), esponenti della pittura liberty (ettore De Maria Bergler), artisti operanti nel campo della pittura storica (Francesco Jacovacci, Giuseppe Mancinelli ed emanuele Mollica) e anche un pittore di corte dei Borboni di Napoli (Giuseppe Mancinelli). La pinacoteca comprende anche qualche quadro estraneo all’800: è il caso dell’opera San Giovanni Evangelista in Patmos, di Antiveduto Gramatica artista che operò tra il ‘500 ed il ‘600 e che nel 1592, per un breve periodo, ebbe nella sua bottega Michelangelo Merisi da Caravaggio. 6. Patrimonio librario dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. La biblioteca dell’Avvocatura dello Stato è composta, quasi esclusivamente, di testi giuridici. I volumi che la compongono sono 20.000 ca. (tutti in buono stato di conservazione). La parte giuridica della biblioteca si compone di: manuali, monografie, trattati (6), collane, enciclopedie, raccolte di legislazione (7), riviste (8), com (5) Per scuola di Posillipo si intende un gruppo di artisti -riuniti a Napoli, nel secondo decennio dell’ottocento, prima intorno ad Anton Sminck van Pitloo (1790-1837) e poi intorno a Giacinto Gigante (1806-1876) -i quali dipingevano le bellezze del paesaggio campano, spiagge incantate e ruderi carichi di suggestione, isole di leggenda e vesuvio fiammeggiante, ma anche case e strade, e mare e campagne e scene di vita popolare. Per una intoduzione: R. CAUSA, La scuola di Posillipo, in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e società, electa Napoli, 1997, pp. 127-133. (6) tra i vari trattati: Trattato di diritto amministrativo a cura di S. CASSeSe; Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. CICU e F. MeSSINeo, continuato da L. MeNGoNI, diretto da P. SCHLe- SINGeR; Trattato di diritto civile diretto da G. GRoSSo e F. SANtoRo PASSAReLLI; Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano diretto da v.e. oRLANDo; Trattato di diritto privato diretto da P. Re- SCIGNo; Trattato di diritto amministrativo diretto da G. SANtANIeLLo; Trattato di diritto civile italiano sotto la direzione di F. vASSALLI; Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. GALGANo. (7) tra cui: raccolte di legislazioni dal -ininterrottamente -1806 ad oggi relative a: Regno di Napoli, Regno delle due Sicilie; Regno d’Italia, Repubblica italiana (Bullettino delle leggi del Regno di Napoli; Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle due Sicilie; Bollettino delle leggi del Regno delle due Sicilie; Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia; Atti governativi del Regno d’ Italia; Leggi e decreti del Regno d’ Italia; Raccolta delle leggi del Regno d’ Italia; Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana; Leggi e decreti della Repubblica Italiana; Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica Italiana; Lex; Le leggi). (8) oltre duecento. Giurisprudenza Italiana, Foro italiano, Rivista del Diritto Commerciale sono presenti fin dal primo anno di pubblicazione. mentari (9), raccolte e repertori di legislazione e di giurisprudenza, formulari, raccolte di scritti in onore di giuristi. I testi afferiscono a tutte le materie del diritto; la parte prevalente riguarda il diritto amministrativo, il diritto tributario e finanziario, il diritto civile, il diritto processuale civile. Nella biblioteca vi sono le seguenti opere enciclopediche: a) Enciclopedia Giuridica Italiana, a cura di P.S. MANCINI ed e. PeSSINA, voll. I-XvI (44 tomi), vallardi, 1884-1937 (10); b) Digesto italiano, diretto da L. LUCCHINI, voll. I- XXIv, Utet, 1884-1902 (11); c) Nuovo Digesto italiano, a cura di M. D’AMe- LIo con la collaborazione di A. AzARA, voll. I-XII (13 tomi), Utet, 1937-1940; d) Novissimo digesto italiano, diretto da A. AzARA e e. eULA, voll. I-XX (21 tomi), Utet, 1957-1975; e) Novissimo digesto italiano, diretto da A. AzARA e e. eULA, Appendice, voll. I-vII, Utet, 1980-1987; f) Digesto delle Discipline privatistiche. Sezione civile, voll. I-XIX, Utet, 1987-1999; g) Digesto delle Discipline privatistiche. Sezione commerciale, voll. I-XvI, Utet, 1987-1999; h) Digesto delle Discipline Pubblicistiche, voll. I-Xv, Utet, 1987-1999; i) Digesto delle Discipline Penalistiche, voll. I-Xv, Utet, 1987-1999; l) Enciclopedia del diritto, voll. I-XLvI, Giuffré, 1958-1993; m) Enciclopedia del diritto, Annali; n) Enciclopedia giuridica, voll. I-XXXII, Istituto della enciclopedia Italiana fondata da Giovanni treccani, Istituto Poligrafico e zecca dello Stato, 1988-1994; o) Enciclopedia Forense, a cura di G. AzzARItI -e. BAttAGLINI F. SANtoRo PASSAReLLI, voll. I-vII, vallardi, 1958-1962. Dei 20.000 volumi costituenti il totale della biblioteca, circa 2.000 testi sono libri del ‘500, ‘600 e ‘700, quasi tutti in lingua latina. Abbiamo opere sul diritto feudale (es. In usus feudorum di Andrea d’Isernia) (12), su pareri forensi (es. Theatrum veritatis et iustitiae del Cardinal De Luca) (13), sul diritto ro (9) tra i vari commentari vi sono quelli del Codice civile curati da A. SCIALoJA e G. BRANCA ed altresì da P. SCHLeSINGeR. (10) enciclopedia giuridica italiana: esposizione ordinata e completa dello stato e degli ultimi progressi della scienza, della legislazione e della giurisprudenza del diritto civile, commerciale, penale, pubblico, giudiziario, costituzionale, amministrativo, internazionale, ecclesiastico, economico, con riscontri di storia del diritto, di diritto romano e di legislazione comparata per opera di una società di giureconsulti italiani, e sotto la direzione di PASQUALe StANISLAo MANCINI, vice direttore eRRICo PeSSINA. (11) enciclopedia metodica e alfabetica di legislazione dottrina e giurisprudenza compilata da distinti giureconsulti italiani sotto la direzione di LUIGI LUCCHINI. (12) Andrea d’Isernia (1230 ca. -1316), giurista Meridionale, acquistò gran fama, oltrecché con la sua lectura sulle Costituzioni federiciane, che integrava la glossa ordinaria di Marino da Caramanico, con un vasto commentario Super usibus feudorum, che dettò legge in materia e gli procurò il titolo di “Monarcha feudistarum”. Giurista di alta levatura, fu dominato sempre da un profondo senso della giustizia, che fece valere anche di fronte ai potenti, e ne fu vittima: secondo una tradizione che nessuno mai ha oppugnato, egli sarebbe stato proditoriamente ucciso per mano di un feudatario tedesco che aveva privato con una sua sentenza di una baronia illecitamente posseduta. (13) Cardinal Giovanni Battista De Luca (1614-1683). Grande avvocato. operò presso il Sacro regio consiglio e la Regia Camera della Sommaria (nel Regno di Napoli) ed altresì presso la Sacra Rota Romana. Dal 1658 fu avvocato a Roma del Re di Spagna. Autore del Theatrum veritatis et iustitiae, opera in 15 libri con la raccolta delle allegazioni e dei pareri mano nelle compilazioni dell’imperatore Giustiniano, raccolte di giurisprudenza dei tribunali dell’epoca (es. De Afflictis, Decisiones del Sacro Regio Consiglio napoletano), varie edizioni del Digesto (es. del vignali). tra i pochissimi testi in volgare abbiamo “Il dottor volgare, ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale” del citato Cardinal De Luca. I testi dell’800 sono 4.000 ca. con significativa presenza di testi in lingua francese (esegesi e commentari al Code Napoleon, testi di diritto amministrativo, ecc.). Il grosso dei testi è del ‘900. La parte marginale non giuridica ha ad oggetto testi di storia, sociologia, economia, dizionari, emeroteche. In chiusura si evidenzia che la Biblioteca dell’Avvocatura è una delle più importanti biblioteche giuridiche della città di Napoli. 7. Patrimonio librario (segue) Testi di precipuo interesse dell’Avvocatura dello Stato (relazioni periodiche dell’Avvocato Generale; Rassegna dell’Avvocatura dello Stato; Allegazioni dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli). va segnalata, infine, la presenza di testi di precipuo interesse dell’Avvocatura dello Stato. trattasi: a) delle Relazioni periodiche dell’Avvocato Generale erariale, poi dello Stato, sullo stato del contenzioso, con cadenza annuale e poi pluriennale. In specie: relazioni per l’anno 1878, 1879, 1880, 1881, 1882, 1883, per gli anni 1884-1885, 1888-1899, 1899-1900, 1900-1901, 1901-1904, per l’anno 1907, 1908, 1909, 1910, per gli anni 1912-1925, 1926-1929, 1930-1941, 1942-1950, 1951-1955, 1956-1960, 1961-1965, 1966-1970, 1971-1975, 1976-1980. Questi testi -ricognitivi dello stato del contenzioso delle amministrazioni statali erano molto apprezzati dai pratici e dagli studiosi della contabilità di Stato. Basti evidenziare che in un diffuso Manuale di contabilità di Stato (di Antonio Bennati), le relazioni quinquennali dell’Avvocatura erano la fonte principale di cognizione. La relazione per l’anno 1878 è redatta dal primo Avvocato Generale erariale, Giuseppe Mantellini (1816-1885). essa descrive il consultivo e il con- forensi in materia di diritto civile, canonico, feudale e municipale. L’opera divenne una delle principali autorità del tardo ius commune e fu ristampata regolarmente fino alla metà del XvIII secolo. L’opera più importante di De Luca è il “Dottor volgare”, un compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale in lingua italiana. L’opera, caratterizzata da maggior respiro teorico e maggiormente svincolata dalle esigenze della pratica legale rispetto al Theatrum, era indirizzata ai giuristi di medio livello, ai pubblici funzionari e ai tecnici dell’amministrazione. Il Dottor volgare è la prima trattazione sistematica del diritto in volgare e la base del lessico giuridico italiano. Molti termini giuridici usati ancor oggi sono attestati per la prima volta nell’opera di De Luca. L’uso del volgare al posto del tradizionale latino in una trattazione giuridica di alto livello fu molto innovativo per l’europa dell’epoca. tenzioso curato dalle otto Avvocature, una generale (quella di Roma) e sette erariali (quelle di Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, torino e vene- zia). Nel descrivere il contenzioso dell’avvocatura erariale di Napoli si enuncia (p. 40): “I tratturi del Tavoliere, e le bonifiche, con le prestazioni feudali, e gli usi civici forniscono materia speciale al napoletano, e che vuol essere trattata da che ne abbia lunga pratica, e amore paziente”. Apag. 58 vi è il prospetto delle cause trattate; il maggior numero di cause iniziate nel 1878 si è avuto a Napoli (con 2475 cause), seguita da Palermo (2469 cause), Roma (1128 cause), Genova (726 cause), Milano (528 cause), Firenze (438 cause), torino (355 cause) e venezia (265 cause). A pp. 175 e ss. è riportato il Ruolo del personale delle Regie Avvocatura erariali. Il personale togato è composto, oltre all’Avvocato Generale erariale, da 103 unità e, in specie: 7 Regi Avvocati erariali, 8 Regi Sostituti Avvocati erariali di I classe, 9 Regi Sostituti Avvocati erariali di II classe, 11 Regi Sostituti Avvocati erariali di III classe, 16 Regi Sostituti Avvocati erariali di Iv classe, 13 Regi Sostituti Avvocati erariali di v classe, 1 Regio Procuratore erariale di I classe, 4 Regi Procuratori erariali di II classe, 2 Regi Sostituti Procuratori erariali di I classe, 8 Regi Sostituti Procuratori erariali di II classe, 4 Regi Sostituti Procuratori erariali di III classe, 20 Regi Sostituti Procuratori erariali di Iv classe; b) della Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, fin dal suo sorgere (1948) ad oggi. La Rassegna è uno strumento di ausilio dell’avvocato erariale in quanto riporta dati e notizie di interesse per lo svolgimento delle funzioni: comunicazioni (ad es. con riguardo ad un nuovo ente patrocinato ex art. 43 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611), circolari (ad es. per orientare gli operatori in occasione di una riforma del processo civile), pareri del Comitato Consultivo ex art. 26 L. 3 aprile 1979, n. 103, sentenze afferenti il contenzioso nazionale, comunitario ed internazionale, articoli di dottrina, recensioni; c) le Allegazioni dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli con riguardo al periodo dal 1880 al 1890 (circa dieci volumi per ogni anno) ed al periodo dal 1949 al 1961 (circa un volume per ogni anno). Le allegazioni costituiscono una raccolta di atti processuali redatti dai difensori erariali. esse rivestono un notevolissimo interesse, costituendo prova della tipologia del contenzioso dell’epoca. Ad esempio il volume vII delle Allegazioni 1880, della Regia Avvocatura erariale di Napoli ha ad oggetto: Diritto feudale, ordini cavallereschi, Demani, Usi civici, Sila e tavoliere, Servizi pubblici. Le Allegazioni ci ricordano gli organi giudiziari dell’epoca. Numerose cause relative al periodo dal 1880 al 1890 sono svolte dinanzi alla Corte di cassazione civile di Napoli, testimonianza della circostanza che fino al 1923 -anno in cui venne unificata la Corte di Cassazione civile a Roma -vi erano le Corti di Cassazione regionali ubicate presso le ex capitali degli Stati preunitari (torino, Firenze, Roma, Napoli e Palermo). Giuseppe Mantellini, nella citata relazione (p. 10) evidenziava che “cinque Corti regolatrici, quante se ne hanno in Italia, sono un anacronismo che ha durato troppo, col non potersi a meno d’averne, come se ne hanno, tali effetti che non tornano a onore della istituzione e non edificano la giustizia”. Le Allegazioni riportano altresì nomi e qualità dei difensori erariali. Sfogliando il citato volume vII delle allegazioni del 1880 troviamo, ad esempio, i nomi di Federico Criscuolo ed Antonio Cafaro, Regi Sostituti Avvocati erariali, e di enrico Loasses, Regio Avvocato erariale. Le Allegazioni costituiscono, per l’Avvocato dello Stato, una sorta di testimonianza del come eravamo. 8. Conclusioni. L’ufficio dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli costituisce senz’altro un’ipotesi di museo diffuso. esso, infatti, pone al centro la relazione tra gli oggetti, i contesti e il territorio, che è allo stesso tempo contenuto e contenitore. In uno alla stretta connessione tra le caratteristiche dell’immobile, la sua destinazione, la pinacoteca, il patrimonio librario e il patrimonio archivistico, vi è l’apertura al pubblico degli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, ogni venerdì in orari determinati (15,30-17,30), per consentirne la fruizione agli studiosi nonché ad un vasto pubblico. Ciò avviene a mezzo di visite guidate da esperti in storia dell’arte, con sorveglianza ad opera del personale dell’Avvocatura. Avvocatura Generaledello Stato CIrColAre n. 2/2025 oggetto: obbligo del versamento del contributo unificato all’atto del- l’iscrizione a ruolo delle cause civili a decorrere dal 1° gennaio 2025. Con la legge 30 dicembre 2024 n. 207 (legge di bilancio 2025) sono state introdotte talune importanti modifiche in materia di versamento del contributo unificato nei processi civili, destinate ad avere una diretta incidenza, a decorrere dal 1° gennaio 2025, sull’iscrizione a ruolo delle cause. In particolare, l’art. 1, comma 812, lett. a), n. 2), ha aggiunto all’art. 14 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (tUSDG), dopo il terzo comma, il comma 3.1, con il quale si prevede che: “Fermi i casi di esenzione previsti dalla legge, nei procedimenti civili la causa non può essere iscritta a ruolo se non è versato l’importo determinato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera a), o il minor contributo dovuto per legge”. Considerato che l’importo del contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1, lett. a) è pari a 43 euro, la causa non potrà quindi essere iscritta a ruolo: a) ove non venga versato integralmente l’importo dovuto a titolo di contributo unificato nelle ipotesi in cui il suo ammontare sia pari o inferiore a 43 euro; b) ove non sia versato almeno l’importo di euro 43 nelle ipotesi in cui l’ammontare del contributo unificato sia superiore a 43 euro. In ragione di quanto sopra, al fine di evitare ogni pregiudizio, sarà necessario, quindi, per tutte le cause civili introdotte in qualsiasi grado del giudizio a far data dal 1° gennaio 2025, il preventivo versamento del contributo unificato, la cui ricevuta verrà depositata all’atto dell’iscrizione a ruolo in tutte le ipotesi in cui le Amministrazioni patrocinate non usufruiscano della prenotazione a debito del contributo unificato ai sensi di quanto previsto dagli artt. 3, comma 1, lett. q) e 11 del tUSDG. Si ritiene opportuno allegare la nota informativa 30 dicembre 2024 n. 265462 del Ministero della Giustizia. L’AvvoCAto GeNeRALe Gabriella PALMIeRI SANDULLI (omissis) Avvocatura Generaledello Stato CIrColAre n. 3/2025 oggetto: Modifiche al processo civile introdotte dal D.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164. le novità di rilievo per l’attività dell’Avvocatura dello Stato. INDICe 1. Premessa 2. Le modifiche al processo di cognizione di primo grado 3. Il procedimento davanti al giudice di pace 4. Le modifiche ai giudizi di impugnazione 5. Le modifiche al rito del lavoro 6. Le modifiche al rito unico in materia di persone, minorenni e famiglia (brevi cenni) 7. Le modifiche alla disciplina del processo esecutivo e delle relative opposizioni 8. Le modifiche alla disciplina dei procedimenti speciali del libro Iv del codice di rito 9. Disposizioni in materia di giustizia digitale e di processo civile telematico 9.1. La trattazione scritta in sostituzione dell’udienza e la comunicazione dei provvedimenti del Giudice 9.2. Le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata 9.3. Ulteriori disposizioni sul processo civile telematico 10. Le principali modifiche agli “scadenzieri” presenti su NSI *** 1. premessa Sulla G.U. n. 264 dell’11 novembre 2024 è stato pubblicato il testo del D.Lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, recante attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”. Le disposizioni contenute nel decreto introducono modifiche al processo civile e trovano applicazione, ove non diversamente previsto, ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023 (art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 164 del 2024). Si fornisce di seguito un quadro sintetico delle principali novità destinate ad incidere sull’attività dell’Avvocatura dello Stato, richiamando il contenuto delle precedenti circolari in tema n. 74/2022 e 14/2023. *** 2. le modifiche al processo di cognizione di primo grado All’art. 163 c.p.c., tra le indicazioni che deve contenere l’atto di citazione, viene inserita quella relativa all’indirizzo PeC risultante da pubblici elenchi del convenuto, in quanto questo ormai equivale all’indicazione della sua residenza, domicilio o dimora. Il decreto interviene sull’art. 165 c.p.c., relativo alla costituzione dell’attore, eliminando la necessità di redigere e depositare la nota di iscrizione a ruolo, “in quanto atto non più necessario con l’avvento del processo telematico, nell’ambito del quale può essere sostituito dall’indicazione degli elementi identificativi del procedimento (quali le parti, l’oggetto, il valore) tramite la compilazione automatizzata di file.xml o di appositi campi, secondo quello che le regole tecniche e l’evoluzione tecnologica suggeriranno” (così la Relazione illustrativa). viene, poi, modificato l’art. 168 c.p.c., relativo all’iscrizione della causa a ruolo e al fascicolo d’ufficio. Il primo comma viene adeguato all’abolizione della nota di iscrizione a ruolo. Il secondo comma viene integralmente sostituito per renderlo coerente con il processo telematico: vengono espunti i richiami ai fascicoli e agli atti cartacei e viene disciplinato il contenuto del fascicolo informatico, nel senso che esso deve contenere l’atto di citazione, le ricevute di pagamento del contributo unificato, le comparse, le memorie, i verbali d’udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e le sentenze pronunciate. vengono adeguate alla completa informatizzazione del processo anche le disposizioni di cui all’art. 169 c.p.c. in tema di ritiro dei fascicoli di parte, nel senso che tale facoltà è relativa ai soli fascicoli cartacei che siano stati eventualmente depositati, nelle limitate ipotesi in cui ciò è ancora possibile (e, segnatamente, su ordine del giudice a fronte di particolari esigenze, ex art. 196-quater disp. att. c.p.c.). Di particolare rilievo appaiono le modifiche apportate all’art. 171-bis c.p.c., che viene integralmente riscritto. Il primo comma chiarisce che il compimento, da parte del giudice, delle verifiche preliminari circa la regolarità del contraddittorio deve avvenire, d’ufficio, entro i quindici giorni successivi alla scadenza del termine per la costituzione del convenuto. Il secondo comma prevede che quando, all’esito delle verifiche preliminari, il giudice rileva vizi degli atti introduttivi o della notifica dell’atto di citazione, oppure la necessità (o l’opportunità) di integrare il contraddittorio nei confronti di terzi, pronuncia uno dei provvedimenti specificamente previsti dalla norma e differisce l’udienza di prima comparizione al fine di concedere alle parti i termini necessari per provvedere agli adempimenti disposti (1). Ri (1) In particolare, i provvedimenti sono quelli previsti dagli artt. 102, secondo comma (ordine di integrazione del contraddittorio nel caso di litisconsorte necessario pretermesso), 107 (chiamata del terzo per ordine del giudice), 164, secondo, terzo e quinto comma (nullità dell’atto di citazione), 167, secondo e terzo comma (nullità della comparsa di risposta), 182 (difetti di rappresentanza, assistenza, autorizzazione), 269, secondo comma (chiamata in causa del terzo da parte del convenuto), 271 (chiamata in causa del terzo ad opera del terzo), 291, primo comma (rinnovazione della notifica dell’atto introduttivo) e 292, primo comma (notifiche al contumace). va aggiunto, altresì, il riferimento alla dichiarazione di contumacia di cui all’art. 171 c.p.c. spetto al “catalogo” previsto dall’originario art. 171-bis c.p.c., viene inserito il riferimento al novellato art. 271 c.p.c., allo scopo di chiarire che anche la chiamata di un ulteriore terzo da parte del terzo chiamato deve essere autorizzata dal giudice con le medesime modalità, anziché alla successiva udienza di prima comparizione. viene, inoltre, specificato che, a seguito dell’adozione di tali provvedimenti, il giudice dovrà procedere di nuovo alle verifiche preliminari, al fine di controllare se gli adempimenti sono stati eseguiti. Per queste ulteriori verifiche preliminari è previsto il termine di 55 giorni prima della nuova udienza di comparizione fissata con il decreto. Il terzo comma prevede che quando, all’esito delle verifiche preliminari (che siano quelle compiute per la prima volta o quelle reiterate a seguito del- l’adozione dei provvedimenti previsti dal secondo comma), il giudice rileva che il contraddittorio è stato regolarmente instaurato e non è quindi necessario adottare alcuno dei provvedimenti di cui sopra, confermerà la data dell’udienza indicata in atto di citazione o la differirà per un massimo di 45 giorni e darà avvio alla fase di trattazione preliminare del processo, indicando alle parti costituite le questioni rilevabili d’ufficio su cui ritiene di dover sollecitare il contraddittorio, ivi comprese quelle relative alla sussistenza della eventuale condizione di procedibilità; questioni che le parti affronteranno nelle memorie di cui all’art. 171-ter c.p.c. Al quarto comma, infine, si prevede l’anticipazione del momento in cui il giudice può disporre la conversione del rito ordinario in rito semplificato, qualora ne ricorrano i presupposti. Nell’originario impianto del D.Lgs. n. 149 del 2022, infatti, tale momento era collocato nella prima udienza di comparizione e si prevedeva che in quella sede il giudice, valutata la complessità della lite e sentite le parti, potesse disporre il mutamento del rito con ordinanza non impugnabile e quindi non revocabile (art. 183-bis, ora abrogato). Il decreto correttivo ha anticipato il mutamento del rito alla fase delle verifiche preliminari, in modo da far sì che quando la causa appare di pronta soluzione il giudice possa senz’altro disporre il passaggio al rito semplificato, senza dover attendere il deposito delle memorie di cui all’art. 171-ter c.p.c. Nel disporre il mutamento del rito il giudice fissa, altresì, «il termine perentorio entro il quale le parti possono integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti». Si prevede, infine, che tutti i provvedimenti di cui si è detto siano dati con decreto comunicato alle parti a cura della cancelleria e che i termini per le memorie integrative previste dall’art. 171-ter inizino a decorrere solo quando è pronunciato il decreto previsto dal terzo comma. La modifica elimina ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve, in ogni caso, emettere un provvedimento di conferma o differimento del- l’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio in precedenza descritti. Ciò in quanto, una volta scaduto il termine di 15 giorni, le parti dovrebbero poter avere contezza del fatto che le verifiche preliminari sono state effettivamente svolte e che quindi il processo può procedere nelle sue fasi successive (il deposito delle memorie integrative e l’udienza di comparizione delle parti) (2). Il decreto correttivo modifica il quarto comma dell’art. 183-ter c.p.c., che disciplina l’ordinanza di accoglimento della domanda che appare manifestamente fondata, aggiungendo la previsione secondo cui il provvedimento, che è provvisoriamente esecutivo, costituisce anche titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. viene poi modificato l’art. 281-decies c.p.c., sostituendo il secondo comma e introducendo un terzo comma, al fine di chiarire alcuni dubbi circa l’ambito di applicazione del rito semplificato. Posto che il primo comma della disposizione prevede che tale rito si applica obbligatoriamente nella ricorrenza dei presupposti da esso indicati -sia che la cognizione spetti al tribunale in composizione collegiale sia nel caso in cui sia competente il giudice singolo -la modifica apportata al secondo comma è volta a chiarire che la causa quando è di competenza del tribunale in composizione monocratica può sempre essere introdotta nelle forme del rito semplificato, anche se non è di pronta soluzione ai sensi del primo comma. Il nuovo terzo comma, infine, chiarisce che il rito in questione si può applicare -quando ricorrano i presupposti di cui al primo o al secondo comma -anche alle cause di opposizione a precetto, agli atti esecutivi e a decreto ingiuntivo previste dagli artt. 615, primo comma, 617, primo comma, e 645 c.p.c. Sempre nell’ambito del rito semplificato, sono modificati il terzo e il quarto comma dell’art. 281-duodecies c.p.c., che disciplina il procedimento dopo la costituzione del contraddittorio e la fissazione dell’udienza. In particolare, la novella prevede che all’udienza le parti possono proporre, oltre alle eccezioni, anche «le domande» che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti. Al quarto comma, poi, si prevede che il termine per la precisazione o modificazione delle domande ed eccezioni e per dedurre nuovi mezzi istruttori debba essere concesso dal giudice, su richiesta di parte, quando l’esigenza sorge dalle difese della controparte. (2) Le distorsioni che si sarebbero potute verificare sotto il previgente regime sono ben evidenziate nella relazione illustrativa: “In mancanza di un provvedimento espresso, infatti, le parti resterebbero sempre esposte al dubbio circa l’esito delle verifiche, non potendo sapere se queste sono state svolte con esito positivo o, al contrario, non sono state ancora effettuate dal giudice, e non sarebbero quindi messe in condizione di sapere se nel frattempo decorrono i termini per il deposito delle memorie di cui all’art. 171-ter. Esse sarebbero quindi verosimilmente indotte a depositare comunque le note, per non rischiare di incorrere in decadenze, con la conseguenza che una successiva -per quanto tardiva -pronuncia del decreto renderebbe inutile l’attività svolta e potrebbe vanificare eventuali strategie processuali articolate dalle difese: eventi, questi, che determinerebbero un inutile appesantimento del processo e maggiori oneri per le parti e i loro avvocati”. viene, infine, snellita la fase decisionale nei procedimenti con rito semplificato di competenza del tribunale in composizione collegiale: fermo restando il modulo decisorio a seguito di discussione orale, si prevede che questa avvenga davanti al solo istruttore, il quale poi riferirà al collegio in camera di consiglio, al fine di evitare che debba essere necessariamente fissata una udienza collegiale. A garanzia delle parti, si prevede comunque che, qualora anche solo una di esse lo richieda, l’istruttore fisserà l’udienza di discussione davanti al collegio, secondo il procedimento disciplinato dall’art. 275-bis c.p.c. 3. il procedimento davanti al giudice di pace In relazione al procedimento davanti al giudice di pace, deve essere segnalata, oltre alla modifica dell’art. 318 c.p.c., che ha ampliato il contenuto del decreto con cui il giudice di pace fissa la prima udienza (prevedendo che questo debba contenere gli avvisi inerenti alle decadenze derivanti dalla violazione del termine per la costituzione in giudizio, alla necessità della difesa tecnica e alla possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato), soprattutto la nuova formulazione dell’art. 319 c.p.c., il quale chiarisce che la causa si iscrive a ruolo depositando il ricorso o il verbale contenente la domanda orale, atti che dovranno poi essere notificati al convenuto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza. Al secondo comma dell’art. 319 c.p.c., inoltre, vengono apportate le modifiche rese necessarie dal passaggio al processo telematico e al sistema delle comunicazioni e notificazioni elettroniche. Si prevede, perciò, analogamente all’intervento effettuato sull’art. 165 c.p.c. per il giudizio davanti al tribunale, che la parte che sta in giudizio personalmente possa indicare -anziché il proprio recapito “fisico” -il proprio indirizzo di PeC o il domicilio digitale eletto. Il novellato art. 321 c.p.c. prevede che il giudice di pace procede ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., ma qualora decida di riservarsi di depositare la sentenza in un secondo momento dovrà farlo entro quindici giorni dalla discussione, anziché trenta come previsto per il giudizio davanti al tribunale. 4. le modifiche ai giudizi di impugnazione Con riferimento al giudizio di appello, viene riscritto il primo comma del- l’art. 342 c.p.c., che disciplina la forma dell’atto di appello, con modifiche che non innovano il contenuto della disposizione ma sono volte a chiarire che i canoni di chiarezza, sintesi e specificità non costituiscono di per sé requisiti di ammissibilità dell’appello e a specificare che ciascun motivo di appello, a pena di inammissibilità, deve essere relativo ad uno specifico capo della sentenza. La modifica del primo comma dell’art. 343 c.p.c. e dell’art. 347 c.p.c. contribuisce a chiarire che l’appellato si costituisce in giudizio almeno venti giorni prima dell’udienza e che, entro il medesimo termine, deve proporre l’appello incidentale. All’art. 350 c.p.c. sono aggiunti due ulteriori commi che hanno lo scopo di meglio definire l’ampiezza dei poteri dell’istruttore, quando nominato, e di individuare quali provvedimenti possono essere adottati da questo e quali sono necessariamente rimessi al collegio. L’intervento precisa che il giudice istruttore può adottare, oltre ai provvedimenti in cui è espressamente prevista la sua competenza (v. ad es. gli artt. 348, 350, 350-bis, 351, 352 c.p.c.), quelli di cui agli artt. 309 (mancata comparizione delle parti ad un’udienza successiva alla prima e cancellazione della causa dal ruolo) e 355 c.p.c. (sospensione del processo per la proposizione di querela di falso). viene, inoltre, previsto che l’estinzione del giudizio di appello sia dichiarata nello stesso modo in cui viene pronunciata l’improcedibilità ai sensi dell’art. 348 c.p.c.: se è stato nominato l’istruttore e l’evento si è verificato davanti a lui, con ordinanza reclamabile al collegio; altrimenti, dal collegio con sentenza. Il decreto interviene sul terzo comma dell’art. 351 c.p.c. al fine, anche in questo caso, di chiarire meglio i rapporti tra collegio e istruttore, questa volta per l’ipotesi in cui l’appellante chieda che la decisione sulla sospensione del- l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado sia adottata prima del- l’udienza di comparizione. In particolare, il comma viene riscritto per chiarire che davanti alla corte d’appello l’udienza per la decisione sulla sospensiva sarà tenuta dall’istruttore, quando il presidente ha deciso di nominarlo, o davanti al collegio quando viceversa egli ha ritenuto, ai sensi dell’art. 349-bis c.p.c., di disporre la trattazione davanti al collegio. Con riferimento al giudizio di cassazione, viene novellato il quarto comma dell’art. 371 c.p.c. in tema di controricorso avverso il ricorso incidentale, prevedendosi che per resistere al ricorso incidentale può essere depositato un controricorso entro quaranta giorni dal deposito del ricorso incidentale stesso (e non già dalla scadenza del termine di quaranta giorni per il deposito del ricorso incidentale), sicché il dies a quo per il deposito del controricorso avverso il ricorso incidentale non è più fisso ma mobile (variando a seconda della data di effettivo deposito del ricorso incidentale). tale previsione fa, dunque, gravare sul ricorrente principale l’onere di consultazione periodica del fascicolo telematico, onde acquisire contezza della data di effettivo deposito dell’eventuale ricorso incidentale, essendo questo -come detto -il momento da cui decorrere il termine di quaranta giorni per replicare al ricorso incidentale. 5. le modifiche al rito del lavoro Per quanto concerne il rito del lavoro, le modifiche apportate sono dettate essenzialmente dall’intento di adeguare le disposizioni codicistiche alle innovazioni digitali, eliminando i riferimenti a incombenze non più attuali, quali il deposito analogico di copie degli atti o il deposito fisico in cancelleria. In particolare, nell’art. 414 c.p.c., disciplinante il contenuto del ricorso introduttivo, vengono eliminati i riferimenti al domicilio eletto dal ricorrente in favore delle comunicazioni e notificazioni tramite PeC presso il procuratore costituito e viene inserita la necessaria indicazione del codice fiscale delle parti e dei difensori, finalizzata al corretto funzionamento del sistema informatico sotteso al processo civile telematico. È stata, inoltre, introdotta, analogamente a quanto previsto nel novellato art. 163 c.p.c., l’indicazione dell’indirizzo PeC del convenuto risultante da pubblici elenchi, ove dovrà necessariamente notificarsi l’atto introduttivo. Per quanto si è poc’anzi detto, negli artt. 415, 420, 420-bis, 426, 434, 436 e 445-bis c.p.c. è espunto ogni riferimento ai depositi da effettuare in cancelleria, dovendo essere eseguiti telematicamente. Nell’art. 416 c.p.c., relativo alla costituzione del convenuto, vengono eliminati, per le ragioni sopra segnalate, il riferimento alla dichiarazione di residenza o elezione di domicilio nel comune ove ha sede il tribunale e il deposito della memoria in cancelleria. Al fine di agevolare gli adempimenti di cancelleria, l’art. 417 c.p.c. prevede ora che la parte che sta in giudizio personalmente possa indicare, oltre alla propria residenza o al proprio domicilio eletto, il proprio indirizzo PeC o il domicilio digitale eletto, affinché le comunicazioni e notificazioni possano essergli recapitate tramite questo. viene, infine, modificato l’art. 434, comma 1, c.p.c., relativo al contenuto dell’atto di appello nel rito del lavoro, sì da renderlo coerente con le suindicate modifiche apportate all’art. 342 c.p.c. 6. le modifiche al rito unico in materia di persone, minorenni e famiglia (brevi cenni) Con riferimento al rito unificato in materia di stato delle persone, minori e famiglie introdotto con il D.Lgs. n. 149 del 2022, le modifiche sono state dettate dalla duplice esigenza di chiarire i dubbi interpretativi emersi in sede di prima applicazione pratica e di prevenire pronunce di mero rito. Si è così precisato che vi sono ricomprese anche le controversie in tema di risarcimento del danno endofamiliare, mentre vi sono sottratti i procedimenti di scioglimento della comunione legale tra i coniugi. Si è, inoltre, ritenuto opportuno introdurre, nell’art. 473-bis c.p.c., un meccanismo di mutamento del rito analogo a quello previsto dagli artt. 426 e 427 c.p.c. e 4 D.Lgs. n. 150 del 2011. 7. le modifiche alla disciplina del processo esecutivo e delle relative opposizioni Le modifiche relative alla disciplina del processo esecutivo si inseriscono nell’ottica della completa informatizzazione del processo. In tal senso, nell’art. 475 c.p.c. si è previsto che il titolo esecutivo possa essere rilasciato, oltre che in copia attestata conforme all’originale, anche come duplicato informatico e nell’art. 479 c.p.c. si è previsto che, ai fini della notifica del titolo esecutivo, la consegna del duplicato informatico di questo è equivalente alla consegna della copia attestata conforme all’originale. Quanto alla forma dell’atto di precetto, si è intervenuti sull’art. 480 c.p.c., prevedendosi che, nell’atto di precetto sottoscritto dalla parte personalmente, l’indicazione della residenza o l’elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione possano essere sostituite dall’indicazione di un indirizzo PeC o dall’elezione di un domicilio digitale speciale. In mancanza, le notificazioni continueranno ad essere effettuate presso la cancelleria, a meno che il destinatario non sia un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo PeC oppure abbia eletto domicilio digitale, giacché in questo caso si applicheranno le disposizioni di cui all’art. 149-bis c.p.c. relative alla notifica effettuata mediante deposito nell’apposita area riservata sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia. Sempre in considerazione della compiuta digitalizzazione del processo, viene espunta dall’art. 486 c.p.c. la previsione secondo cui le domande e le istanze rivolte al giudice dell’esecuzione sono depositate in cancelleria. Al fine di semplificare e informatizzare le comunicazioni di cancelleria e le notificazioni, il nuovo art. 489 c.p.c. prevede che le notificazioni e comunicazioni ai creditori pignoranti e a quelli intervenuti siano effettuate, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., presso il procuratore costituito. Per quanto riguarda, invece, i creditori che stanno in giudizio personalmente, si prevede che le comunicazioni e notificazioni rivolte a costoro debbano effettuarsi via PeC o, se non indicata, alla residenza dichiarata o al domicilio eletto nell’atto di precetto o nell’atto di intervento. In difetto di tali indicazioni, le notificazioni potranno essere eseguite mediante deposito in cancelleria, fatto salvo quanto previsto dall’art. 149-bis c.p.c. Quanto alla forma dell’atto di pignoramento, l’art. 492 c.p.c., in linea con il principio ispiratore del superamento degli adempimenti analogici in favore di quelli telematici, prevede che l’atto debba contenere l’invito al debitore (oltre che ad effettuare la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio in uno dei comuni del circondario in cui ha sede il giudice competente) ad indicare un indirizzo PeC o un domicilio digitale presso i quali ricevere notificazioni e comunicazioni. In mancanza, comunicazioni e notificazioni saranno effettuate presso la cancelleria, fatta salva l’applicazione dell’art. 149-bis c.p.c. Negli artt. 492-bis, 499, 518, 521-bis, 524, 543, 557 e 582 c.p.c. vengono introdotte modifiche di mero coordinamento, prevedendosi l’indicazione di un indirizzo PeC nell’atto di intervento sottoscritto dalla parte che sta in giudizio personalmente ed eliminando i riferimenti alla ormai (abrogata) nota di iscrizione a ruolo e al deposito degli atti in cancelleria. Con riferimento alla disciplina delle opposizioni esecutive, sono modificati gli artt. 616 e 618 c.p.c., prevedendosi che quando il giudizio di merito sull’opposizione è introdotto nelle forme del rito ordinario di cognizione siano dimezzati anche i termini previsti dagli artt. 165, 166, 171-bis e 171-ter c.p.c., rispettivamente, per la costituzione dell’attore, quella del convenuto, le verifiche preliminari da parte del giudice e il deposito delle memorie integrative, in modo tale da consentire la più celere trattazione del processo e limitare i pregiudizi connessi alla pendenza dell’opposizione sul regolare andamento della procedura esecutiva. 8. modifiche alla disciplina dei procedimenti speciali del libro iv del codice di rito Con riferimento alla prova scritta nel procedimento per decreto ingiuntivo, l’art. 634, comma 2, c.p.c. è aggiornato alla luce dei mutamenti intervenuti negli ultimi anni, che hanno visto scomparire le scritture contabili cartacee (e con esse gli obblighi di bollatura e vidimazione), in favore di quelle tenute in formato elettronico. viene eliminata, infatti, la previsione che condizionava il valore probatorio delle scritture alla corretta esecuzione di tali adempimenti e le scritture contabili previste dalle leggi tributarie vengono totalmente equiparate a quelle previste dagli artt. 2214 e segg. c.c. «purché tenute, anche con strumenti informatici, con l’osservanza delle norme stabilite dalla legge». Si aggiunge un ulteriore periodo al secondo comma dell’art. 634 c.p.c., prevedendosi che costituiscono prova scritta idonea anche le fatture elettroniche trasmesse attraverso il Sistema di interscambio istituito dal Ministero dell’economia e delle finanze e gestito dall’Agenzia delle entrate. In linea con il principio ispiratore di aggiornamento del codice alle innovazioni di natura telematica, nell’art. 638 c.p.c., relativo alla forma della domanda, è stata introdotta la possibilità per il ricorrente che sta in giudizio personalmente di indicare un indirizzo PeC o eleggere un domicilio digitale speciale. Anche in questo caso si prevede che, in difetto di tali indicazioni, le notificazioni al ricorrente possano farsi mediante deposito in cancelleria (secondo quanto previsto dalle disposizioni già vigenti), ferma la prevalenza della disciplina in materia di notificazioni tramite PeC prevista dall’art. 149-bis c.p.c. vengono eliminati, inoltre, i riferimenti, ormai superati, al deposito in cancelleria e al fascicolo cartaceo. Per quanto riguarda l’opposizione a decreto ingiuntivo, nell’art. 645 c.p.c. viene sostituito il riferimento all’atto di citazione con il più generico concetto di «atto introduttivo», considerato che l’opposizione può essere proposta con ricorso nel caso di rito semplificato o di rito del lavoro. Di rilievo la precisazione contenuta nel neo-introdotto comma terzo del- l’art. 648 c.p.c. relativo alla concessione della provvisoria esecuzione in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, prevedendosi (analogamente a quanto previsto dall’art. 351 c.p.c.) che: «Se ricorrono ragioni di urgenza specificamente indicate nell’istanza, la parte costituita può chiedere che la decisione sulla concessione della provvisoria esecuzione sia pronunciata prima dell’udienza di comparizione. Il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza non impugnabile». Nell’art. 654, primo comma, c.p.c. è espunto il riferimento alla stesura del decreto che dichiara l’esecutorietà del decreto ingiuntivo in calce al decreto stesso. Quanto al procedimento di sfratto per morosità, l’intervento al primo comma dell’art. 658 c.p.c. ne ha esteso espressamente l’applicazione anche all’affitto di azienda e all’affitto a coltivatore diretto, al mezzadro e al colono, risolvendosi il preesistente dubbio interpretativo dovuto al fatto che solo l’art. 657 c.p.c. sulla finita locazione conteneva i riferimenti a tali contratti. 9. disposizioni in materia di giustizia digitale e di processo civile telematico tra le numerose modifiche in tema di giustizia digitale e processo civile telematico ai segnalano le seguenti. 9.1. la trattazione scritta in sostituzione dell’udienza e la comunicazione dei provvedimenti del giudice Il decreto correttivo interviene anzitutto sulla disciplina della trattazione scritta in sostituzione dell’udienza, chiarendo la portata applicativa dell’art. 127-ter c.p.c., nel senso che «L’udienza non può essere sostituita quando la presenza personale delle parti è prescritta dalla legge o disposta dal giudice» (ad esempio, nei casi previsti dagli artt. 117, 185 e 185-bis c.p.c.). In relazione alla disposizione di cui all’art. 128 c.p.c., secondo cui l’udienza in cui si discute la causa è pubblica a pena di nullità, viene prevista esplicitamente la possibilità della sua sostituzione con la trattazione scritta ai sensi dell’art. 127-ter, salvo che una delle parti si opponga. Il novellato comma 2 dell’art. 127-ter c.p.c. dispone, quindi, che, in caso di opposizione proveniente anche da una sola delle parti, il giudice revoca il provvedimento e fissa l’udienza pubblica di trattazione della causa in presenza. Si ricorda che, invece, per le udienze diverse da quella in cui si discute la causa, il giudice è vincolato alla richiesta congiunta delle parti diretta sia a richiedere la trattazione scritta, sia ad opporsi alla stessa qualora il giudice l’abbia già disposta. Al dichiarato fine di risolvere l’inconciliabilità pratica della sostituzione ex art. 127-ter c.p.c. dell’udienza di discussione, nei casi in cui questa richiede la lettura del dispositivo in udienza, con la possibilità delle parti di depositare note scritte fino al termine di quello stesso giorno (così la relazione illustrativa), è stato aggiunto un periodo all’ultimo comma dell’art. 127-ter c.p.c., in virtù del quale «Il provvedimento depositato entro il giorno successivo alla scadenza del termine si considera letto in udienza». L’art. 133 c.p.c. viene integralmente sostituito al fine di adeguare le disposizioni sulla pubblicazione della sentenza e la sua comunicazione al processo telematico. Rimane comunque fermo il principio secondo cui la comunicazione della sentenza ad opera del cancelliere non è idonea a far decorrere il termine breve per impugnare previsto dall’art. 325 c.p.c. Il decreto interviene anche sull’art. 136 c.p.c., che disciplina le comunicazioni di cancelleria. In particolare, viene eliminata la previsione del “biglietto” e viene istituzionalizzata la sua trasmissione tramite posta elettronica certificata, con conseguente applicazione del regime delle notifiche a mezzo PeC alle comunicazioni telematiche. Ne discende la previsione per cui, quando la comunicazione non ha esito positivo per causa non imputabile al destinatario, si procede con la notifica tramite ufficiale giudiziario nelle forme tradizionali; diversamente, se la notifica non ha esito positivo per causa imputabile al destinatario, l’atto è inserito nel portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia, come previsto dalle disposizioni che saranno di seguito illustrate per le notifiche a mezzo PeC dell’ufficiale giudiziario e quelle a cura dell’avvocato. Le concrete modalità per l’inserimento dell’atto nel portale sono quelle descritte nel novellato art. 149-bis c.p.c., che costituisce la norma di riferimento sulle notifiche a mezzo PeC e sulle conseguenze del- l’impossibilità di effettuare l’adempimento secondo tali modalità per causa imputabile al destinatario. 9.2. le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata In primo luogo, si ricorda che, ai sensi dell’art. 3-ter della legge n. 53/1994, «l’avvocato esegue la notificazione degli atti giudiziali in materia civile e degli atti stragiudiziali a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato quando il destinatario: a) è un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un domicilio digitale risultante dai pubblici elenchi; b) ha eletto domicilio digitale ai sensi dell’articolo 3-bis, comma 1-bis, del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, iscritto nel pubblico elenco dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 6-quater del medesimo decreto». Ciò posto, rilevanti appaiono le novità introdotte in tema di notificazione via PeC effettuata dall’Ufficiale giudiziario ai sensi del novellato art. 149-bis c.p.c. e dall’avvocato ai sensi della disposizione sopra richiamata, in particolare nell’ipotesi in cui tale notificazione non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario. In tale ultima ipotesi, infatti, la nuova normativa prevede che essa sia eseguita mediante inserimento dell’atto da notificare nel portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della giustizia, unitamente ad una dichiarazione sulla sussistenza dei presupposti per l’inserimento, all’interno di un’area riservata collegata al codice fiscale del destinatario. La notificazione si ha per eseguita, per il destinatario, nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento o, se anteriore, nella data in cui egli accede all’area riservata. Il portale è raggiungibile al seguente link https://pst.giustizia.it/PST/it/services.page, cliccando sulla card “Area riservata” accedendo con la CNS e cliccando poi sul servizio “Area WeB notifiche- Portale perfezionamento notifiche” (3). Anche il primo comma dell’art. 330 c.p.c., che disciplina il luogo di notificazione dell’impugnazione, viene modificato allo scopo di adeguare le disposizioni alla generalizzazione del ricorso alla trasmissione elettronica degli atti. Inoltre, i riferimenti alla dichiarazione di residenza e all’elezione di domicilio vengono affiancati dall’indicazione dell’indirizzo PeC o del domicilio digitale. 9.3. ulteriori disposizioni sul processo civile telematico Al fine di adeguare le disposizioni codicistiche al processo telematico, deve essere segnalata la modifica all’art. 250 c.p.c., relativo all’intimazione ai testimoni, prevedendosi che la citazione del teste possa essere effettuata anche tramite posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, dovendo il difensore che ha citato il testimone depositare nel fascicolo informatico copia dell’atto inviato e della ricevuta e dell’avviso di ricevimento o la ricevuta di avvenuta consegna del messaggio PeC. Analoghe disposizioni vengono dettate per quanto riguarda la testimonianza scritta di cui all’art. 257-bis c.p.c. In particolare, si prevede che il modello di testimonianza possa essere compilato anche come documento informatico sottoscritto digitalmente. Di conseguenza, si prevede che il documento venga trasmesso non più al cancelliere, bensì direttamente al difensore della parte che ha richiesto l’assunzione della prova, il quale provvederà a depositarlo nel fascicolo informatico. 10. le principali modifiche agli “scadenzieri” presenti su nsi Per effetto delle modifiche sopra riportate, appare opportuna una modifica degli attuali “scadenzieri” presenti su NSI per quanto concerne, anzitutto, (3) Allo stato, il Ministero della Giustizia, per taluni limiti tecnologici in via di superamento, ha realizzato un sistema di accesso basato sul codice fiscale del singolo Avvocato e Procuratore dello Stato. Sono in corso le necessarie interlocuzioni con la DGSIA al fine di consentire ad Avvocati e Procuratori di accedere a tale area inserendo il codice fiscale dell’Avvocatura di appartenenza, anche al fine di consentire di verificare se la singola Avvocatura sia destinataria di notifiche non andate a buon fine. quelli relativi alla verifica del deposito del controricorso anche ai fini della eventuale proposizione di controricorso al ricorso incidentale. In particolare, considerato che il dies a quo per il deposito del controricorso avverso il ricorso incidentale non è più fisso ma mobile (variando, dunque, a seconda della data di effettivo deposito del ricorso incidentale): -viene introdotto un primo termine per la “prima verifica” del deposito del controricorso a 30 giorni dalla notifica del ricorso; - resta inalterato quello già esistente a 40 giorni; -viene introdotto un termine ulteriore, cautelativo, a 60 giorni per l’eventuale controricorso al ricorso incidentale. In considerazione del disposto dimezzamento dei termini nel caso di introduzione, nelle forme del rito ordinario, del giudizio di merito sulle opposizioni esecutive, sono stati istituiti appositi “scadenzieri” con termini dimezzati. Da ultimo, con l’occasione si è proceduto a rettificare su NSI i termini per la costituzione in giudizio del convenuto (o dell’appellato) nel rito del lavoro, non più considerati liberi, ma ordinari, vista la ormai consolidata giurisprudenza al riguardo (4). L’AvvoCAto GeNeRALe Gabriella PALMIeRI SANDULLI (4) Cass. 9224/2015, Cass. 23834/2023. Avvocatura Generaledello Stato CIrColAre n. 15/2025 oggetto: Conferimento incarico di Vice Avvocato Generale dello Stato all’Avv. Paolo Gentili. Attribuzione della direzione della Sezione I bis. Con decreto del Presidente della Repubblica in data 16 gennaio 2025, registrato dalla Corte dei conti in data 23 gennaio 2025, è stato conferito l’incarico di vice Avvocato Generale all’Avvocato Paolo Gentili. All’Avvocato Gentili è attribuita la direzione della Sezione I bis. L’AvvoCAto GeNeRALe Gabriella PALMIeRI SANDULLI ContEnzioSoComUnitarioEDintErnazionaLE La sentenza Cesarano. La CEDU si confronta con ipotesi specifiche sinora inesplorate e spiega come i principi Scoppola debbano trovare applicazione Nota a Corte eDU, SezioNe i, SeNteNza 17 ottobre 2024, riCorSo N. 71250/16, CaUSa CeSaraNo C. italia Massimo Di Benedetto* La pronuncia che si annota opera una ragionevole e ragionata actio finium regundorum dei c.d. “fratelli minori” di Scoppola, precisando che il ricorrente del caso concreto non rileva come tale (e, pertanto, non può lamentare d’aver subito anche lui la violazione accertata nel leading case), atteso che la sua fattispecie non è pienamente sovrapponibile a quella sottoposta all’attenzione della Grande Camera nel citato, noto precedente. Volendo sforzarsi di compendiare il principio di diritto enucleabile dalla pronuncia che s’annota, potrebbe tanto sancirsi: “in applicazione del generale principio di retroattività in mitius, allorché si tratti di individuare la versione più favorevole di una norma sul trattamento sanzionatorio risultante dalla scelta, da parte dell’imputato, di un rito alternativo, occorre guardare, come dies a quo da considerare per l’esame delle versioni della norma, al momento in cui, in giudizio, l’imputato decide di usufruire del modello procedurale in questione (e non al precedente momento di commissione del fatto di reato). Pertanto, con specifico riguardo al rito abbreviato (comportante una riduzione di pena che, nel tempo, non è sempre stata la medesima, in particolar modo prevedendosi, prima, che per i delitti punibili con l’ergastolo il rito non fosse ammissibile; poi, che all’ergastolo venisse sostituita la reclusione per trenta anni; successivamente, che tale sostituzione operi solo a fronte di una (*) Avvocato dello Stato. condanna all’ergastolo senza isolamento, laddove la condanna all’ergastolo con isolamento viene commutata, per il rito, in ergastolo senza isolamento), non v’è alcuna violazione convenzionale allorché l’imputato, che ha commesso il fatto in un momento in cui neppure avrebbe potuto chiedere il rito abbreviato per tale fatto, venga condannato all’ergastolo senza isolamento diurno, in luogo dell’ergastolo con isolamento, se egli ha chiesto e ottenuto l’accesso al rito in un momento in cui tale era lo scenario sanzionatorio previsto dalla normativa in vigore (in quanto già da tempo era stato normativamente chiarito che la condanna -più mite -a trenta anni di reclusione sostituisce, come beneficio del rito, soltanto quella all’ergastolo senza isolamento)”. La pronuncia appare condivisibile, avendo operato un ragionato sforzo per portare a sintesi e declinare in relazione a ipotesi pratiche specifiche, con cui la CEDU non si era mai confrontata, peculiari principi generali più e più volte sanciti in astratto, ma mai portati a concreta applicazione. La sentenza Cesarano, infatti, conferma quanto sancito nel caso Scoppola circa l’operatività del principio di retroattività favorevole, e opportunamente chiarisce agli interpreti come, in concreto, il principio dovrà operare allorché la versione più favorevole della norma previsiva dello sconto di pena nel rito alternativo sopraggiunga al momento in cui l’imputato ha chiesto e ottenuto l’accesso al rito. E invero, nel caso Scoppola l’attenzione del Giudice convenzionale era essenzialmente focalizzata sulla risoluzione della questione del se tale norma, formalmente procedurale, potesse rilevare ai fini dell’applicazione dell’art. 7; risolvendo nell’affermativo la questione, la Corte EDU non veniva, tuttavia, chiamata all’individuazione, in concreto, dell’arco temporale da considerare al fine di saggiare il grado di severità delle varie norme, per l’assorbente ragione che, in quel caso (a differenza che nel caso che ne occupa) l’imputato aveva chiesto e ottenuto l’accesso al rito in un momento in cui la pena prevista era più lieve rispetto a quella a lui poi applicata in ragione di ius superveniens, successivo alla sua richiesta di accesso al rito. Quindi, nel caso Cesarano, per la prima volta, il Giudice convenzionale è chiamato a declinare le modalità di applicazione concreta del principio di retroattività favorevole con riguardo alla fattispecie fattuale (ben lontana da quella del caso Scoppola) dell’imputato che chiede il rito abbreviato non soltanto a fronte di fatti commessi quando neppure avrebbe potuto accedere al rito, ma in un momento in cui la versione astrattamente più favorevole (almeno in punto di sconto di pena) dell’istituto era già stata normativamente superata da molto tempo. Ciò posto, si ribadisce che opportunamente la Corte EDU segnala come al momento in cui ha commesso il fatto, il ricorrente neppure avrebbe potuto accedere al rito abbreviato; rilievo assai utile per mettere a fuoco la circostanza che, nel caso che ne occupa, non si pone alcun problema di irretroattività sfa vorevole (principio, e costituzionale e convenzionale, che, come noto, a differenza di quello di retroattività favorevole, è assolutamente inderogabile e da rigorosamente interpretare, senza eccezioni di sorta, in senso di favore all’imputato); e principio che, in effetti, una qualche considerazione poteva richiedere in relazione al fatto storico di Scoppola (avendo questi chiesto e ottenuto l’abbreviato prima della sopravvenienza normativa che ha modificato in peius il trattamento sanzionatorio). Si pone la questione, ben diversa, della retroattività favorevole eventualmente non riconosciuta a vantaggio del reo. orbene, la specificità della situazione fattuale (assai diversa dal leading case Scoppola) ben spiega perché, allora, la Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione convenzionale, e quest’oggi no. Come lumeggiato nel § 81 della pronuncia in esame, “… a differenza del ricorrente nella causa Scoppola (sopra citata), il quale richiese il giudizio abbreviato all’udienza preliminare immediatamente dopo l’emanazione della legge n. 479 del 1999, nel caso di specie il ricorrente non si avvalse della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato alla prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999, come avrebbe avuto diritto a fare in base alle disposizioni transitorie rilevanti. al contrario, scelse deliberatamente di presentare tale richiesta diversi anni dopo, dopo essere stato nuovamente rinviato a giudizio, il 2 ottobre 2012 (si veda § 14)…”. Si tratta di un approdo interpretativo logico, innanzitutto, se di per sé considerato. opportunamente, al riguardo, il Giudice convenzionale (cfr. §§ 77-78) discorre di “accordo tra imputato e Stato”, e precisa che (v. § 79) “… è la pena applicabile al momento dell’accordo in questione che l’imputato sceglie di accettare; pertanto, è quella pena che deve essere confrontata con le pene successive previste dal legislatore nel contesto del giudizio abbreviato per identificare la legge più favorevole, mentre le pene applicabili nell’ambito del giudizio abbreviato prima che l’imputato abbia scelto di essere giudicato con tale procedimento rimangono inapplicabili alla sua situazione specifica ”. In questa prospettiva, non può che stressarsi con forza che, se è vero che il principio di retroattività favorevole può applicarsi anche in relazione a norme diverse da quelle formalmente sostanziali che prevedono le cornici edittali (norme che concretano il terreno d’elezione dell’applicabilità del detto principio), è pur vero che, una volta ammessa la possibilità di considerare l’art. 442 c.p.p. ai fini della retroattività favorevole, deve pur sempre tenersi a mente -come il Giudice convenzionale condivisibilmente fa -che la possibilità di incisione sulla dosimetria della pena ad opera di tale norma richiede necessariamente un preventivo atto di volontà dell’imputato, che, appunto, dovrà scegliere, rispettando forme e modi del rito, di accedere al procedimento alternativo cui l’art. 442 c.p.p. è dedicato. Diversamente dalla norma penale incriminatrice, che è sempre e automaticamente il parametro normativo che il giudicante penale considera per accertare sia l’an della sussistenza del reato che il quantum della reazione sanzionatoria, l’art. 442 c.p.p. potrà incidere sulle sorti sanzionatorie dell’imputato unicamente nel caso in cui questi decida di accedere al rito abbreviato; ciò che rende ineccepibile il rilievo della Corte EDU secondo cui a doversi considerare “è la pena applicabile al momento dell’accordo in questione che l’imputato sceglie di accettare” nonché (giusta la giurisprudenza Scoppola, appunto confermata e opportunamente chiarita, dalla sentenza Cesarano, in relazione alla peculiare ipotesi di che trattasi) la pena prevista da disposizioni a quella successive. Ancora, il pregio della precisazione che la Corte EDU opera con la sentenza in esame si apprezza altresì se si prende in considerazione l’ipotesi interpretativa alternativa a quella prescelta dal Giudice convenzionale, id est la tesi opposta che avrebbe condotto, anche in questo caso, ad una pronuncia di accertamento di violazione. In questo senso, si osserva che sarebbe francamente irragionevole accettare uno scenario giuridico in cui un reo che commette un fatto di reato in un momento in cui neppure avrebbe potuto accedere ad un rito alternativo, e che vada ad attivare tale modulo processuale molti anni dopo, allorché tra le caratteristiche del rito v’è uno sconto di pena di un certo tipo, possa pretendere che, comunque per il resto applicandosi il modulo procedurale in vigore al momento della sua richiesta, tuttavia, in relazione alla specifica questione della dosimetria della pena per il caso di condanna, gli sia applicata la versione, ancora più favorevole, del rito abbreviato che (dopo la commissione del suo fatto) era per un periodo stata in vigore. nessuna ragione giuridica, ma neppure soltanto sostanziale, in effetti, avrebbe mai permesso di ratificare una siffatta proposta interpretativa, rilevato che: -al momento della commissione del fatto, neppure avrebbe potuto accedere al rito (con la conseguenza che già la possibilità di accedere al rito contratto, sia pure con la riduzione di pena non migliore tra quelle storicamente previste dall’ordinamento italiano, concreta una sopravvenienza favorevole in punto di trattamento sanzionatorio); -al momento in cui chiede di accedere al rito, tra le conseguenze pratiche del modulo procedurale che accetta (conseguenze che, è noto, certo non si esauriscono nella riduzione di pena -anche perché, vale ricordare, chi chiede il rito abbreviato non è necessariamente un colpevole, né necessariamente sarà condannato) v’era lo sconto di pena nella misura che gli è stato applicato. nessuna aspettativa o affidamento, pertanto, viene tradito neppure a voler considerare questo momento (oltre al tempus commissi delicti). Se, pertanto, la Corte EDU ha sancito, nel caso Scoppola, che il Legislatore domestico non può farsi scudo della qualificazione come norma di interpretazione autentica per retroattivamente incidere, in senso deteriore, sullo sconto di pena previsto dal rito abbreviato in relazione ai processi per cui, prima dell’approvazione della norma di interpretazione autentica, gli imputati avevano già chiesto e ottenuto l’accesso al rito, comprensibilmente il Giudice convenzionale ha, in senso eguale e contrario, precisato che nessuna violazione convenzionale sussiste se l’imputato ottiene lo sconto di pena previsto dalla norma in vigore al momento in cui egli chiede di poter accedere al rito (quand’anche una versione antecedente della norma sulla dosimetria della pena in punto di abbreviato prevedesse un trattamento di maggior favore). nell’un caso e nell’altro, del resto, la Corte EDU ha ragionato nello stesso modo, id come expressis verbis chiarito nella pronuncia in esame: il momento che segna il dies da considerare per intercettare la versione della norma più favorevole è quello dell’accordo tra imputato e Stato (cfr. §§ 77-79). Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione i, sentenza 17 ottobre 2024, ricorso n. 71250/16 (24 novembre 2016), causa Cesarano c. italia -Pres. Ivana Jelić; Giud. Alena Poláčková, Péter Paczolay, Gilberto Felici, Erik Wennerström, raffaele Sabato, Alain Chablais (*) Art. 7 • Pena più severa • rifiuto dei tribunali nazionali della richiesta del ricorrente per una riduzione della pena dall’ergastolo a trent’anni di reclusione, dopo che egli aveva scelto di essere giudicato con rito abbreviato • Valutazione non in abstracto, ma basata su circostanze specifiche del caso • Il ricorrente non ha diritto a una pena di trent’anni di reclusione, dato che il rito abbreviato è stato richiesto molto tempo dopo la modifica del quadro normativo in termini più severi, con quella pena sostituita dall’ergastolo senza isolamento diurno • Le scelte procedurali di un imputato e le successive condizioni di un accordo tra l’imputato e lo Stato sono fondamentali per quanto riguarda la pena applicabile • La durata della pena ridotta, da imporre in caso di condanna, deve essere chiaramente identificata dalla legge in vigore al momento dell’accordo • Identificazione della legge più favorevole tra tutte le leggi in vigore nel periodo tra la commissione del reato e la pronuncia della sentenza definitiva, strettamente legata all’accordo dei tribunali nazionali con la richiesta del ricorrente di essere giudicato con rito abbreviato • reati punibili con l’ergastolo con isolamento diurno ma il ricorrente, dopo il processo con rito abbreviato, condannato all’ergastolo senza isolamento diurno, pena più favorevole. Art. 6 § 1 (penale) • Giusto processo • richiesta di rito abbreviato che costituisce una rinuncia inequivocabile a determinate garanzie procedurali in cambio di determinati vantaggi, com (*) traduzione non ufficiale della sentenza a cura della Dott.ssa Edina Eszeny dell’Ufficio CEDU dell’avvocatura Generale dello Stato. preso l’ergastolo senza isolamento diurno • nessuna aspettativa legittima sulla base del quadro giuridico vigente al momento dell’irrogazione di un’altra sentenza • Imposta una pena prevedibile. redatta dalla Cancelleria. non vincola la Corte. IntroDUzIonE 1. Il caso riguarda il rifiuto, da parte dei tribunali nazionali, della richiesta del ricorrente di ridurre la sua pena dall’ergastolo a trent’anni di reclusione sulla base, a suo avviso, dalla scelta di essere giudicato con rito abbreviato. A differenza del caso Scoppola c. italia (n. 2) ([GC], n. 10249/03, 17 settembre 2009), il ricorrente è stato ammesso a tale rito quando la legge da lui individuata come lex mitior (legge n. 479 del 1999) non era più in vigore. Il ricorso solleva questioni relative all’articolo 7 e all’articolo 6 § 1 della convenzione. 2. La questione sottoposta alla Corte è se, alla luce dei principi stabiliti in Scoppola (sopra citata), il periodo temporale da considerare per l’identificazione della legge più favorevole decorra in abstracto dal momento della commissione del reato fino alla condanna definitiva o se, nei casi di procedimenti semplificati -che dipendono da una richiesta dell’imputato -il termine temporale debba iniziare dal momento in cui tale richiesta è formulata. In FAtto 3. Il ricorrente è nato nel 1954 ed è attualmente detenuto a vita a L’Aquila. È rappresentato dall’avvocato m. Vetrano, con studio a napoli. 4. Il Governo è rappresentato dal loro agente, Avvocato dello Stato L. D’Ascia. 5. I fatti oggetto della causa possono essere riassunti come segue. I. IL PrImo rInVIo A GIUDIzIo DEL rICorrEntE 6. nel 1995 il ricorrente è stato rinviato a giudizio insieme ad altri coimputati per accuse di omicidio di massa (strage) e omicidio, crimini commessi nel 1983, che, all’epoca, erano punibili cumulativamente con una pena di ergastolo con isolamento diurno. Al momento del processo del ricorrente, gli imputati passibili di una condanna all’ergastolo non potevano essere giudicati con il rito abbreviato, un processo semplificato che comportava una riduzione della pena in caso di condanna. 7. La legge n. 479 del 16 dicembre 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha reintrodotto per gli imputati passibili di ergastolo la possibilità di essere giudicati con rito abbreviato (per una cronologia delle disposizioni interne pertinenti, si veda ai paragrafi 29-33). modificando l’articolo 442 § 2 del Codice di procedura penale (“il CPP”), tale legge prevedeva che, nel caso in cui il reato commesso dall’imputato fosse punibile con l’ergastolo, la pena appropriata, in seguito a una condanna con rito abbreviato, sarebbe stata di trent’anni di reclusione (si veda § 30). 8. In virtù dell’articolo 4-ter del decreto-legge n. 82 del 7 aprile 2000, modificato e convertito nella legge n. 144 del 5 giugno 2000 (entrata in vigore l’8 giugno 2000), agli imputati passibili di ergastolo era consentito chiedere di essere giudicati con rito abbreviato all’udienza successiva, purché le udienze istruttorie fossero ancora in corso nel loro caso, sia in primo grado che in appello. 9. Al momento dell’entrata in vigore di tale disposizione, il procedimento a carico del ricorrente era pendente in primo grado e le udienze istruttorie erano in corso. Pertanto, in quel momento, il ricorrente aveva la possibilità di chiedere di essere giudicato con rito abbreviato e, eventualmente, di ottenere una riduzione della pena dall’ergastolo a trent’anni di reclusione. tuttavia, non l’ha fatto. Dalla documentazione processuale risulta che alcuni dei suoi coimputati hanno richiesto e ottenuto il rito abbreviato. 10. Il 24 novembre 2000 è entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000. L’articolo 7(1) del decreto-legge stabiliva che il termine “ergastolo”, come riferito nella legge n. 479 del 1999, dovesse essere inteso come “ergastolo senza isolamento diurno”. In altre parole, solo coloro soggetti a una pena dell’ergastolo senza isolamento diurno potevano per una riduzione della pena a trent’anni di reclusione, mentre coloro passibili di ergastolo con isolamento diurno, come il ricorrente, potevano attivarsi per chiedere, in caso di giudizio con rito abbreviato, solo una riduzione a ergastolo senza isolamento diurno. II. LA SEntEnzA DI PrImo GrADo DELLA CortE DI ASSISE DI nAPoLI 11. Il 25 ottobre 2007 il ricorrente è stato condannato dalla Corte di Assise di napoli, a seguito di un processo con rito ordinario. La pena inflitta al ricorrente in quella fase del procedimento non è chiara dagli atti del caso. 12. Il 17 settembre 2009, mentre il procedimento a carico del ricorrente era pendente in appello, la Corte, nella sentenza Scoppola (sopra citata), ha concluso che l’Italia non aveva adempiuto al suo obbligo di concedere al ricorrente in quel caso -che aveva chiesto di essere giudicato con rito abbreviato mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999, ma era stato condannato all’ergastolo -il beneficio di una riduzione della sua pena a trent’anni di reclusione come prescritto da tale legge, in violazione dell’articolo 7 della Convenzione. La Corte ha inoltre concluso che l’articolo 6 § 1 della Convenzione era stato violato a causa della frustrazione dell’aspettativa legittima del ricorrente secondo cui trent’anni di reclusione erano la pena massima a cui era passibile. III. AnnULLAmEnto DELLA SEntEnzA E rInVIo DEL CASo 13. Il 19 febbraio 2010 la Corte di Assise d’Appello di napoli ha annullato la condanna del ricorrente e ha rimesso gli atti al pubblico ministero di roma, che è stato ritenuto competente per la trattazione del caso. 14. Il 15 maggio 2012 il ricorrente è stato nuovamente rinviato a giudizio per le stesse accuse del 1995. nell’udienza preliminare tenutasi il 2 ottobre 2012, ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato. 15. Con l’obiettivo di incorporare nel sistema nazionale le conclusioni della Grande Camera nella sentenza Scoppola (sopra citata), la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 210 del 3 luglio 2013, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 7(1) del decreto-legge n. 341 del 2000 (per ulteriori dettagli, si veda § 35 et seq.). 16. tuttavia, tale conclusione non ha influenzato la validità della disposizione nel caso del ricorrente. Infatti, la sostituzione della pena di trent’anni di reclusione con quella del- l’ergastolo senza isolamento diurno è rimasta valida per i casi in cui il rito abbreviato era stato avviato a partire dal 24 novembre 2000, ossia la data di entrata in vigore del decreto- legge n. 341 del 2000. IV. LA SEntEnzA DI PrImo GrADo DEL GIUDICE DELL’UDIEnzA PrELImInArE DI romA 17. Il 26 settembre 2013, a seguito di un processo con rito abbreviato, il giudice del- l’udienza preliminare di roma ha ritenuto il ricorrente colpevole come da imputazione e lo ha condannato all’ergastolo senza isolamento diurno, ai sensi dell’articolo 7 del Decreto-legge n. 341 del 2000. Per quanto riguarda la pena inflitta al ricorrente, il giudice ha tenuto conto di alcune circostanze aggravanti (tra cui il numero di individui coinvolti nella commissione dei reati, le motivazioni spregevoli alla base della loro commissione e la presenza di premeditazione), dell’estrema gravità degli atti attribuibili al ricorrente e del fatto che questi aveva precedentemente partecipato in altri reati gravi, tra cui oltre quaranta omicidi, estorsioni, reati di stampo mafioso e reati connessi alle armi. 18. riguardo alla richiesta del ricorrente di una riduzione della sua pena a trent’anni di reclusione alla luce della sentenza Scoppola (sopra citata), il giudice dell’udienza preliminare ha dettagliato i principi espressi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza Giannone (si veda § 43 et seq.) e ha osservato che la situazione del ricorrente non era comparabile a quella del ricorrente nella sentenza Scoppola (sopra citata) poiché non aveva né richiesto né ottenuto il giudizio con rito abbreviato mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999. Pertanto, il giudice ha respinto la richiesta del ricorrente. 19. Infine, in merito alla richiesta del ricorrente di sollevare una questione di costituzionalità dell’articolo 7 del Decreto-legge n. 341 del 2000, il giudice ha osservato che, con sentenza n. 210 del 2013 (si veda § 35), la Corte Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale l’articolo 7(1) del Decreto-legge n. 341 del 2000, affermando che tale disposizione era pregiudizievole per i soggetti in situazioni identiche a quella del ricorrente nella sentenza Scoppola (sopra citata). tuttavia, la disposizione in questione non era applicabile al ricorrente nel caso in esame, poiché, a differenza del sig. Scoppola, non aveva ottenuto il giudizio con rito abbreviato mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999. 20. La sentenza è stata depositata presso la cancelleria il 6 dicembre 2013. V. LA SEntEnzA DELLA CortE DI ASSISE D’APPELLo DI romA 21. Il ricorrente ha presentato un appello. Per quanto riguarda la pena inflitta, ha fatto nuovamente riferimento ai principi enunciati nella sentenza Scoppola (sopra citata) e ha chiesto una riduzione della sua pena a trent’anni di reclusione, che, egli ha sostenuto, rappresentava la pena più favorevole prevista tra tutte le leggi in vigore nel periodo tra la commissione dei reati e l’emissione della sentenza definitiva. 22. Il ricorrente ha, inoltre, chiesto nuovamente di sollevare una questione relativa alla costituzionalità dell’articolo 7 del Decreto-legge n. 341 del 2000. Egli ha sostenuto che la questione sottoposta alla Corte Costituzionale, che aveva dato luogo alla sua sentenza n. 210 del 2013 (ossia, ercolano -si veda § 35 et seq.) riguardava una situazione diversa dalla sua, in quanto, a differenza di quanto accaduto in quel caso, nel suo caso il procedimento di merito era ancora pendente. 23. Il 4 novembre 2014 la Corte di Assise d’Appello di roma ha confermato la condanna del ricorrente e ha respinto la sua richiesta di riduzione della pena. Avallando le argomentazioni del giudice per l’udienza preliminare, la Corte di Assise d’Appello ha ribadito che la situazione del ricorrente differiva da quella del ricorrente nel caso Scoppola (sopra citata). richiamandosi, a sua volta, alla sentenza della Corte di Cassazione nel caso Giannone (si veda § 43 et seq.), la Corte di Assise d’Appello ha ritenuto che, nel caso del ricorrente, l’identificazione della pena applicabile fosse strettamente collegata al momento in cui egli aveva avuto accesso al rito abbreviato. 24. In sintesi, era la data della richiesta di ammissione al rito abbreviato a determinare la sanzione applicabile in relazione al reato commesso. 25. La Corte di Assise d’Appello ha quindi concluso che, conformemente alla consolidata giurisprudenza interna (si veda §§ 41-42), i principi stabiliti nel caso Scoppola (sopra citata) non potevano essere applicati al caso in esame. 26. Con riferimento alla questione di costituzionalità sollevata dal ricorrente, la Corte di Assise d’Appello ha ritenuto che il fatto che, nel caso di ercolano, la pena dell’imputato fosse divenuta definitiva non avesse alcun impatto sulle conclusioni della Corte Costitu zionale. In effetti, la natura sostanziale della riduzione della pena era strettamente collegata al tipo di procedimento seguito nel caso specifico. La Corte di Assise d’Appello ha ritenuto che la cosiddetta “legge di interpretazione autentica” (cioè, l’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000) fosse stata già giudicata “insostenibile” dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nel caso Scoppola, sopra citata) e dalla Corte Costituzionale (nella sentenza n. 210 del 2013), in quanto privava il potenziale beneficiario di una legittima aspettativa quando l’accesso al rito abbreviato fosse già avvenuto. tale tesi rimaneva valida indipendentemente dal fatto che il procedimento penale fosse definitivo (come nel caso ercolano) o pendente (come nel caso del ricorrente). VI. LA SEntEnzA DELLA CortE DI CASSAzIonE 27. Con la sentenza n. 26519 del 7 gennaio 2016, depositata presso la cancelleria il 24 giugno 2016, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile l’appello del ricorrente per motivi di diritto. Facendo affidamento sulla propria giurisprudenza (in particolare la sentenza n. 34233 del 19 aprile 2012, nota come Giannone; si veda § 43) e avallando le motivazioni dei giudici di grado inferiore, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nel caso del ricorrente, non si poneva alcuna questione in merito all’applicazione della normativa successiva più favorevole, considerando che al momento in cui egli aveva ottenuto il giudizio con rito abbreviato, era in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000. A tale riguardo, la circostanza sottolineata dal ricorrente che il procedimento nel suo caso era ancora pendente fosse irrilevante. Pertanto, il ricorrente non aveva diritto a una riduzione della pena poiché non aveva richiesto l’accesso al rito abbreviato secondo le disposizioni della legge n. 479 del 1999. 28. Confermando la motivazione dei giudici di grado inferiore, la Corte di Cassazione ha altresì respinto la richiesta del ricorrente di sollevare questione di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale. QUADro GIUrIDICo E PrASSI rILEVAntI I. QUADro GIUrIDICo nAzIonALE a. il rito abbreviato 29. Il rito abbreviato è disciplinato dagli articoli 438 e 441-443 del Codice di Procedura Penale. Si basa sul presupposto che un caso possa essere deciso allo stato degli atti all’udienza preliminare. La richiesta di procedere con il rito abbreviato può essere presentata oralmente o per iscritto in qualsiasi momento prima che le parti abbiano formulato le loro conclusioni all’udienza preliminare. Se si segue il rito abbreviato, l’udienza si svolge in forma non pubblica e seguono le richieste, oralmente formulate, dalle parti; in linea di principio, esse devono fondare le loro argomentazioni sugli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, sebbene, in via eccezionale, possa essere ammessa la prova testimoniale. Se il giudice dichiara l’imputato colpevole, la pena inflitta è ridotta di un terzo (articolo 442 § 2). B. modifica dell’articolo 442 del CPP tramite la legge n. 479 del 16 dicembre 1999 30. Con la legge n. 479 del 16 dicembre 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, il Parlamento ha reintrodotto la possibilità, in precedenza negata (si veda § 34), per un imputato passibile di ergastolo di optare per il rito abbreviato. L’articolo 30 prevede quanto segue: Articolo 30 “All’articolo 442 del codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni: ... (b) al comma 2, dopo il primo periodo è aggiunto il seguente: “Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta”. C. Decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000 31. Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore lo stesso giorno e convertito in legge n. 4 del 19 gennaio 2001, intendeva fornire “l’interpretazione autentica” della seconda frase del paragrafo 2 dell’Articolo 442 del c.p.p. e aggiunse una terza frase. 32. nella sezione intitolata “Interpretazione autentica dell’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per reati puniti con l’ergastolo”, l’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 prevedeva: Articolo 7 “1. nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno. 2. All’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”. 33. Le parti rilevanti delle disposizioni del CPP che disciplinano il rito abbreviato, come modificato dalla Legge n. 479 del 16 dicembre 1999 e dal decreto-legge n. 341 del 2000, recitano come segue: Articolo 438 “1. L’imputato può chiedere che il processo sia definito all’udienza preliminare allo stato degli atti ... 2. La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422. 3. La volontà dell’imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. 4. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato. 5. L’imputato ... può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione all’istruzione dibattimentale. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l’ammissione di prova contraria. ... ...” Articolo 441 “1. nel giudizio abbreviato si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare, fatta eccezione per quelle di cui agli articoli 422 e 423 [disposizioni che regolano il potere del giudice di disporre d’ufficio la produzione di prove essenziali e la possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione]. ... 3. Il giudizio abbreviato si svolge in camera di consiglio; il giudice dispone che il giudizio si svolga in pubblica udienza quando ne fanno richiesta tutti gli imputati. ... 5. Quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione. resta salva in tale caso l’applicabilità del- l’articolo 423. 6. All’assunzione delle prove di cui al comma 5 del presente articolo e all’articolo 438, comma 5, si procede nelle firme previste dall’articolo 422, comma 2, 3 e 4 [questi paragrafi consentono alle parti di porre domande ai testimoni e ai periti tramite il tramite del giudice e concedono all’imputato il diritto di chiedere di essere interrogato]”. Articolo 442 “1. terminata la discussione, il giudice provvede a norma degli articoli 529 e seguenti [queste disposizioni riguardano il proscioglimento, l’assoluzione e la condanna]. 1 bis. Ai fini della deliberazione il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo [cui si fa riferimento] di cui all’articolo 416, comma 2 [il fascicolo detenuto dall’ufficio del pubblico ministero sui passi compiuti nell’indagine preliminare], la documentazione di cui all’articolo 419, comma 3 [relativi ai passi compiuti nell’indagine successivi alla citazione a giudizio del- l’imputato] e le prove assunte nell’udienza. 2. In caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto. [Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta. Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno... è sostituita quella dell’ergastolo. 3. La sentenza è notificata all’imputato che non sia comparso. ...” Articolo 443 “1. L’imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento. ... 3. Il pubblico ministero non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato. 4. Il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall’articolo 599”. II. GIUrISPrUDEnzA nAzIonALE a. Giurisprudenza della Corte Costituzionale 1. Sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 23 aprile 1991 34. Con la sentenza n. 176 del 23 aprile 1991, la Corte Costituzionale ha annullato le disposizioni del CPP in base alle quali il rito abbreviato era stato reso disponibile per le persone accusate di reati punibili con l’ergastolo. Ha rilevato, in particolare, che tali disposizioni avevano ecceduto i poteri che il Parlamento aveva delegato al Governo con l’intento di adottare il nuovo CPP. 2. Sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 3 luglio 2013 35. Su rinvio della Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel caso n. 34472 del 10 settembre 2012 (noto come “ercolano ”), la Corte Costituzionale ha esaminato la questione della compatibilità dell’articolo 7 del Decreto-legge n. 341 del 2000 (si veda § 32) con la Costituzione Italiana e con la Convenzione, come interpretata nella sentenza Scoppola (sopra citata), con particolare riguardo all’effetto retroattivo di tale disposizione nei casi in cui gli imputati avessero richiesto di essere giudicati con il rito abbreviato mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999, ma fossero stati condannati in una fase successiva, ossia dal pomeriggio del 24 novembre 2000, quando era entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000, e avessero così subito la pena più grave prevista da tale decreto. 36. La sentenza della Corte Costituzionale è partita dal presupposto della corte remittente, secondo cui la questione di costituzionalità in esame riguardava casi identici a quello della sentenza Scoppola (sopra citata), cioè casi in cui la richiesta di essere giudicati con il rito abbreviato fosse stata formulata mentre era in vigore la legge n. 479 del 1999. 37. Le parti pertinenti di tale sentenza recitano come segue: “9. nel merito, ... ... La sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia ha affermato che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato » e che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non è in realtà una norma interpretativa, perché «l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell’ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno». Inoltre, aggiunge la sentenza Scoppola, «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l’art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo». Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento interno. ... In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il suo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione. La Corte EDU, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, che «l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato ». Si tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo è stato elevato al rango di principio della Convenzione. Posto questo principio la Corte ha rilevato che «l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa» e che «l’articolo 7 della Convenzione [...] imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente»”. 38. Su tali basi, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la questione relativa alla costituzionalità dell’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 in relazione all’articolo 7 della Convenzione fosse fondata e ha dichiarato che l’articolo 7(1) del decreto-legge n. 341 del 2000 fosse incostituzionale in quanto, nonostante fosse qualificato come legge di “interpretazione autentica” (si veda § 32 sopra), aveva ingiustamente determinato la sua applicazione retroattiva ai procedimenti in corso. 39. Allo stesso tempo, la Corte Costituzionale ha precisato che l’articolo 7(2) del decreto legge, che modifica l’articolo 442 § 2 del CPP, si limitava a stabilire le nuove norme relative al rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, da applicare “a regime” e quindi, nelle fattispecie successive alla sua entrata in vigore. Di conseguenza, l’opzione di un giudizio con rito abbreviato per imputati passibili di ergastolo (con o senza isolamento diurno) rimaneva aperta, ma con un diverso quadro sanzionatorio. 40. Infine, la Corte Costituzionale ha chiarito che la revisione dell’ordinanza di esecuzione fosse il procedimento appropriato per ottenere una riduzione della pena nei casi in cui la condanna dell’imputato fosse divenuta definitiva. Ciò riguardava, in particolare, casi identici a quello di Scoppola (ibid.), ossia quelli in cui un ricorrente fosse stato giu dicato con il rito abbreviato a seguito di una richiesta presentata mentre era in vigore la Legge n. 479 del 1999. B. Giurisprudenza della Corte di Cassazione 1. le sentenze della Corte di Cassazione successive alla sentenza Scoppola 41. A seguito della sentenza della Corte nel caso Scoppola (sopra citata), molti condannati a pena dell’ergastolo hanno chiesto la revisione degli ordini di esecuzione, richiedendo che la loro pena fosse ridotta a trent’anni di reclusione. I tribunali nazionali, in qualità di giudici dell’esecuzione, hanno rigettato tali istanze; gli imputati hanno quindi proposto ricorso in punto di diritto. 42. La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che solo gli imputati che avevano optato per il giudizio con giudizio abbreviato tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2000 ossia, tra l’entrata in vigore della legge n. 479 del 16 dicembre 1999 e l’entrata in vigore del decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000 -avevano diritto alla riduzione della pena (si veda, inter alia, le sentenze n. 8689 del 2 dicembre 2011, n. 25227 del 10 gennaio 2012, n. 5134 dell’11 febbraio 2012 e n. 48329 del 13 novembre 2012). 2. Sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 34233 del 19 aprile 2012 (nota come “Giannone ”) 43. Con la sentenza n. 34233, depositata presso la cancelleria il 7 settembre 2012, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che i principi enunciati nella sentenza Scoppola (sopra citata) dovessero essere letti insieme alle norme procedurali che regolano il rito abbreviato. In tal senso, la data della presentazione della richiesta di giudizio con rito abbreviato è stata considerata l’elemento determinante, unitamente al tempus commissi delicti (cioè, il momento della commissione del reato), per stabilire quale legge fosse applicabile nella determinazione della pena rilevante. 44. Secondo la Corte di Cassazione, la questione della successione delle leggi penali esaminata nella sentenza Scoppola (sopra citata) sorge esclusivamente nei casi in cui l’imputato abbia richiesto di essere giudicato con rito abbreviato secondo la lex mitior -vale a dire, tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 2000 -acquisendo così il diritto alla pena più mite di trent’anni di reclusione. 45. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato che, alla luce dell’articolo 7 della Convenzione, interpretato nella sentenza Scoppola (sopra citata), il principio di retroattività della lex mitior garantiva che la durata del procedimento non pregiudicasse l’imputato, che avrebbe potuto incorrere in una pena più severa rispetto a quella applicabile se il procedimento fosse terminato prima. La Corte ha quindi considerato che la legge applicabile più favorevole dovesse essere identificata in un periodo diverso da quello di riferimento nei processi condotti con rito ordinario. Infatti, mentre in quest’ultimo caso il periodo di riferimento andava dalla data della commissione del reato fino alla data della condanna definitiva, nei processi condotti con rito abbreviato la legge applicabile più favorevole doveva essere identificata nel periodo compreso tra la richiesta di giudizio con rito abbreviato e la data della condanna definitiva. Secondo la Corte di Cassazione, qualora la pena applicabile fosse stata riesaminata e ridotta a seguito della decisione dell’imputato di essere giudicato con rito abbreviato, non si poteva considerare solo il momento della commissione del reato, poiché l’identificazione della pena applicabile era strettamente legata all’accesso dell’imputato al rito abbreviato. 46. In sintesi: “È tale richiesta [per il rito abbreviato], in definitiva, a cristallizzare, in relazione al reato o ai reati per i quali si procede, il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa”. 47. La Corte ha concluso che, qualora un imputato, come nel caso in esame, avesse optato per il giudizio con rito abbreviato dopo l’entrata in vigore dell’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 (che prevedeva che la pena di trent’anni di reclusione fosse sostituita dalla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno), non vi sarebbe stata alcuna violazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole, né sarebbe stata frustrata alcuna aspettativa legittima dell’imputato, poiché durante il periodo di riferimento (dalla richiesta di giudizio con rito abbreviato fino alla data della condanna definitiva) l’ordinamento giuridico non prevedeva la possibilità di essere condannati a trent’anni di reclusione. 3. la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 18821 del 7 maggio 2014 (nota come “Ercolano”) 48. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 2013 (si veda § 35) e in conformità con la precedente sentenza Giannone (si veda § 43), con la sentenza n. 18821 del 7 maggio 2014, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che i giudici del- l’esecuzione avevano l’obbligo di ridurre le pene dell’ergastolo inflitte a coloro che avevano optato per il rito abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000, indipendentemente dal fatto che fosse stato presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 49. La motivazione della sentenza, per quanto rilevante, recita come segue: “5. ... La richiesta di giudizio abbreviato formulata nel vigore della così detta “legge intermedia”, L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b), in relazione ai reati punibili con l’ergastolo individua, pertanto, il più mite trattamento sanzionatorio da applicare in caso di condanna, nulla rilevando che, nel momento in cui interviene la relativa decisione, il corrispondente quadro normativo risulta essere stato -medio tempore -modificato in senso più rigoroso.. ... 5.1 Conclusivamente, con riferimento al mutamento di disciplina della pena, la regola in esame opera nell’ipotesi in cui la fattispecie complessa a cui innanzi si faceva cenno risulti essere stata integrata in tutte le sue componenti durante la vigenza della lex mitior intermedia, vale a dire tra il 2 gennaio e il 23 novembre 2000: in particolare, l’interessato deve avere chiesto, in tale arco temporale, l’accesso al rito semplificato, evento processuale -questo -che, come si è detto, cristallizza la pena meno severa in quel momento prevista, attribuendo al dato normativo di riferimento efficacia retroattiva rispetto alla data di consumazione del fatto- reato (se risale ad epoca in cui l’accesso al rito non era consentito) e ultrattiva rispetto al superamento del citato dato normativo ad opera della legge successiva più severa. ...”. 50. A seguito delle sentenze Giannone ed ercolano, la Corte di Cassazione ha mantenuto un orientamento costante nel rifiutare l’applicazione dei principi stabiliti nella sentenza Scoppola (sopra citata) a persone condannate all’ergastolo in procedimenti che non erano identici a quelli di quel caso, in quanto gli imputati non avevano chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato previsto dalla legge n. 479 del 1999 o, se lo avevano fatto, avevano successivamente ritirato la richiesta (si veda, inter alia, Corte di Cassazione, n. 15748 del 21 gennaio 2014, n. 34158 del 1 agosto 2014, n. 7162 del 21 dicembre 2015, e n. 11916 del 21 novembre 2018). III. rACComAnDAzIonE DEL ConSIGLIo D’EUroPA 51. La raccomandazione n. r (87) 18 del Comitato dei ministri agli Stati membri riguarda la semplificazione della giustizia penale. tale raccomandazione, che si riferisce al giudizio abbreviato e semplificato, è stata adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 17 settembre 1987. Le parti rilevanti recitano come segue: “Visto l’aumento del numero dei casi penali sottoposti ai tribunali, e in particolare quelli che comportano pene minori, nonché i problemi causati dalla durata delle procedure penali; Considerato che il ritardo nel trattare i crimini porta la giustizia penale in cattiva luce e compromette il corretto svolgimento dell’amministrazione della giustizia; Considerato che i ritardi nell’amministrazione della giustizia penale potrebbero essere rimediati non solo con l’assegnazione di risorse specifiche e il modo in cui tali risorse sono utilizzate, ma anche con una definizione più chiara delle priorità per la conduzione della politica criminale, sia sotto il profilo formale che sostanziale, attraverso: ... - l’adozione delle seguenti misure per il trattamento dei reati minori e di massa: -i cosiddetti procedimenti abbreviati, -le soluzioni extragiudiziali da parte delle autorità competenti in materia penale e altre autorità intervenienti, come possibile alternativa all’azione penale, - le cosiddette procedure semplificate; - la semplificazione delle procedure giuridiche ordinarie; ... III. Semplificazione delle procedure giuridiche ordinarie a. indagine giudiziaria preliminare e in sede di udienza di primo grado ... 4. Qualora vi sia un’indagine preliminare, questa deve essere svolta secondo una procedura che escluda tutte le formalità superflue e, in particolare, eviti la necessità di un’udienza formale dei testimoni nei casi in cui l’imputato non contesti i fatti. ...”. In DIrItto I. AmmISSIBILItÀ 52. La Corte osserva che il ricorso non è manifestamente infondato né inammissibile per altri motivi previsti dall’articolo 35 della Convenzione. Deve pertanto essere dichiarato ammissibile. II. mErIto a. La presunta violazione dell’articolo 7 della Convenzione 53. Il ricorrente ha lamentato che, essendo stato condannato all’ergastolo, gli fosse stata inflitta una pena più severa di quella prescritta dalla legge che, tra tutte le leggi in vigore nel periodo intercorso tra la commissione del reato e l’emissione della sentenza definitiva, era la più favorevole a lui. 54. Egli ha sostenuto, in particolare, che nel corso del procedimento penale a suo carico, i tribunali nazionali avevano “inventato un nuovo criterio”, comportante la necessità di aver richiesto il giudizio secondo il rito abbreviato durante il periodo in cui era in vigore la legge n. 479 del 1999. Secondo il ricorrente, invece, ciò che contava per poter beneficiare della sanzione più favorevole era il fatto che i reati per i quali era giudicato si fossero verificati prima dell’entrata in vigore della legge più favorevole. Il ricorrente ha invocato l’articolo 7 della Convenzione, il quale dispone quanto segue: “1. nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. 1. le osservazioni delle parti (a) Le osservazioni del ricorrente 55. Il ricorrente ha fatto affidamento sulle conclusioni della Corte nella causa Scoppola c. italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 113, 17 settembre 2009, nel senso che l’articolo 442 § 2 del CPP costituiva una disposizione di diritto penale sostanziale riguardante la durata della pena da infliggere in caso di condanna a seguito di giudizio abbreviato. 56. Il ricorrente ha sostenuto che, essendo stato giudicato con rito abbreviato, aveva diritto alla pena più mite prevista dalla legge per tale procedimento (vale a dire trent’anni di reclusione ai sensi dell’articolo 442 § 2 del CPP, come modificato dalla legge n. 479 del 1999; si veda § 30). (b) Le osservazioni del Governo 57. Il Governo ha sottolineato che la situazione del ricorrente differiva da quella esaminata nel caso Scoppola (sopra citata). A differenza del ricorrente in quel caso, il ricorrente nel caso presente aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato in un momento in cui la pena massima applicabile per i reati cumulativi previsti da tale procedimento era già stata modificata da trent’anni di reclusione all’ergastolo senza isolamento diurno. In tale contesto, il Governo ha osservato che, a differenza del ricorrente in Scoppola (ibid.), il ricorrente nel presente caso non era stato direttamente influenzato dall’applicazione retroattiva dell’articolo 7 del de- creto-legge n. 341 del 2000. Ha inoltre rilevato che, nel caso Scoppola (ibid.), la Corte aveva concluso che l’articolo 7 della Convenzione era stato violato nei confronti di quei convenuti che avevano fatto richiesta di giudizio con rito abbreviato prima del 24 novembre 2000, incluso il ricorrente in quel caso. 58. Per quanto riguarda i principi applicabili alla successione delle leggi penali, il Governo ha sottolineato che occorre distinguere tra due tipi di disposizioni: quelle che regolano direttamente la pena applicabile per ciascun reato e quelle relative a procedure speciali (come il rito abbreviato), che potrebbero influire solo indirettamente sulla pena. nei casi riguardanti il secondo tipo di disposizione, l’imputato ha stipulato un accordo con lo Stato, come parte della sua strategia difensiva. Di conseguenza, la data in cui tale accordo era stato raggiunto è risultata determinante per stabilire la pena applicabile che l’imputato rischiava di incorrere, in conformità ai principi stabiliti dalla Corte di Cassazione nella sentenza Giannone (si veda § 43). 59. In sintesi, il periodo di tempo per individuare la disposizione più favorevole ai sensi della legge penale decorreva dalla data della richiesta di giudizio con rito abbreviato fino alla data della condanna. 60. Pertanto, il Governo ha contestato che vi fosse stata un’applicazione retroattiva della legge penale a detrimento del ricorrente nel suo caso. 2. Valutazione della Corte (a) Principi Generali 61. La Corte ribadisce che la garanzia sancita dall’articolo 7, che costituisce un elemento essenziale dello Stato di diritto, occupa un posto di rilievo nel sistema di protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non è consentita alcuna deroga a tale garanzia ai sensi dell’Articolo 15, nemmeno in tempo di guerra o altra emergenza pubblica che minacci la vita della nazione. tale garanzia deve essere interpretata e applicata, come emerge dal suo oggetto e scopo, in modo da fornire tutele efficaci contro procedimenti penali, condanne e punizioni arbitrarie (si veda Del río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 77, CEDU 2013; Vasiliauskas c. lituania [GC], n. 35343/05, § 153, CEDU 2015; e ilnseher c. Germania [GC], nn. 10211/12 e 27505/14, § 202, 4 dicembre 2018). 62. La Corte ribadisce che l’articolo 7 della Convenzione non solo garantisce il principio della non retroattività delle leggi penali più severe, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale più favorevole. tale principio è incarnato dalla regola secondo cui, qualora vi siano differenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima che venga emessa una sentenza definitiva, i tribunali devono applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato (si veda Scoppola, sopra citata, § 109; Parere consultivo sulla tecnica del “rinvio generale” o “rinvio per definizione” nella definizione di un reato e sugli standard di confronto tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e la legge penale modificata, [GC], richiesta n. P16-2019-001, Corte costituzionale armena, § 81, 29 maggio 2020 (“Parere consultivo P16-2019-001”); e Jidic c. romania, n. 45776/16, § 80, 18 febbraio 2020). Il principio di applicazione retroattiva della legge penale più favorevole si applica anche nel contesto di una modifica relativa alla definizione del reato (si veda Parmak e bakır c. turchia, nn. 22429/07 e 25195/07, § 64, 3 dicembre 2019, e Parere consultivo P16-2019001, sopra citata, § 82). 63. non è compito della Corte esaminare in abstracto se la mancata applicazione retroattiva della nuova legge penale sia, di per sé, incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione. Questa questione deve essere valutata caso per caso, tenendo in considerazione le circostanze specifiche di ciascun caso, in particolare se i tribunali nazionali abbiano applicato la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato (si veda Maktouf e Damjanović c. bosnia ed erzegovina [GC], nn. 2312/08 e 34179/08, § 65, CEDU 2013, e Jidic, sopra citata, § 82). Ciò che è cruciale è stabilire se, a seguito di una valutazione concreta degli atti specifici, l’applicazione di una legge penale piuttosto che di un’altra abbia posto l’imputato in una situazione di svantaggio per quanto riguarda la pena inflitta (si veda Maktouf e Damjanović, sopra citata, §§ 69-70, e Jidic, sopra citata, § 85). (b) applicazione dei principi sopra indicati al caso di specie 64. non è contestato che, nel caso in esame, i reati di cui l’imputato era accusato erano punibili cumulativamente con l’ergastolo e l’isolamento diurno e che, all’epoca in cui furono commessi, nel 1983, il CPP non prevedeva la possibilità di un giudizio secondo il rito abbreviato (si veda § 6). 65. Il ricorrente è stato rinviato a giudizio per la prima volta nel 1995, momento in cui, alla luce della sentenza n. 176 del 1991 della Corte Costituzionale (si veda § 34), gli era ancora precluso il ricorso al giudizio abbreviato. 66. Quando la legge n. 479 del 1999 ha reintrodotto la possibilità per gli imputati punibili con l’ergastolo di optare per il giudizio abbreviato e, di conseguenza, di affrontare una pena massima di trent’anni di reclusione, il procedimento relativo al caso del ricorrente era pendente in primo grado. 67. In conformità con le disposizioni transitorie contenute nell’articolo 4-ter del Decreto- legge n. 82 del 2000, entrato in vigore l’8 giugno 2000, era consentito agli imputati di richiedere il giudizio abbreviato alla prima udienza utile. tuttavia, il ricorrente non ha usufruito di tale possibilità (si veda §§ 8-9). 68. La Corte osserva che la condanna in primo grado del ricorrente è stata annullata dalla Corte di Assise di Appello di napoli, la quale ha rimesso il caso al pubblico ministero per un nuovo rinvio a giudizio dinanzi al tribunale competente (si veda § 13). Il 2 ottobre 2012, una volta nuovamente rinviato a giudizio, il ricorrente ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato (si veda § 14). Al ricorrente è stato concesso l’accesso a tale rito e, a seguito del giudizio, è stato condannato all’ergastolo senza isolamento diurno (si veda § 17). 69. La Corte prende atto del fatto, sottolineato dal Governo e derivante dalle decisioni nazionali sul merito del caso, così come dalla giurisprudenza nazionale consolidata, che, a differenza del ricorrente nel caso Scoppola (sopra citata), il ricorrente nel caso in esame ha richiesto il giudizio abbreviato molto tempo dopo che il quadro normativo in materia di condanna nel giudizio abbreviato era stato modificato in termini più severi, poiché il termine massimo di trent’anni di reclusione era stato sostituito con l’ergastolo senza isolamento diurno dall’articolo 7 del Decreto-legge n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000. 70. In questo contesto, la questione a cui la Corte deve rispondere è se, alla luce dei principi stabiliti nel caso Scoppola (sopra citata), il periodo di tempo entro il quale deve essere individuata la legge più favorevole debba decorrere in abstracto dalla commissione del reato fino alla condanna definitiva o se, quando si tratta di procedure semplificate -che dipendono da una richiesta dell’imputato -il periodo debba iniziare dal momento in cui tale richiesta è formulata. Infatti, è in quel momento che l’imputato acquisisce il diritto di beneficiare della riduzione di pena derivante dalla sua scelta di rinunciare a determinati diritti processuali. 71. La Corte ribadisce sin dall’inizio che il principio di retroattività della legge penale più favorevole implica che, laddove vi siano differenze tra la legge penale vigente al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima che venga emessa una sentenza definitiva, i tribunali devono applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato (si veda Scoppola, sopra citata, § 109). 72. osserva inoltre che le parti non erano d’accordo sull’identificazione dell’articolo 442 § 2 del CPP, come modificato dalla legge n. 479 del 1999, come legge penale più favorevole nel caso in questione. 73. Infatti, il ricorrente, facendo affidamento sulla sentenza Scoppola (sopra citata, § 119), ha sostenuto che tale disposizione conteneva la pena più lieve prevista dalla legge nel contesto del giudizio abbreviato tra tutte le leggi emanate tra il momento della commissione dei suoi reati e l’emissione della sentenza definitiva. 74. Al contrario, secondo il Governo e la giurisprudenza nazionale su cui esso si basava (nello specifico la sentenza Giannone delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; si veda § 43), era la data della richiesta dell’imputato di essere giudicato con rito abbreviato a segnare l’inizio del periodo di tempo da prendere in considerazione per l’identificazione della legge che prescriveva la pena più lieve. Da questo punto di vista, quindi, la pena di trent’anni di reclusione prevista dalla legge n. 479 del 1999 sarebbe stata la pena più lieve solo se l’imputato avesse richiesto di essere giudicato con rito abbreviato quando le disposizioni di tale legge erano in vigore, cosa che il ricorrente non aveva fatto. 75. La Corte ribadisce che il suo esame non comporta una valutazione in abstracto circa la questione se la mancata applicazione retroattiva della nuova legge penale sia, per se, incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione, poiché tale esame deve essere effettuato tenendo conto delle circostanze specifiche di ciascun caso (si veda Jidic, sopra citata, § 85; Maktouf e Damjanović, sopra citata, § 65; e Mørck Jensen c. Danimarca, n. 60785/19, § 45, 18 ottobre 2022). 76. La Corte osserva inoltre che l’introduzione del giudizio abbreviato da parte del legislatore italiano mirava espressamente a semplificare e quindi accelerare i procedimenti penali, e che la raccomandazione n. r (87) 18 del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla semplificazione della giustizia penale (si veda § 51) sollecitava gli Stati membri, tenendo conto dei principi costituzionali e delle tradizioni giuridiche specifiche di ciascuno Stato, a introdurre procedure semplificate e sommarie (quest’ultime anche denominate “patteggiamento” -“plea bargaining” o “transazioni penali” -“transactions pénales”), con l’obiettivo specifico di affrontare i problemi posti dalla durata dei procedimenti penali (si veda Di Martino e Molinari c. italia, nn. 15931/15 e 16459/15, § 34, 25 marzo 2021). 77. In tale contesto, la Corte non può trascurare il fatto che, come evidenziato nella prassi nazionale (si veda paragrafi 43 et seq.), nel contesto del giudizio abbreviato, gli aspetti sostanziali e procedurali sono strettamente interconnessi, in quanto il giudizio abbreviato consiste in un accordo tra l’imputato e lo Stato, in base al quale l’imputato rinuncia a una serie di garanzie procedurali in cambio di una riduzione fissa della pena (si veda Scoppola, sopra citata, § 143). 78. La Corte ribadisce che, mentre l’articolo 7 della Convenzione garantisce che i reati e le relative pene siano chiaramente definiti dal diritto penale sostanziale, esso non stabilisce alcun requisito relativo alla procedura con cui tali reati devono essere indagati e portati a processo (si veda Khodorkovskiy e lebedev c. russia, nn. 11082/06 e 13772/05, § 789, 25 luglio 2013). La Corte ritiene che le scelte procedurali dell’imputato e i successivi termini di qualsiasi accordo tra l’imputato e lo Stato siano determinanti per quanto riguarda la pena applicabile, poiché la durata della pena ridotta che può essere inflitta in caso di condanna è chiaramente identificata dalla legge in vigore al momento dell’accordo a cui l’imputato aderisce. 79. Infatti, è la pena applicabile al momento dell’accordo in questione che l’imputato sceglie di accettare; pertanto, è quella pena che deve essere confrontata con le pene successive previste dal legislatore nel contesto del giudizio abbreviato per identificare la legge più favorevole, mentre le pene applicabili nell’ambito del giudizio abbreviato prima che l’imputato abbia scelto di essere giudicato con tale procedimento rimangono inapplicabili alla sua situazione specifica. 80. Di conseguenza, è in tale contesto che deve essere valutato se i tribunali nazionali si siano conformità all’obbligo di applicare, tra diverse leggi penali, quella le cui disposizioni sono le più favorevoli all’imputato (si veda Scoppola, sopra citata, § 108). Infatti, pur rimanendo valido il principio secondo cui, in presenza di differenze tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali successive emanate prima della pronuncia di una sentenza definitiva, i tribunali devono applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato, si deve tenere debito conto del fatto che il legislatore può legittimamente subordinare l’applicazione di alcune o tutte le disposizioni successive di legge a eventi specifici, come -in particolare -una richiesta da parte dell’imputato e/o l’accordo del- l’imputato, entro un termine stabilito, per essere giudicato con il rito abbreviato (si veda, mutatis mutandis, Di Martino e Molinari, citati sopra, §§ 34 et seq.). 81. A questo proposito, la Corte osserva che, a differenza del ricorrente nella causa Scoppola (sopra citata), il quale richiese il giudizio abbreviato all’udienza preliminare immediatamente dopo l’emanazione della Legge n. 479 del 1999, nel caso di specie il ricorrente non si avvalse della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato alla prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999, come avrebbe avuto diritto a fare in base alle disposizioni transitorie rilevanti. Al contrario, scelse deliberatamente di presentare tale richiesta diversi anni dopo, dopo essere stato nuovamente rinviato a giudizio, il 2 ottobre 2012 (si veda § 14). 82. A quel momento, come ulteriormente confermato dalla Corte costituzionale (si veda sentenza n. 210 del 2013, citata nel paragrafo 39), l’articolo 442 § 2 del CPP, come modificato dall’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, prevedeva che, in caso di condanna nel rito abbreviato per reati punibili con l’ergastolo con isolamento diurno, la pena appropriata sarebbe stata l’ergastolo senza isolamento diurno. Pertanto, al momento in cui il ricorrente richiese il giudizio abbreviato, la pena della reclusione a trent’anni non era più una sanzione possibile per i reati di cui era accusato nel suo processo con tale rito. 83. La Corte è consapevole delle seguenti considerazioni enunciate in Scoppola (sopra citata, § 115, enfasi aggiunta): “... Considerato il fatto che, su richiesta del ricorrente, il GUP ha poi accettato di applicare il giudizio abbreviato ..., la Corte ritiene che l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa. L’articolo 7 della Convenzione, così come interpretato nella presente sentenza ..., imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente”. Infatti, piuttosto che essere considerata in abstracto, l’identificazione della legge più favorevole tra tutte le leggi in vigore durante il periodo tra la commissione del reato e la pronuncia della sentenza definitiva (ibid., § 119) era strettamente legata, nel caso in esame, all’accordo del tribunale nazionale alla richiesta del ricorrente di essere giudicato con il rito abbreviato. 84. La Corte osserva, inoltre, che la legge italiana offre all’imputato la possibilità di scegliere tra diverse procedure, alcune delle quali concedono un beneficio sotto forma di una riduzione della pena in cambio della rinuncia a determinate garanzie procedurali. Esistono diversi percorsi procedurali di questo tipo e relative pene a disposizione dell’imputato. occorre considerare il passaggio da un percorso all’altro, con la relativa riduzione delle pene, che dipende dalle scelte procedurali e difensive effettuate dall’imputato e gioca un ruolo (dalla commissione del reato alla condanna definitiva) nel determinare il momento di inizio del periodo di tempo entro cui identificare la pena più mite, fino alla pronuncia definitiva della causa. Pertanto, le pene astrattamente applicabili nel rito abbreviato prima che l’individuo faccia una scelta non devono essere considerate tra quelle rilevanti per l’identificazione della lex mitior in un caso dato, poiché non riguardano gli strumenti giuridici applicabili in concreto nella situazione dell’imputato. Una conclusione contraria minerebbe la logica sottesa all’offerta di un beneficio in cambio della rinuncia a garanzie procedurali, che è al centro della scelta del legislatore italiano di accelerare i procedimenti penali in tale maniera (si veda §§ 51 e 76). 85. nelle circostanze del caso in esame, è pertanto la data della richiesta del ricorrente di essere giudicato con il rito abbreviato che segna l’inizio del periodo di tempo da prendere in considerazione per l’identificazione della legge che prescrive la pena più mite. La Corte concorda, inoltre, con le argomentazioni del Governo, basate sulla giurisprudenza interna rilevante menzionata nelle decisioni sul merito del caso del ricorrente (si vedano le sentenze della Corte di Cassazione Giannone ed ercolano citate ai §§ 43-49 e la sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013, citata nei §§ 35 et seq.), secondo cui i fatti del caso in esame differiscono da quelli della causa Scoppola (sopra citata), in quanto il ricor rente aveva richiesto, e gli era stato concesso, il giudizio con il rito abbreviato in un momento in cui la legge n. 479 del 1999 non era più in vigore e, in ogni caso, molto tempo dopo che il quadro normativo interno in materia di determinazione delle pene era stato modificato in termini più severi. 86. A tale proposito, il ricorrente non ha fornito alcuna ragione che potesse giustificare la sua tardiva richiesta e la sua scelta di non presentare tale richiesta mentre la legge n. 479 del 1999 era in vigore, pur essendogli possibile farlo (si vedano §§ 55-56). 87. Considerando l’interazione tra gli aspetti sostanziali e procedurali nel contesto del rito abbreviato (si veda § 77), la Corte ritiene che, avendo scelto il rito abbreviato in un momento in cui le disposizioni della legge n. 479 del 1999, che prevedevano una pena massima di trent’anni di reclusione, erano state sostituite da quelle dell’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che prevedevano una pena massima di ergastolo senza isolamento diurno, il ricorrente non avesse più diritto a una pena di trent’anni di reclusione. 88. tenuto conto del fatto che, su richiesta del ricorrente, il giudice dell’udienza preliminare ha acconsentito all’applicazione del rito abbreviato, che non era disponibile al momento della commissione dei reati, la Corte ritiene che l’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, in vigore al momento della richiesta del ricorrente di essere giudicato con il rito abbreviato, costituisca una disposizione penale successiva che prevede una pena più mite. 89. Alla luce di quanto sopra, la Corte conclude che, avendo condannato il ricorrente all’ergastolo senza isolamento diurno ai sensi di tale disposizione, i tribunali interni hanno effettivamente applicato la pena più mite nel suo caso (si veda, mutatis mutandis, ruban c. Ucraina, n. 8927/11, § 46, 12 luglio 2016). 90. ne consegue che non vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione. B. Presunta violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione 91. La Corte ha sottoposto alle parti, d’ufficio, una questione ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione riguardante l’aspettativa del ricorrente di incorrere in una pena massima di trent’anni di reclusione a seguito del giudizio con il rito abbreviato. L’articolo 6 § 1 recita: “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente… da un tribunale … chiamato a pronunciarsi … sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”. 1. le osservazioni delle parti 92. Il ricorrente non ha presentato osservazioni in merito a tale questione. 93. Il Governo ha osservato che il ricorrente non poteva nutrire alcuna legittima aspettativa di incorrere in una pena diversa dall’ergastolo, poiché aveva richiesto il rito abbreviato dopo l’emanazione della legge che prevedeva una pena più severa (cioè il decreto-legge n. 341 del 2000). 2. Valutazione della Corte 94. La Corte ribadisce che, sebbene gli Stati contraenti non siano obbligati dalla Convenzione a prevedere procedure semplificate (si vedano Hany c. italia (dec.), n. 17543/05, 6 novembre 2007, e Morabito c. italia (dec.) n. 21743/07, 27 aprile 2010), laddove tali procedure esistano e siano state adottate, i principi di un equo processo richiedono che gli imputati non siano arbitrariamente privati dei vantaggi loro collegati (si veda Scoppola, sopra citata, § 139). 95. nel caso di specie, è indiscusso che, richiedendo il rito abbreviato, il ricorrente, assistito da un avvocato di sua fiducia e quindi in grado di verificare le conseguenze di tale richiesta, abbia inequivocabilmente rinunciato al suo diritto all’udienza pubblica, a convocare testimoni, a produrre nuove prove e a controesaminare i testimoni dell’accusa (ibid.). 96. La Corte osserva che tale rinuncia è stata fatta in cambio di determinati vantaggi, che, al momento della presentazione della richiesta del ricorrente, il 2 ottobre 2012, includevano la non imposizione dell’isolamento diurno con la pena dell’ergastolo in caso di condanna, come previsto dall’articolo 442 § 2 del CPP come modificato dall’articolo 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000. 97. Sulla base del quadro giuridico vigente al momento della richiesta della procedura semplificata, il ricorrente non poteva legittimamente aspettarsi di ricevere una pena diversa dal- l’ergastolo senza isolamento diurno, in conseguenza della scelta procedurale da lui compiuta. 98. Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che l’imposizione di tale pena fosse prevedibile e, pertanto, non abbia violato il diritto del ricorrente a un equo processo. ne consegue che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. PEr QUEStI motIVI, LA CortE 1. Dichiara, all’unanimità, il ricorso ammissibile; 2. ritiene, con sei voti contro uno, che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 7 della Convenzione; 3. ritiene, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. redatto in inglese e notificato per iscritto il 17 ottobre 2024, ai sensi dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento della Corte. La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sulla nozione di vittima e su quella di rimedio interno effettivo, nel caso di presunte violazioni del diritto alla privacy Nota a Corte eDU, Sez. i, SeNt. 28 NoVeMbre 2024, riCorSo N. 25578/11, CaUSa CaSariNi C. italia Emanuele Feola* Con la decisione in commento, la prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata su due questioni di rilievo: a) la nozione di “vittima”, necessaria per adire la Corte; e b) quella di rimedio interno “effettivo”, che gli interessati sono tenuti ad esperire prima di proporre un ricorso in sede sovranazionale, nel caso di presunte violazioni del diritto al corretto trattamento dei propri dati personali. Il caso trae origine da una fuga di dati contenuti nel “Servizio per le informazioni sul contribuente”, denominato -per brevità -“Serpico”, che raccoglie le informazioni provenienti dalle dichiarazioni e dalle denunce indirizzate agli uffici delle autorità finanziarie, aventi rilevanza a fini fiscali. nella specie, era accaduto che un funzionario pubblico aveva estratto dalla suddetta banca dati delle informazioni relative al ricorrente per cederle -successivamente -ad un giornalista, che lavorava per una nota rivista italiana. tale vicenda si concludeva, in sede nazionale, con una sentenza di patteggiamento e con una sanzione disciplinare nei confronti del suddetto funzionario pubblico; tuttavia, l’interessato riteneva non satisfattivi i suddetti esiti penali e disciplinari, dato che essi non avevano garantito -in concreto -il corretto trattamento dei propri dati personali contenuti nel servizio informativo denominato “Serpico” da parte dell’Amministrazione e di eventuali soggetti terzi. La Corte, dopo aver sussunto il caso entro l’ambito di applicazione ratione materiae dell’art. 8 CEDU, ha affrontato due problematiche, ossia: a) la possibilità di qualificare il ricorrente quale “vittima” di una violazione della CEDU; e b) quella relativa al previo esaurimento dei “rimedi interni” da parte del medesimo. In ordine alla prima questione, la Corte ha ribadito che l’art. 34 CEDU non introduce un’actio popularis; di conseguenza, i ricorrenti non possono lamentarsi di una disposizione di diritto interno, di una pratica nazionale o di un determinato provvedimento amministrativo semplicemente perché potrebbero porsi in contrasto con la Convenzione. In effetti, per presentare un ricorso alla CEDU, occorre rivestire in concreto lo status di “vittima”, che ricomprende soltanto le seguenti categorie di (*) Avvocato dello Stato. soggetti: a) le persone direttamente colpite dalla presunta violazione (“vittime dirette”); b) quelle indirettamente colpite (“vittime indirette”); e c) quelle potenzialmente colpite (“vittime potenziali”). In ogni caso, sia che la vittima sia diretta, indiretta o potenziale, deve sempre esistere uno specifico “legame” tra l’interessato e il danno che egli afferma di aver patito, a causa della presunta violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli. nel caso di specie, la Corte ha, quindi, escluso che l’interessato rivestisse lo status di “vittima” in merito all’utilizzo dei suoi dati personali da parte di soggetti terzi, dato che -in relazione a tale circostanza -egli non aveva né allegato nè provato di aver subito un concreto pregiudizio della propria sfera personale, neppure di carattere meramente “potenziale”. Al contrario, la Corte ha ritenuto che egli potesse rivestire lo status formale di “vittima” con riguardo alle modalità di trattamento dei propri dati personali da parte dell’Amministrazione. tuttavia, in ordine a tale aspetto concernente la disciplina e i controlli sul corretto utilizzo della banca dati “Serpico”, la Corte ha escluso che egli avesse esperito tutti i rimedi previsti dal diritto interno. Il Governo italiano, in effetti, aveva sottolineato nelle proprie difese come -al fine di garantire la gestione corretta dei suoi dati personali da parte del responsabile del trattamento -il ricorrente avesse a disposizione la procedura di reclamo prevista dal Codice della Privacy. La parte privata ha contestato la suddetta eccezione di inammissibilità del ricorso, ritenendo che il reclamo in questione non costituisse un rimedio interno “effettivo”, perché deciso da un’autorità amministrativa e non da un organo giurisdizionale, come invece imporrebbe la Convenzione. tuttavia, la Corte non ha condiviso tali argomentazioni, svolgendo una approfondita analisi circa la natura giuridica del Garante per la protezione dei dati personali e del procedimento, che si celebra davanti al medesimo in caso di reclamo relativo alle modalità di trattamento dei dati personali. A questo proposito, la Corte ha ribadito che la propria giurisprudenza non richiede che tutti i rimedi previsti dal diritto interno abbiano natura giurisdizionale (cfr., ad esempio, rotaru c. romania [GC], n. 28341/95, § 69, ECHr 2000-V; Driza c. albania, n. 33771/02, § 116, 13 novembre 2007; e abdilla c. Malta, n. 36199/15, § 69, 17 luglio 2018). Peraltro, nel caso in cui essi non abbiano tale natura, occorre valutare caso per caso se essi siano decisi da organismi autonomi e indipendenti (cfr. Khan c. regno Unito, n. 35394/97, §§ 44-47, ECHr 2000-V) e se siano assicurate all’interessato sufficienti garanzie di carattere procedurale (cfr. allanazarova c. russia, n. 46721/15, § 93, 14 febbraio 2017). nel valutare tali aspetti, la Corte è, dunque, giunta alla conclusione che il Garante della Privacy è “un organismo amministrativo indipendente, pienamente autonomo e con indipendenza nella decisione e valutazione del caso”. In effetti, i suoi membri sono nominati dal Parlamento proprio tra persone in grado di dimostrare la loro assoluta indipendenza da “pressioni esterne” e, in particolare, dagli organi del potere esecutivo. Per quanto riguarda poi le garanzie di carattere procedurale, la Corte ha osservato che, nei procedimenti davanti all’Autorità, è assicurato il pieno diritto al contraddittorio e che le decisioni del Garante hanno natura “vincolante” per il responsabile del trattamento. Del resto, se è vero che tali decisioni sono formalmente atti amministrativi, è altrettanto vero che le stesse sono impugnabili davanti all’autorità giudiziaria; circostanza che -nella specie -ha condotto la Corte a ritenere che il reclamo al Garante della Privacy costituisse senz’altro un rimedio di diritto interno “effettivo”; sicché, in caso di suo omesso esperimento, il ricorso non poteva che essere dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 35 della Convenzione. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione i, sentenza 28 novembre 2024, ricorso n. 25578/11 (18 aprile 2011), causa Casarini c. italia -Pres. marko Bošnjak; Giud. Péter Paczolay, Alena Poláčková, Erik Wennerström, raffaele Sabato, Lorraine Schembri orland, Davor Derenčinović (*) In FAtto 1. Il ricorrente, il Sig. Luca Casarini, è un cittadino italiano, nato nel 1967 e residente a marghera. Egli è stato rappresentato dinanzi alla Corte dalla Sig.ra A. mascia, avvocata esercitante a Verona. 2. Il Governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal proprio Agente, il Sig. L. D’Ascia, Avvocato dello Stato. 3. I fatti del caso possono essere riassunti come segue. 4. Il Servizio per le informazioni sul contribuente (Serpico) è una banca dati dell’Anagrafe tributaria che, ai sensi dell’articolo 1 del Decreto del Presidente della repubblica n. 605 del 29 settembre 1973 (“Decreto n. 605/1973”), raccoglie dati e informazioni provenienti da dichiarazioni e denunce indirizzate agli uffici delle autorità finanziarie e dalle relative attività di accertamento, nonché dati e informazioni rilevanti ai fini fiscali (si veda ai paragrafi 13 e 20 infra). Secondo la documentazione presentata dal ricorrente e non contestata dal Governo, essa include informazioni relative a spese per gas, acqua, elettricità e telefono, interessi passivi su passività, contributi previdenziali, bonifici bancari, dati relativi alla registrazione di veicoli nel Pubblico registro Automobilistico, adesioni a club sportivi e spese di viaggio dei contribuenti, tra le altre. 5. Il 19 ottobre 2010 il ricorrente, attivista politico e membro del movimento “no Global”, venne a sapere da un articolo di giornale che F.D., un ufficiale della Guardia di finanza, aveva (*) traduzione non ufficiale della sentenza a cura della Dott.ssa Edina Eszeny dell’Ufficio CEDU dell’avvocatura Generale dello Stato. estratto illecitamente informazioni a suo carico dall’Anagrafe tributaria, in particolare, dalla banca dati del Servizio per le informazioni sul contribuente, e le aveva trasmesse a G.A., un giornalista che lavorava per una nota rivista italiana. L’articolo riferiva inoltre che F.D. era accusato di aver avuto accesso ripetutamente alla banca dati per raccogliere informazioni su persone pubbliche su richiesta di G.A., il quale poi utilizzava tali informazioni per pubblicare articoli su di esse. 6. Il 21 gennaio 2011 il ricorrente ha presentato una denuncia penale contro F.D. e G.A. presso la Procura della repubblica di milano. 7. nel frattempo, in risposta a denunce presentate dalla Guardia di finanza il 23 febbraio, 14 luglio e 17 settembre 2010, erano stati avviati procedimenti penali nei confronti di F.D. e G.A. per il sospetto di accesso illecito alla banca dati del Servizio per le informazioni sul contribuente. L’imputazione comprendeva trecentoventotto parti offese, tra cui il ricorrente. 8. L’8 marzo 2011, al termine di un procedimento di patteggiamento, il giudice delle udienze preliminari di Brescia ha condannato F.D. e G.A. a pene sospese di due e un anno, rispettivamente. 9. nella sentenza, il giudice delle udienze preliminari di Brescia ha affermato che, sebbene F.D. abbia avuto il diritto di accedere alla banca dati del Servizio per le informazioni sul contribuente in qualità di ufficiale militare in servizio nella sala operativa della Guardia di finanza, le indagini hanno rivelato che negli anni 2008 e 2009 egli ha effettuato 1.372 accessi alla banca dati senza alcuna giustificazione relativa all’adempimento dei suoi doveri. Gli accessi erano finalizzati ad acquisire illecitamente informazioni finanziarie su figure di rilievo dell’ordine giudiziario italiano e dei settori culturale, politico e istituzionale, e venivano eseguiti su richiesta di una persona non autorizzata, G.A., che utilizzava le informazioni per pubblicare articoli sulla rivista per cui lavorava e su altri giornali appartenenti allo stesso gruppo editoriale. 10. nella sentenza è stato spiegato che l’accesso alla banca dati da parte del personale militare operante nelle sale operative è stato registrato su un apposito registro interno che annotava il nominativo della squadra e la localizzazione, il luogo e l’orario di ciascun accesso. L’analisi di tali dati ha mostrato che l’accesso illecito è stato effettuato utilizzando la password personale di F.D. e in un momento in cui egli era fisicamente presente nella sala operativa. L’11 febbraio 2010 il responsabile della sala operativa ha segnalato le attività illecite di F.D. 11. La Guardia di finanza ha sottoposto F.D. a provvedimenti disciplinari. Il 18 ottobre 2010 lo ha sospeso dal servizio a titolo precauzionale e il 21 aprile 2011 gli ha revocato il grado, ponendolo a disposizione di un altro servizio come soldato semplice. 12. Il 1° marzo 2013, il giudice per le indagini preliminari di Brescia ha deciso di archiviare il procedimento penale successivamente avviato dal ricorrente, ritenendo che F.D. fosse già stato condannato per gli stessi fatti con la sentenza dell’8 marzo 2011. […] IL rICorSo 48. Il ricorrente ha lamentato che le autorità nazionali non avevano protetto i suoi dati personali, conservati nel database del Servizio Informazioni per i Contribuenti, da un uso improprio e un abuso, in violazione del suo diritto al rispetto della vita privata garantito dall’Articolo 8 della Convenzione. In DIrItto Presunta violazione dell’articolo 8 della Convenzione 49. Il ricorrente ha lamentato, ai sensi dell’Articolo 8 della Convenzione, le cui parti rilevanti recitano come segue: “1. ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata … 2. non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. 1. ambito del reclamo del ricorrente (a) Le osservazioni delle parti 50. Il Governo ha dichiarato che il reclamo del ricorrente non riguardava l’accesso illecito effettuato da F.D. e G.A., ma piuttosto l’asserito mancato rispetto da parte dello Stato nell’offrire adeguate garanzie per prevenire l’abuso dei suoi dati personali. Inoltre, secondo il Governo, l’ambito del reclamo del ricorrente era limitato all’accesso e all’uso dei suoi dati personali da parte della Guardia di Finanza e non da parte di terzi. Ha sostenuto che la decisione del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 18 settembre 2008 (si veda il paragrafo 35 sopra) non si riferiva al sistema informatico gestito dalla Guardia di Finanza, ma all’accesso all’Anagrafe tributaria da parte di enti diversi dalla Guardia di Finanza. Pertanto, tale decisione era irrilevante per il caso in questione. 51. Il ricorrente ha affermato che nel suo ricorso aveva lamentato il mancato intervento delle autorità nazionali per proteggere i suoi dati personali archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti, un database al quale numerosi enti -e non solo la Guardia di Finanza -avevano accesso. Si è basato sulle decisioni emesse dal Garante per la Protezione dei Dati Personali tra il 2008 e il 2011, che avevano evidenziato diverse carenze nelle norme relative all’accesso all’Anagrafe tributaria da parte di vari enti pubblici e privati. (b) Valutazione della Corte 52. Dopo aver esaminato il materiale in suo possesso, la Corte osserva quanto segue. nel suo ricorso, il ricorrente ha dichiarato che, dopo aver letto un articolo di giornale, era venuto a conoscenza che i suoi dati personali archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti erano stati illecitamente consultati, negli anni 2008 e 2009, da un ufficiale della Guardia di finanza. Ha inoltre sottolineato che nello stesso articolo si riferiva che tale ufficiale aveva avuto accesso illecito al database centinaia di volte ed era riuscito a estrarre informazioni su una lunga lista di personaggi pubblici. Secondo il ricorrente, tali eventi dimostravano che le norme e il sistema di gestione in vigore all’epoca non offrivano garanzie adeguate contro l’abuso e l’uso illecito dei suoi dati personali e, pertanto, erano incompatibili con le garanzie previste dall’Articolo 8. La Corte ritiene dunque che il reclamo del ricorrente non riguardi l’accesso illecito effettuato da F.D. e G.A., ma il presunto mancato intervento dello Stato per prevenire l’abuso e l’uso illecito dei suoi dati personali archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti. 53. Il modulo di ricorso contiene diversi elementi che indicano che il ricorrente intendeva lamentarsi dell’assenza di misure adeguate in relazione all’uso del database non solo da parte della Guardia di Finanza, ma anche da parte di altri enti che avevano accesso a esso per l’espletamento dei loro compiti istituzionali. nella descrizione dei fatti, il ricorrente ha affermato che, in base alle disposizioni nazionali in vigore all’epoca, il database del Servizio Informativo dei Contribuenti era accessibile, oltre che alla Guardia di Finanza, anche ad altre autorità fiscali e, in generale, a enti pubblici e privati quali autorità locali, istituti di previdenza sociale, autorità indipendenti, istituzioni giudiziarie, forze di polizia, camere di commercio e agenti di riscossione. Ha inoltre sostenuto che, in diverse decisioni emesse tra il 2008 e il 2011, il Garante per la Protezione dei Dati Personali aveva individuato numerose carenze nella sicurezza degli accessi all’Anagrafe tributaria e aveva ordinato alle autorità fiscali di adottare un insieme completo di misure tecnologiche e amministrative per migliorare la sicurezza degli accessi e rendere il trattamento dei dati conforme al quadro normativo nazionale pertinente. Il ricorrente ha sostenuto che, al momento della presentazione del ricorso, molte di queste misure non erano ancora state attuate, poiché i termini originariamente fissati dal Garante per la Protezione dei Dati Personali erano stati ripetutamente prorogati. Le suddette decisioni del Garante fornivano ulteriore prova della presunta violazione dell’Articolo 8 della Convenzione. 54. Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, la Corte ritiene che nel suo ricorso il ricorrente abbia espressamente indicato l’intenzione di lamentare il presunto mancato intervento dello Stato nel proteggere i suoi dati personali archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti da abusi e utilizzi impropri non solo in relazione alle attività della Guardia di Finanza, ma anche rispetto agli accessi al database effettuati da soggetti diversi dalla Guardia di Finanza. 2. applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione e status di vittima del ricorrente […] (a) applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione 56. Per quanto riguarda la questione dell’applicabilità dell’Articolo 8 della Convenzione ai fatti del caso di specie, la Corte osserva che le informazioni archiviate nella banca dati del Servizio Informativo del Contribuente includevano il nome, il codice fiscale, la data di nascita e l’indirizzo di tutti i contribuenti, compreso il ricorrente, oltre a una vasta gamma di informazioni finanziarie rilevanti ai fini fiscali. Contenevano anche dettagli sul reddito e sul patrimonio netto dei contribuenti, oltre a eventuali procedimenti pendenti presso le autorità fiscali, tra le altre informazioni. Secondo le prove fornite dal ricorrente, tali informazioni includevano spese per gas, acqua, elettricità e telefono, spese per interessi su passività, contributi previdenziali, bonifici bancari, dati sull’immatricolazione dei veicoli al pubblico registro automobilistico, adesioni a club sportivi e spese di viaggio dei contribuenti, tra gli altri elementi (si veda il paragrafo 4 sopra). 57. La Corte ritiene che almeno alcune delle informazioni contenute nella banca dati del Servizio Informativo del Contribuente, accessibili alla Guardia di Finanza e a un gran numero di altre entità, come il nome, la data di nascita e l’indirizzo del ricorrente, i dettagli sul reddito e sul patrimonio netto e i procedimenti pendenti con le autorità fiscali, riguardino chiaramente la vita privata del ricorrente (si veda, in relazione ai dati fiscali, Satakunnan Markkinapörssi oy e Satamedia oy c. Finlandia [GC], n. 931/13, § 138, 27 giugno 2017, e l.b. c. Ungheria [GC], n. 36345/16, § 104, 9 marzo 2023, e, in relazione alle informazioni finanziarie contenute nei documenti bancari, M.N. e altri c. San Marino, n. 28005/12, § 51, 7 luglio 2015). L’Articolo 8 della Convenzione si applica pertanto ai fatti del caso di specie. (b) Status di vittima del ricorrente 58. Per quanto riguarda la questione se il ricorrente possa rivendicare lo status di vittima della violazione lamentata nel caso di specie, la Corte ritiene necessario sottolineare fin dal- l’inizio che il presente caso si differenzia da quelli in cui la Corte ha riconosciuto che un ricorrente poteva rivendicare lo status di vittima di una violazione dell’Articolo 8 a causa della mera esistenza di misure di sorveglianza segreta o di una legislazione che consentisse tali misure. In quei casi, la Corte ha ritenuto che, a determinate condizioni, la minaccia della sorveglianza potesse essere considerata di per sé una limitazione della libera comunicazione tramite i servizi postali e di telecomunicazione, costituendo così per tutti gli utenti o potenziali utenti un’interferenza diretta con il diritto garantito dall’Articolo 8 (si veda roman zakharov c. russia [GC], n. 47143/06, § 171, CEDU 2015; si veda anche Centrum för rättvisa c. Svezia [GC], n. 35252/08, § 167, 25 maggio 2021, e ekimdzhiev e altri c. bulgaria, n. 70078/12, § 262, 11 gennaio 2022). 59. Al contrario, nel caso in esame il ricorrente ha lamentato la mancata protezione da parte delle autorità nazionali dei suoi dati personali archiviati nella banca dati del Servizio Informativo del Contribuente contro abusi e usi impropri. La Corte deve pertanto valutare se il ricorrente possa rivendicare lo status di vittima della presunta violazione. 60. A tale riguardo, la Corte ribadisce che l’Articolo 34 della Convenzione non prevede l’istituzione di un’actio popularis, il che significa che i ricorrenti non possono lamentarsi di una disposizione di diritto interno, di una pratica nazionale o di atti pubblici semplicemente perché sembrano contravvenire alla Convenzione (si veda Communauté genevoise d’action syndicale (CGaS) c. Svizzera [GC], n. 21881/20, § 106, 27 novembre 2023, e Centre for legal resources per conto di Valentin Câmpeanu c. romania [GC], n. 47848/08, § 101, CEDU 2014). Il compito della Corte non è normalmente quello di esaminare il diritto e la pratica rilevanti in abstracto, ma di determinare se il modo in cui sono stati applicati al ricorrente o hanno inciso su di lui abbia dato luogo a una violazione della Convenzione (si veda, tra molti altri, roman zakharov, sopra citata, § 164). 61. Al fine di presentare un ricorso ai sensi dell’Articolo 34, una persona, organizzazione non governativa o gruppo di individui deve poter rivendicare lo status di “vittima” di una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione (si veda aksu c. turchia [GC], nn. 4149/04 e 41029/04, § 50, CEDU 2012, e Michaud c. Francia, n. 12323/11, § 51, CEDU 2012). Generalmente, il termine “vittima” nell’Articolo 34 comprende le seguenti categorie: le persone direttamente colpite dalla presunta violazione (vittime dirette), quelle indirettamente colpite (vittime indirette) e quelle potenzialmente colpite (vittime potenziali) (si veda Verein Klima- Seniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera [GC], n. 53600/20, § 463, 9 aprile 2024). In ogni caso, sia che la vittima sia diretta, indiretta o potenziale, deve esistere un legame tra il ricorrente e il danno che egli afferma di aver subito a causa della presunta violazione (si veda akdeniz c. turchia (dec.), n. 20877/10, § 21, 11 marzo 2014, e Mansur Yalçın e altri c. turchia, n. 21163/11, § 40 in fine, 16 settembre 2014). 62. Per rientrare nella categoria delle vittime dirette, il ricorrente deve dimostrare di essere stato “direttamente colpito” dalla misura contestata (si veda lambert e altri c. Francia [GC], n. 46043/14, § 89, CEDU 2015 (estratti)). Ciò implica che il ricorrente sia stato personalmente e concretamente colpito dalla presunta violazione della Convenzione, che è normalmente il risultato di una misura applicativa della legge rilevante, di una decisione presumibilmente in contrasto con la Convenzione o, in alcuni casi, di atti od omissioni delle autorità statali o di soggetti privati che avrebbero violato i diritti del ricorrente sanciti dalla Convenzione (si veda, ad esempio, aksu, sopra citata, § 51; si veda anche Karner c. austria, n. 40016/98, §§ 24-25, CEDU 2003-IX, e berger-Krall e altri c. Slovenia, n. 14717/04, § 258, 12 giugno 2014). tuttavia, ciò non implica necessariamente che il ricorrente dovesse essere personalmente oggetto dell’atto od omissione contestata. È fondamentale che la condotta impugnata lo abbia colpito personalmente e direttamente (si veda, ad esempio, aksu, sopra citata, §§ 51-54). 63. Due tipi di status di vittima potenziale possono essere individuati nella giurisprudenza (si veda Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, sopra citata, § 469). Il primo riguarda persone che affermano di essere attualmente colpite da una specifica misura legislativa generale. La Corte ha chiarito che può riconoscere l’esistenza dello status di vittima laddove i ricorrenti sostengano che una legge violi i loro diritti, anche in assenza di un atto individuale di applicazione, se appartengono a una categoria di persone che rischiano di essere colpite direttamente dalla legislazione o se sono costretti a modificare il loro comportamento o rischiano di essere perseguiti (ibid.; si veda anche tănase c. Moldova [GC], n. 7/08, § 104, CEDU 2010, e M.a. e altri c. Francia (dec.), nn. 63664/19 e altri, § 34, 27 giugno 2023). Il secondo tipo riguarda persone che sostengono che potrebbero essere colpite in futuro. La Corte ha precisato che l’esercizio del diritto di ricorso individuale non può essere utilizzato per prevenire una potenziale violazione della Convenzione e che, in linea di principio, la Corte non può esaminare una violazione se non a posteriori, una volta che tale violazione si è verificata. Solo in circostanze altamente eccezionali un ricorrente può tuttavia rivendicare lo status di vittima di una violazione della Convenzione a causa del rischio di una futura violazione. In generale, il test rilevante per esaminare l’esistenza di tale status di vittima richiede che il ricorrente fornisca prove ragionevoli e convincenti della probabilità che si verifichi una violazione che lo colpisca personalmente; meri sospetti o congetture non sono sufficienti a tal riguardo (si veda Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, sopra citata, § 470). 64. Il termine “potenziale” si riferisce, in alcune circostanze, a vittime che sostengono di essere attualmente o di essere state in passato colpite dalla misura generale contestata e, in altre circostanze, a coloro che affermano che potrebbero essere colpiti da tale misura in futuro. In alcuni casi, queste due situazioni possono coesistere o non essere facilmente distinguibili, e i principi giurisprudenziali pertinenti possono essere applicati in modo intercambiabile (ibid., § 471). 65. Alla luce dei principi sopra ricordati e considerando l’ambito dei motivi di ricorso del ricorrente (si veda il paragrafo 54 sopra), la Corte ritiene di dover determinare se il ricorrente possa rivendicare lo status di vittima della misura da lui contestata nel caso in esame, ossia l’omissione da parte delle autorità nazionali di proteggere i suoi dati personali conservati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti da usi impropri e abusi da parte di (1) la Guardia di Finanza e (2) soggetti terzi che avevano accesso al database. (i) il motivo di ricorso relativo all’abuso e all’uso improprio dei dati personali del ricorrente da parte della Guardia di Finanza 66. Per quanto riguarda la doglianza relativa all’omissione dello Stato nel proteggere i dati personali del ricorrente da usi impropri e abusi da parte della Guardia di Finanza, la Corte ritiene che il ricorrente abbia dimostrato di essere stato personalmente e direttamente colpito dall’omissione contestata (si veda il paragrafo 62 sopra). 67. In particolare, il ricorrente ha dimostrato di aver appreso da un articolo di giornale che F.D., un ufficiale della Guardia di Finanza, aveva estratto illegalmente informazioni che lo riguardavano dal database del Servizio Informativo dei Contribuenti (si veda il paragrafo 5 sopra). Ha inoltre sostenuto che l’abuso dei suoi dati personali fosse stato facilitato dall’omissione dello Stato nell’adottare misure adeguate per prevenirlo (si veda il paragrafo 53 sopra). 68. La Corte conclude pertanto che il ricorrente può rivendicare lo status di vittima del- l’omissione dello Stato nel proteggere i suoi dati personali da usi impropri e abusi da parte della Guardia di Finanza. (ii) il motivo di ricorso relativo all’abuso e all’uso improprio dei dati personali del ricorrente da parte di terzi 69. Per quanto riguarda la doglianza relativa all’omissione dello Stato nel proteggere i dati personali del ricorrente da usi impropri e abusi da parte di terzi con accesso al database, la Corte rileva che il ricorrente non ha sostenuto di essere stato vittima di tale misura. In sostanza, il ricorrente ha fatto affidamento sul fatto che, in quanto contribuente italiano, apparteneva a una categoria di persone i cui dati erano archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti ai sensi dell’Articolo 1 del Decreto del Presidente della repubblica n. 605/1973 (si veda il paragrafo 13 sopra) e che, di conseguenza, era stato esposto al rischio di subire tale misura, alla luce del vasto accesso concesso a terzi al database e della protezione insufficiente offerta dal quadro giuridico nazionale. 70. In tale contesto, la Corte deve esaminare se il ricorrente possa essere considerato una vittima potenziale della presunta violazione, nei due possibili significati riaffermati sopra, tenendo conto del fatto che queste diverse situazioni potrebbero non essere facilmente distinguibili e che i principi pertinenti si applicano in modo intercambiabile (si veda i paragrafi 63-64 sopra). 71. La Corte osserva innanzitutto che è indiscutibile che il caso in esame non riguarda una situazione in cui il ricorrente fosse tenuto a modificare il proprio comportamento o rischiare di essere perseguito. La sua situazione deve quindi essere distinta da quella di ricorrenti che si trovavano nel dilemma di rispettare la disposizione legale impugnata o, in caso contrario, esporsi a sanzioni (si veda Dudgeon c. regno Unito, 22 ottobre 1981, §§ 40-41, Serie A n. 45; Norris c. irlanda, 26 ottobre 1988, § 29, Serie A n. 142; Michaud, sopra citata, § 92; e S.a.S. c. Francia [GC], n. 43835/11, § 57, CEDU 2014 (estratti)). 72. Come già osservato, il caso in esame differisce anche da quelli in cui la Corte ha riconosciuto che un ricorrente potesse rivendicare lo status di vittima di violazioni derivanti dalla mera esistenza di misure di sorveglianza segreta o dalla legislazione che le consentiva (si veda i paragrafi 58-59 sopra). 73. La Corte deve quindi valutare se il ricorrente possa sostenere che potrebbe essere colpito dalla misura contestata in un momento futuro. Come osservato sopra, ciò richiede la valutazione se il ricorrente abbia fornito prove ragionevoli e convincenti della probabilità che una violazione che lo colpisca personalmente si verifichi (si veda il paragrafo 63 sopra). 74. A tal riguardo, la Corte ritiene che il semplice fatto di essere un contribuente italiano i cui dati personali sono archiviati nel database del Servizio Informativo dei Contribuenti non sia sufficiente per considerare che il ricorrente sia già stato esposto, o fosse potenzialmente a rischio di essere soggetto a, abusi e usi impropri dei suoi dati personali da parte di terzi con accesso al database. 75. A questo riguardo, la Corte rileva che, in diversi casi, ha sottolineato che non è sufficiente appartenere a una classe di persone che, in astratto, potrebbe essere colpita dalla misura impugnata; è altresì necessario fornire prove ragionevoli e convincenti della probabilità che si verifichi una violazione che colpisca direttamente il ricorrente. Ad esempio, nel caso Willis c. regno Unito (n. 36042/97, CEDU 2002-IV), si è stabilito che il rischio per il ricorrente di vedersi negata una pensione di reversibilità per motivi di sesso in futuro è stato considerato ipotetico, poiché non era certo che il ricorrente avrebbe comunque soddisfatto le condizioni di legge per il pagamento del beneficio alla data in cui una donna nella sua stessa posizione ne sarebbe divenuta titolare. In Dimirtas e altri c. Grecia ((dec.), nn. 59573/09 e 65211/09, § 31, 4 luglio 2017), la Corte ha ritenuto che il mero fatto di essere un cittadino greco idoneo a votare non fosse sufficiente per lamentare una legislazione nazionale che impediva la diffusione di sondaggi di opinione. Allo stesso modo, la Corte ha stabilito che, per essere vittima di una restrizione legale alle visite in carcere, un detenuto deve dimostrare di avere potenziali visitatori e di aver ottimizzato i propri diritti di visita fino a quel momento (si veda Chernenko e altri c. russia (dec.), n. 4246/14, § 45, 5 febbraio 2019). nel caso Shortall e altri c. irlanda ((dec.), n. 50272/18, 19 ottobre 2021), la Corte ha concluso che, per lamentare la natura religiosa della dichiarazione prestata dal Presidente d’Irlanda all’atto della sua elezione e dai membri nominati del Consiglio di Stato, i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare, rispettivamente, di avere una reale intenzione di candidarsi alla carica di Presidente e di avere prospettive realistiche in tal senso (ibid., § 53), o che la loro nomina al Consiglio di Stato fosse una possibilità realistica (ibid., § 50). Più recentemente, in a.M. e altri c. Polonia ((dec.), nn. 4188/21 e altri, § 86, 16 maggio 2023), la Corte ha osservato che le ricorrenti, in quanto donne in età fertile in Polonia, potevano essere colpite dalla restrizione contestata all’accesso all’aborto terapeutico in caso di anomalie fetali, ma ha concluso che non avevano fornito prove convincenti del rischio reale di essere colpite dalla modifica legislativa impugnata (si veda anche K.b. e K.C. c. Polonia (dec.), nn. 1819/21 e 3639/21, § 63, 4 giugno 2024). 76. Alla luce di quanto sopra, la Corte ribadisce ancora una volta che solo in circostanze altamente eccezionali un ricorrente può rivendicare lo status di vittima di una violazione della Convenzione per il rischio di una violazione futura (si veda a.M. e altri c. Polonia, sopra citata, § 77, e K.b. e K.C. c. Polonia, sopra citata, § 58). 77. nel caso in esame, il ricorrente non ha fornito alcuna prova in grado di dimostrare che, a causa della sua situazione personale, fosse esposto al rischio di abuso o uso improprio dei suoi dati personali da parte di terzi con accesso al database. La Corte conclude quindi che il timore del ricorrente di essere soggetto a tale misura si basa su una mera ipotesi, troppo remota e astratta, per consentirgli di avanzare una rivendicazione fondata sullo status di “vittima” ai sensi dell’Articolo 34 della Convenzione. 78. Pertanto, la Corte ritiene che il ricorrente non possa rivendicare lo status di vittima di un’omissione dello Stato nel prevenire l’abuso e l’uso improprio dei suoi dati personali da parte di terzi, in violazione dell’Articolo 8, unicamente sulla base delle presunte insufficienze nel quadro giuridico applicabile o nella prassi delle autorità nazionali competenti per prevenirlo. 79. Pertanto, questa parte del ricorso è incompatibile ratione personae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell’Articolo 35 § 3 (a) e deve essere respinta conformemente all’Articolo 35 § 4. 3. l’obiezione di non esaurimento dei rimedi da parte del Governo 80. La Corte ha accettato che, per quanto riguarda il ricorso relativo all’omissione da parte dello Stato di proteggere i dati dell’applicante da abuso e all’uso improprio da parte della Polizia tributaria, l’applicante può rivendicare lo status di vittima (si veda il paragrafo 68 sopra). 81. La Corte esaminerà quindi l’obiezione del Governo riguardante il non esaurimento dei rimedi interni relativamente a tale parte del ricorso. (a) Le osservazioni delle parti 82. Il Governo ha sostenuto che il ricorrente non aveva esaurito correttamente i rimedi interni. La denuncia penale da lui presentata riguardava solo la condotta privata di F.D. e G.A. e, pertanto, non avrebbe potuto offrire un rimedio adeguato riguardo al presunto fallimento dello Stato nell’offrire le necessarie garanzie per prevenire l’abuso dei dati personali del ricorrente. Secondo il Governo, esistevano altri rimedi disponibili ed efficaci che il ricorrente avrebbe dovuto esaurire. In primo luogo, il ricorrente avrebbe potuto presentare una domanda di risarcimento danni contro la Guardia di Finanza ai sensi dell’articolo 15 del Decreto Legislativo n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e dell’ar ticolo 2050 del Codice Civile. In secondo luogo, avrebbe potuto avvalersi della procedura di reclamo prevista dagli articoli 141 e 143 del Decreto Legislativo n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali). Usando questo rimedio, accompagnato eventualmente dal ricorso contro le decisioni dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, il ricorrente avrebbe potuto ottenere, secondo il Governo, l’adozione da parte dell’Autorità Garante delle misure necessarie per prevenire l’abuso dei suoi dati personali. In particolare, secondo il Governo, l’Autorità avrebbe potuto invitare il titolare del trattamento a bloccare l’accesso ai dati volontariamente; prescrivere al titolare del trattamento le misure appropriate o necessarie per conformarsi alle disposizioni nazionali pertinenti in materia di trattamento dei dati; oppure ordinare il blocco dell’accesso o vietare, in tutto o in parte, il trattamento dei dati rilevanti. 83. Il ricorrente ha replicato che, presentando una denuncia contro F.D. e G.A., aveva esaurito un rimedio potenzialmente efficace per porre rimedio all’interferenza illecita con i suoi dati personali. Il fatto che il rimedio si fosse rivelato concretamente inefficace -a seguito della fine della procedura di patteggiamento e della successiva archiviazione del procedimento penale da lui avviato -non imponeva su di lui l’onere di utilizzare altri rimedi che avrebbero avuto sostanzialmente lo stesso obiettivo. Inoltre, i rimedi individuati dal Governo non sarebbero stati efficaci. Per quanto riguarda il rimedio compensativo generale, il ricorrente ha osservato che il Governo non aveva presentato giurisprudenza in cui i tribunali nazionali avessero ordinato il risarcimento in circostanze simili a quelle del caso in esame. Per quanto riguarda il rimedio amministrativo previsto dagli articoli 141 e 143 del Decreto Legislativo n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il ricorrente ha sottolineato che l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali non è un’autorità giuridica. Il ricorrente ha inoltre osservato che l’esecuzione delle istruzioni dell’Autorità non è vincolante e che l’Autorità aveva già ordinato più volte di adottare misure operative concrete finalizzate a proteggere i dati archiviati nel sistema di informazioni fiscali contro l’abuso e l’abuso da parte di terzi, ma tali misure non erano state applicate. (b) La valutazione della Corte 84. La Corte ribadisce che l’obbligo di esaurire i rimedi interni impone al ricorrente di fare un uso normale dei rimedi disponibili e sufficienti per le sue contestazioni relative alla Convenzione. L’esistenza dei rimedi in questione deve essere sufficientemente certa non solo in teoria, ma anche in pratica, altrimenti mancheranno dei requisiti di accessibilità ed efficacia necessari (si veda Vučković e altri c. Serbia (obiezione preliminare) [GC], n. 17153/11 e altri 29, § 71, 25 marzo 2014, e Communauté genevoise d’action syndicale (CGAS), sopra citata, § 139). Per essere efficaci, i rimedi devono essere in grado di rimediare direttamente allo stato di fatto contestato e devono offrire ragionevoli prospettive di successo (ibid., con ulteriori riferimenti). 85. tuttavia, non esiste l’obbligo di ricorrere a rimedi inadeguati o inefficaci (si veda Vučković e altri, sopra citata, § 73; Communauté genevoise d’action syndicale (CGAS), sopra citata, § 141). La questione di determinare se una procedura interna costituisca un rimedio efficace ai sensi dell’articolo 35 § 1, che deve essere esaurito dal ricorrente, dipende da una serie di fattori, in particolare dalla denuncia del ricorrente, dall’ambito degli obblighi dello Stato ai sensi della specifica disposizione della Convenzione, dai rimedi disponibili nello Stato convenuto e dalle circostanze specifiche del caso (si veda inter alia, lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo [GC], n. 56080/13, § 134, 19 dicembre 2017, e ražnatović c. Montenegro, n. 14742/18, § 27, 2 settembre 2021). Ciò significa che al ricorrente non è richiesto di presentare ricorsi a enti o istituzioni che non abbiano il potere o la competenza di offrire un rimedio efficace per la questione in oggetto ai sensi della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Mukhametov e altri c. russia, n. 53404/18 e altri 3, § 27, 14 dicembre 2021). 86. La Corte ha, tuttavia, anche frequentemente sottolineato la necessità di applicare la regola dell’esaurimento con una certa flessibilità e senza formalismo eccessivo. Ha quindi riconosciuto che la regola dell’esaurimento non può essere applicata automaticamente; nel verificare se sia stata osservata, è essenziale tenere conto delle circostanze particolari di ciascun caso (si veda Communauté genevoise d’action syndicale (CGAS), sopra citata, § 140, con ulteriori riferimenti). 87. Per quanto riguarda l’onere della prova, la Corte ribadisce che spetta al Governo che solleva l’obiezione di non esaurimento provare alla Corte che il rimedio fosse effettivo, disponibile in teoria e in pratica al momento rilevante. Una volta che questo onere è stato soddisfatto, spetta al ricorrente dimostrare che il rimedio proposto dal Governo è stato effettivamente esaurito, oppure che era per qualche motivo inadeguato e inefficace nelle specifiche circostanze del caso, o che esistevano circostanze speciali che lo esoneravano da tale requisito (si veda, inter alia, Vučković e altri, sopra citata, § 77, e Communauté genevoise d’action syndicale (CGAS), sopra citata, § 143). 88. La Corte concorda con il Governo nel ritenere che la presentazione di una denuncia penale contro F.D. e G.A. (si veda il paragrafo 6 sopra) non fosse un rimedio che avrebbe potuto fornire ristoro rispetto alle contestazioni del ricorrente. Anche se il ricorrente fosse riuscito ad ottenere una compensazione dai responsabili dell’accesso illecito, ciò non avrebbe comportato alcun obbligo da parte delle autorità nazionali di agire per prevenire ulteriori abusi dei suoi dati personali. resta quindi da determinare se esistevano altri rimedi disponibili per il ricorrente che doveva esaurire prima di presentare ricorso alla Corte. 89. Per quanto riguarda i rimedi specifici indicati dal Governo, la Corte osserva che il rimedio previsto dall’articolo 15 del Codice in materia di protezione dei dati personali (si veda il paragrafo 17 sopra) e dall’articolo 2050 del Codice Civile (si veda il paragrafo 18 sopra), il cui scopo è quello di concedere risarcimento, non può essere considerato adeguato rispetto alla denuncia del ricorrente. Il ricorrente ha lamentato una situazione continua di protezione inadeguata dei suoi dati personali conservati nella banca dati del Servizio di informazioni fiscali e il fallimento duraturo dello Stato nell’adottare provvedimenti per prevenire gli abusi nel contesto dell’accesso alla banca dati. ne consegue che tale rimedio non sarebbe stato in grado di affrontare direttamente gli aspetti rilevanti delle contestazioni del ricorrente. 90. Inoltre, la Corte osserva che, secondo il Governo, il ricorrente avrebbe potuto presentare un reclamo all’Autorità per la protezione dei dati personali ai sensi dell’articolo 143 del Codice in materia di protezione dei dati personali (si veda il paragrafo 17 sopra), il quale prevedeva che l’Autorità per la protezione dei dati potesse ordinare al titolare del trattamento dei dati di adottare misure appropriate per conformare il trattamento dei dati alle normative in vigore al fine di prevenire l’abuso e l’abuso dei dati personali. In particolare, il Governo ha sottolineato che l’Autorità per la protezione dei dati avrebbe potuto ordinare al titolare del trattamento di bloccare volontariamente l’accesso ai dati, prescrivere le misure appropriate o necessarie per conformare il trattamento dei dati alle disposizioni applicabili o ordinare il blocco dell’accesso o proibire, in tutto o in parte, il trattamento di tali dati. Pertanto, il ricorrente avrebbe potuto chiedere all’Autorità per la protezione dei dati di ordinare alle autorità nazionali di adottare le misure operative e tecnologiche necessarie per proteggere i suoi dati personali da abusi e utilizzi impropri. 91. Da parte sua, il ricorrente ha contestato in termini generali che l’Autorità per la prote zione dei dati non fosse un organismo giuridico. 92. A questo proposito, la Corte ribadisce che la sua giurisprudenza non richiede che tutte le istanze di un rimedio domestico siano di natura giudiziaria nel senso stretto del termine (si veda, inter alia, rotaru c. romania [GC], n. 28341/95, § 69, ECHr 2000-V; Driza c. albania, n. 33771/02, § 116, 13 novembre 2007; Centro per le risorse legali per conto di Valentin Câmpeanu, sopra citata, § 149; e abdilla c. Malta, n. 36199/15, § 69, 17 luglio 2018). tuttavia, i poteri e le garanzie procedurali che un’autorità possiede sono rilevanti per determinare se il rimedio che essa offre sia efficace (si veda Driza c. albania, n. 33771/02, § 116, ECHr 2007V (estratti); Vrioni e altri c. albania e italia, nn. 35720/04 e 42832/06, § 83, 29 settembre 2009; e tagayeva e altri c. russia, nn. 26562/07 e altri 6, § 620, 13 aprile 2017). nei casi di autorità non giudiziarie, la Corte valuta se queste siano indipendenti (si veda Khan c. regno Unito, n. 35394/97, §§ 44-47, ECHr 2000-V) e se siano garantite al ricorrente sufficienti salvaguardie procedurali (si veda allanazarova c. russia, n. 46721/15, § 93, 14 febbraio 2017). 93. La Corte osserva che l’articolo 153, § 1, del Codice in materia di protezione dei dati personali, nella versione in vigore al momento pertinente (si veda il paragrafo 17 sopra), prevedeva che l’Autorità per la protezione dei dati fosse un organismo amministrativo indipendente, pienamente autonomo e con indipendenza nella decisione e nella valutazione. Il secondo paragrafo stabiliva che i suoi membri fossero nominati dal Parlamento tra persone in grado di dimostrare la loro indipendenza. tenendo conto delle modalità e delle condizioni di nomina dei suoi membri e in assenza di qualsiasi indicazione di una carenza di salvaguardie sufficienti e adeguate contro eventuali pressioni esterne, la Corte ritiene che non vi siano ragioni per dubitare dell’indipendenza dell’Autorità per la protezione dei dati rispetto a qualsiasi altro potere o autorità, e in particolare rispetto all’esecutivo. 94. Per quanto riguarda le garanzie procedurali, i procedimenti davanti all’Autorità per la protezione dei dati erano di natura contraddittoria, le persone potevano essere legalmente rappresentate e i procedimenti portavano all’adozione di decisioni vincolanti. 95. È vero che le decisioni dell’Autorità per la protezione dei dati erano formalmente di natura amministrativa e che l’Autorità manteneva discrezionalità su come esercitare le proprie funzioni e poteri. 96. tuttavia, la Corte osserva che ai sensi dell’articolo 152 del Codice in materia di protezione dei dati, il ricorrente avrebbe potuto presentare ricorso contro la decisione dell’Autorità per la protezione dei dati davanti alle autorità giuridiche competenti. Inoltre, qualsiasi decisione adottata in tale procedimento sarebbe stata soggetta a ricorso per motivi giuridici davanti alla Corte di Cassazione. Pertanto, la Corte ritiene che, tenendo conto degli argomenti delle parti, non vi siano ragioni per considerare che, nel caso in esame, una denuncia all’Autorità per la protezione dei dati per l’asserito fallimento delle autorità nazionali nell’adottare misure tecnologiche e operative volte a proteggere i suoi dati personali conservati nella banca dati del Servizio di informazioni fiscali contro abusi e utilizzi impropri, eventualmente accompagnata da un ricorso alle autorità giuridiche competenti, non avrebbe costituito un insieme di rimedi che avrebbe fornito al ricorrente almeno ragionevoli prospettive di successo. 97. Alla luce di quanto sopra, non c’è dubbio che il rimedio consistente in una denuncia all’Autorità per la protezione dei dati fosse disponibile in teoria, come chiaramente previsto dalla legge statutaria. 98. Per quanto riguarda la disponibilità pratica del rimedio, la Corte ribadisce ancora una volta che spetta al Governo che invoca il non esaurimento del rimedio dimostrare alla Corte che il rimedio fosse effettivo, disponibile in teoria e in pratica al momento pertinente (si veda il paragrafo 87 sopra). 99. A questo proposito, la Corte ha stabilito che la disponibilità di un rimedio che si dice esistente, compreso il suo ambito di applicazione, deve essere chiaramente stabilita e confermata o integrata dalla pratica o dalla giurisprudenza, che in linea di principio deve essere ben consolidata e risalire al periodo precedente alla presentazione della domanda (si veda Guðmundur Gunnarsson e Magnús Davíð Norðdahl c. islanda, nn. 24159/22 e 25751/22, § 44, 16 aprile 2024; e Guravska c. lettonia (dec.), n. 41553/18, § 24, 7 luglio 2020). tuttavia, la Corte ha anche stabilito che tale principio è soggetto a eccezioni che possono essere giustificate dalle circostanze particolari del caso (si veda Gherghina c. romania (dec.) [GC], n. 42219/07, § 88, 9 luglio 2015). Di conseguenza, la Corte ha ritenuto giustificata l’assenza di una giurisprudenza consolidata in casi riguardanti l’uso di un rimedio esistente rispetto a un ramo relativamente recente del diritto nazionale (ibid., § 100), e in casi riguardanti rimedi introdotti di recente che non erano stati in vigore abbastanza a lungo da essere testati davanti ai tribunali nazionali da parte degli individui interessati (si veda bistieva e altri c. Polonia, n. 75157/14, § 62, 10 aprile 2018; e Stella e altri c. italia (dec.), nn. 49169/09 e altri 10, § 65, 16 settembre 2014). In casi simili, la Corte ha sottolineato che in un sistema giuridico in cui i diritti fondamentali sono protetti dalla Costituzione e dalla legge, spetta all’individuo leso testare l’estensione di quella protezione e consentire ai tribunali nazionali di applicare tali diritti e, se del caso, svilupparli nell’esercizio del loro potere interpretativo. La Corte ha anche ritenuto che, se il ricorrente avesse avuto dubbi sull’efficacia del rimedio in questione, fosse suo compito dissipare tali dubbi presentando una denuncia all’organo competente (si veda Gherghina, sopra citata, § 101, e Fullani c. albania (dec.), n. 4586/18, § 70, 20 settembre 2022). 100. In assenza di esempi di giurisprudenza nazionale che dimostrano l’efficacia e la disponibilità pratica di un rimedio, la Corte ha esaminato se, nel materiale presentato davanti ad essa, vi fossero altre indicazioni sulle prospettive di successo del rimedio in questione (si veda Ádám e altri c. romania, nn. 81114/17 e altri 5, § 49, 13 ottobre 2020), e se il Governo avesse fornito spiegazioni su eventuali ragioni strutturali che avrebbero indicato che, anche senza esempi specifici, il rimedio potesse essere stato effettivo (si veda Voynov c. russia, n. 39747/10, § 45, 3 luglio 2018). 101. nel caso di esame, la Corte osserva che il Governo non ha fornito esempi di giurisprudenza nazionale in merito alle specifiche lamentele sollevate dal ricorrente riguardo alla mancanza di adeguate garanzie per prevenire abusi e usi indebiti dei dati personali conservati nel database del Servizio di Informazioni Fiscali. 102. tuttavia, non vi è nulla che indichi che il rimedio in questione sarebbe stato evidentemente inutile nel caso del ricorrente e, al contrario, il materiale presentato alla Corte suggerisce il contrario. In particolare, sia il ricorrente che il Governo hanno fornito alla Corte decisioni adottate dall’Autorità per la protezione dei dati, d’ufficio, in merito alla questione diversa ma correlata relativa alla mancanza di garanzie finalizzate a proteggere i dati conservati nel database del Servizio di Informazioni Fiscali da abusi e usi indebiti da parte di entità terze (si veda i paragrafi 31-43 sopra). In questo contesto, in cui il sistema giuridico nazionale prevede un organismo specifico con competenza generale nel campo della protezione dei dati, e che aveva inoltre già deciso su questioni simili, la Corte non vede alcun motivo per cui l’Autorità per la protezione dei dati avrebbe dovuto rifiutare, su reclamo del ricorrente, di occuparsi della questione riguardante le garanzie necessarie per proteggere i dati conservati nel database del Servizio di Informazioni Fiscali da abusi e usi indebiti da parte della Guardia di Finanza. 103. Per quanto riguarda l’argomentazione del ricorrente secondo cui il rimedio in questione sarebbe stato in qualche modo inadeguato o inefficace poiché le decisioni precedentemente adottate dall’Autorità per la protezione dei dati non erano state eseguite (si veda il paragrafo 83 sopra), la Corte ritiene che meri ritardi nell’esecuzione delle decisioni di un’autorità nazionale, che non siano ripetuti e sistemici, siano insufficienti per suscitare dubbi sull’efficacia del rimedio in questione (si veda, mutatis mutandis, Simaldone c. italia, n. 22644/03, §§ 81-84, 31 marzo 2009). 104. In conclusione, la Corte ritiene che il ricorrente non abbia fornito alle autorità nazionali l’opportunità che, in linea di principio, è destinata agli Stati contraenti dall’articolo 35 della Convenzione, ossia l’opportunità di prevenire o correggere le violazioni della Convenzione tramite il proprio sistema giuridico (si veda Gerghina, citato sopra, § 115, e Communauté genevoise d’action syndicale (CGAS), sopra citata, § 164). 105. Alla luce di quanto sopra, la Corte accoglie l’obiezione del Governo. Di conseguenza, il ricorso del ricorrente riguardo alla presunta inadeguatezza delle autorità dello Stato convenuto nella protezione dei suoi dati personali da abusi e usi indebiti da parte della Guardia di Finanza è dichiarato inammissibile per mancato esaurimento dei rimedi interni e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione. Per questi motivi, la Corte, all’unanimità, Dichiara il ricorso inammissibile. redatto in lingua inglese e notificato per iscritto il 28 novembre 2024. Ilse Freiwirth marko Bošnjak Cancelliere Presidente ContenzIosonAzIonALe La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 (causa C-406/22) sui Paesi sicuri con riferimento alle conseguenze sul contenzioso nazionale. I recenti arresti della Cassazione Stefano Emanuele Pizzorno* La Corte di Giustizia dell’Unione, con sentenza del 4 ottobre 2024, si è pronunciata in via pregiudiziale su alcune questioni concernenti la nozione di Paese sicuro. Nell’articolo si analizza la decisione con riguardo ai riflessi della stessa sul contenzioso italiano, prendendo in considerazione le recenti pronunce della Suprema Corte. SOMMariO: 1. il caso -2. Le questioni -3. La rilevanza della nozione di Paese sicuro 4. Le conseguenze della decisione nell’ordinamento italiano: a) La sindacabilità della designazione di un Paese come sicuro con riferimento alle eccezioni territoriali e personali. La sentenza 34898/24 del 30 dicembre 2024 della Cassazione; b) La sindacabilità della designazione di un Paese come sicuro con riferimento alla mancanza di democrazia. La sentenza della Corte di Giustizia dello scorso 4 ottobre (1), emessa in via pregiudiziale, ha trovato ampia eco non solo sui siti giuridici (2), ma anche sui media nazionali (3). Articolo già pubblicato in Giustamm il 9 ottobre 2025 (Rivista: n. 1 -2025). Un ringraziamento alla Rivista Giustamm per avere gentilmente condiviso il presente articolo con questa Rassegna. (*) Avvocato dello Stato. (1) Corte Giust., 4 ottobre 2024, causa C-406/22, Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky, ECLI:EU:C:2024:841. (2) V. tra gli altri Sentenza del 4 ottobre 2024 della Grande sezione della Corte di Giustizia del- l’Unione Europea (causa C‑406/22) in www.questionegiustizia.it, nota a cura della redazione; PALEo- LoGo, La Corte di giustizia UE delimita la categoria dei “paesi di origine sicuri” (e ribadisce il controllo Essa merita qualche riflessione in ordine all’impatto della stessa nell’ordinamento giuridico italiano. 1. il caso. Un cittadino moldavo proponeva domanda di protezione internazionale alle autorità della Repubblica ceca, affermando di aver assistito a un incidente automobilistico mortale, a seguito del quale avrebbe ricevuto delle minacce che lo avevano costretto a lasciare il Paese. Il Ministero dell’Interno, osservando che la Moldavia era considerata un Paese sicuro con l’eccezione della regione della transnistria, respingeva la domanda. La direttiva 2013/32/Ue prevede infatti la categoria del Paese di origine sicuro, attribuendo agli Stati membri anche la facoltà di stabilire una lista di Paesi rientranti in tale tipologia ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale (art. 37 par. 1), indicando una serie di parametri (art. 38), e prevedendo l’obbligo di riesaminare periodicamente la situazione (art. 37, 2). Lo Stato membro a cui la domanda di protezione viene rivolta, da un richiedente di un Paese considerato sicuro, può trattarla con una procedura accelerata e giudicarla manifestamente infondata a meno che il richiedente non esponga ragioni che facciano ritenere che in realtà il Paese non può essere considerato sicuro per via della sua situazione personale (artt. 32 e 36 della direttiva). 2. Le questioni. La Corte veniva chiamata a pronunciarsi su tre questioni. La prima concerneva l’esercizio della facoltà che la Moldavia aveva esercitato, a seguito del conflitto in corso tra Russia e Ucraina, sulla base dell’art. 15 della Convenzione Cedu che autorizza gli Stati firmatari, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ad adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla Convenzione. Il problema che si poneva era in particolare se un Paese designato come sicuro, qualora avesse esercitato la facoltà prevista dall’art. 15 Cedu, potesse ancora considerarsi tale. Al riguardo, la Corte, seguendo l’avviso dell’Avvocato generale, ha affermato che la circostanza di aver dichiarato di volersi avvalere della facoltà di deroga contemplata dall’art. 15 Cedu, di per sé non è sufficiente a escludere un Paese dalla categoria dei Paesi sicuri. Quello che conta è verificare se le misure concretamente prese in attuazione della deroga siano incompatibili con i criteri il cui rispetto consente a uno Stato membro di designare un Paese terzo come Paese sicuro. tali criteri sono indicati nell’allegato I della direttiva 2013/32 (richiamato dall’art. 37, par. 1) (4). della giurisdizione sulle decisioni amministrative), www. a-df.org, 4 ottobre 2024; GENtILUCCI, Sentenza della Corte di Giustizia UE: a rischio l’accordo con l’albania?, Diritto.it, 15 ottobre 2024. (3) V. ad esempio Corriere della Sera del 15 ottobre 2024. La seconda questione concerneva il problema se un Paese possa essere considerato sicuro con l’eccezione di una parte del suo territorio, come per l’appunto nel caso della Moldavia, designato Paese sicuro dalla Repubblica ceca con l’eccezione della transnistria. La risposta della Corte a tale quesito è negativa; la direttiva infatti utilizza nel già citato Allegato I i termini generalmente e costantemente che, secondo la Corte, indicherebbero che i criteri indicati debbano essere rispettati nell’insieme del territorio del Paese terzo; del resto mentre la direttiva 2005/85/CE, all’art. 30, prevedeva la possibilità di designare come sicura solo una parte del territorio di un Paese, questa facoltà non è stata riproposta nella successiva direttiva 2013/32 che ha abrogato la precedente. Nel rispondere al terzo quesito, infine, la Corte ha affermato che nel caso in cui la designazione di un Paese come sicuro non appaia conforme ai criteri indicati nell’Allegato I della direttiva (come nel caso di specie in cui era stato indicato un Paese con l’eccezione di una parte del territorio), il giudice adito deve pronunciarsi d’ufficio su tale circostanza, anche se la questione non sia stata sollevata dal richiedente. 3. La rilevanza della nozione di Paese sicuro. Con decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, in attuazione della direttiva 2013/32, è stato aggiunto al d.lgs. 25/2008 l’art. 2 bis che introduce la nozione di Paese di origine sicuro, ovverosia un Paese in cui, in caso di rientro, i richiedenti non corrono il rischio di subire danni gravi alla persona (condanna a morte, esecuzioni, torture, trattamenti inumani e degradanti, conflitti armati). Inoltre, era stabilito che con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, fosse adottato l’elenco dei Paesi di origine (5) sicuri, la qual cosa è (4) L’art. 37 della direttiva (tramite il rinvio all’Allegato I), stabilisce “che un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di «nonrefoulement » conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà”. (5) Per paese di origine del richiedente deve intendersi il paese della sua cittadinanza al momento della presentazione della domanda, così Cass. civ. Sez. I, ordinanza 1 marzo 2021, n. 5523 con riferimento all’espressione paese di origine di cui all’art. 14, lett. b) d.lgs. n. 251 del 2007 in tema di protezione sussidiaria. avvenuta a partire dal decreto Interministeriale n. 1202/606 del 4 ottobre 2019, successivamente aggiornato (da ultimo con d.m. 7 maggio 2024) (6). L’art. 2 bis, comma 2 d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25 esattamente disponeva che “Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”. Quest’ultima parte dell’art. 2 bis comma 2 veniva modificata con il de- creto-legge 23 ottobre 2024, n. 158 che eliminava dalle eccezioni relative alla presunzione di sicurezza del Paese designato come sicuro il riferimento alle parti del territorio, lasciando però il riferimento soggettivo alle categorie di persone. Allo stesso tempo lo stesso decreto-legge definiva l’elenco dei paesi di origine sicuri, che pertanto veniva affidato a un atto con forza di legge anziché a un decreto ministeriale (7). Il decreto-legge 158 veniva poi abrogato dall’art. 1, comma 2 della legge 187 del 2024, di conversione in legge del de- creto-legge 145 del 2024 (8), che ha sostituito il comma 1 dell’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008 e inserito il comma 4-bis che contiene disposizioni identiche a quelle del decreto-legge 158 del 2024. La designazione di un Paese come sicuro comporta diverse conseguenze. Così, se in generale la proposizione del ricorso avverso il provvedimento della Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (art. 35 bis comma 3 d.lgs. 25/2008), sono però previste alcune eccezioni, tra cui quella, per l’appunto, in cui il richiedente provenga da Paese ritenuto sicuro. Infatti l’art. 35 (6) Sulla nozione di Paese d’origine sicuro v. FLAMINI, La protezione dei cittadini stranieri provenienti da c.d. Paesi sicuri in seguito alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20 del 2023, in www.questionegiustizia. it, 3 luglio 2023; PItEA, La nozione di «paese di origine sicuro» e il suo impatto sulle garanzie per i richiedenti protezione internazionale in italia, in rivista di diritto internazionale, n. 3/2019; VENtURI, il diritto d’asilo: un diritto “sofferente”. L’introduzione nell’ordinamento italiano del concetto di “paesi di origine sicuri” ad opera della L. 132/2018 di conversione del cd. «decreto sicurezza» (d.l. 113/2018), in Dir., imm. e citt., n. 2/2019. (7) Il tribunale di Roma con decreto del 2 novembre 2024, disponibile in www.eurojusitalia.eu, seguito da altri successivi ha sollevato alla Corte di Giustizia questione pregiudiziale se il diritto del- l’Unione osti a che il legislatore nazionale designi uno Stato terzo come Paese di origine sicuro procedendo a tale designazione con atto legislativo primario. (8) Recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali. bis terzo comma prevede tra le eccezioni quella in cui il ricorso sia proposto avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi del- l’articolo 32, comma 1, lettera b-bis; l’art. 32, comma 1 lettera b-bis fa riferimento al rigetto della domanda per manifesta infondatezza nei casi di cui all’articolo 28-ter; e l’articolo 28-ter, tra le varie ipotesi di rigetto della domanda per manifesta infondatezza, contempla (lett. b) quella in cui il richiedente provenga da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’articolo 2-bis. Attraverso questi rinvii normativi, si dispone pertanto che, qualora il richiedente provenga da Paese sicuro, la domanda si considera manifestamente infondata e non si applica la sospensione automatica dell’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto (9). Inoltre, la decisione della Commissione può essere assunta a seguito di una procedura c.d. accelerata; in tal caso è previsto che la Questura provveda senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi due giorni (art. 28 bis, secondo comma, d.lgs. 25/2008) (10). L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione è attenuato, in quanto la decisione con cui è rigettata la domanda presentata dal richiedente è motivata dando atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato in relazione alla propria situazione particolare (art. 9, comma 2 bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, art. 36 dir. 2013/32). I termini per la proposizione del ricorso sono ridotti alla metà (v. art. 35 bis comma 2 bis del d.lgs. n. 25 del 2008). Un cittadino straniero proveniente da Paese sicuro può essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura di frontiera di cui all’art. 28 bis d.lgs. 25/2008 (art. 6 bis d.lgs. 142/2015) (11) e sulla domanda di protezione presen (9) Cfr. art. 46 par. 6 e art. 31, par. 8, lett. b direttiva 2013/32. Art. 46 par. 5 dir. 2013/32/UE: “Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso”. L’art. 46 par. 6 della direttiva 2013/32/UE, indica tra le eccezioni, alla lettera a, la decisione “di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’articolo 32, paragrafo 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, paragrafo 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, paragrafo 8, lettera h)”. L’articolo 31 par. 8 fa riferimento alla lettera b all’ipotesi in cui “il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva”. (10) Nel caso di superamento dei termini, la Cassazione, con sentenza 29 aprile 2024 n. 11399, pronunciando in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 365 bis c.p.c., ha ritenuto la non applicabilità del- l’effetto sospensivo automatico dell’efficacia esecutiva della decisione di diniego della Commissione territoriale con sentenza, su cui, in termini critici, PIzzoRNo, il superamento dei termini della procedura accelerata e la deroga al principio della sospensione automatica dell’esecutività della decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale per il richiedente proveniente da Paese sicuro. Considerazioni a margine di Cassazione, Sezioni Unite, 29 aprile 2024 n. 11399, in rass. avv. Stato, 3/2023, 74-94. tata la Commissione decide entro sette giorni dalla presentazione della stessa (art. 28 bis, comma 2 bis, d.lgs. 25/2008, introdotto dal decreto-Legge 10 marzo 2023, n. 20 convertito con modificazioni dalla L. 5 maggio 2023, n. 50). Infine, la provenienza da Paese sicuro è il presupposto per l’applicazione del Protocollo tra l’Italia e l’Albania che mette a disposizione delle autorità italiane alcune aree del territorio albanese in cui possono essere trattenuti i richiedenti asilo raccolti in acque extraterritoriali (art. 28 bis, comma 2, lettera b bis del d.lvo n. 25/2008, in relazione all’art. 1, lettera d del Protocollo e agli artt. 3, commi 2 e 3, e 4, comma 1, del Protocollo ratificato con l. 21 febbraio 2024 n. 14). 4. Le conseguenze della decisione nell’ordinamento italiano. a) La sindacabilità della designazione di un Paese come sicuro con riferimento alle eccezioni territoriali e personali. La sentenza 34898/24 del 30 dicembre 2024 della Cassazione. Avendo la Corte di Giustizia ritenuto illegittima la designazione di un Paese come sicuro qualora non sia possibile considerarlo tale nella sua intera estensione territoriale, è possibile che analoga decisione venga assunta in relazione ai rinvii pregiudiziali disposti dal tribunale di Firenze con ordinanze del 15 maggio 2024 e del 31 maggio 2024 con cui è stata sottoposta alla Corte la questione se sia ammissibile secondo il diritto europeo la designazione di un Paese di origine come sicuro, escludendo però categorie di persone a rischio e, in via subordinata, se sia ammissibile individuare un Paese di origine sicuro, con esclusioni che per numero e tipologie sono di difficile accertamento (12). Al riguardo l’Allegato I della direttiva 2013/32 non contiene alcun riferimento a tale possibilità di esclusione, e la stessa direttiva 2005/85, mentre consentiva agli Stati membri di prevedere l’eccezione di parti del territorio, anche con (11) Nell’ipotesi in cui la domanda di protezione internazionale sia presentata direttamente alla frontiera o nelle zone di transito da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicuro, è previsto il trattenimento durante lo svolgimento della procedura, che può essere disposto qualora il richiedente non consegni il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria. Al riguardo la Suprema Corte (Cass., Sez. Unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3563; Cass., Sez. Unite, ord. 8 febbraio 2024, n. 3562) ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione per verificare la compatibilità della disposizione con gli artt. 8 e 9 della direttiva 2013/32/Ue per quanto concerneva la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare era stabilito in misura fissa. Peraltro, la disposizione è stata modificata dal d.l. 11 ottobre 2024 n. 145 (disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali). Sul trattenimento del richiedente asilo proveniente da Paese sicuro v. tAGLIENtI, Trattenimento migranti richiedenti protezione internazionale-procedura di frontiera-paesi di origine sicuri, in www.giustiziaamministrativa.it. (12) Su tali ordinanze v. SICCARdI, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in www.giustiziainsieme. it, 10 settembre 2024. l’introduzione di nuove disposizioni, non consentiva l’esclusione di categorie di persone, permettendo solo il mantenimento dell’eventuale normativa già in vigore al primo dicembre 2005 che consentisse di designare un Paese o parte di esso sicuro per un gruppo determinato di persone (art. 30 parr. 1 e 3). Sarebbe stato possibile inoltre che alcuni tribunali, in considerazione del principio enunciato dalla Corte, ritenessero in contrasto con la direttiva 2013/32 la designazione effettuata nel decreto ministeriale di Paese sicuro con l’eccezione di categorie di persone, senza attendere l’ulteriore pronuncia della Corte stessa, così come già avvenuto con i decreti del tribunale di Roma che non hanno convalidato il trattenimento in Albania di richiedenti asilo disposto dal Questore di Roma sulla base del Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, ratificato con l. 21 febbraio 2024 n. 14 e che hanno suscitato un grande scalpore sui media nazionali (13). tale possibilità peraltro è venuta meno a seguito delle modifiche intervenute con il decreto-legge 158/2024. Infatti, lo stesso decreto-legge da un lato contiene l’indicazione dei Paesi sicuri, non rinviando più al decreto ministeriale (14), dall’altro, ed è ciò che rileva, mentre il decreto ministeriale a sua volta faceva riferimento alle schede sul Paese di origine (15), che a loro volta prevedevano le eccezioni territoriali e personali, al momento, malgrado la possibilità residua di introdurre eccezioni soggettive sulla base del modificato art. 2 bis comma 2 d.lgs. 25/2008, nulla è ora indicato. Pertanto, non è possibile contestare la designazione di un Paese come sicuro ricorrendo all’argomento per cui il diritto europeo impedirebbe la previsione di eccezioni, perché tali eccezioni non vi sono più. Ciò non esclude che in via di fatto possano essere individuate minoranze nei confronti delle quali non esista una situazione di sicurezza, con riferimento alle fonti consultabili ai sensi dell’art. 37 comma 3 della dir. 2013/32 (16). (13) tribunale di Roma, 18 ottobre 2024, RG 42251/2024 e successivi. due decreti sono disponibili in www.questionegiustizia.it, con nota di NAtALE e FILICE, Nota ai provvedimenti di rigetto delle richieste di convalida dei trattenimenti disposti dalla Questura di roma ai sensi del Protocollo italia-albania, emessi dal Tribunale di roma, sezione specializzata nella protezione internazionale, il 18 ottobre 2024. (14) Rispetto all’elenco contenuto nel decreto ministeriale del 7 maggio 2024 non sono più indicati la Colombia, il Camerun e la Nigeria per le problematiche connesse a parti del loro territorio. È stata peraltro mantenuta l’indicazione della Georgia su cui v. nota 28. (15) L’art. 1 2° comma del d.m. 7 maggio 2024 disponeva che “Nell’ambito dell’esame delle domande di protezione internazionale, la situazione particolare del richiedente è valutata alla luce delle informazioni contenute nelle schede sul Paese di origine indicate nell’istruttoria di cui in premessa”. (16) Il tribunale di Roma con i decreti citati alla nota 7 ha sollevato anche questione pregiudiziale se il diritto dell’Unione osti a che il legislatore nazionale designi uno Stato terzo come Paese di origine sicuro senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per giustificare la designazione stessa e ulteriore questione pregiudiziale se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura accelerata di frontiera da Paese di origine designato sicuro, il giudice possa utilizzare informazioni attingendole autonomamente dalle fonti di cui al paragrafo 3 dell’art. 37 della dir. 2013/32. Così il tribunale di Catania (17), in un caso concernente la convalida del trattenimento di un richiedente asilo proveniente dall’Egitto ha disapplicato il decreto-legge 158/24 alla luce della sentenza della Corte di Giustizia, non ritenendo necessario disporre alcun rinvio pregiudiziale. Il tribunale di Bologna ha invece, in una controversia concernente un provvedimento di diniego della protezione internazionale ad opera della competente Commissione, sollevato la questione pregiudiziale se il giudice possa disapplicare la normativa nazionale per aver indicato un Paese come sicuro malgrado l’esistenza generale di persecuzioni nei confronti di un gruppo specifico, accertate sulla base delle fonti (18). Nel chiedere la pronuncia in via pregiudiziale, il giudice bolognese ha richiamato, a sostegno della tesi della disapplicazione, anche un precedente del Consiglio di Stato francese (19). Peraltro, il Conseil d’État, nella pronuncia richiamata, ha ritenuto che il Senegal e il Ghana non potessero considerarsi Paese sicuri, per via di una legislazione criminale punitiva nei riguardi delle persone omosessuali, non per contrasto con il diritto europeo, ma per violazione della legislazione nazionale (20) che nel trasporre l’Allegato I della direttiva 2013/32 ha aggiunto un riferimento all’orientamento sessuale dei richiedenti asilo (21). Al contrario, il Conseil d’État si è espresso nel senso che la circostanza che esistano in un determinato Paese dei gruppi che per ragioni culturali, sociali, religiose possano subire atti di persecuzione, non è una ragione sufficiente per non considerare quello stesso Paese come sicuro, malgrado sia stato designato come tale. Infatti, osserva il Supremo consesso amministrativo francese, il richiedente asilo proveniente da Paese sicuro ha la possibilità di dedurre serie ragioni al fine di far ritenere che il Paese da cui proviene non può essere considerato sicuro in ragione della sua situazione personale e, inoltre, in caso di rigetto della domanda d’asilo, qualora abbia proposto ricorso contro la stessa, può chiedere la sospensione del provvedimento di allontanamento emesso nei suoi confronti (22). Quindi, la giurisprudenza del Conseil d’État, citata a sostegno dell’opinione del giudice remittente, sembra in realtà contraddirla. In definitiva, la soluzione più corretta appare quella per cui, se vi è la di (17) tribunale di Catania decreto 4 novembre 2024 in www.sistemapenale.it. (18) tribunale di Bologna 25 ottobre 24 in www.eurojusitalia.eu. (19) Uk Supreme Court, R v Secretary of State for the Home department, 4 marzo 2015; Conseil d’État, 2ème - 7ème chambres réunies, 2 luglio 2021, n. 437141. (20) Loi n° 2018-778 du 10 septembre 2018 pour une immigration maîtrisée, un droit d’asile effectif et une intégration réussie. (21) Punto 12 della sentenza, che è disponibile in www.legifrance.gouv.fr/ceta/id/CETaTEXT000043754071. (22) Conseil d’État, 2 febbraio 2024, n. 491011, disponibile in www.legifrance.gouv.fr/ceta/. Vedi anche Conseil d'État -2ème et 7ème chambres réunies, 25 avril 2024, n. 490225, disponibile in www.dalloz. fr/documentation/Document?id=CE_LiEUViDE_2024-04-25_490225. mostrazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale oggetto di persecuzioni, viene meno per il singolo individuo la presunzione di sicurezza, senza che per questo il Paese di origine debba cessare di essere considerato sicuro per la generalità dei suoi abitanti (23). Sulla questione dell’eventuale contrasto con il diritto dell’Unione della normativa nazionale contenente l’indicazione di eccezioni personali, è peraltro intervenuta la Suprema Corte con l’ordinanza n. 34898/24 del 30 dicembre 2024, pronunciata sul ricorso proposto dal Ministero dell’Interno avverso i decreti del tribunale di Roma del 18 ottobre scorso. La Suprema Corte ha da un lato sospeso il giudizio, ritenendo opportuno attendere la decisione della Corte di Giustizia sui rinvii pregiudiziali disposti dal tribunale di Firenze e da altre Corti (24); dall’altro ha espresso la propria opinione nel senso di ritenere che l’esistenza di eccezioni personali non sia in contrasto con la direttiva 2013/32. Secondo la Corte, infatti, la direttiva non impone una nozione di paese di origine sicuro che non contempli alcuna situazione, secondo l’espressione della Cassazione, di insicurezza personale. La nozione di paese sicuro è invece compatibile, osserva la Corte, con eccezioni personali purché queste, accompagnate da persecuzioni generalizzate, non incidano sulla tenuta dello Stato di diritto. In tal senso disporrebbe anche il considerando 42 della direttiva 2013/32 in cui si afferma che l’inclusione di un paese terzo in un elenco di paesi di origine sicuri non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese; tale considerando sarebbe incompatibile con un’interpretazione che dall’insicurezza di alcuni giunga all’insicurezza dell’intero paese. Infine, secondo la Corte, la circostanza che dal giugno 2026 entrerà in vi (23) L’ordinanza del tribunale di Bologna contiene un riferimento alla Germania nazista, che è stato ripreso da tutti i mezzi di comunicazione e che ha suscitato molte polemiche, v. per tutti Il Sole24ore, il Tribunale di Bologna rinvia il dl “Paesi sicuri” alla Corte Ue: «anche Germania nazista paese sicuro?», www.ilsole24ore.com/art/il-tribunale-bologna-rinvia-dl-paesi-sicuri-corte-ueaGpUjCp? refresh_ce=1. Secondo il tribunale se si dovesse ritenere sicuro un paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i paesi del mondo, ivi compresa la Germania nazista. I paragoni storici sono sempre un terreno scivoloso e, per limitarci allo stesso periodo, rovesciando il ragionamento del tribunale, e avventurandoci sullo stesso accidentato terreno, si potrebbe dire che allora l’America di Roosevelt, la Nazione del New deal, l’arsenale delle democrazie, non avrebbe potuto essere considerata un Paese sicuro, vista la segregazione nei riguardi della popolazione di colore (solo nel 1956 la Corte Suprema, a seguito del rifiuto di Rosa Banks di lasciare il posto, riservato ai bianchi, sul bus e della successiva azione di protesta guidata da Martin Luther King, dichiarò l’incostituzionalità della segregazione sugli autobus pubblici in Alabama. Risale al 1964 il Civil Rights Act che dichiarò illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale). (24) In particolare, il tribunale di Bologna con decreto del 25 ottobre 2024, cit., il tribunale di Roma con decreti del 2, 5, 11, novembre 2024, il tribunale di Palermo con decreti del 5 novembre 2024. I decreti possono essere letti su www.eurojusitalia.eu. La Suprema Corte fa anche riferimento al rinvio disposto dal tribunale amministrativo regionale di Berlino con ordinanza del 29 novembre 2024. gore il regolamento 2024/1348, che abroga la direttiva 2013/32, e introduce nuovamente la possibilità di prevedere eccezioni per parti specifiche del territorio di uno Stato o per categorie di persone (art. 61, par. 2), costituisce un dato di cui si deve tener conto per evitare un’interpretazione dell’attuale normativa che si ponga in contrapposizione con la nuova. da osservare che invece le decisioni dei tribunali avevano utilizzato le previsioni del nuovo regolamento come argomento per sostenere che nell’attuale non vi è possibilità di eccezioni (25). In ogni caso la possibilità di prevedere nuovamente eccezioni per parti specifiche del territorio di uno Stato o per categorie di persone sembra una soluzione ragionevole. Con riferimento alle eccezioni territoriali, si può osservare che nella nostra giurisprudenza si è sempre presa in considerazione la provenienza da una specifica parte di territorio di un Paese, ai fini dell’accoglimento o del diniego della domanda di asilo (26), o come elemento da tenere in considerazione ai fini del riconoscimento o meno del diritto in passato alla protezione umanitaria e ora a quella speciale, in alcuni casi peraltro con valutazioni diverse pur in riferimento ad un’identica zona (27). Anche in relazione alla designazione di un Paese come sicuro, la Suprema Corte aveva affermato che l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei cd. “paesi sicuri” non precludeva allo stesso la possibilità di dedurre la propria provenienza da una specifica area del paese stesso interessata da fenomeni di violenza ed insicurezza generalizzata che, ancorché territorialmente circoscritti, potevano essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria, né escludeva il dovere del giudice, in presenza di tale allegazione, di procedere all’accertamento in concreto della pericolosità di detta zona e della rilevanza di tali fenomeni (28). La stessa designazione operata dalla Repubblica ceca della Moldavia come Paese sicuro con l’eccezione della transnistria corrispondeva da parte delle autorità ceche a una logica di buon senso, visto che la transnistria è di fatto uno Stato indipendente su cui le autorità moldave non esercitano alcun potere, per (25) Così, ad esempio, secondo tribunale di Palermo 5 novembre 2024, cit., la circostanza che il regolamento 2024/1348, nell’abrogare la direttiva 2013/32 con effetto dal giugno 2026, reintroduca la facoltà di dichiarare un paese sicuro con eccezioni non solo per determinate parti del territorio, ma anche per “categorie di persone chiaramente identificabili” costituisce conferma che il legislatore dell’Unione abbia inteso escludere questa possibilità nella vigente direttiva 2013/32. (26) Ad esempio, Corte d’Appello di Firenze, 13 ottobre 2023, RG 2236/21, che nega il riconoscimento della protezione internazionale perché il richiedente proveniva dal delta State, zona considerata sicura all’interno della Nigeria. (27) Ad esempio, tribunale di Napoli decreto 28 febbraio 2024 prende in considerazione la provenienza del richiedente dal delta State per concedere la protezione speciale di cui all’art. 19 d.lgs. 286/1998, mentre tribunale di Firenze, 17 ottobre 2024 Rg 238/24 nega la protezione speciale anche sulla base della medesima provenienza. (28) Cass. civ. Sez. II ordinanza. 16 settembre 2020, n. 19252. cui considerare la Moldavia come uno Stato unitario comprendente anche la transnistria costituisce, allo stato delle cose, una forzatura logica (29). Anche l’indicazione di categorie di persone, come eccezione alla natura sicura di un Paese, appare razionale, consentendo al richiedente di far valere la propria appartenenza alla categoria considerata, facendo venir meno la presunzione di sicurezza, senza la necessità di dover invocare gravi motivi inerenti alla propria situazione particolare, perché la valutazione è stata già compiuta dalla legge. b) La sindacabilità della designazione di un Paese come sicuro con riferimento alla mancanza di democrazia. La questione si pone in termini un po’ diversi in relazione all’affermata sindacabilità del decreto ministeriale, sostenuta da parte della giurisprudenza di merito (30), e confermata da ultimo dalla sentenza della Cassazione 33398/2024 del 19 dicembre 2024 (31), secondo cui l’autorità giurisdizionale, investita della richiesta di autorizzare la permanenza del ricorrente ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, d.lgs. 25/2008, deve valutare la conformità dell’inserimento di un determinato Paese nella lista ai criteri indicati dalla normativa comunitaria; con il risultato, nell’ipotesi in cui l’inserimento sia illegittimo, di non applicare la deroga al principio della sospensione automatica dell’esecutività. (29) Nella stessa situazione della Moldavia si trova anche la Georgia che non esercita alcuna autorità sui territori di fatto indipendenti dell’ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Pertanto i giudici potrebbero sindacare, in applicazione della sentenza della Corte di Giustizia e fino all’entrata in vigore del nuovo Regolamento, la designazione della Georgia come Paese sicuro, qualora ritenessero quelle aree, pur so- tratte alla sovranità georgiana, non sicure. (30) tribunale di Firenze, decreto del 20 settembre 2023, RG 9787/2023, in www.sistemapenale.it, con nota di v. dAtENA e VICINI, La procedura di designazione del “paese di origine sicuro” e i poteri di valutazione del giudice ordinario, 23 ottobre 2023 decreto del 25 ottobre 2023, RG 3773/2023; RG 4988/2022; RG 11464/2023 in relazione alla designazione della tunisia; contro, tribunale di Milano, 1 dicembre 2023, tribunale di Firenze 11 gennaio 2024, tribunale di Milano 6 maggio 2024. In dottrina v. CUdIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “paesi di origine sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Dir. imm. e citt., 2/2024 e dE SANtIS, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2/2024. (31) Resa a seguito di rinvio pregiudiziale ex art. 365 bis c.p.c. disposto dal tribunale di Roma, con ordinanza 1 luglio 2024, sulla possibile disapplicazione da parte del giudice ordinario del decreto interministeriale per contrasto con la normativa nazionale e europea. Sul rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte Ue e rinvio ex art. 365 bis alla Cassazione v. CoMEttI, rinvio pregiudiziale in Cassazione e in Corte di giustizia e disapplicazione di un atto amministrativo contrario al diritto UE. il caso del d.m. paesi di origine sicura, www.europeanlitigation, 3/24, 8 ottobre 2024. Sulla questione della disapplicazione del decreto ministeriale, v. CUdIA, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei “paesi di origine sicuri” nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria, in Dir. amm. e citt., 2/2024 e dE SANtIS, Sulla disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice civile. il “caso” del c.d. Decreto Paesi sicuri, in Questione giustizia, 2/2024. In particolare alcune decisioni, in particolare i decreti del tribunale di Firenze (32) hanno ritenuto illegittima, per contrasto con la normativa europea, la designazione della tunisia come Paese sicuro, soffermandosi su taluni elementi (come ad esempio alcuni atti del Governo che attenterebbero all’indipendenza della magistratura, la percentuale bassa di elettori alle elezioni parlamentari del dicembre 2022, la mutata composizione dell’organo di controllo sulle elezioni medesime, il rifiuto di ingresso nel Paese di una delegazione del parlamento europeo) che dimostrerebbero la mancanza di democraticità del Paese. Secondo i giudici in sostanza il giudizio di non democraticità dell’ordinamento giuridico di un Paese impedirebbe di considerarlo come sicuro in considerazione del riferimento contenuto nell’allegato I della direttiva 2013/32 all’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico. Questa opinione non sembra corretta, neppure alla luce della sentenza della Corte di Giustizia. La stessa Corte infatti, come sopra riportato, nel risolvere la prima questione pregiudiziale, se un Paese non possa essere considerato sicuro, malgrado sia stato indicato come tale, allorché si sia avvalso della facoltà di derogare agli obblighi imposti dalla Cedu, ha osservato che ciò non basta perché la designazione possa considerarsi non conforme ai criteri indicati nell’art. 37 della direttiva 2013/32. Quello che conta, secondo la Corte, è verificare che non vengano prese delle misure che siano contrarie al divieto di trattamenti inumani e degradanti (richiamato dall’art. 3 della Cedu) o che possano ugualmente essere incompatibili con i criteri previsti dall’allegato i della direttiva 2013/32 ai fini della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro (punto 61). Questo è il parametro confermato dalla sentenza della Corte. I riferimenti sostanziali indicati nell’Allegato I sono la mancanza in via generale e costante di persecuzioni, tortura o altre forme di pena e trattamento inumano e pericolo causati da violenza indiscriminata in caso di conflitto armato. Le altre indicazioni elencate nel medesimo Allegato costituiscono indici al fine di valutare i riferimenti di cui sopra, come risulta anche da una semplice interpretazione letterale della disposizione. Pertanto, non è sufficiente accertare il mutamento della situazione di un Paese con la presenza di indici di mancanza di democrazia, per non considerare più un Paese come sicuro e ritenere che si sia violato l’obbligo di aggiornamento, ma occorre che in concreto quella mutata situazione si sia riflessa sulla situazione del ricorrente (art. 2 bis, comma 5 (33) che riprende testualmente (32) Cit. V. anche tribunale di Catania 4 novembre 2024 cit. (33) Art. 2 bis comma 5: Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel l’art. 36 della direttiva 2013/32/UE) o abbia determinato generalmente persecuzioni, tortura, trattamenti inumani e conflitto armato, come stabilito dall’Allegato I della direttiva. Così, ad esempio, se successivamente all’inserimento di un Paese nella lista di quelli considerati sicuri, sia scoppiato un conflitto armato interno o internazionale, che causi violenza indiscriminata, senza che il Governo abbia provveduto ad espungere il Paese dalla lista, il Giudice potrà ritenere il Paese medesimo non sicuro, perché si tratterebbe di una situazione in grado di riflettersi sul ricorrente e in ogni caso perché si tratterebbe di un elemento preso in considerazione dalla direttiva. Viceversa, un provvedimento di destituzione di alcuni giudici (34), per quanto possa essere ritenuto un attacco all’indipendenza della magistratura, può non incidere sulle tutele che quel Paese garantisce a quel singolo richiedente e potrebbe non avere alcun impatto nel determinare persecuzioni, torture o trattamenti inumani e degradanti. In ogni caso il Giudice dovrebbe motivare per quale ragione il rientro nel Paese di origine potrebbe pregiudicare il ricorrente a causa della presenza di indici che farebbero ritenere che sia stata compromessa l’indipendenza della magistratura locale dal potere politico, oppure in che modo la compromissione dell’indipendenza della magistratura determini le conseguenze di cui all’Allegato I. Questa soluzione consente di evitare che il Giudice si impegni in difficili valutazioni di ordine politico sulla mutata natura democratica di uno Stato. Il controllo dell’autorità giurisdizionale sul parametro della democraticità, pur presente nell’Allegato I con l’inciso all’interno di un sistema democratico, non può che essere di tipo debole, limitato a casi in cui non vi possa essere alcun dubbio sul cambio di regime. Questa soluzione appare del resto conforme a quanto affermato nei recenti arresti della Suprema Corte. Infatti, la sentenza 33398/24, pur ammettendo la disapplicazione del decreto ministeriale contenente l’indicazione dei paesi sicuri, qualora la designazione non sia conforme ai criteri indicati dalla normativa europea e nazionale ha affermato che la violazione deve avere carattere manifesto. La sentenza 34898/24 a sua volta ha affermato che le eccezioni personali, in linea di principio compatibili con la nozione di paese di origine sicuro, non sono ammesse solo nel caso di persecuzioni estese, endemiche e costanti…perché, altrimenti, sarebbe gravemente pregiudicato il valore fondamentale della dignità e, con esso, la connotazione dello Stato di origine come Stato di diritto… In più occorre considerare che la nozione di Paese sicuro è prevista nel- Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova. (34) Vedi quanto riportato nell’ordinanza del tribunale di Firenze 20 settembre 2023 cit. l’ambito della protezione internazionale che ha lo scopo di proteggere l’individuo in senso lato dalle persecuzioni e non quello di garantirgli la possibilità di non vivere in uno Stato il cui regime non sia quello di una democrazia liberale così com’è intesa in occidente (35). Alla fine occorrerà infatti accertare se un individuo determinato in un determinato Paese, democratico o meno, è meritevole di protezione perché a rischio di persecuzione e gli istituti dovrebbero essere interpretati tenendo presente l’obiettivo finale. Peraltro, anche questa problematica, per quanto concerne il contenzioso nazionale, sarà, almeno parzialmente, superata dal regolamento 2024/1348. Il regolamento prevede infatti la designazione di Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione, pur mantenendo la possibilità per gli Stati membri di designare Paesi sicuri a livello degli Stati, con il risultato che l’eventuale contenzioso sull’inserimento di Paesi nella lista dell’Ue dovrà essere risolto dalla Corte di Giustizia. Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, sentenza 4 ottobre 2024 in causa C-406/22 -Pres. K. Lenaerts, rel. E. Regan -domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Krajský soud v Brně (Repubblica ceca) il 20 giugno 2022 -CV / Ministerstvo vnitra České republiky, odbor azylové a migrační politiky. «Rinvio pregiudiziale -Politica d’asilo -Protezione internazionale -direttiva 2013/32/UE Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale -Articoli 36 e 37 -Nozione di “paese di origine sicuro” -designazione -Allegato I Criteri -Articolo 46 -diritto a un ricorso effettivo -Esame, da parte del giudice, della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 36 e 37, dell’articolo 46, paragrafo 3, e dell’allegato I della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del rico noscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60), nonché dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 2 tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra CV e il Ministerstvo vnitra České republiky, odbor azylové a migrační politiky (Ministero dell’Interno della (35) Per democrazia liberale si intende un regime in cui sono presenti i caratteri della democrazia e del liberalismo. Infatti i due concetti sono distinti. La democrazia risponde alla domanda relativa «a chi deve appartenere il potere», mentre il liberalismo risponde alla domanda «come il potere deve essere esercitato». Vi possono essere Stati di diritto non democratici e Stati democratici non liberali; è anche avvenuto che Stati, passati dall’autocrazia al suffragio universale, cioè alla democrazia, siano divenuti, attraverso le misure prese dall’assemblea liberalmente eletta, meno liberali di quanto fossero in precedenza, v. zA- KARIA, Democrazia senza libertà: in america e nel resto del mondo, Rizzoli, 2003; sulla distinzione tra democrazia e liberalismo v. SARtoRI, Democrazia: cosa è, Rizzoli, 1994. Repubblica ceca, dipartimento della Politica in materia di asilo e migrazione; in prosieguo: il «Ministero dell’Interno»), in merito al rigetto della sua domanda di protezione internazionale. Contesto normativo Diritto internazionale Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati 3 Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], entrata in vigore il 22 aprile 1954 e completata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967 ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967, «[a]i fini della presente Convenzione, il termine “rifugiato” si applicherà a ogni persona che, (...) nel timore fondato di essere perseguitata per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Stato; (...)». CEDU 4 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEdU»), all’articolo 15, intitolato «deroga in caso di stato d’urgenza», così dispone: «1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. 2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7. 3. ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione». Diritto dell’Unione Direttiva 2005/85/CE 5 La direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1º dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (GU 2005, L 326, pag. 13), è stata abrogata dalla direttiva 2013/32. L’articolo 30 della direttiva 2005/85, intitolato «designazione nazionale dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri», così disponeva: «Fatto salvo l’articolo 29, gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato II, di designare a livello nazionale paesi terzi diversi da quelli che figurano nell’elenco comune minimo quali paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di asilo. È anche possibile designare come sicura una parte di un paese, purché siano soddisfatte le condizioni di cui all’allegato II relativamente a tale parte». 6 L’articolo 31 di quest’ultima direttiva intitolato «Concetto di paese terzo sicuro», al suo paragrafo 1 prevedeva quanto segue: «Un paese terzo designato paese di origine sicuro a norma dell’articolo 29 o dell’articolo 30, previo esame individuale della domanda, può essere considerato paese di origine sicuro per un determinato richiedente asilo solo se: a) questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero b) è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese, e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di rifugiato a norma della direttiva 2004/83/CE [del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2004, L 304, pag. 12)]». 7 L’allegato II di detta direttiva, intitolato «designazione come paese di origine sicuro ai fini dell’articolo 29 e dell’articolo 30, paragrafo 1», definiva i criteri che consentono di designare un paese terzo come paese di origine sicuro. Direttiva 2011/95/UE 8 La direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9), all’articolo 9, rubricato «Atti di persecuzione », così dispone: «1. Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra gli atti che: a) sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEdU]; oppure b) costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a). 2. Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di ricorso giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2; f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l’infanzia. 3. In conformità dell’articolo 2, lettera d), i motivi di cui all’articolo 10 devono essere collegati agli atti di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 del presente articolo o alla mancanza di protezione contro tali atti». Direttiva 2013/32 9 I considerando 18 e 20 della direttiva 2013/32 così recitano: «(18) È nell’interesse sia degli Stati membri sia dei richiedenti protezione internazionale che sia presa una decisione quanto prima possibile in merito alle domande di protezione internazionale, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo. (...) (20) In circostanze ben definite per le quali una domanda potrebbe essere infondata o vi sono gravi preoccupazioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, gli Stati membri dovrebbero poter accelerare la procedura di esame, introducendo in particolare termini più brevi, ma ragionevoli, in talune fasi procedurali, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla presente direttiva». 10 L’articolo 31 di tale direttiva, intitolato «Procedura di esame», al paragrafo 8 prevede quanto segue: «Gli Stati membri possono prevedere [, nel rispetto dei principi fondamentali e delle garanzie di cui al capo II,] che una procedura d’esame sia accelerata e/o svolta alla frontiera o in zone di transito a norma dell’articolo 43 se: (...) b) il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva; (...) (...)». 11 L’articolo 32 di detta direttiva, intitolato «domande infondate», così prevede: «1. Fatto salvo l’articolo 27, gli Stati membri possono ritenere infondata una domanda solo se l’autorità accertante ha stabilito che al richiedente non è attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva [2011/95]. 2. Nei casi di domande infondate cui si applichi una qualsiasi delle circostanze elencate nell’articolo 31, paragrafo 8, gli Stati membri possono altresì ritenere una domanda manifestamente infondata, se così definita dal diritto nazionale». 12 L’articolo 36 della direttiva 2013/32, intitolato «Concetto di paese di origine sicuro», prevede quanto segue: «1. Un paese terzo designato paese di origine sicuro a norma della presente direttiva può essere considerato paese di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se: a) questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero b) è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese, e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva [2011/95]. 2. Gli Stati membri stabiliscono nel diritto nazionale ulteriori norme e modalità inerenti all’applicazione del concetto di paese di origine sicuro». 13 L’articolo 37 di tale direttiva, rubricato «designazione nazionale dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri», prevede quanto segue: «1. Gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. 2. Gli Stati membri riesaminano periodicamente la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri conformemente al presente articolo. 3. La valutazione volta ad accertare che un paese è un paese di origine sicuro a norma del presente articolo si basa su una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’[Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASo)], dall’[Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)], dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti. 4. Gli Stati membri notificano alla Commissione [europea] i paesi designati quali paesi di origine sicuri a norma del presente articolo». 14 L’articolo 43 di detta direttiva, intitolato «Procedure di frontiera», al paragrafo 1 così dispone: «Gli Stati membri possono prevedere procedure, conformemente ai principi fondamentali e alle garanzie di cui al capo II, per decidere alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro: (...) b) sul merito di una domanda nell’ambito di una procedura a norma dell’articolo 31, paragrafo 8». 15 L’articolo 46 della direttiva 2013/32, intitolato «diritto a un ricorso effettivo», prevede quanto segue: «1. Gli Stati membri dispongono che il richiedente abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso i seguenti casi: a) la decisione sulla sua domanda di protezione internazionale, compresa la decisione: i) di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria; (...) iii) presa alla frontiera o nelle zone di transito di uno Stato membro a norma dell’articolo 43, paragrafo 1; (...) 3 Per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della [direttiva 2011/95], quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado. (...) 5. Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. 6. Qualora sia stata adottata una decisione: a) di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’articolo 32, paragrafo 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, paragrafo 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, paragrafo 8, lettera h); (...) un giudice è competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e, ove il diritto nazionale non preveda in simili casi il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso. (...)». 16 L’articolo 53 di detta direttiva, intitolato «Abrogazione», così recita: «La direttiva [2005/85] è abrogata per gli Stati membri vincolati dalla presente direttiva con effetto dal 21 luglio 2015, (...) I riferimenti alla direttiva abrogata si intendono fatti alla presente direttiva e vanno letti secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato III». 17 Ai sensi dell’allegato I di detta direttiva, intitolato «designazione dei paesi di origine sicuri ai fini dell’articolo 37, paragrafo 1»: «Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, del- l’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva [2011/95], né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella [CEdU] e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici [adottato il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrato in vigore il 23 marzo 1976] e/o nella convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma d dell’articolo 15, paragrafo 2, [della CEdU]; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà». regolamento (UE) 2024/1348 18 L’articolo 61 del regolamento (UE) 2024/1348 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE (GU L, 2024/1348), intitolato «Concetto di paese di origine sicuro», al paragrafo 2 così dispone: «La designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili». 19 L’articolo 78 di tale regolamento, intitolato «Abrogazione», al paragrafo 1 enuncia quanto segue: «La direttiva [2013/32] è abrogata a decorrere dalla data di cui all’articolo 79, paragrafo 2, fatto salvo l’articolo 79, paragrafo 3». 20 L’articolo 79 di detto regolamento, intitolato «Entrata in vigore e applicazione», ai paragrafi 2 e 3 prevede quanto segue: «2. Il presente regolamento si applica a decorrere dal 12 giugno 2026. 3. Il presente regolamento si applica alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale in relazione alle domande formalizzate a decorrere dal 12 giugno 2026. Le domande di protezione internazionale formalizzate prima di tale data sono disciplinate dalla direttiva [2013/32]. Il presente regolamento si applica alla procedura di revoca della protezione internazionale qualora l’esame per revocare la protezione internazionale sia iniziato a decorrere dal 12 giugno 2026. Se l’esame per revocare la protezione internazionale è stato avviato prima del 12 giugno 2026, la procedura di revoca della protezione internazionale è disciplinata dalla direttiva [2013/32]». Diritto ceco Legge sull’asilo 21 L’articolo 2, paragrafo 1, lettere b) e k), dello zákon č. 325/1999 Sb., o azylu (legge n. 325/1999, sull’asilo), nella versione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale (in prosieguo: la «legge sull’asilo»), così dispone: «Ai fini della presente legge per (...) b) richiedente protezione internazionale si intende lo straniero che ha presentato nella Repubblica ceca una domanda di protezione internazionale che non ha ancora dato luogo a una decisione definitiva. Uno straniero ha del pari lo status di richiedente protezione internazionale mentre decorre il termine fissato per proporre un ricorso di cui all’articolo 32 e per tutta la durata del procedimento giudiziario relativo al ricorso avverso la decisione del Ministero conformemente allo [zákon č. 150/2002 Sb., soudní řád správní (legge n. 150/2002, codice di procedura amministrativa), nella versione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale (in prosieguo: il “codice di procedura amministrativa”)] se detto ricorso ha effetto sospensivo, o fino a quando la corte regionale non emette una decisione che non riconosce l’effetto sospensivo, qualora lo straniero abbia chiesto di beneficiarne. (...) (...) k) paese di origine sicuro si intende lo Stato di cui lo straniero è cittadino o, nel caso di un apolide, lo Stato della sua ultima residenza permanente, 1. nel quale non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, 2. che né i cittadini né gli apolidi abbandonano per i motivi di cui all’articolo 12 o all’articolo 14a, 3. che ha ratificato e rispetta i trattati internazionali in materia di diritti umani e libertà fondamentali, comprese le disposizioni concernenti i mezzi di ricorso effettivi, e 4. che consente ad enti giuridici di monitorare la situazione per quanto concerne il rispetto dei diritti umani, (...)». 22 L’articolo 3d di tale legge enuncia quanto segue: «1. Il richiedente protezione internazionale ha diritto di permanere nel territorio nazionale; (...) Il diritto di permanenza non dà diritto a un titolo di soggiorno ai sensi dello [zákon č. 326/1999 Sb., o pobytu cizinců na území České republiky a o změně některých zákonů (legge n. 326/1999, relativa al soggiorno di cittadini stranieri sul territorio della Repubblica ceca e recante modifica di altre leggi)]. Il Ministero ha il diritto di limitare il soggiorno nel territorio del richiedente protezione internazionale a solo una parte del territorio o al centro di accoglienza della zona di transito di un aeroporto internazionale se il richiedente non è autorizzato ad entrare nel territorio. 2. Se il richiedente protezione internazionale non è una persona che ha reiterato una domanda di protezione internazionale, non è possibile porre fine al suo soggiorno nel territorio sulla base di una decisione amministrativa o giudiziaria; (...)». 23 L’articolo 16, paragrafi 2 e 3, della succitata legge è del seguente tenore: «2. È parimenti respinta in quanto manifestamente infondata la domanda di protezione internazionale di un richiedente proveniente da uno Stato che la Repubblica ceca consi dera paese di origine sicuro, a meno che egli non dimostri che, nel suo caso, tale Stato non può essere considerato tale. 3. Se sussistono motivi per respingere la domanda di protezione internazionale in quanto manifestamente infondata, non occorre esaminare se per il richiedente protezione internazionale ricorrano i motivi per la concessione dell’asilo previsti agli articoli 13 e 14 o di una protezione sussidiaria di cui all’articolo 14b. Se sussistono motivi per respingere la domanda di protezione internazionale in quanto manifestamente infondata ai sensi del paragrafo 2, non occorre neppure esaminare se il richiedente protezione internazionale non menzioni circostanze che dimostrino che egli potrebbe essere esposto a persecuzione per i motivi di cui all’articolo 12 o che rischia di subire un danno grave ai sensi dell’articolo 14a». 24 Ai sensi dell’articolo 32, paragrafo 2, della legge sull’asilo: «La presentazione di un ricorso (...) ha effetto sospensivo, eccettuato (...) il ricorso contro una decisione emessa ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 2 (...)». 25 L’articolo 85b, paragrafo 1, di tale legge dispone quanto segue: «A seguito (...) di una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto manifestamente infondata, se tale decisione non è stata annullata da un giudice, o a seguito di una decisione di una corte regionale che non riconosce l’effetto sospensivo ove quest’ultimo sia stato richiesto, il Ministero emette d’ufficio nei confronti dello straniero un ordine di allontanamento valido al massimo un mese, se che non si procede secondo la [legge n. 326/1999, relativa al soggiorno di cittadini stranieri sul territorio della Repubblica ceca e recante modifica di altre leggi] (...)». 26 L’articolo 86, paragrafo 4, di tale legge così prevede: «Il Ministero stabilisce con decreto l’elenco dei paesi di origine sicuri (...). Esso riesamina almeno una volta all’anno gli elenchi dei paesi stabiliti mediante decreto». Decreto n. 328/2015 che attua la legge sull’asilo e la legge sulla protezione temporanea degli stranieri 27 L’articolo 2, punto 15, della vyhláška č. 328/2015 Sb., kterou se provádí zákon o azylu a zákon o dočasné ochraně cizincă (decreto n. 328/2015, che attua la legge sull’asilo e la legge sulla protezione temporanea degli stranieri), così dispone: «La Repubblica ceca considera come paese di origine sicuro (...) la Moldova, eccettuata la transnistria, (...)». Codice di procedura amministrativa 28 L’articolo 75, paragrafo 2, del codice di procedura amministrativa così recita: «Il giudice esamina i punti contestati della decisione nei limiti dei motivi dedotti. (...)». 29 L’articolo 76, paragrafo 1, di detto codice prevede quanto segue: «Il giudice annulla con sentenza, senza udienza, la decisione impugnata per vizi di procedura a) qualora un controllo sia impossibile a causa del carattere incomprensibile o della carenza di motivazione della decisione, b) perché i fatti su cui si è basata l’autorità amministrativa nell’adottare la decisione contestata non corrispondono al fascicolo o non hanno alcuna base in esso, o devono essere ampiamente o fondamentalmente integrati, c) per una violazione sostanziale delle disposizioni relative al procedimento dinanzi al- l’autorità amministrativa, qualora essa rischi di sfociare in una decisione nel merito illegittima ». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 30 Il 9 febbraio 2022 CV, cittadino moldavo, ha presentato nella Repubblica ceca una domanda di protezione internazionale. Nell’ambito di tale domanda, egli ha indicato di essere stato testimone in Moldova, nel corso del 2015, di un incidente nel corso del quale il conducente di un’autovettura avrebbe investito e ucciso un pedone, per poi prendere la fuga. La notte stessa dell’incidente, alcuni individui si sarebbero recati a casa di CV, lo avrebbero condotto in un bosco e lo avrebbero aggredito. 31 dopo essere fuggito, CV si sarebbe nascosto presso amici, prima di tornare due giorni più tardi al suo domicilio e constatare che la sua casa era stata incendiata. Successivamente, sarebbe fuggito dalla Moldova e sarebbe entrato nel territorio ceco mediante un passaporto rumeno falso procuratogli da una conoscenza. Nel corso del 2016 e del 2019, CV sarebbe tornato in Moldova, cercando di fare in modo che non lo sapesse nessuno, ad eccezione dei suoi cugini. 32 A sostegno della sua domanda di protezione internazionale, CV ha fatto valere le minacce di cui è oggetto in Moldova da parte di individui che le autorità di polizia non sarebbero riuscite a identificare. Egli ha altresì dichiarato di non voler rientrare nella sua regione d’origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. 33 Con decisione dell’8 marzo 2022 (in prosieguo: la «decisione di rigetto»), il Ministero dell’Interno ha respinto tale domanda in quanto manifestamente infondata, ai sensi del- l’articolo 16, paragrafo 2, della legge sull’asilo, alla luce degli elementi da esso raccolti sulla situazione politica e di sicurezza in Moldova nonché sul rispetto dei diritti umani in tale paese terzo. In particolare, tale Ministero ha rilevato che, in forza dell’articolo 2 del decreto n. 328/2015, che attua la legge sull’asilo e la legge sulla protezione temporanea degli stranieri, la Repubblica ceca considera come un «paese di origine sicuro» la Repubblica di Moldova, eccettuata la transnistria, e che CV non era riuscito a dimostrare che ciò non varrebbe nel suo caso particolare. 34 CV ha impugnato tale decisione dinanzi al Krajský soud v Brně (Corte regionale di Brno, Repubblica ceca), giudice del rinvio. dinanzi a tale giudice, ribadendo, in sostanza, gli elementi formulati a sostegno della sua domanda di protezione internazionale, egli fa valere che detto Ministero, mentre sarebbe stato tenuto a prendere in considerazione tutte le informazioni pertinenti e a valutare tale domanda in modo globale, avrebbe considerato come unico elemento determinante il fatto che CV sia originario della Repubblica di Moldova. 35 dinanzi a detto giudice, il Ministero dell’Interno precisa di non aver ignorato la situazione risultante dal conflitto derivante dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. tuttavia, alla data di adozione di detta decisione, nessuna relazione avrebbe indicato che tale conflitto si sarebbe esteso al di là dell’Ucraina, o che tale ministero dovesse, in qualche modo, rivedere il contenuto delle informazioni raccolte riguardo alla Repubblica di Moldova. 36 Lo stesso giudice indica, inoltre, che detto Ministero ha riconosciuto l’esistenza di lacune fondamentali quanto al rispetto del diritto in Moldova, in particolare in materia di giustizia, cosicché non può essere esclusa l’esistenza di casi di persecuzione, ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95. Vi sarebbero, in particolare, rischi di azioni giudiziarie o di condanne penali sproporzionate o discriminatorie, che colpiscono in larga misura gli oppositori politici, i loro avvocati, i difensori dei diritti umani o gli attivisti della società civile. Il Ministero dell’Interno ha tuttavia ritenuto che CV non appartenesse ad alcuna di tali categorie. Inoltre, CV non avrebbe indicato di avere problemi con le istituzioni statali moldove. 37 Il 9 maggio 2022 il giudice del rinvio ha accolto la domanda di CV diretta a riconoscere un effetto sospensivo al suo ricorso avverso la decisione di rigetto, accogliendo il suo argomento secondo il quale l’accoglimento della sua domanda dopo aver lasciato il territorio ceco avrebbe solo un effetto formale, dal momento che, in Moldova, egli sarebbe esposto al rischio di subire gravi danni da parte degli individui che lo avevano aggredito in passato. tale giudice afferma, inoltre, di aver tenuto conto del fatto che il 28 aprile 2022 la Repubblica di Moldova aveva deciso, a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, di prorogare l’esercizio del suo diritto di deroga agli obblighi derivanti dalla CEdU, in applicazione dell’articolo 15 di tale convenzione, diritto di cui essa si era avvalsa il 25 febbraio 2022, a causa della crisi energetica da essa attraversata. 38 Poiché la domanda di protezione internazionale di CV è stata respinta tenendo conto, in particolare, del fatto che la Repubblica ceca ha designato come paese di origine sicuro la Repubblica di Moldova, eccettuata la transnistria, detto giudice del rinvio si interroga, anzitutto, sulla nozione di «paese di origine sicuro» e, in particolare, tenuto conto del- l’articolo 37 della direttiva 2013/32 e dell’allegato I di quest’ultima, sui criteri di designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro. 39 da un lato, esso si chiede se un paese terzo cessi di poter essere designato come tale quando invoca il diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU. 40 dall’altro lato, il giudice del rinvio si chiede se il diritto dell’Unione osti a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro, eccettuate talune parti del suo territorio. A tal riguardo, esso indica che la facoltà di procedere a una designazione parziale di questo tipo, che era contenuta all’articolo 30 della direttiva 2005/85, abrogata dalla direttiva 2013/32, non è più prevista all’articolo 37 di quest’ultima direttiva. Inoltre, tale giudice ritiene che la nozione di «paese di origine sicuro» avrebbe lo scopo di semplificare la procedura di esame delle domande di protezione internazionale, semplificazione che sarebbe giustificata solo per i paesi terzi per i quali è veramente poco probabile che ai loro cittadini debba essere concessa una protezione internazionale o una protezione sussidiaria. Ebbene, ciò si verificherebbe solo per i paesi terzi che soddisfano i criteri fissati dall’allegato I della direttiva 2013/32 su tutto il loro territorio. 41 Nel caso in cui si dovesse ritenere che un paese terzo che ha esercitato il diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU non possa essere designato come paese di origine sicuro o che una designazione del genere non possa escludere una parte del territorio del paese terzo considerato, il giudice del rinvio si interroga, inoltre, sulla portata del controllo che gli compete esercitare al riguardo, in forza dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, disposizione che non è stata trasposta nel diritto ceco, ma che, a suo avviso, ha effetto diretto. 42 In particolare, tale giudice indica che le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di paesi terzi designati come paesi di origine sicuri possono essere, al pari della domanda su cui verte la controversia dinanzi ad esso pendente, assoggettate a un regime particolare di esame, che consenta, in forza delle disposizioni di tale direttiva, di trattare segnatamente tali domande con procedura accelerata e di dichiararle, se del caso, manifestamente infondate. detto giudice sottolinea altresì che, in tali circostanze, lo Stato membro in cui un richiedente protezione internazionale ha presentato una domanda siffatta può non autorizzare tale richiedente a permanere nel suo territorio in attesa dell’esito del suo ricorso avverso la decisione di rigetto di tale domanda. 43 Lo stesso giudice si chiede, pertanto, se un giudice, quando è investito di un ricorso av verso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale, adottata nel- l’ambito di siffatto regime, sia tenuto -nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto previsto all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta -a rilevare la violazione delle norme previste da tale direttiva ai fini della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, anche se tale violazione non è stata contestata dal richiedente che ha proposto tale ricorso. 44 In tale contesto, il Krajský soud v Brně (Corte regionale di Brno) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se il criterio per determinare i paesi di origine sicuri ai sensi dell’articolo 37, paragrafo 1, della direttiva [2013/32], contenuto all’allegato I, lettera b), di tale direttiva -ossia che il paese in questione offra protezione contro le persecuzioni o i maltrattamenti attraverso il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti dalla [CEdU], e in particolare di quei diritti inderogabili ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, di tale Convenzione -debba essere interpretato nel senso che quando un paese deroga agli obblighi derivanti [da tale convenzione] in caso di stato d’urgenza ai sensi dell’articolo 15 di tale Convenzione, non soddisfa più le condizioni per essere designato come paese di origine sicuro. 2) Se gli articoli 36 e 37 della direttiva [2013/32] debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro designi un paese come paese di origine sicuro solo in parte, con alcune eccezioni territoriali nei confronti delle quali non si applica la presunzione che quella parte del paese sia sicura per il richiedente, e, allorché uno Stato membro designa come sicuro un paese con tali eccezioni territoriali, il paese nel suo complesso non possa essere allora considerato un paese di origine sicuro ai fini della direttiva. 3) In caso di risposta affermativa a una delle [prime] due questioni pregiudiziali (...), se l’articolo 46, paragrafo 3, [della direttiva 2013/32], in combinato disposto con l’articolo 47 della [Carta], debba essere interpretato nel senso che un giudice chiamato a decidere su un mezzo di impugnazione contro una decisione di manifesta infondatezza di una domanda ai sensi dell’articolo 32, paragrafo 2, [di tale direttiva], emessa nell’ambito di un procedimento ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), [della stessa] direttiva, deve tenere conto d’ufficio, anche in assenza di un’eccezione da parte del richiedente, del fatto che la designazione di un paese come sicuro per le ragioni indicate è contraria al diritto dell’Unione europea». sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 45 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 37 della direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’allegato I di quest’ultima, debba essere interpretato nel senso che un paese terzo cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato paese di origine sicuro per il solo fatto che invoca il diritto di derogare agli obblighi previsti dalla CEdU, in applicazione dell’articolo 15 di tale Convenzione. 46 Come risulta dalle informazioni fornite da tale giudice, il ricorrente nel procedimento principale contesta al Ministero dell’Interno che, sebbene abbia esposto le minacce a cui è soggetto in Moldova e abbia indicato di non voler tornare nella sua regione d’origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, tale Ministero ha basato la decisione di respingimento unicamente sul fatto che è originario della Repubblica di Moldova e che la Repubblica Ceca ha designato tale paese terzo come paese d’origine sicuro, ad eccezione della transnistria. di conseguenza, detto giudice si interroga sull’incidenza che può avere su una siffatta designazione il fatto che la Repubblica di Mol dova, il 28 aprile 2022, mentre era pendente dinanzi ad esso la controversia di cui al procedimento principale, abbia deciso di prorogare l’esercizio del suo diritto di deroga agli obblighi derivanti dalla CEdU, in applicazione dell’articolo 15 di quest’ultima, a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. 47 In via preliminare, occorre ricordare che gli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32, riguardanti, rispettivamente, il concetto di paese di origine sicuro e la designazione, da parte degli Stati membri, di paesi terzi come paesi di origine sicuri, istituiscono un regime particolare di esame al quale gli Stati membri possono sottoporre le domande di protezione internazionale, regime che si basa su una forma di presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese di origine, la quale può essere confutata dal richiedente se adduce motivi imperativi attinenti alla sua situazione particolare (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, A, C‑404/17, EU:C:2018:588, punto 25). 48 A titolo delle specificità di tale regime speciale di esame, gli Stati membri possono decidere, conformemente all’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), di tale direttiva, da un lato, di accelerare la procedura d’esame e, dall’altro, di portarla alla frontiera o nelle zone di transito, conformemente all’articolo 43 di detta direttiva. 49 Peraltro, quando una domanda di protezione internazionale, presentata da un richiedente proveniente da un paese di origine sicuro, è stata giudicata infondata, in quanto, conformemente all’articolo 32, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, l’autorità accertante ha stabilito che il richiedente non soddisfa i requisiti previsti per poter ottenere la protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95, gli Stati membri possono altresì considerare, in forza di tale articolo 32, paragrafo 2, una domanda siffatta manifestamente infondata, se definita come tale nella legislazione nazionale. 50 Inoltre, una delle conseguenze per l’interessato la cui domanda è respinta sulla base del- l’applicazione del concetto di paese di origine sicuro è che, contrariamente a quanto previsto in caso di semplice rigetto, egli può non essere autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato membro in cui è stata presentata tale domanda in attesa dell’esito del suo ricorso avverso la decisione di rigetto di detta domanda, come risulta dalle disposizioni dell’articolo 46, paragrafi 5 e 6, della direttiva 2013/32 (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, A, C‑404/17, EU:C:2018:588, punto 27). 51 Fatte queste osservazioni preliminari, occorre rilevare che l’articolo 37 di tale direttiva riguarda, come indica il suo titolo, la designazione, da parte degli Stati membri, di paesi terzi come paesi di origine sicuri. In particolare, tale articolo 37, paragrafo 1, enuncia che gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I della stessa direttiva, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. 52 Il suddetto allegato I precisa, in particolare, che un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. 53 A tal riguardo, detto allegato elenca gli elementi che possono essere presi in considerazione al fine di valutare, tra l’altro, in quale misura il paese terzo interessato offra protezione contro le persecuzioni e i maltrattamenti. tra tali elementi figura, al secondo comma, lettera b), del medesimo allegato, il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella CEdU, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma all’articolo 15, paragrafo 2, di tale convenzione. 54 Sebbene tale articolo della CEdU preveda che, in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, sia possibile adottare misure in deroga agli obblighi previsti da tale convenzione, l’esercizio di tale facoltà è accompagnato da certe garanzie. 55 Ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della CEdU, infatti, detta facoltà deve, anzitutto, essere esercitata nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che le misure adottate non siano in contrasto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. tale articolo 15, paragrafo 2, prevede, inoltre, che nessuna deroga possa riguardare l’articolo 2 della CEdU, relativo al diritto alla vita, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, né l’articolo 3 e l’articolo 4, paragrafo 1, di tale convenzione che sanciscono, rispettivamente, la proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché la proibizione di schiavitù, e neppure l’articolo 7 di detta Convenzione, che sancisce il principio nulla poena sine lege. Infine, come peraltro rilevato dal giudice del rinvio, le misure adottate in applicazione di detto articolo 15 restano soggette al controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo. 56 Peraltro, come osservato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 62 delle sue conclusioni, dal mero ricorso, da parte di un paese terzo, al diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU non si può dedurre né che tale paese terzo abbia effettivamente adottato misure che hanno l’effetto di derogare agli obblighi previsti da tale convenzione né, eventualmente, quali siano la natura e la portata delle misure in deroga adottate. 57 Ne consegue che non si può ritenere che un paese terzo cessi di soddisfare i criteri, menzionati al punto 52 della presente sentenza, che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro, ai sensi dell’articolo 37 della direttiva 2013/32, per il solo motivo che esso ha invocato il diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU. 58 Ciò premesso, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 85 delle sue conclusioni, siffatto ricorso alla deroga deve indurre le autorità competenti dello Stato membro che ha designato il paese terzo interessato come paese di origine sicuro a valutare se, alla luce delle condizioni di attuazione di tale diritto di deroga, occorra mantenere siffatta designazione ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale presentate dai richiedenti provenienti da tale paese terzo. 59 L’articolo 37, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 impone, infatti, agli Stati membri di riesaminare regolarmente la situazione nei paesi terzi designati come paesi di origine sicuri. Così facendo, il legislatore dell’Unione ha inteso imporre agli Stati membri di tener conto del fatto che le circostanze che consentono di presumere la sicurezza dei richiedenti protezione internazionale in un determinato paese d’origine sono, per loro natura, soggette a variazioni. 60 di conseguenza, tale obbligo di esame regolare riguarda anche il verificarsi di eventi significativi, in quanto, per la loro importanza, essi possono incidere sulla capacità, per un paese terzo designato come paese sicuro, di continuare a soddisfare i criteri enunciati, a tal fine, all’allegato I di detta direttiva, e quindi di presumere che esso sia in grado di garantire la sicurezza dei richiedenti. 61 Ebbene, il ricorso al diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEdU costituisce un evento del genere. Infatti, come osservato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, pur se misure contrarie a tale articolo 15, paragrafo 2, che derogano in particolare al divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti sancito all’articolo 3 di tale convenzione, ostano, per loro natura, alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, non si può escludere che misure in deroga che incidono su diritti fondamentali diversi da quelli che l’articolo 15, paragrafo 2, esclude dall’ambito di applicazione di tale deroga possano essere altresì incompatibili con i criteri previsti all’allegato I della direttiva 2013/32 ai fini della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro. Peraltro, un ricorso siffatto rivela, in ogni caso, un rischio rilevante di modifica significativa quanto al modo in cui sono applicate le norme in materia di diritti e di libertà nel paese terzo interessato. 62 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 37 della direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’allegato I di quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla CEdU, in applicazione dell’articolo 15 di tale convenzione, le autorità competenti dello Stato membro che ha proceduto a siffatta designazione devono tuttavia valutare se le condizioni di attuazione di tale diritto siano atte a mettere in discussione detta designazione. Sulla seconda questione 63 Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 37 della direttiva 2013/32 debba essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro, eccettuate talune parti del suo territorio. 64 Infatti, poiché la Repubblica ceca ha designato la Repubblica di Moldova come paese di origine sicuro, eccezion fatta per la transnistria, tale giudice esprime dubbi quanto alla conformità con tale direttiva di una siffatta designazione parziale. 65 Secondo una costante giurisprudenza, nell’interpretare una disposizione del diritto del- l’Unione, si deve tener conto non soltanto del tenore letterale di quest’ultima, bensì anche del suo contesto, degli obiettivi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte e, se del caso, della sua genesi (sentenza del 14 maggio 2020, országos Idegenrendészeti Főigazgatóság dél-alföldi Regionális Igazgatóság, C‑924/19 PPU e C‑925/19 PPU, EU:C:2020:367, punto 113 e la giurisprudenza ivi citata). 66 Per quanto riguarda, in primo luogo, il tenore letterale dell’articolo 37 della direttiva 2013/32, il quale, conformemente al suo titolo, riguarda la designazione, da parte di uno Stato membro, di paesi terzi quali paesi di origine sicuri, in esso si fa riferimento, a più riprese, ai termini «paese» e «paesi terzi» senza indicare che, ai fini di siffatta designazione, tali termini possano essere intesi come riguardanti solo una parte del territorio del paese terzo considerato. 67 Per quanto riguarda, in secondo luogo, il contesto in cui si inserisce l’articolo 37 di tale direttiva, da tale articolo 37 risulta, anzitutto, che gli Stati membri possono designare paesi di origine sicuri, conformemente all’allegato I di detta direttiva. Ebbene, al pari del tenore letterale di detto articolo 37, i criteri enunciati in tale allegato non forniscono alcuna indicazione che gli Stati membri possono designare come paese di origine sicuro la sola parte del territorio del paese terzo considerato in cui sono soddisfatti tali criteri. 68 Al contrario, ai sensi di detto allegato, la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende, come ricordato al punto 52 della presente sentenza, dalla possibilità di dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. 69 Ebbene, come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 92 e 93 delle sue conclusioni, l’impiego dell’espressione «generalmente e costantemente», in assenza di qualsiasi riferimento a una parte del territorio del paese terzo considerato nell’allegato I della direttiva 2013/32 o nell’articolo 37 di tale direttiva, tende a indicare che le condizioni previste in tale allegato devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo considerato affinché quest’ultimo possa essere designato come paese di origine sicuro. 70 Inoltre, come esposto ai punti da 47 a 50 della presente sentenza, la designazione, da parte di uno Stato membro, di paesi terzi come paesi di origine sicuri consente di sottoporre le domande di protezione internazionale dei richiedenti provenienti da tali paesi terzi a un regime particolare di esame avente carattere di deroga. 71 A tal riguardo, interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che esso consente di designare paesi terzi come paesi di origine sicuri, eccezion fatta per talune parti del loro territorio, avrebbe l’effetto di estendere l’ambito di applicazione di tale regime speciale di esame. Poiché una siffatta interpretazione non trova alcun sostegno nel testo di detto articolo 37 né, più in generale, in tale direttiva, riconoscere una facoltà del genere violerebbe l’interpretazione restrittiva di cui devono essere oggetto le disposizioni aventi carattere di deroga [v., in tal senso, sentenze del 5 marzo 2015, Commissione/Lussemburgo, C‑502/13, EU:C:2015:143, punto 61, e dell’8 febbraio 2024, Bundesrepublik deutschland (Ammissibilità di una domanda reiterata), C‑216/22, EU:C:2024:122, punto 35 e giurisprudenza ivi citata]. 72 In terzo luogo, l’interpretazione secondo cui l’articolo 37 della direttiva 2013/32 non consente agli Stati membri di designare un paese terzo come paese di origine sicuro, eccettuate talune parti del suo territorio, è confermata dalla genesi di tale disposizione. A tal riguardo, occorre rilevare che, prima dell’entrata in vigore della direttiva 2013/32, la facoltà di designare paesi terzi come paesi di origine sicuri, ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, era concessa agli Stati membri dalla direttiva 2005/85, in particolare dall’articolo 30 di quest’ultima. 73 tale articolo 30 prevedeva espressamente che gli Stati membri potessero designare come sicura anche una parte del territorio di un paese terzo se erano soddisfatte per quanto riguarda tale parte di territorio le condizioni previste all’allegato II della direttiva 2005/85, le quali corrispondono, in sostanza, a quelle di cui all’allegato I della direttiva 2013/32. Sebbene l’allegato II della direttiva 2005/85 richiedesse, al pari dell’allegato I della direttiva 2013/32, la prova che non ci sono «generalmente e costantemente» persecuzioni, dalla formulazione stessa di detto articolo 30 risultava che tale requisito si applicava, nel caso di una siffatta designazione parziale, solo alla parte di territorio designata come sicura. 74 Conformemente all’articolo 53 della direttiva 2013/32, quest’ultima ha abrogato la direttiva 2005/85, il cui articolo 30, come risulta dalla tavola di concordanza di cui all’allegato III della direttiva 2013/32, è stato sostituito dall’articolo 37 di quest’ultima. Ebbene, in quest’ultimo articolo non compare più la facoltà di designare come sicuro una parte del territorio di un paese terzo. 75 L’intenzione di sopprimere tale facoltà risulta dal testo stesso della modifica dell’articolo 30, paragrafo 1, della direttiva 2005/85 contenuta nella proposta della Commissione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale [CoM (2009) 554 definitivo, pag. 60], in cui tale facoltà, nella maggior parte delle versioni linguistiche, è stata esplicitamente espressamente barrata e, nelle altre versioni, eliminata. 76 Inoltre, una siffatta intenzione è confermata dalla spiegazione dettagliata di tale proposta [CoM (2009) 554 definitivo Annex, 14959/09 Add 1, pag. 15], che la Commissione aveva fornito al Consiglio dell’Unione europea, la quale menziona espressamente la volontà di sopprimere la facoltà, per gli Stati membri, di applicare il concetto di paese di origine sicuro a una parte di un paese terzo e la conseguenza che deriva da siffatta soppressione, vale a dire che sia ormai richiesto che le condizioni materiali di una designazione del genere dovessero essere soddisfatte per tutto il territorio del paese terzo considerato. 77 In quarto e ultimo luogo, gli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2013/32 non ostano a una conseguenza del genere e, pertanto, all’interpretazione dell’articolo 37 di tale direttiva nel senso che quest’ultimo non consente agli Stati membri di designare come paese di origine sicuro un paese terzo nel quale talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di una siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva. 78 A tal riguardo, oltre al fatto che la direttiva 2013/32 persegue l’obiettivo generale di istituire norme procedurali comuni, tale direttiva mira in particolare, come risulta, segnatamente, dal suo considerando 18, a che le domande di protezione internazionale siano trattate «quanto prima possibile (...), fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo» (sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 109). 79 In tale prospettiva, il considerando 20 di detta direttiva enuncia, tra l’altro, che in circostanze ben definite per le quali una domanda potrebbe essere infondata, gli Stati membri dovrebbero poter accelerare la procedura di esame, introducendo in particolare termini più brevi, ma ragionevoli, in talune fasi procedurali, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla medesima direttiva. 80 Come indicato ai punti da 47 a 50 della presente sentenza, uno Stato membro può sottoporre le domande di protezione internazionale presentate dai richiedenti provenienti da un paese terzo, che tale Stato membro ha designato come paese di origine sicuro, a un regime speciale di esame, il quale si basa su una forma di presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese di origine, in forza del quale è possibile, in particolare, accelerare la procedura di esame di tali domande. 81 Il legislatore dell’Unione, nei limiti in cui, come rilevato al punto 78 della presente sentenza, mira a garantire, con la direttiva 2013/32, un esame delle domande di protezione internazionale rapido ed esaustivo, è tenuto, nell’ambito dell’esercizio del potere discrezionale di cui dispone ai fini dell’istituzione delle procedure comuni di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale, a bilanciare questi due obiettivi in sede di determinazione delle condizioni alle quali gli Stati membri possono designare un paese terzo come paese di origine sicuro. Pertanto, il fatto che tale legislatore non abbia previsto, nell’ambito di tale direttiva, la facoltà per gli Stati membri di escludere una parte del territorio di un paese terzo ai fini di una designazione siffatta rispecchia tale bilanciamento e la sua scelta di privilegiare un esame esaustivo delle domande di protezione internazionale presentate da richiedenti il cui paese d’origine non soddisfa, per tutto il suo territorio, le condizioni sostanziali di cui all’allegato I di detta direttiva. 82 Sebbene l’articolo 61, paragrafo 2, del regolamento 2024/1348, il quale abroga la direttiva 2013/32 con effetto dal 12 giugno 2026, reintroduca detta facoltà, disponendo che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio, si tratta della prerogativa del legislatore dell’Unione di ritornare su tale scelta, procedendo a un nuovo bilanciamento, purché quest’ultimo rispetti le prescrizioni derivanti in particolare dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta. occorre, peraltro, constatare che il fatto che il regime giuridico introdotto a tal fine da tale regolamento si distingua da quello che era stato previsto dalla direttiva 2005/85 corrobora l’interpretazione secondo la quale il legislatore dell’Unione non ha previsto tale facoltà nella direttiva 2013/32. 83 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro allorché talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva. Sulla terza questione 84 Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che un giudice, quando è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti di paesi terzi designati, conformemente all’articolo 37 di tale direttiva, come paesi di origine sicuri, deve, nel- l’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, rilevare una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente invocata a sostegno di detto ricorso. 85 Conformemente al suo titolo, l’articolo 46 della direttiva 2013/32 riguarda il diritto a un ricorso effettivo dei richiedenti protezione internazionale. Al suo paragrafo 1, detto articolo 46 riconosce a tali richiedenti siffatto diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso le decisioni relative alla loro domanda. Il paragrafo 3 di tale articolo 46 di detta direttiva definisce la portata di tale diritto, precisando che gli Stati membri vincolati dalla suddetta direttiva devono assicurare che il giudice dinanzi al quale è contestata la decisione relativa alla domanda di protezione internazionale proceda all’«esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]» (v., in tal senso, sentenza del 29 luglio 2019, torubarov, C‑556/17, EU:C:2019:626, punto 51 e giurisprudenza ivi citata). 86 occorre, inoltre, ricordare che dalla giurisprudenza della Corte risulta che le caratteristiche del ricorso previsto all’articolo 46 della direttiva 2013/32 devono essere determinate conformemente all’articolo 47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva. Ebbene, l’articolo 47 della Carta è sufficiente di per sé e non deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale. La conclusione non può, pertanto, essere diversa con riguardo all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta (v., in tal senso, sentenza del 29 luglio 2019, torubarov, C‑556/17, EU:C:2019:626, punti 55 e 56, nonché giurisprudenza ivi citata). 87 In tale ottica, per quanto riguarda la portata del diritto a un ricorso effettivo, quale definita in tale articolo 46, paragrafo 3, la Corte ha dichiarato che l’espressione «assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto » deve essere interpretata nel senso che gli Stati membri sono tenuti, in forza di tale disposizione, ad adattare il loro diritto nazionale in modo che il trattamento dei ricorsi in questione comporti un esame, da parte del giudice, di tutti gli elementi di fatto e di diritto che gli consentano di procedere ad una valutazione aggiornata del caso di specie (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 110). 88 A tale riguardo, la locuzione «ex nunc» mette in evidenza l’obbligo del giudice di procedere a una valutazione che tenga conto, se del caso, dei nuovi elementi intervenuti dopo l’adozione della decisione oggetto dell’impugnazione. Una valutazione di questo tipo consente, infatti, di esaminare la domanda di protezione internazionale in maniera esaustiva, senza che sia necessario rinviare il fascicolo all’autorità accertante. Il potere, di cui dispone in tal modo il giudice, di prendere in considerazione nuovi elementi sui quali detta autorità non si è pronunciata rientra nella finalità della direttiva 2013/32, quale ricordata al punto 78 della presente sentenza (sentenza del 25 luglio 2018 nella causa C‑585/16, Alheto, EU:C:2018:584, paragrafi 111 e 112). 89 Inoltre, l’aggettivo «completo» di cui all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 conferma che il giudice è tenuto a esaminare sia gli elementi di cui l’autorità accertante ha tenuto o avrebbe dovuto tenere conto sia quelli che sono intervenuti dopo l’adozione della decisione da parte della medesima (sentenza del 25 luglio 2018 nella causa C‑585/16, Alheto, EU:C:2018:584, paragrafo 113). 90 Infine, l’espressione «se del caso», contenuta nella parte di frase «compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]», evidenzia il fatto che l’esame completo ed ex nunc incombente al giudice non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e che esso può dunque riguardare gli aspetti procedurali di una domanda di protezione internazionale (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115). 91 Ebbene, la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro rientra in tali aspetti procedurali delle domande di protezione internazionale in quanto, alla luce delle considerazioni esposte ai punti da 48 a 50 della presente sentenza, siffatta designazione è atta a comportare ripercussioni sulla procedura di esame vertente su domande del genere. 92 Peraltro, come esposto al punto 46 della presente sentenza, il ricorrente nel procedimento principale contesta all’autorità che ha adottato la decisione di rigetto che, pur avendo egli esposto le minacce di cui è oggetto in Moldova e dichiarato di non voler rientrare nella sua regione di origine a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, tale autorità ha fondato detta decisione unicamente sul fatto che egli è originario della Repubblica moldova e che la Repubblica ceca aveva designato tale paese terzo come paese di origine sicuro, eccettuata la transnistria. 93 Pertanto, la designazione di tale paese terzo come paese di origine sicuro costituisce uno degli elementi del fascicolo portati a conoscenza del giudice del rinvio e di cui quest’ultimo è chiamato a conoscere nell’ambito del ricorso avverso detta decisione. 94 Si deve da ciò concludere che, in tali circostanze, anche se il ricorrente nel procedimento principale non ha espressamente invocato, in quanto tale, un’eventuale violazione delle norme previste dalla direttiva 2013/32 al fine di siffatta designazione per sottoporre la procedura di esame di una domanda di protezione internazionale di un richiedente proveniente da detto paese terzo al regime particolare che deriva dalla sua designazione come paese di origine sicuro, tale eventuale violazione costituisce un elemento di diritto che il giudice del rinvio deve prendere in considerazione nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dall’articolo 46, paragrafo 3, di tale direttiva. 95 La decisione di rigetto di cui trattasi è, infatti, fondata esclusivamente sul fatto che il ricorrente nel procedimento principale è originario della Repubblica di Moldova e che tale paese terzo deve essere considerato un paese di origine sicuro. di conseguenza, si deve considerare che l’elemento decisivo di detta decisione di rigetto basata sulla designazione di detto paese terzo come paese di origine sicuro è necessariamente oggetto del ricorso proposto dal ricorrente nel procedimento principale contro la suddetta decisione. Pertanto, il giudice competente a statuire su tale ricorso deve esaminare, nell’ambito di quest’ultimo, la legittimità di siffatta designazione ai sensi di detto articolo 46, paragrafo 3. 96 Alla luce, in particolare, dei dubbi del giudice del rinvio al fine di dirimere la controversia dinanzi ad esso pendente, esposti ai punti da 38 a 40 della presente sentenza, la sua valutazione, nell’ambito di tale esame completo ed ex nunc e sulla base degli elementi del fascicolo, deve vertere, da un lato, sul ricorso all’articolo 15 della CEdU, se le autorità competenti a tal riguardo non sono state in grado di considerare la portata di siffatto evento significativo per quanto riguarda la capacità del paese terzo designato come paese di origine sicuro di continuare a soddisfare i criteri previsti a tal fine dalla direttiva 2013/32. dall’altro lato, tale valutazione deve riguardare una violazione della condizione, risultante dalle disposizioni di tale direttiva, secondo la quale la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio. 97 Peraltro, la Corte ha già precisato che, quando un cittadino di un paese terzo soddisfa le condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale previste da tale direttiva, gli Stati membri sono tenuti, in linea di principio, ad accordare lo status richiesto, dato che tali Stati non dispongono di un potere discrezionale al riguardo (v., in tal senso, sentenza del 29 luglio 2019, torubarov, C‑556/17, EU:C:2019:626, punto 50 e giurisprudenza ivi citata). 98 da tutte le considerazioni che precedono risulta che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, deve essere interpretato nel senso che, quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro, conformemente all’articolo 37 di tale direttiva, tale giudice, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso. sulle spese 99 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) L’articolo 37, della direttiva 2013/32/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, in combinato disposto con l’allegato I della stessa direttiva, dev’essere interpretato nel senso che: un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti del- l’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, in applicazione dell’articolo 15 di tale convenzione, le autorità competenti dello stato membro che ha proceduto a siffatta designazione devono tuttavia valutare se le condizioni di attuazione di tale diritto siano atte a mettere in discussione detta designazione. 2) L’articolo 37 della direttiva 2013/32 dev’essere interpretato nel senso che: esso osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro allorché talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva. 3) L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che: quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro, conformemente all’articolo 37 di tale direttiva, tale giudice, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto articolo 46, paragrafo 3, deve rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso, una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso. Responsabilità civile dello stato per illeciti penali di dipendenti pubblici. La sentenza del tribunale di Roma, sezione seconda civile, 14 gennaio 2025 n. 594, fa chiarezza sulla sussistenza del “nesso di occasionalità necessaria” La sentenza del tribunale di Roma 14 gennaio 2025 n. 594 affronta il controverso tema dell’individuazione delle condizioni e dei presupposti per la configurabilità della responsabilità civile dello Stato a fronte di danni cagionati da condotte delittuose poste in essere da dipendenti pubblici. La pronunzia del tribunale di Roma, rileggendo la nota e discussa sentenza delle Sezioni Unite n. 13246/2019 in tema di responsabilità dei padroni e i committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti -ha fatto propria l’interpretazione dell’art. 2049 c.c. proposta dalla difesa erariale con particolare riguardo alla nozione del “nesso di occasionalità necessaria” chiarendo che tale presupposto deve essere rigorosamente inteso come sussistente solo “se la condotta illecita dannosa si innesta nel meccanismo dell’attività complessiva dell’ente, tale per cui l’espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato costituisce conditio sine qua non del fatto produttivo del danno, secondo il principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta”. Nel caso di specie “l’azione omicidiaria posta in essere …, sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico, rappresenta uno sviluppo anomalo e imprevedibile in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, tale da recidere il vincolo di occasionalità necessaria”. Enrico De Giovanni (*) tribunale di Roma, sezione seconda civile, sentenza 14 gennaio 2025 n. 594 -Giud. A. Canonaco -M.A. e M.R. (avv.ti A. Fantaccione e F. Palumbo) c. Min. difesa -Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e Min. dell’Interno (avv. gen. Stato); C.R., S.C. e S.G., in qualità di eredi beneficiati di S.A. (avv.ti G. oranges e B. Scala). RAGIoNI dI FAtto E dI dIRItto dELLA dECISIoNE Con atto di citazione notificato alle Amministrazioni pubbliche con PEC del 10 giugno 2022 e alle altre parti a mezzo posta ex art. 149 c.p.c. in data 16 giugno 2022, M.A. e M.R. convenivano in giudizio dinanzi a questo tribunale le parti indicate in epigrafe per far accertare la loro responsabilità nella produzione dell’evento morte del Maresciallo M.t., al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale da esse patito. (*) Vice Avvocato Generale. In particolare, gli odierni attori M.A. e M.R., rispettivamente fratello e sorella del deceduto M.t., ritenevano che la morte del proprio parente fosse stata causata dal comportamento omissivo dei superiori gerarchici di quest’ultimo, i quali, pur avendo conoscenza dal fatto che i rapporti tra il S. ed il M. si erano deteriorati in virtù dell’attività di indagine svolta dal secondo nei confronti del primo e delle relative annotazioni di servizio trasmesse, per via gerarchica, alle autorità giudiziarie ordinarie e militari, non ne avevano disposto il trasferimento ai sensi dell’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri. Parte attrice deduceva che M.t., maresciallo in servizio presso la stazione dei Carabinieri sita in -omissis-, nel marzo 2012, aveva scoperto una serie di irregolarità riguardanti la contabilità dei buoni carburante della Stazione di -omissis-che avrebbero potuto implicare la responsabilità del Comandante della stessa, il luogotenente S.A. Pertanto, il M., dopo aver redatto diverse informative di servizio, le aveva sottoposte all’attenzione dei suoi superiori. Gli attori, poi, sostenevano che il Luogotenente S. era venuto in qualche modo a conoscenza dell’attività investigativa svolta nei suoi confronti e che tale circostanza era conosciuta anche dai suoi superiori gerarchici. Perciò, data la situazione di incompatibilità venutasi a creare, la linea di comando avrebbe dovuto procedere a trasferire uno dei due soggetti presso altra Stazione, ai sensi dell’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri, cosa che, invece, non avvenne. tale inerzia causava, secondo la prospettazione di parte attrice, la morte del M., il quale, in data 21 giugno 2012 alle ore 09.30 circa, veniva ucciso dal luogotenente S.A. con un colpo di pistola sparato con la pistola di ordinanza, mentre si trovava in servizio presso la Caserma dei Carabinieri sita in -omissis-. In virtù di ciò, gli attori chiedevano, ai sensi degli artt. 28 Cost., 2043 e 2049 c.c., di dichiarare la responsabilità solidale o, in subordine, proporzionale di ciascuna delle parti convenute, con conseguente condanna al pagamento del risarcimento del danno derivante dalla perdita parentale, quantificato in € 153.308,03 per ciascuno dei fratelli o nella minor somma ritenuta congrua sulla base delle tabelle applicate dal tribunale di Roma, oltre gli interessi legali dalla data del fatto illecito fino all’effettivo pagamento. In particolare, chiedevano l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “iN Via PriNCiPaLE E NEL MEriTO, aCCErTarE E DiCHiararE: 1) la responsabilità concorsuale e solidale o in subordine proporzionale, in ragione del concreto apporto causale di ciascuna delle parti, nella produzione dell’evento morte del M.llo M.T. per cui è causa e per le causali dedotte nella esposizione che precede, del defunto LGT S.a., e per esso dei suoi eredi ed aventi causa, e del Ministero della Difesa -Comando Generale dell’arma dei Carabinieri e/o del Ministero degli interni; 2) la misura del danno da perdita parentale conseguentemente derivato agli odierni; PEr L’EFFETTO CONDaNNarE 3) le parti convenute, in via solidale o proporzionale, in ragione del concreto ed accertato apporto causale di ciascuna, al pagamento in favore degli attori delle somme riconosciute come dovute a titolo di risarcimento del danno da perdita parentale subito; 4) il tutto, in ogni caso, oltre interessi legali dalla data del fatto illecito all’effettivo soddisfo; iN OGNi CaSO 5) con vittoria di spese e compensi, con distrazione, da porsi a carico delle parti resistenti, in via solidale, alternativa o esclusiva a carico degli eredi del Luogotenente S.”. In data 10 gennaio 2023, si costituivano C.R., S.C. e S.G., per l’udienza di prima comparizione tenutasi in data 11 gennaio 2023 (così differita l’udienza indicata in citazione ai sensi dell’art. 168 bis, quinto comma, c.p.c.). Nel costituirsi i predetti convenuti, tutti quali eredi con bene ficio di inventario di S.A., chiedevano l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “in via preliminare, rigettare le avverse domande per i motivi su esposti; in via subordinata, in caso di accoglimento delle domande giudiziali attoree, accertare e dichiarare la responsabilità ex art. 2049 c.c. del Ministero della Difesa e/o del Ministero dell’interno nella causazione del- l’evento in danno del Mar.llo M.T. e, di conseguenza, condannare i Ministeri convenuti, in solido o per quanto di ragione, al risarcimento del danno in favore degli attori”. deducevano che gli attori non avevano provato l’effettivo pregiudizio subito per la morte del fratello, secondo le regole attinenti all’onere probatorio in materia di responsabilità extracontrattuale, limitandosi esclusivamente a rilevare il rapporto di parentela intercorrente con il deceduto, allegando, in subordine, la responsabilità “principale” dei Ministeri convenuti, essendosi la fattispecie delittuosa verificatasi tra due dipendenti dell’Arma, per motivazioni connesse allo svolgimento delle rispettive mansioni, nel luogo e nell’orario di lavoro. Il Ministero della difesa e quello dell’Interno si costituivano in data 12 gennaio 2023, eccependo l’incompetenza territoriale del tribunale di Roma adito, ritendo competente, ai sensi dell’art. 25 c.p.c. il tribunale di Napoli. Infatti, secondo la prospettiva di parte convenuta, avendo ad oggetto l’odierna controversia un’obbligazione risarcitoria, ai fini della determinazione del giudice territorialmente competente, occorreva far riferimento al luogo in cui l’obbligazione è sorta, ossia al luogo in cui è avvenuto il fatto illecito o, in alternativa, al forum destinatae solutionis. di conseguenza, poiché i fatti di causa erano stati commessi nel Comune di -omissis-e gli attori risiedevano in provincia di -omissis-, la competenza apparterrebbe al tribunale di Napoli, quale giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie, ai sensi degli artt. 20 e 25 c.p.c., nonché degli artt. 6 e 7 del R.d. 30 ottobre 1933, n. 1611. Nel merito, le Amministrazioni convenute chiedevano, in via principale, di rigettare la domanda poiché, nel caso di specie, non sussisteva “il nesso di occasionalità necessaria” tra le funzioni svolte dal dipendente pubblico ed il fatto illecito da lui commesso, elemento essenziale per il riconoscimento di una responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c. e poiché, in ogni caso, parte attrice non aveva provato il danno effettivamente subito. Escludevano altresì la sussistenza di una responsabilità omissiva colposa diretta del Ministero ex art. 2043 c.c. per non aver impedito l’evento delittuoso (in particolare per non avere disposto il trasferimento ad altro reparto del maresciallo M. secondo le previsioni dell’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri), in quanto l’azione posta in essere dal luogotenente S. era del tutto imprevedibile, in ragione della modesta gravità del reato ipotizzato a suo carico e del fatto che quest’ultimo aveva, sostanzialmente, dimostrato, la sua estraneità ai fatti. In via subordinata, chiedevano, nel caso in cui fosse riconosciuta in capo alle Amministrazioni una responsabilità ex art. 2049 c.c., di qualificarla come obbligazione solidale diseguale, soggetta al regime della sussidiarietà con beneficio di preventiva escussione dell’obbligato principale. Chiedevano quindi nelle conclusioni: “in via pregiudiziale, in rito, dichiarare l’incompetenza territoriale del Tribunale adito essendo competente il Tribunale di Napoli -in via principale, ritenere e dichiarare non infondata per tutte le ragioni esposte in narrativa la domanda attorea conseguentemente rigettandola”. La causa, istruita mediante produzione documentale ed escussione dei testi ammessi, era trattenuta in decisione, all’udienza del 18 settembre 2024, previa concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. tanto esposto, in via pregiudiziale, deve essere esaminata la questione relativa all’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla difesa erariale. A tal proposito, si osserva che l’eccezione, pure ammissibile, e tuttavia infondata. È noto che nelle controversie in cui sia parte una Amministrazione dello Stato, l’art. 25 c.p.c. prevede un criterio speciale di determinazione della competenza territoriale inderogabile ed esclusivo, verificabile anche d’ufficio dal Giudice e, quindi, a prescindere dalla tempestiva costituzione della parte convenuta (cfr. tra tante Cass. Sez. I , ordinanza n. 17880 del 3 settembre 2004). L’eccezione è infondata nel merito, poiché al fine di individuare a quale distretto appartenga la competenza ove sia convenuta un’amministrazione statale, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., occorre fare riferimento alternativamente al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. Infatti, la suddetta disposizione stabilisce che “per le cause nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio del- l’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l’amministrazione è convenuta, tale distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda”. Ne consegue che l’odierna controversia è stata correttamente incardinata davanti a questo Giudice, in quanto il Comune di -omissis-, luogo dove è avvenuto l’omicidio del maresciallo M. e, dunque, ove è sorta l’obbligazione risarcitoria vantata da parte attrice, pure se compreso nella provincia di Caserta, appartiene all’ambito di competenza del tribunale di Cassino. In relazione a ciò, il distretto cui fare riferimento è quello della Corte di Appello di Roma e poiché l’Avvocatura dello Stato ha sede in tale città, il tribunale competente è quello di Roma. Entrando, ora, nel merito della controversia, occorre rilevare che, sebbene i fatti di causa risultino non contestati, appare opportuno ripercorrerli al fine di valutare se sussiste, anzitutto, una responsabilità ex artt. 2043 o 2049 c.c. in capo alle amministrazioni convenute. A tal proposito, è emerso dagli atti che in data 19 marzo 2012 il maresciallo M. redigeva un’annotazione di servizio in cui documentava un’anomala tenuta della contabilità dei carburanti presso la Stazione dei carabinieri di -omissis-, evidenziando la possibilità che le schede carburante venissero scambiate con denaro contante, falsificando il numero di litri di carburante effettivamente erogati alle vetture. tale annotazione, trasmessa in data 11 aprile 2012 al proprio superiore Comandante della compagnia di -omissis-, il capitano M.M., veniva da quest’ultimo inoltrata all’autorità giudiziaria militare in data 12 aprile 2012. Inoltre, in data 12 aprile 2012 lo stesso M. procedeva a redigere un’altra annotazione di servizio con cui informava il M. dell’esistenza di alcuni fatti di rilevanza penale che coinvolgevano il titolare della locale clinica privata “-omissis-”, dott. d.L.G. che, conosciute dal luogotenente S., erano da quest’ultimo state sottaciute in cambio di favori e utilità non specificamente indicate. Il Sostituto Procuratore militare designato, letti gli atti, onde verificare se le irregolarità denunciate fossero costanti nel tempo ed ascrivibili a comportamenti dolosi di uno o più militari in servizio, disponeva che fossero effettuate ulteriori indagini, le quali, a far data dall’aprile del 2012, furono svolte direttamente dal cap. M. Successivamente, in data 15 giugno 2012, quest’ultimo aveva un colloquio col S., avente ad oggetto la vicenda della contabilità dei carburanti, in seguito al quale egli redigeva una relazione di servizio giustificativa. Infine, in data 21 giugno 2012, il luogotenente S.A., dapprima, sparava con la pistola di or dinanza un colpo alla nuca del Maresciallo t.M., mentre questo era seduto alla propria scrivana, uccidendolo, e poi rivolgeva la stessa arma contro sé stesso, suicidandosi. orbene, così chiarito quanto accaduto, occorre valutare l’applicabilità al caso di specie dell’art. 2049 c.c., per cui “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Si tratta, come ha avuto modo di mettere in luce la giurisprudenza più recente, di una forma di responsabilità oggettiva per fatto altrui, che prescinde da qualsiasi accertamento sulla culpa in vigilando o in eligendo del padrone/committente e che rappresenta l’applicazione del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l’avvalimento, da parte di un soggetto, dell’attività di un altro per il perseguimento di propri fini, comporta l’attribuzione al primo di quella posta in essere dal secondo nell’ambito dei poteri conferitigli (cfr. ex multis Cass. Civ. 9 giugno 2016, n. 11816, Cass. ord. 12 ottobre 2018, n. 25373, Cass. Civ. 14 febbraio 2019 n. 4298). Per quanto riguarda, poi, specificamente, la responsabilità della P.A. ai sensi dell’art. 2049 c.c., nel caso in cui la condotta dannosa del pubblico dipendente costituisca un reato, sono intervenute le S.U. che con sentenza n. 13246/2019 hanno chiarito che “lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del suo dipendente anche quando questi abbia approfittato delle proprie attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi -non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”. Pertanto, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, nella valutazione circa la sussistenza di una responsabilità ex art. 2049 c.c. in caso di comportamento penalmente rilevante, ritenuta l’irrilevanza del fatto che il pubblico dipendente abbia agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche, si deve dare rilievo alla diversa circostanza della sussistenza di un “nesso di occasionalità necessaria” quale filo che lega la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dallo stesso. tale nesso deve ritenersi sussistente se la condotta illecita dannosa si innesta nel meccanismo dell’attività complessiva dell’ente, tale per cui l’espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato costituisce conditio sine qua non del fatto produttivo del danno, secondo il principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta. In altri termini, “il preponente è responsabile per le conseguenze identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile” (cfr. Cass. S.U., sentenza 16 maggio 2019 n. 13246). Invece, qualora il dipendente abbia agito per “un fine strettamente personale ed egoistico, sulla base di un comportamento non riconducibile all’esercizio delle mansioni, mancando ogni connessione causale fra mansione ed evento dannoso, dal momento che la sua condotta non è riconducibile nell’alveo di una prevedibilità statistica, allora il nesso causale è da reputare interrotto” (cfr. Cass. Civ., sent. 10 novembre 2015, n. 22956). Infatti, è necessario che “la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scor retto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un’attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all’espletamento delle sue incombenze” (cfr. Cass. Civ. sent. n. 11816/2016, Cass. pen. Sez. VI, 4 giugno 2015, n. 44760, Cass. pen. Sez. VI, 27 marzo 2013, n. 26285). dunque, sulla base di quanto appena detto, si può concludere affermando che non sussiste alcuna responsabilità ex art. 2049 c.c. della P.A.: in primo luogo, qualora l’illecito non sia stato in alcun modo occasionato dalle funzioni espletate nell’ambito dell’amministrazione; in secondo luogo, nelle ipotesi in cui la condotta del dipendente pubblico, pur mantenendo un collegamento con l’esercizio, ancorché scorretto, delle funzioni espletate, ne costituisce uno sviluppo anomalo, in quanto imprevedibile ed eterogeneo. Chiarito ciò, deve escludersi, nel caso di specie, la configurabilità di una responsabilità dei Ministeri convenuti ai sensi dell’art. 2049 c.c. Infatti, applicando le linee direttrici elaborate dalla giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi che l’azione omicidiaria posta in essere dal S., sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico, rappresenta uno sviluppo anomalo e imprevedibile in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, tale da recidere il vincolo di occasionalità necessaria. Invero, il fatto illecito commesso non si può che ritenere estraneo al normale sviluppo di sequenze di eventi connessi all’espletamento delle funzioni svolte dal luogotenente, in quanto, valutate le ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile, tra di esse non può ricomprendersi l’omicidio di un commilitone. In conclusione, l’assenza di pregresse situazioni di animosità fisica o verbale tra i soggetti coinvolti, l’estemporaneità del comportamento del S. e l’assoluta antiteticità della sua condotta con le funzioni attribuite dall’ordinamento nazionale ad un appartenente all’Arma dei Carabinieri consentono di escludere in nuce l’esistenza del “nesso di occasionalità necessaria”. Va, parimenti, esclusa una responsabilità diretta delle amministrazioni coinvolte ex art. 2043 c.c., non essendo configurabile una condotta omissiva negligente dei Ministeri convenuti in relazione all’omesso trasferimento di uno dei soggetti coinvolti secondo quanto previsto dal- l’art. 395 del regolamento interno dell’Arma dei Carabinieri. Infatti, dall’espletata istruttoria è emerso che, sebbene la segnalazione circa la commissione dei presunti illeciti da parte del S. sia stata effettuata dal M., l’attività di indagine, a partire dall’aprile 2012, è stata condotta direttamente dal capitano M. (cfr. deposizione dello stesso, verbale ud. 23 gennaio 2024, cap. 5), tanto è vero che è stato quest’ultimo a richiedere in data 15 giugno 2012 al S. una relazione in ordine alla presenza di eventuali anomalie nella gestione dei carbo-lubrificanti (cfr. deposizione dello stesso, verbale ud. 23 gennaio 2024, cap. 6). Inoltre, sulla base di quanto riferito da C.C. (cfr. dichiarazioni rese alla medesma udienza del 23 gennaio 2024) , all’epoca dei fatti comandante del NoR della Compagnia di -omissis-, si evince che il M. pur essendo amareggiato di aver effettuato delle segnalazioni su dei colleghi, non aveva rappresentato alcun timore circa la propria incolumità né tantomeno ha riferito della sussistenza di situazioni di tensione o di litigiosità con tali soggetti, sintomatiche di un’incompatibilità sul luogo di lavoro idonea a giustificare il trasferimento di uno di loro. del resto, anche nella richiesta di archiviazione formulata dalla Procura Militare della Repubblica di Napoli (fr. doc. 4 del fascicolo di parte attrice p. 4), nel procedimento attivato al fine di ricostruire la vicenda che ha provocato la morte del luogotenente S. e del maresciallo M., è stata esclusa la sussistenza di qualsivoglia contributo causale da parte di terzi “anche alla luce della assoluta imprevedibilità dell’insano gesto e dell’assenza di ogni significativo elemento, caratteriale o circostanziale, in qualche modo “predittivo” di tale determinazione”. In tal senso si è peraltro pronunciato il tribunale ordinario di Napoli adito con analoga domanda risarcitoria dai prossimi congiunti del maresciallo M. (moglie, figlia e padre) che ha escluso la responsabilità del Ministero, ritenendo mancante sia la riconducibilità della condotta del reo all’alveo di una prevedibilità statistica, sia la sussistenza e la conoscenza da parte dei superiori gerarchici di una situazione di tensione tra i soggetti coinvolti nella drammatica vicenda che avrebbe potuto giustificarne il trasferimento (cfr. doc. 1 allegato dalla difesa erariale). Pertanto, respinta la domanda svolta nei confronti dei Ministeri convenuti, delle conseguenze civili risarcitorie del reato, pacificamente commesso da S.A., sono tenuti a risponderne i suoi eredi nei limiti dell’accettazione della eredità con beneficio di inventario ex art. 490 c.c., ovvero C.R., S.C. e S. G. (rispettivamente moglie e figli di S.A.). In relazione al danno da perdita parentale, quale forma di danno morale, si deve rilevare che esso si scinde in una duplice voce: l’aspetto interiore, inteso come sofferenza morale derivante dalla perdita, e quello esteriore, ossia il c.d. danno dinamico-relazionale. tale duplicità, come ha avuto modo di chiarire la Corte di Cassazione, comporta una distribuzione diversa del- l’onere probatorio tra le parti circa l’esistenza del danno-conseguenza. Infatti, la presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio, configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli), si estende ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli); tale presunzione impone al terzo danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita, ma non riguarda, invece, l’aspetto esteriore (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (cfr. Cass. Civ., ordinanza n. 5769 del 4 marzo 2024 e Cass. Civ., sentenza n. 22397 del 15 luglio 2022). dunque, secondo tale orientamento giurisprudenziale cui si ritiene di aderire, l’uccisione di una persona fa presumere da sola e salva prova contraria a carico del danneggiante, una conseguente sofferenza morale in capo ai prossimi congiunti della vittima; al contrario, la prova dell’esistenza di un danno dinamico-relazionale derivante dalla perdita di un congiunto grava integralmente sul superstite, che dovrà dimostrare l’intensità del vincolo familiare, un’eventuale situazione di convivenza ed ogni ulteriore circostanza utile a ricostruire la consistenza e l’intensità del loro rapporto (cfr. Cass. Civ., sent. 11 novembre 2003, n. 16946; Cass. Civ., sent. 6 settembre 2012 n. 14931). Ebbene, l’istruttoria condotta ha provato la sussistenza, nella duplice veste poc’anzi descritta, del danno da perdita parentale patito da M.A. e M.R., essendo stato dimostrato il profondo dolore derivante dalla perdita del congiunto e l’intenso legame affettivo che legava gli attori e la vittima, caratterizzato da un’assidua frequentazione tra le famiglie e da un supporto reciproco nei momenti di difficoltà (cfr. deposizione di C.M., verbale ud. 18 settembre 2024). Al contrario, parte convenuta non ha fornito elementi tali da far dubitare dell’esistenza di un rapporto costante ed intenso tra i fratelli. Per quanto riguarda, poi, i parametri in base ai quali effettuare la liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, (cfr. Cass. Civ., ordinanza n. 26300 del 29 settembre 2021; cfr. anche Cass. n. 10579/2021). Si ritiene opportuno fare riferimento alla vigente tabella adottata presso il tribunale di Roma (anno 2023), risultando essa rispondente ai criteri di liquidazione indicati dalla giurisprudenza di legittimità, essendo presi in considerazione elementi, quali l’età della persona deceduta e del danneggiato, la presenza o meno del rapporto di convivenza, la composizione del restante nucleo familiare (come statuito dallo stesso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il sistema romano è idoneo a consentire un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto e, nello stesso tempo, a garantire l’uniformità di giudizio al cospetto di vicende analoghe, Cass. n. 26300/2021). Ciò detto, si reputa equo liquidare, a titolo di danno per la perdita del congiunto, l’importo di euro 153.308,02, al valore attuale, in favore di ciascuno degli attori (fratelli gemelli nati il 1 giugno 1976, cfr. certificazione anagrafica depositata in data 1 aprile 2023) e dunque di anni 36 alla morte della vittima, avvenuta il 21 giugno 2012. La somma è equitativamente calcolata moltiplicando il valore di € 11.356,15 per n. 13,5 punti, di cui: n. 7 per il grado di parentela; n. 3 per l’età della vittima (anni 42); n. 3,5 per l’età dei fratelli (anni 36), in mancanza di convivenza. Sul totale delle somme sopra liquidate dovute quale sorte capitale sono, poi, dovuti gli interessi legali, intesi, a mente dei noti principi sanciti dalla Corte di Cassazione con sent. n. 1712/95, come “lucro cessante ”, computabili sul credito complessivamente liquidato, devalutato alla data del fatto (da farsi risalire al 21 giugno 2012, giorno del decesso del congiunto) e via via rivalutato sino alla pubblicazione della presente sentenza. Sul totale delle somme così liquidate per sorte capitale e lucro cessante competono gli interessi legali, dalla data della presente decisione al saldo, ex art. 1282 c.c. deve precisarsi che ciascun erede (nei limiti del beneficio di inventario ex art. 490 c.c.), “è tenuto a soddisfare il debito ereditario esclusivamente “pro quota”, e cioè in ragione della quota attiva in cui succede, e, pertanto, non può essere condannato in solido con i coeredi al pagamento del debito stesso” (cfr. Cass. Sez. 3 - sentenza n. 23705 del 22 novembre 2016). Le spese di lite dovute dai convenuti soccombenti C.R., S.C. e S.G., seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, nei limiti dei parametri di liquidazione di cui al d.m. n. 55/2014, aggiornato ex d.m. n. 147/2022, tenuto conto del valore della domanda (in ragione del decisum) e dell’attività in concreto svolta, mentre si ritiene opportuno compensare le spese del giudizio nei rapporti con i Ministeri convenuti, in virtù delle gravi ed eccezionali ragioni legate alle particolari circostanze che hanno portato alla morte di t.M., le quali giustificano la suddetta compensazione, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., come interpretato dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 19 aprile 2018. P.Q.M. Il tribunale di Roma, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza disattesa e reietta, così provvede: -rigetta la domanda svolta dagli attori nei confronti del Ministero della difesa e dell’Interno; -accoglie la domanda proposta dagli attori nei confronti dei convenuti C.R., S.C. e S.G., che condanna, pro quota (e fermi gli effetti di cui all’art. 490 c.c.), al pagamento, in favore di M.A. e M.R., della somma complessiva di € 153.308,02, per ciascuno, oltre lucro cessante e interessi come in motivazione; - compensa le spese del giudizio tra gli attori e i Ministeri convenuti; -condanna, in solido, i convenuti C.R., S.C. e S.G. al pagamento, in favore dei procuratori degli attori, dichiaratisi antistatari, delle spese del giudizio liquidate in complessivi € 9.167,60 per compensi professionali, oltre al rimborso delle spese versate per contributo unificato, spese generali, IVA e CPA come per legge. Roma, 14 gennaio 2025 Sentenza redatta con la collaborazione del M.O.T. dott. Saverio Cirota. Contenziosotributarioosservatorio Istituenda sezione “Contenzioso tributario - Osservatorio” a cura dell’Avv. Gianni De Bellis Presentazione del Direttore responsabile A partire da questo numero la rassegna dell’Avvocatura dello Stato amplia e approfondisce il suo ambito operativo, introducendo stabilmente una speciale sezione della Rivista interamente dedicata al diritto tributario. Per l’occasione la rivista si avvale dell’Avvocato Generale dello Stato onorario, Avv. Gianni De Bellis, nominato condirettore della Rassegna. L’Avv. De Bellis collocato a riposo “per raggiunti limiti di età, dopo oltre quarantadue anni di prestigiosa e significativa presenza, ... già Vice Avvocato Generale dello Stato, ... ha onorato l’Avvocatura e il Paese con la Sua altissima professionalità, con il Suo costante impegno e con le Sue elevate doti professionali e umane, riconosciute anche dalle Supreme Magistrature e tali da rappresentare un esempio e un punto di riferimento ...” (*) Tra i colleghi è quello che del diritto fiscale ne sa di più, ma soprattutto è l’avvocato dello Stato che, meglio di altri, sapeva individuare i punti focali di una questione, individuando le fasi critiche del sistema tributario e le soluzioni possibili; in parole semplici la strada migliore da percorrere… Caro Gianni, grazie dell’aiuto che mi dai e buon lavoro. Giuseppe Fiengo (*) Comunicato dell’Avvocato Generale in occasione del pensionamento dell’Avv. De Bellis, martedì 17 dicembre 2024. La responsabilità dei soci verso il fisco a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese NotA A Corte di CASSAzioNe, SezioNi UNite, SeNteNzA 12 FebbrAio 2025, N. 3625 Gianni De Bellis* SommARio: 1. Cenni sulla responsabilità dei soci rispetto al fisco -2. La sentenza n. 3625/2025 delle Sezioni Unite -2.1 La posizione dei soci della società cancellata -2.2 Quali strumenti di accertamento nei confronti dei soci -2.3 il rapporto tra l’art. 36, comma 3, d.P.r. n. 602/1973 e l’art. 2495 c.c. - 3. Conclusioni. 1. Cenni sulla responsabilità dei soci rispetto al fisco. La responsabilità dei soci rispetto al fisco si manifesta principalmente nei seguenti casi: a) per le società di persone l’imposta sul reddito non grava sulla società (priva di personalità giuridica), bensì sui singoli soci, ai quali il reddito societario viene imputato “per trasparenza” ai fini iRPEF in misura proporzionale alla partecipazione (art. 5, comma 1, del TUiR), mentre sulla società gravano sia l’iVA che l’iRAP. Nei casi di contenzioso, i complessi rapporti tra gli accertamenti societari e quelli dei singoli soci hanno trovato una razionale sistemazione nella storica sentenza n. 14816/2008 della Corte di Cassazione resa a Sezioni Unite (con particolare riferimento al litisconsorzio necessario tra soci e società ed agli effetti dei giudicati parziali); b) per le società di capitali a ristretta base sociale -composta da un numero limitato di soci, spesso legati tra loro da vincoli di parentela o affinità i soci possono essere chiamati a rispondere per l’omessa dichiarazione di redditi di capitale nei casi di “utili in nero” realizzati dalla società, derivanti dalla omessa fatturazione di redditi imponibili non risultanti dai registri contabili. A differenza del caso precedente, in cui l’intero reddito societario (dichiarato o evaso) viene imputato ai soci, nel caso in esame assumono rilievo le sole ipotesi di evasione fiscale che danno luogo a utili occulti, non risultanti dalla contabilità. Non assume pertanto rilievo, ad esempio, una evasione d’imposta societaria derivante dalla non inerenza di alcuni costi dedotti. in questo caso l’evasione -che pure esiste -è imputabile alla sola società, ma non emergono utili non contabilizzati che possono presumersi incamerati dai soci. Per costante giurisprudenza infatti “è legittima la presunzione semplice di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova contraria” (Cass. n. 6745/2025). Relativamente al contenzioso avverso gli av (*) Avvocato Generale dello Stato onorario, già Vice Avvocato Generale. visi di accertamento societari o verso i soci, la giurisprudenza esclude l’esistenza di un litisconsorzio necessario (Cass. n. 21649/2020), mentre ravvisa un rapporto di pregiudizialità tra la causa avente ad oggetto l’accertamento societario (fatto storico da cui è sorta l’obbligazione anche del socio) e quelle proposte dei singoli soci avverso gli avvisi di accertamento personali (Cass. n. 6707/2025); c) il socio può ancora dover rispondere nei confronti del fisco in forza dell’art. 2495 comma 3 c.c. (in tema di cancellazione della società dal registro delle imprese), in forza del quale “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”. il socio si configura come successore nei debiti della società cancellata (ma anche nei crediti, con i limiti già indicati da SS.UU. n. 6070/2013); in tali ipotesi si tratta non di una obbligazione tributaria del socio, bensì di una successione nel debito societario nei limiti previsti dall’art. 2495 c.c. e comunque in funzione del tipo di società; d) un’ultima ipotesi di responsabilità del socio è contenuta nell’art. 36 comma 3 del d.P.r. n. 602/1973, in forza del quale “i soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile…”. Di questa responsabilità e di quella ex art. 2495 c.c. si è occupata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 3625/2025. 2. La sentenza n. 3625/2025 delle Sezioni Unite. 2.1 La posizione dei soci della società cancellata. La prima questione esaminata dalla Suprema Corte è stata quella relativa alla posizione dei soci nei casi di cancellazione della società rispetto ai debiti fiscali. La Corte ha ritenuto di confermare la sua giurisprudenza pressoché costante (precisa la Corte che la richiesta di intervento delle SS.UU. derivava «non tanto da un conclamato contrasto di orientamenti quanto da talune incertezze insite nell’adattamento all’ambito tributario di un assetto ricostruttivo già consolidatosi in quello civilistico»), che si fondava su Cass. SS.UU. n. 6070/2013, ribadendo che «a seguito dell’estinzione della società, il socio (ex-socio) è successore per il solo fatto di essere tale e non perché abbia ricevuto quote di liquidazione; ed il carattere universale della sua successione non è contraddetto dal fatto che egli risponda solo nei limiti di quanto percepito». Aggiunge poi la Corte che «nella fattispecie di responsabilità dei soci limitatamente responsabili per il debito tributario della società estintasi per cancellazione dal registro delle imprese, il presupposto dell’avvenuta riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, di cui al 3° (già 2°) co. dell’art. 2495 cod. civ., integra, oltre alla misura massima dell’esposizione debitoria personale dei soci, una condizione dell’azione attinente all’interesse ad agire e non alla legittimazione ad causam dei soci stessi»; interesse ad agire che tuttavia può sussistere anche nei casi in cui il socio non abbia ricevuto somme in sede di bilancio finale di liquidazione: «l’interesse ad agire dell’Amministrazione finanziaria non è escluso per il solo fatto della mancata riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, potendo tale interesse radicarsi in altre evenienze, quali la sussistenza di beni e diritti che, per quanto non ricompresi in questo bilancio, si siano trasferiti ai soci, ovvero l’escussione di garanzie». Alla luce di tali principi la Corte ha escluso che nel giudizio in esame -in cui la società era stata cancellata dopo la sentenza di primo grado -i soci (a cui l’Ufficio aveva notificato l’atto di appello) potessero contestare la loro legittimazione facendo valere il limite di responsabilità ex art. 2495 comma 3 c.c. Precisa la Corte che «nel giudizio già pendente nei confronti della società non potrà trovare ingresso -in particolare -la questione della avvenuta percezione di attività sociali o quote di liquidazione da parte dei soci, tema, come detto, estraneo alla legittimazione ed invece suscettibile di essere dedotto nel (diverso) giudizio che potrà originarsi a seguito della [eventuale: n.d.r.] notificazione ai soci stessi di autonomo e distinto atto impositivo ex art. 36 co. 5° cit.». in altri termini, pur configurandosi verso i soci una successione ex art. 110 c.p.c. per effetto della cancellazione della società, il giudizio che prosegue deve limitarsi al suo oggetto originario, e cioè l’esistenza o meno dell’evasione da parte della società; non è quindi consentito in quella sede introdurre il tema della responsabilità personale del socio nel debito societario, tema che sarà oggetto dell’eventuale successivo contenzioso qualora l’Amministrazione finanziaria decida di agire direttamente nei confronti del socio. La Corte ha poi precisato che nella fattispecie non era applicabile l’art. 28 comma 4 del D.Lgs. n. 175/2014, in forza del quale “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del registro delle imprese”; ciò in quanto la cancellazione della società era avvenuta in data anteriore all’entrata in vigore della disposizione (non retroattiva). 2.2 Quali strumenti di accertamento nei confronti dei soci. La seconda questione esaminata dalla Corte è stata quella relativa al tipo di strumento di cui può avvalersi l’Amministrazione finanziaria allorché -in caso di cancellazione della società -intenda agire nei confronti dei soci-successori in forza dell’art. 2495 c.c. in particolare se possa procedere direttamente alla iscrizione a ruolo del debito richiesto al socio, ovvero se sia necessario un avviso di accertamento. in effetti la Sezione tributaria della Corte aveva più volte affermato che «in tema di società di capitali, la disciplina dettata dall’art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal d.Lgs. n. 6 del 2003, art. 4 nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l’estinzione immediata della società, implica che nei debiti sociali subentrano “ex lege” i soci, sicché il fisco, ove le proprie ragioni nei confronti dell’ente collettivo siano state definitivamente accertate (ad esempio, per mancata tempestiva impugnazione dell’atto impositivo, ovvero per intervenuta estinzione del relativo giudizio, o infine per intervenuto giudicato sostanziale) può procedere all’iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della società estinta, sia a nome dei soci (pro quota, in relazione ai relativi titoli di partecipazione), e ciò ai sensi del d.P.r. n. 602 del 1973, art. 12, comma 3, e art. 14, lett. b), nonché azionare comunque il credito tributario nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere all’emissione di autonomo avviso di accertamento, ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.P.r. cit., relativo al diverso titolo di responsabilità di cui al precedente comma 3 (nel testo antecedente alla modifica apportata dal d.Lgs. n. 175 del 2014, art. 28, comma 5), di natura civilistica e sussidiaria» (Cass. 31904/2021, seguita da Cass. 34864/2023, 12999/2024 e 13051/2024). Le Sezioni Unite hanno optato per la diversa ipotesi, cioè per una scelta più garantista (disattendendo quindi la posizione della Sezione tributaria, di cui peraltro cita solo Cass. 31904/2021), affermando come «non convinca l’orientamento, ben evincibile da Cass. n. 31904 del 5 novembre 2021, secondo cui, una volta resosi definitivo il titolo nei confronti della società (per mancata opposizione, estinzione del processo ovvero giudicato) il Fisco potrebbe senz’altro procedere “all’iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della società estinta, sia a nome dei soci (pro quota, in relazione ai relativi titoli di partecipazione), e ciò ai sensi degli artt. 12, comma 3, e 14, lett. b), del d.P.r. n. 602 del 1973, nonché azionare comunque il credito tributario nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere all’emissione di autonomo avviso di accertamento”, […] in modo tale che i soci escussi potrebbero “con l’impugnazione della cartella di pagamento” così loro notificata lamentare l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, oppure contestare il fondamento della propria responsabilità, dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione». Le Sezioni Unite dichiarano espressamente di non condividere tale orientamento, in quanto: «È vero che si tratta, quello notificato all’ex socio, di un atto di accertamento che già contiene l’indicazione di un credito non più con testabile nella sua oggettività (1), ma l’esigenza che tale credito venga legittimamente imputato ad un soggetto pur sempre diverso (appunto l’ex socio) rispetto al contribuente che ad esso ha dato origine (la società) dimostra comunque la permanenza in esso di un sostrato prettamente pretensivo che si palesa per la prima volta, seppure limitatamente al risvolto soggettivo di responsabilità; non sarebbe dunque del tutto esatto ravvisare nella specie un accertamento senza imposizione, come tale surrogabile dalla cartella». Si tratta di una posizione condivisibile e (giustamente) garantista rispetto ai diritti del contribuente. L’Amministrazione finanziaria per agire verso il socio deve infatti dimostrare: -l’evasione fiscale della società (a tal fine dovrà allegare l’avviso societario o riportarne il contenuto); -la “successione” del socio ex art. 2495 c.c. nonché -per le società di capitali -la sua responsabilità nei limiti di quanto ricevuto sulla base del bilancio finale di liquidazione (2). Tali elementi di prova, essendo a carico dell’Ufficio finanziario rendono incompatibile l’utilizzo della cartella di pagamento, che potrebbe portare ad una inversione dell’onere della prova in capo al contribuente (il quale sarebbe tenuto a dimostrare di non aver riscosso somme in sede di bilancio finale di liquidazione) (3). L’utilizzo dell’avviso di accertamento, fornito di adeguata motivazione, appare dunque la scelta più corretta. D’altronde è bene ricordare che, ad esempio, nelle società di persone (a cui la giurisprudenza costante ha ritenuto estensibili, seppure con lievi differenze, i principi di cui all’art. 2495 c.c.), i soci debitori solidali illimitatamente responsabili dei debiti societari, possono non coincidere con i soci “successori” ex art. 2495 c.c. i primi infatti, sono i soci che erano tali nei periodi d’imposta in cui è sorta l’obbligazione societaria (com’è noto, anche a tal fine rileva il momento genetico della nascita del debito, non quello successivo della notifica dell’avviso: Cass. n. 13275/2020) (4). i secondi invece, sono gli ultimi soci che hanno deliberato (1) Anche se l’efficacia di un giudicato favorevole al fisco nei confronti della società cancellata è estensibile ai soci solo qualora gli stessi abbiano partecipato a tale giudizio. (2) Peraltro il bilancio finale ben può essere contestato dall’Amministrazione dimostrando che in realtà vi era stato un maggior riparto di utili occulti; in questi casi il socio può essere chiamato a rispondere sia per la propria iRPEF non dichiarata (ipotesi sub b) sopra esaminata), sia in qualità di successore per le imposte societarie dovute al fisco. E non si può di certo parlare di doppia imposizione. (3) in effetti, secondo Cass. n. 31904/2021 “con l’impugnazione della cartella di pagamento conseguentemente loro notificata, i soci -ferma la definitività dell’accertamento nei confronti della società e la sua incontestabilità nel merito -possono lamentare l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, oppure contestare il fondamento della propria responsabilità, dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione”. (4) «i crediti tributari nascono “ex lege” con l’avveramento dei relativi presupposti, e non già per effetto dell’atto amministrativo di accertamento posto in essere dall’amministrazione finanziaria” (Cass. 13275/2020). lo scioglimento della società e che possono essere diversi da quelli del periodo d’imposta oggetto di evasione (5). La distinzione assume particolare rilievo in relazione agli oneri probatori in capo all’Ufficio finanziario, al quale non è consentito presumere una conoscenza dei “fatti storici” a base dell’evasione societaria in capo a un soggetto che all’epoca non era ancora socio (cfr. al riguardo Cass. n. 1281/2020). 2.3 il rapporto tra l’art. 36, comma 3, d.P.r. n. 602/1973 e l’art. 2495 c.c. La terza questione esaminata dalle Sezioni Unite riguarda l’art. 36 comma 3 del d.P.R. n. 602/1973. Al riguardo è interessante notare come la Corte tratti congiuntamente la responsabilità dei soci in base a tale disposizione e all’art. 2495 c.c., quasi che la prima costituisca la versione “tributaria” della seconda. Com’è noto, l’art. 36 è stato interpretato dalla stessa Suprema Corte come una ipotesi di responsabilità dei liquidatori o amministratori di natura civilistica: «Si tratta di responsabilità per fatto proprio ex lege (per gli organi, in base agli artt. 1176 e 1218 c.c., e per i soci di natura sussidiaria), avente natura civilistica e non tributaria, non ponendo la norma alcuna successione o coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti, nemmeno allorché la società sia cancellata dal registro delle imprese (Cass., n. 15377 del 2020; Cass., n. 7327 del 2012; Cass., n. 29969 del 2019; Cass. n. 17020 del 2019; Cass., sez. un., n. 2079 del 1989). tale responsabilità non è di per sé equiparabile all’obbligazione derivante dalla responsabilità verso i creditori, ex art. 2394 c.c., ed ex art. 2495 c.c.» (Cass. n. 30481/2022). Più precisamente, in relazione alla responsabilità dei soci prevista nel comma 3 dell’art. 36, la stessa giurisprudenza ha precisato che: «ove abbiano ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta, precedenti alla messa in liquidazione, danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o abbiano avuto in assegnazione beni sociali dei liquidatori durante il tempo della liquidazione, i soci sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al comma 1 (liquidatori o amministratori) nei limiti del valore dei beni stessi, salve le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile. È dunque consentito al fisco di agire in via “sussidiaria” nei confronti dei soci “pro quota” e tale responsabilità “è pur sempre dipendente da quella del liquidatore e dell’amministratore, nel senso che, per escutere i primi, è comunque necessario che sussistano anche i presupposti per la responsabilità dei secondi” (Cass. n. 14570 del 2021)» (Cass. n. 30481/2022; in senso analogo Cass. n. 21851/2024). Dunque la responsabilità dei soci ex art. 36 comma 3 si aggiunge a quella dei liquidatori ed amministratori prevista dai commi 1 e 2 (quella cioè di non aver ben pagato i debiti tributari in violazione delle regole sui privilegi), ma (5) Resta ferma tuttavia la responsabilità sussidiaria (ex art. 2291 c.c.) anche degli ultimi soci per tutte le obbligazioni societarie non adempiute. non può estendersi (nei termini declinati dallo stesso comma 3) anche a qualsiasi credito fiscale in capo alla società cancellata. Per questi, infatti, opererà soltanto la successione ex art. 2495 comma 3 c.c. con i limiti ivi previsti. Le Sezioni Unite sembrano non aver tenuto conto della diversa natura della responsabilità dei soci ex art. 2495 c.c. ed ex art. 36 comma 3 d.P.R. n. 602/1973 (tributaria-successoria la prima; civilistica la seconda). Pur affermando -a proposito della responsabilità ex art. 36 comma 3 -che non si tratterebbe «né di una responsabilità ex lege per inadempimento o fatto illecito (diversamente quindi da quella, su base organica, che si è visto attingere i liquidatori e gli amministratori), né di una responsabilità di tipo successorio ex art. 2495 cod. civ.», aggiungono però subito dopo che «al pari di quest’ultima [ex art. 2495 c.c. n.d.r.] la responsabilità in esame ingenera in capo al socio l’obbligo di pagamento di un debito della società sul solo presupposto obiettivo, e nei limiti, della percezione di attività sociali in fase di liquidazione (o anche, con previsione ampliativa rispetto alla disciplina civilistica, nelle due annualità d’imposta antecedenti)»(6). Tale ultima affermazione, unita al mancato richiamo alla costante giurisprudenza secondo cui la responsabilità ex art. 36 comma 3 è tutta interna allo stesso articolo, fa sorgere il dubbio che le Sezioni Unite ritengano che la norma abbia una portata più ampia di quella fin qui ritenuta («ingenera in capo al socio l’obbligo di pagamento di un debito della società sul solo presupposto obiettivo, e nei limiti, della percezione di attività sociali in fase di liquidazione ») (7). 3. Conclusioni. Concludendo, la pronuncia della Suprema Corte appare di assoluto rilievo, poichè le Sezioni Unite non si sono limitate a ribadire i principi già affermati nella sentenza n. 6070/2013 in tema di successione dei soci alla società cancellata, ma hanno anche chiarito le modalità con cui l’Amministrazione finanziaria può agire nei confronti dei soci (escludendo la notifica diretta di una cartella), non ritenendo applicabile l’art. 477 c.p.c. che consente di avvalersi nei confronti degli eredi del titolo esecutivo ottenuto verso il de cuius; ciò in quanto non ritiene possibile una «meccanica trasposizione in materia dei principi e delle regole proprie della successione mortis causa». Proprio in applicazione di tale ultimo principio, è auspicabile il definitivo superamento di quella giurisprudenza secondo cui la cancellazione della so (6) in effetti l’art. 36 comma 3 ha una portata più ampia dell’art. 2495 c.c., in quanto prende a riferimento le somme e i beni ricevuti dai soci negli ultimi due anni precedenti la messa in liquidazione della società (nonché in tale fase), senza fare alcun riferimento al bilancio finale di liquidazione. (7) A meno che, l’apparente parallelo tra i due tipi di responsabilità non sia imputabile alla circostanza che l’art. 2495 c.c. prevede a sua volta, al comma 3, una responsabilità dei soci anche per colpa dei liquidatori analoga a quella dell’art. 36 comma 1 del d.P.R. n. 602/1973. cietà, al pari del decesso della persona fisica, farebbe venir meno le sanzioni irrogate (Cass. 29112/2021; 9368/2023; di recente però, di contrario avviso v. Cass. 32503/2024 e 23341/2024) per il semplice motivo che la morte di una persona è un evento naturale (e ineluttabile), mentre lo scioglimento della società con la successiva cancellazione è il frutto di una scelta volontaria dei soci, della quale gli stessi verrebbero ad avvantaggiarsi con l’estinzione delle sanzioni. D’altro canto, se un parallelo si volesse comunque fare con l’istituto della successione mortis causa, la norma di riferimento dovrebbe semmai essere individuata nell’art. 463 c.c. in tema di indegnità a succedere, prevista per coloro che hanno volontariamente cagionato la morte del de cuius. Sulla base del medesimo principio non potrebbero avvantaggiarsi dell’abbuono delle sanzioni gli stessi soci che hanno deliberato la cancellazione della società. Cassazione civile, sezioni unite, sentenza (ud. 12 novembre 2024) 12 febbraio 2025 n. 3625 -Pres. P. D’Ascola, rel. G.m. Stalla -z.A., z.R., z.P. (avv. m. Francescon) c. Agenzia delle Entrate (avv. Stato G. De Bellis). Fatti rilevanti di causa § 1.1. i fatti rilevanti di causa possono così riassumersi: • il 12 luglio 2012 l’Agenzia delle Entrate di Treviso notificava a Simpra Srl in liquidazione, società produttrice di marmitte e componenti per auto, avviso di accertamento per l’anno 2006 con il quale, stante la mancata presentazione del modello Unico 2007 per l’anno in questione, rideterminava induttivamente in Euro 887.332,00 il volume d’affari iva ed in Euro 200.200,00 il reddito ai fini ires ed irap, recuperando le maggiori imposte dovute con relative sanzioni; l’Ufficio procedeva alla ricostruzione del volume d’affari e dei redditi della società, ex artt. 55 d.P.R. 633/72 e 41 d.P.R. 600/73, prendendo a riferimento, per il primo, l’importo delle operazioni iva dichiarate dalla società con la comunicazione annuale e, per i secondi, l’applicazione a tale volume d’affari di una detrazione per costi d’impresa forfettariamente stabilita con riguardo a campione medio di società del settore; • la società impugnava l’avviso di accertamento avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Treviso la quale, con sentenza n. 219/03/14 del 12 marzo 2014, accoglieva in parte il ricorso, ritenendo legittima la sola ripresa iva, che rideterminava in euro 24.921,40 con applicazione delle sanzioni al minimo di legge; •il 9 giugno 2014 la società veniva cancellata dal Registro delle imprese di Treviso; • il 29 ottobre 2014 l’Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso questa sentenza evocando in giudizio, vista la cancellazione della società, i soci z.P., z.R. ed z.A.; affermava preliminarmente la responsabilità di costoro per il debito della società, ex artt. 2495, co, 2^, cod. civ. e 36 co. 3^ d.P.R. 602/73, allegando a proprio interesse il fatto che, pur in presenza di un bilancio finale di liquidazione che, in quanto negativo, non aveva attribuito alcunchè ai soci, risultasse comunque in bilancio l’appostazione di un credito della società verso il Fisco per annualità pregresse, come tale suscettibile di compensazione con la pretesa qui dedotta; • si costituivano i soci i quali eccepivano preliminarmente che, a seguito della cancellazione della società, il giudizio -inizialmente radicato esclusivamente nei confronti di quest’ultima -non poteva proseguire e che, comunque, facevano difetto sia l’interesse ad agire in capo all’Agenzia delle Entrate (asseritamente basato su una compensazione nei confronti di un soggetto non più esistente), sia la loro legittimazione passiva, in quanto non destinatari di somme o beni in sede di liquidazione ex art. 2495 cod. civ.; • la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, respinte le eccezioni preliminari, accoglieva l’appello e, in riforma della prima decisione, affermava la legittimità in toto dell’avviso così come notificato alla società osservando, per quanto qui di interesse, che: -l’Agenzia delle Entrate aveva correttamente chiamato in causa gli ex soci della società medio tempore cancellata posto che, per effetto del fenomeno di tipo successorio che si era così venuto a creare ex art. 110 cod. proc. civ. (come evincibile da Cass. SU n. 6070/2013) essi, anche se rimasti estranei al primo grado di giudizio, avevano acquisito la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, senza che ciò determinasse una lesione dei loro diritti di difesa; -atteso che il giudizio verteva unicamente sull’avviso di accertamento notificato alla società per il 2006, le ulteriori questioni che z.P., z.R. ed z.A. avevano sollevato circa i limiti della loro responsabilità diretta per il pagamento delle somme derivanti da detto avviso (in quanto non destinatari di beni in sede di liquidazione finale) non potevano avere ingresso, trattandosi di eccezioni che avrebbero potuto essere eventualmente dedotte in un diverso giudizio. z.P., z.R. ed z.A. hanno proposto ricorso avverso questa sentenza, di cui chiedono la cassazione sulla base di undici motivi ex art. 360 co. 1^ nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ., i primi tre dei quali volti a censurare la su riportata ragione decisoria della Commissione Tributaria Regionale, e qui rilevanti: -con il primo motivo si afferma la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 100 cod. proc. civ. e 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.: la Commissione Tributaria Regionale aveva erroneamente omesso di dichiarare l’inammissibilità, per carenza d’interesse ad agire dell’appello proposto dall’Agenzia direttamente nei confronti degli ex soci a seguito del- l’estinzione della società, come reso evidente dal fatto che la compensazione tra il credito erariale verso la società (di cui si era chiesto l’accertamento definitivo in appello) ed il controcredito vantato da questa per rimborso iVA, non poteva più realizzarsi per l’inesistenza del soggetto giuridico (la società) titolare sia del credito da compensare sia dell’asserito debito dedotto in avviso; né il credito della società verso il Fisco si trasmetteva agli ex soci a seguito ed in conseguenza dell’estinzione della società stessa, dal momento che a costoro si trasferivano esclusivamente le sopravvenienze attive, ovvero i beni ed i crediti diversi dalle mere pretese non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, laddove il credito di rimborso iva in questione risultava invece compreso nel bilancio di liquidazione; -con il secondo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 110 cod. proc. civ. e 1, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992 (e dei presupposti artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973) in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.: la Commissione Tributaria Regionale aveva erroneamente omesso di dichiarare (eventualmente anche d’ufficio) l’inammissibilità dell’appello perché proposto dall’Agenzia direttamente nei confronti degli ex soci, senza aver contestualmente dimostrato anche la loro personale responsabilità in relazione ai debiti erariali già facenti capo alla società estinta per effetto e nei limiti della riscossione o assegnazione a loro favore delle somme o dei beni di cui agli artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973 (ed, anzi, pur essendo stato in causa positivamente dimostrato il contrario); in quanto tempestivamente dedotta con le controdeduzioni d’appello, e quindi in occasione del loro primo atto difensivo, la questione, contrariamente a quanto affermato in sentenza, non poteva certamente essere considerata estranea al thema decidendum e proponibile solo in altra sede; -con il terzo motivo di ricorso si riformula la stessa doglianza del motivo che precede, ma sotto il profilo, ex art. 360 co. 1 n. 3) cod. proc. civ., della violazione o falsa applicazione degli artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973; si osserva inoltre che la violazione di queste norme sostanziali integrava comunque anche un error in procedendo, laddove la loro esatta applicazione costituiva il presupposto per la corretta applicazione di una norma di rito (l’art. 110 cod. proc. civ.) che si assumeva violata proprio in conseguenza della violazione delle prime. L’Agenzia delle Entrate dichiarava di costituirsi al solo fine della eventuale discussione in udienza, ex art. 370, primo comma, cod. proc. civ. § 1.2 Assegnato il ricorso a decisione, interveniva l’ordinanza n. 7425 del 14 marzo 2023 con la quale la Sezione Tributaria rimetteva gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione così individuata (par. 12): “Le censure proposte con il primo, il secondo e il terzo motivo di ricorso, che assumono rilievo decisivo e assorbente, implicano l’esame della questione controversa, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, se la condizione testualmente fissata dall’art. 2495 cod. civ., al fine di consentire ai creditori sociali di fare valere i loro crediti, dopo la cancellazione della società, nei confronti dei soci, si rifletta sul requisito dell’interesse ad agire in capo al- l’Amministrazione finanziaria o sulla legittimazione passiva del socio medesimo ai fini della prosecuzione del processo originariamente instaurato contro la società e se la riconducibilità nell’ambito dell’una condizione dell’azione o dell’altra implichi conseguenze specifiche in tema di onere della prova. Ciò tenuto conto anche che il processo tributario è annoverabile tra quelli di «impugnazione-merito» e della affermata natura dinamica dell’interesse ad agire, che come tale può assumere una diversa configurazione, ma fino al momento della decisione ”. osservano i giudici remittenti che: • dal 1^ gennaio 2004 (data di entrata in vigore della riforma del diritto societario di cui al D.Lgs. n. 6/2003) la cancellazione della società dal registro delle imprese ha effetto costitutivo e ne comporta l’immediata estinzione, con superamento del pregresso indirizzo secondo cui l’estinzione presupponeva invece l’effettivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società (Cass., Sez. U., 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062); • successivamente alle sentenze appena citate, si è poi affermato (Cass., 16 maggio 2012, n. 7676; Cass., 16 maggio 2012, n. 7679; Cass., 16 maggio 2012, n. 19453) che, in base all’art. 2495 cit., nelle società di capitali la riscossione della quota in forza del bilancio finale di liquidazione non costituisce soltanto il limite di responsabilità del socio quanto al debito sociale, ma anche la condizione per la sua successione nel processo già instaurato contro la società; sicché il socio (diversamente dall’erede della persona fisica) non è di per sé successore universale della società, ma lo diviene, ex lege, se ed in quanto vi sia stata questa riscossione (nel qual caso egli risponde intra vires del debito sociale), con la conseguenza che quest’ultimo evento deve essere allegato e dimostrato quale presupposto della condizione dell’azione costituita dall’interesse ad agire, il quale “richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche la prospettazione dell’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, conseguente allo specifico intervento giurisdizionale richiesto, giacché il processo non può essere utilizzato in previsione di solo astratte esigenze”; • si è così giunti ai noti arresti del 2013 (Cass. Sez. U nn. 6070-6071-6072) con i quali è stato chiarito che, a seguito della cancellazione ed estinzione della società in corso di causa (come nella specie), si determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono (cosa che sacrificherebbe ingiustamente i diritti dei creditori sociali), ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione ovvero illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti in vita la società; in modo tale che i soci successori della società subentrano, altresì, nella legittimazione processuale facente capo all’ente -la cui estinzione è in parte equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ. -in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale (Cass., Sez. U., 2013 cit.); inoltre, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, l’effetto successorio comporta che i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscano ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) e il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo; • sempre secondo le Sezioni Unite del 2013, il socio successore non cessa di essere tale sol perché risponde intra vires, e se il suddetto limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei suoi confronti, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire e non sulla legittimazione passiva del socio medesimo, con l’ulteriore specificazione che in tal caso il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie; • diversa è la posizione del liquidatore, il quale non succede alla società e può essere raggiunto, ex art. 2495 cit., da un’azione autonoma (di natura risarcitoria) da parte dei creditori sociali insoddisfatti qualora il mancato pagamento sia da lui dipeso (Cass., 30 luglio 2020, n. 16362); • su queste premesse, si osserva ancora nell’ordinanza di rimessione, si sono poi sviluppate nella giurisprudenza linee interpretative non del tutto univoche e collimanti, nel senso che: a) per un primo e maggioritario indirizzo, costituente ormai “diritto vivente” (Cass., 5 novembre 2021, n. 31904), il limite di responsabilità dei soci di cui all’art. 2495 cod. civ. non incide sulla loro legittimazione processuale ma appunto sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si siano trasferiti ai soci; dunque, il creditore potrebbe avere interesse al mero accertamento del diritto, e l’eventuale insussistenza di attivo distribuito potrebbe incidere sulla esigibilità del credito in fase esecutiva (Cass. 8 marzo 2017, n. 5988; Cass., 7 aprile 2017, n. 9094; Cass., 24 gennaio 2018, n. 1713; Cass. 19 aprile 2018, n. 9672; Cass., 5 giugno 2018, n. 14446; Cass., 16 giugno 2017, n. 15035; Cass. 16 gennaio 2019, n. 897; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33582; Cass., 26 giugno 2020, n. 12758; Cass., 19 novembre 2020, n. 26402; Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2021, n. 619; Cass., 4 gennaio 2022, n. 2); pure in ambito tributario la possibilità di sopravvenienze attive, o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio, non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, “in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti” (Cass., 7 aprile 2017, n. 9094; Cass., 16 giugno 2017, n. 15035); orientamento, questo, che è stato ribadito anche dalle stesse Sezioni Unite, sebbene in sede di regolamento di giurisdizione (15 gennaio 2021 n. 619 cit.), secondo le quali il fatto che “i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente (...) ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del Fisco creditore”; b) in base ad un secondo orientamento, si afferma che è necessario provare l’effettiva percezione delle somme da parte dell’ex socio a titolo di legittimazione passiva, e questo onere incombe ex art. 2697 cod. civ. (trattandosi di elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità) sul creditore che agisce (Cass. 26 giugno 2015, n. 13259; Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444; Cass., 22 giugno 2017, n. 15474; Cass., 4 dicembre 2019, n. 31933; Cass., 15 gennaio 2020, n. 521), il che deve valere anche per il Fisco (Cass. 19732/ 9005; Cass.11968/2012; Cass. 7676/2012; Cass. 23916/16); c) in base ad un terzo orientamento, si sostiene che nel caso di società di capitali l’accertamento della riscossione della quota di liquidazione si correla alla legittimazione ad causam del socio ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ. sicchè, in presenza di contestazione sul punto, questa circostanza va provata dal soggetto che si costituisce in giudizio nella qualità di successore universale della società estinta, dimostrazione da ritenersi ammissibile anche, per la prima volta, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., in quanto appunto diretta a comprovare, sotto il detto profilo, l’ammissibilità del ricorso (Cass., 5 novembre 2021, n. 31904; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444), così anche Cass., 16 novembre 2020, n. 25869, secondo cui: “qualora l’estinzione della società a seguito di cancellazione dal registro delle imprese intervenga in pendenza di un giudizio che la veda parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione ad opera o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; ove l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, purché dei presupposti della “legitimatio ad causam” sia da costoro fornita la prova”; • pur dopo le decisioni delle Sezioni Unite del 2013, quindi, permarrebbero varie discrasie nella giurisprudenza: sia là dove si riconduce la condizione di cui all’art. 2495, co. 2^, cod. civ. nell’ambito ora dell’interesse ad agire (salvo poi prescinderne ritenendo che il creditore abbia comunque interesse anche in mancanza di una effettiva riscossione di somme sulla base del bilancio finale di liquidazione), ed ora della legittimazione processuale del socio, sia là dove si adottano sul punto criteri di ripartizione dell’onere probatorio del tutto opposti, a seconda che ci si muova nella prospettiva del creditore o del socio succeduto; • il tutto andrebbe poi specificato con riguardo al contesto tributario ed alle sue peculiarità, quanto a: -natura impugnatoria del giudizio, ex art. 19 D.Lgs. n. 546/92, e divieto di ampliamento del tema decisionale, apparentemente ostativo alla possibilità di sollevare l’eccezione del difetto di responsabilità del socio che sia succeduto in corso del giudizio (Cass., 19 aprile 2018, n. 9672, in motivazione); -natura anche di merito del medesimo, fermo restando che l’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 1992, come interpretato alla luce degli artt. 111 Cost., 6 CEDU e 47 CDFUE, “esclude la pronuncia di condanna indeterminata, rendendo necessario l’esame nel merito della pretesa, entro i limiti posti dalle domande di parte” (Cass., 25 novembre 2022, n. 34723; Cass. 10 settembre 2020, n. 18777); -caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, che presuppone in ogni caso una iscrizione a ruolo nei confronti del socio, succeduto nel corso del processo, per le somme accertate nei confronti della società, e ciò sia che debba essere attivata la speciale procedura prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1976, sia che venga attivato il modulo di responsabilità ex art. 2495 cod. civ.; (Cass., 19 aprile 2018, n. 9672, in motivazione); -al fatto che l’iscrizione a ruolo nei confronti del socio, e la stessa notifica della cartella di pagamento (che costituisce, ad un tempo, notifica del titolo esecutivo e del precetto: v. Cass. n. 3021/2018; Cass. n. 6526/2018; Cass., Sez. Un., n. 7822/2020), prescindono del tutto da ogni accertamento sulla avvenuta (o mancata) percezione degli utili, sicché la sede naturale in cui si possa procedere a questo accertamento deve giocoforza individuarsi nel processo tributario, il cui avvio è onere del socio, ex art. 19 D.Lgs. n. 546/1992; in modo tale, si è affermato, che spetta all’ex socio “dimostrare la propria assenza di responsabilità (ossia, il non essere tenuto, in concreto, a rispondere di quel debito sociale), per non aver percepito utili all’esito della liquidazione, anzitutto allegando la circostanza, e quindi offrendo la relativa prova. Né, del resto, su un piano più generale, può così configurarsi alcun vulnus al diritto di difesa del socio, ex art. 24 Cost. infatti, con l’impugnazione della cartella, il socio -con riferimento a quel titolo tributario -contesta il diritto di procedere all’esecuzione preannunciatagli dal fisco, allo stesso modo in cui per gli altri debiti sociali egli può contestare la propria responsabilità mediante opposizione all’esecuzione” (Cass. n. 12714/2019; Cass., 5 novembre 2021, n. 31904); • sempre in ambito tributario, poi, si è stabilito, sia pure in tema di impugnazione del- l’estratto di ruolo, che l’interesse ad agire è una condizione dell’azione avente natura «dinamica » la quale, come tale, può assumere una diversa configurazione, anche per norma sopravvenuta, ma fino al momento della decisione (Cass., Sez. U., 6 settembre 2022, n. 26283), aggiungendosi poi che “l’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito” (Cass., Sez. U., 22 novembre 2022, n. 34388). § 1.3 Assegnato dalla Prima Presidente alle Sezioni Unite, il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza odierna. il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità, introducendo essi questioni estranee al giudizio, dei primi tre motivi di ricorso (quelli qui di interesse) previa affermazione del seguente principio di diritto: “nel giudizio tributario, la successione dei soci limitatamente responsabili nella posizione processuale di una società estintasi nel corso del giudizio comporta che i soci non possano sollevare questioni inerenti alla loro successione nella posizione sostanziale e processuale della società estinta, né quelle che si riflettono sull’esistenza dell’interesse ad agire dell’amministrazione finanziaria nei loro confronti, in quanto estranee all’ambito della controversia, come delimitato dalla motivazione dell’atto impositivo notificato alla società e dalle ragioni del ricorso introduttivo della causa dalla società stessa formulato”. Sulle questioni di cui all’ordinanza di rimessione, il Procuratore Generale ha in particolare osservato che: • in ragione di quanto già stabilito dalle citate sentenze delle Sezioni Unite del 2013, l’ex socio ha sempre e comunque legittimazione passiva, incidendo il requisito di cui al secondo comma dell’articolo 2495 del cod. civ. (percezione di somme sulla base del bilancio finale di liquidazione) sull’interesse ad agire del creditore, peraltro “non condizionato necessariamente dalla ricezione da parte del socio di somme all’esito del bilancio finale di liquidazione, presupposto che inerisce strettamente alla sussistenza ed al perimetro della responsabilità patrimoniale del socio medesimo, potendosi ravvisare un diverso interesse all’accertamento del credito, quale quello funzionale all’escussione di garanzie”; • come stabilito dalle Sezioni Unite medesime, il fenomeno successorio in questione determina sul piano processuale l’applicabilità degli artt. 299 segg. e 110 cod. proc. civ. e, nel caso in cui l’evento estintivo non sia stato fatto constare ritualmente o si sia verificato in pendenza del termine per l’impugnazione di una sentenza, “il gravame deve promanare o esser indirizzato dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”; • pur in presenza di qualche pronuncia di segno contrario, l’indirizzo tracciato dalle Sezioni Unite del 2013 costituisce ormai ‘diritto vivente’, generalmente seguito, in ordine al fatto che “il limite di responsabilità di cui all’art. 2495 c.c. attiene all’interesse ad agire del creditore e non già alla legittimazione processuale dei soci, con conseguente divaricazione tra la posizione giuridica soggettiva di debitore di questi ultimi, riconducibile al sol fatto che la società si sia estinta e si sia quindi verificato il fenomeno successorio sui generis di cui s’è detto, e la loro responsabilità patrimoniale, riscontrabile nei limiti di quanto previsto dall’art. 2495, secondo co.”; • sempre in considerazione di questo consolidato orientamento (e come anche osservato da Cass. SU n. 619/21) l’assenza nel bilancio di liquidazione della società estinta di ripartizioni agli ex soci non esclude tuttavia “l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”; • su questo presupposto, e venendo con ciò al tema dell’onere della prova, occorre ritenere che “sul creditore gravi un onere di allegare e, in caso di contestazione da parte del preteso debitore, provare, non necessariamente solo la reale percezione delle somme conseguente alla ripartizione dell’attivo sociale successiva all’approvazione del bilancio finale di liquidazione, ma anche, alternativamente, alla luce della “dilatazione” operata dalla giurisprudenza del perimetro del concetto di interesse ad agire in fattispecie quali quella per cui causa, la necessità di accertare il credito nei confronti dei soci per ragioni diverse, quali quelle riconducibili alla possibile escussione di una garanzia o alla eventuale sopravvenienza di attivo, o ancora alla ipotizzabile non inclusione di beni o diritti nel bilancio finale di liquidazione”; • per regola generale, vertendosi appunto di interesse ad agire quale condizione di ammissibilità della domanda, questi presupposti sono oggetto “di un onere di allegazione o, in caso di contestazione, di dimostrazione, da parte del creditore”; • in sede di adattamento di questi principi al processo tributario nel quale gli ex soci succedano alla società estinta, le peculiarità date dalla natura impugnatoria e delimitata ai motivi di opposizione avverso l’atto impositivo tipica del giudizio, induce a rilevare che “i profili riconducibili all’interesse ad agire dell’amministrazione finanziaria nei confronti dei soci, e non più della società, sono estranei alla controversia, né possono essere introdotti ad integrazione della materia del contendere, sinanche fosse già intervenuta la distribuzione di utili ai soci; all’amministrazione finanziaria è infatti preclusa la possibilità di integrare o modificare la motivazione dell’avviso di accertamento nel corso del giudizio (Cass., n. 2382/18) ”; • ciò posto, il Fisco mantiene interesse al rigetto del ricorso contro l’atto impositivo notificato alla società poi dissoltasi, “al fine di ottenerne il consolidamento, necessario presupposto, quest’ultimo, di una successiva iscrizione a ruolo del credito erariale nei confronti del socio o, più correttamente, dell’emissione di un ulteriore avviso di accertamento, la cui motivazione dovrà inerire, inevitabilmente, anche alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2495, secondo comma c.c. o di cui all’art. 36, terzo comma del d.P.r. 602/73”; • quest’ultimo dato normativo, in particolare, depone nel senso che “sia la responsabilità dei soci ex art. 36, terzo comma, d.P.r. n. 602/73, sia quella ai sensi dell’art. 2495, secondo comma c.c., implicano quindi la necessità di un atto impositivo, distinto e successivo rispetto a quello emesso nei confronti della società estintasi, condizionatamente al fatto che la pretesa tributaria nei confronti della società si sia consolidata”. Motivi della decisione § 2.1 in base all’art. 2495 cod. civ. (originariamente nel suo 2^ co., poi divenuto 3 co. a seguito della modifica apportata dal D.L. n. 76/2020 conv. in legge n. 120/20): “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”. La disposizione ricalca l’art. 2456 cod. civ. nella formulazione previgente alla riforma del diritto societario di cui al D.Lgs. n. 6/2003, collocandosi però in un contesto normativo del tutto nuovo, segnato dal definitivo superamento della risalente e consolidata tesi della permanenza in vita della società fino ad avvenuta definizione di ogni rapporto giuridico ad essa riferibile (c.d. liquidazione sostanziale), a favore della natura costitutiva, ad effetto immediato, dell’estinzione della società a seguito ed a causa della sua cancellazione dal registro delle imprese (Cass. SSUU n. 4060/10); tanto che la vera innovazione dell’art. 2495 rispetto all’art. 2456 va appunto individuata nella precisazione iniziale, per cui la responsabilità dei soci dopo la cancellazione opera, adesso, ad estinzione sociale avvenuta: “Ferma restando l’estinzione della società (...)”. orbene, la materia in esame -nella sua disciplina codicistica -ha trovato un assetto interpretativo ed applicativo che giustamente l’ordinanza di rimessione ed il Procuratore Generale definiscono del tutto assodato nei suoi fondamenti, ed anzi integrante (nella condivisione di larga parte della Dottrina e della giurisprudenza successiva) un vero e proprio diritto vivente che - lo si precisa subito - andrà qui ribadito e confermato. Si tratta, del resto, di una ricostruzione a tal punto nota che ne sarà sufficiente un richiamo essenziale mirato ai temi di causa, con riguardo agli effetti tanto sostanziali quanto processuali della cancellazione-estinzione della società, così come evincibili da Cass. SSUU, 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072. Ciò nel senso che, sul piano sostanziale, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, “si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, ‘pendente societate’, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”. mentre, sul piano processuale, la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, in modo tale che qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, “si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.”. Dunque: -la cancellazione della società ha effetto costitutivo immediato ma non comporta l’estinzione, in danno dei creditori ed in violazione dell’art. 24 Cost., delle obbligazioni sociali; -gli ex soci rispondono (di un debito che non è nuovo, derivando esso non dalla liquidazione ma dal pregresso svolgimento dell’attività societaria in adempimento del contratto sociale, così mantenendo invariata la sua causa e la sua natura giuridica d’origine) quali successori, seppure intra vires ex 2495 co. 2 cod. civ. (ovvero illimitatamente, a seconda del regime di responsabilità attivo in pendenza del rapporto sociale); -i diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione si trasferiscono ai soci in contitolarità ovvero comunione indivisa, con eccezione delle mere pretese o dei crediti non certi nè liquidi, per i quali la cancellazione fonda una presunzione di abbandono; -sul piano processuale, la cancellazione emersa in corso di giudizio (là dove, in caso di mancata dichiarazione o notificazione dell’evento estintivo deve operare il regime di stabilizzazione ed ultrattività del mandato come successivamente chiarito da Cass. SU n. 15295/2014) non comporta la chiusura anticipata del processo per cessazione della materia del contendere e la necessità di un nuovo giudizio nei confronti del socio, bensì una causa di interruzione del processo ex artt. 299 segg. cod. proc. civ.; -ricorre in proposito l’art. 110 cod. proc. civ. (che richiama il venir meno della parte processuale non solo per morte ma anche per ‘altra causa’) e non l’art. 111 cod. proc. civ. (non essendoci trasferimento a titolo particolare di un determinato rapporto o diritto). Precisavano poi le Sezioni Unite che: “il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo ”. Pertanto, quella di cui all’articolo 2495 secondo comma (percezione di somme di liquidazione nelle società di capitali) è condizione dell’azione inerente non alla legittimazione passiva (ad causam) bensì all’interesse ad agire, con la precisazione però che la mancata percezione di somme di per sé non esclude l’interesse ad agire del creditore sociale in vista, ad esempio, dell’escussione di garanzie o della sopravvenienza di beni destinati a confluire in un regime di contitolarità o comunione indivisa. E vertendosi appunto di condizione dell’azione, in caso di contestazione è il creditore sociale che agisce a dover provare tanto la veste di ex socio del convenuto quanto il presupposto di cui all’articolo 2495 secondo comma. § 2.2 Come affermato dalla assolutamente prevalente giurisprudenza successiva -con orientamento che va qui ulteriormente ribadito -a seguito dell’estinzione della società, il socio (exsocio) è successore per il solo fatto di essere tale e non perché abbia ricevuto quote di liquidazione; ed il carattere universale della sua successione non è contraddetto dal fatto che egli risponda solo nei limiti di quanto percepito. Certo, non si tratta di estendere tout court alla fattispecie della successione alla società estinta i principi propri della successione alla persona fisica defunta, e già le Sezioni Unite del 2013 sentirono la necessità di concettualmente respingere, in materia, “improprie suggestioni antro pomorfiche”. La radice della responsabilità dell’ex-socio nell’originario contratto sociale, la sussistenza iniziale e statutaria di un regime di responsabilità limitata (come nelle società di capitali), la volontarietà e discrezionalità dell’evento estintivo, rappresentano -tutte -emergenze tipiche del fenomeno societario, tali da giustificare l’adozione di un paradigma di tipo successorio ma, come osservato dalle Sezioni Unite, pur sempre ‘sui generis’. in modo tale che, a tacer d’altro, mentre il successore della persona fisica può evitare di esporre il proprio personale patrimonio alla responsabilità per i debiti del de cujus non accettando l’eredità, ovvero accettandola con beneficio d’inventario, non altrettanto può fare l’ex-socio il quale risponderà in ogni caso appunto perché socio, sebbene nei limiti di quanto percepito nella liquidazione. E ciò si spiega con il fatto che la legittimazione dell’ex socio quale soggetto responsabile per i debiti societari residui discende appunto, se non proprio dall’adempimento, quantomeno in conseguenza del rapporto sociale al quale egli diede volontariamente corso, posto che: “il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori ” (SU cit.). Si condivide e riafferma, dunque, quanto osservato da Cass. n. 9672 del 19 aprile 2018 (in fattispecie tributaria, ma sulla base di considerazioni di valenza generale) la quale, dichiaratamente discostandosi da alcune pronunce di segno contrario (Cass., 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., 26 giugno 2015, n. 13259; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444) e ponendosi invece in linea con altre statuizioni più aderenti alle Sezioni Unite del 2013 (tra cui Cass. 7 aprile 2017, n. 9094; Cass. 16 giugno 2017, n. 15035) ha escluso che gli ex soci possano ritenersi subentrati nella posizione debitoria solo se abbiano riscosso quote di liquidazione e, inoltre, che l’accertamento di tale circostanza costituisca presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità di successore e, correlativamente, della sua legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo. Sempre nel solco tracciato nel 2013, va poi qui ancora ribadito che il fatto consistente nella percezione di somme rinvenienti dal bilancio finale di liquidazione non funge soltanto da misura o tetto massimo dell’esposizione debitoria del socio (“fino alla concorrenza”, come si legge nell’art. 2495 cod. civ.), ma attiene, in effetti, anche ed in primo luogo ad una condizione dell’azione, come tale demandata alla prova della parte attrice: quella però non della legittimazione ma dell’interesse ad agire. Neppure la Dottrina ha mancato di porre in luce come attribuire la percezione di somme liquidatorie alla sfera della legittimazione dell’ex socio finirebbe anzi con contraddire lo stesso assunto di universalità della successione, atteso che il successore che sia tale solo se qualcosa effettivamente acquista è il successore a titolo particolare, non quello a titolo universale, il quale succede nel patrimonio dismesso quand’anche questo sia formato da soli debiti; e ciò indipendentemente dal fatto che la sua responsabilità patrimoniale possa poi farsi valere solo entro un determinato ammontare. il risultato è che l’ex socio è sempre successore della società estinta, in quanto tale e non in quanto percettore di somme. Si è detto come le Sezioni Unite abbiano tuttavia ricordato che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto nei confronti del socio pur in assenza di riparto di liquidazione a favore di questi, come nel caso, che le stesse Sezioni Unite hanno considerato, di escussione di garanzie di terzi, ovvero di diritti e beni che, per quanto non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, siano ad esso attribuiti in regime di contitolarità o comunione indivisa. E questa impostazione ha trovato anch’essa plurime conferme successive (v. Cass. n. 9094 del 7 aprile 2017 cit.; Cass. n. 2 del 4 gennaio 2022; Cass. n. 22692 del 26 luglio 2023; Cass. n. 8633 del 2 aprile 2024 ed altre), in base alle quali il limite di responsabilità dei soci di cui all’art. 2495 cod. civ. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali: “interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ad essi”. Così Cass. n. 15035 del 16 giugno 2017 cit., secondo cui: “La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”; affermazione, quest’ultima, ripresa anche da Cass. SSUU n. 26283 del 6 settembre 2022 in tema di impugnazione di estratto di ruolo e già ribadita, in sede di riparto di giurisdizione, anche da Cass. SSUU n. 619 del 15 gennaio 2021. Le conclusioni sul punto appaiono dunque consolidate. § 3.1 il sistema fin qui delineato non è perfettamente trasponibile nell’ambito dell’accertamento della responsabilità per debiti di imposta. Talune deviazioni rispetto a quanto sin qui osservato sono necessitate dalla struttura stessa dell’obbligo tributario come riscontrabile in fattispecie tipiche, così nel caso delle imposte sui redditi nelle società personali, in cui non si pone tanto un problema di successione del socio alla società estinta, quanto di imputazione diretta ad esso, per trasparenza, dell’obbligo tributario (art. 5 d.P.R. 917/86); ma al di là di regimi particolari, il fulcro dell’autonomia del sistema tributario rispetto all’impianto codicistico si individua in via generale nell’art. 36 d.P.R. n. 602/73 (disciplina della riscossione delle imposte sul reddito, ma poi estesa anche all’iva ed alle altre imposte indirette), cosa di cui parvero del resto consapevoli già le Sezioni Unite del 2013 allorquando richiamarono espressamente, esse stesse, la specialità, rispetto al ragionamento che andavano svolgendo, del settore tributario. Ebbene, l’art. 36 cit., intitolato alla responsabilità ed agli obblighi degli amministratori, dei liquidatori e dei soci, stabilisce che: “1. i liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. 2. La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori. 3. i soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile. il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria. 4. Le responsabilità previste dai commi precedenti sono estese agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili. 5. La responsabilità di cui ai commi precedenti è accertata dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 del decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 600. 6. Avverso l’atto di accertamento è ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario di cui al decreto del Presidente della repubblica 26 ottobre 1972, n. 636. Si applica il primo comma dell’articolo 39”. La norma delinea due diverse ipotesi di responsabilità per debiti di imposta della società. La prima (già prevista dall’art. 265 del previgente TU imposte Dirette di cui al d.P.R. n. 645 del 1958) concerne i liquidatori che non abbiano pagato le imposte del periodo della liquidazione o dei periodi antecedenti (salva la prova del pagamento, con le attività di liquidazione, di crediti di rango superiore), e gli amministratori (tanto quelli in carica al momento dello scioglimento della società, avvenuto senza nomina dei liquidatori, quanto quelli che abbiano compiuto, nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, operazioni di liquidazione ovvero abbiano occultato attività sociali). Questa Corte ha già avuto modo di evidenziare come la fattispecie si ponga al di fuori di qualsiasi fenomeno di successione, continuità o co-obbligazione con la società, vertendosi piuttosto di responsabilità ex lege, risarcitoria ed illimitata, per fatto proprio ex artt. 1176 e 1218 cod. civ., con la conseguenza (v. Cass. n. 11968 del 13 luglio 2012) che, estinta la società contribuente, il processo tributario nel quale questa risulti coinvolta non può proseguire ad opera o nei confronti dell’ex liquidatore o dell’ex amministratore. Si è poi aggiunto che il fatto per cui la responsabilità di questi organi debba essere accertata dall’Ufficio con atto motivato da notificarsi ai sensi del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, avverso il quale è ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario (art. 36 cit., penult. e ult. co.) non esclude che il credito dell’Amministrazione finanziaria (soggetto all’ordinaria prescrizione decennale) abbia comunque natura non tributaria ma civilistica, con riguardo alla quale l’obbligazione d’imposta funge da mero presupposto della responsabilità stessa (Cass. SSUU n. 2767 del 7 giugno 1989). Negli stessi termini si è pronunciata Cass. n. 7676 del 16 maggio 2012, secondo la quale il liquidatore di una società estinta per cancellazione dal registro delle imprese ben può essere destinatario di una autonoma azione risarcitoria, non già della pretesa attinente al debito sociale, ragion per cui “è inammissibile l’impugnazione proposta nei confronti del medesimo con riguardo alla sentenza relativa a quel debito, atteso che la posizione del liquidatore non è quella di successore processuale dell’ente estinto”. La seconda ipotesi di responsabilità prevista dall’art. 36 d.P.R. n. 602/73 (co. 3^) concerne invece proprio i soci della società estinta, così da evocare assai più da vicino la tematica di causa. La responsabilità concerne i debiti di imposta della società, colpisce i soci che abbiano ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali ovvero abbiano avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, e trova limite quantitativo nel valore dei beni loro assegnati. Pur non trattandosi né di una responsabilità ex lege per inadempimento o fatto illecito (diversamente quindi da quella, su base organica, che si è visto attingere i liquidatori e gli amministratori), né di una responsabilità di tipo successorio ex art. 2495 cod. civ., al pari di quest’ultima la responsabilità in esame ingenera in capo al socio l’obbligo di pagamento di un debito della società sul solo presupposto obiettivo, e nei limiti, della percezione di attività sociali in fase di liquidazione (o anche, con previsione ampliativa rispetto alla disciplina civilistica, nelle due annualità d’imposta antecedenti). Va inoltre considerato che lo stesso art. 36, co. 3^ fa espressamente salve “le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile”, con ciò implicitamente ma univocamente richiamandosi alla portata generale dell’attuale art. 2495 cod. civ., e che in entrambi i casi in cui il socio venga richiesto dal Fisco del pagamento delle imposte già gravanti sulla società cessata (“La responsabilità di cui ai commi precedenti (...)”) è necessaria la notificazione nei suoi confronti di avviso di accertamento, con possibilità di impugnazione, secondo le regole generali, ex artt. 19 e 21 D.Lgs. 546/92. § 3.2. orbene, è proprio la necessità -in ogni caso in cui venga invocata, a titolo vuoi successorio vuoi sussidiario, la responsabilità dell’ex socio per il debito d’imposta della società -di attivazione nei suoi confronti di un autonomo ed originario procedimento amministrativo di accertamento (necessità, del resto, che non costituisce una stravaganza di sistema, discendendo piuttosto essa, de plano, dalla natura pubblicistica dell’obbligazione tributaria e dal carattere autoritativo del relativo accertamento) che impedisce il pieno e totale dispiegarsi di quella successione nel processo di cui danno conto le Sezioni Unite del 2013. Una volta escluso che, per effetto della cancellazione, si verifichi tanto l’estinzione (espropriativa) del debito sociale quanto l’estinzione del processo pendente, il ricorso alla soluzione successoria ex art. 110 cod. proc. civ. risponde a ragioni di economia processuale e di tutela del creditore sociale, così da risparmiargli la necessità “di dover riprendere il giudizio da capo con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare le prove già espletate” (SU cit.). ora, è vero che un’esigenza del tutto analoga si pone anche nel caso di cancellazione della società in pendenza del giudizio tributario, ipotesi nella quale parimenti può soccorrere tanto la disciplina dell’interruzione del processo per venir meno, per morte o altra causa, della parte contribuente ex art. 40 D.Lgs. 546/92, quanto quella della sua prosecuzione da parte o nei confronti dei soci-successori ex art. 110 cod. proc. civ. Tuttavia, plurimi elementi escludono che in questa fase di prosecuzione si possano introdurre questioni diverse, oltre che dalla effettiva sussistenza del debito tributario della società, dalla legittimazione dei soci; quest’ultima a sua volta articolata soltanto intorno alla avvenuta cancellazione della società ed alla effettiva veste di soci dei soggetti subentrati. Quindi, nel giudizio già pendente nei confronti della società non potrà trovare ingresso -in particolare -la questione della avvenuta percezione di attività sociali o quote di liquidazione da parte dei soci, tema, come detto, estraneo alla legittimazione ed invece suscettibile di essere dedotto nel (diverso) giudizio che potrà originarsi a seguito della notificazione ai soci stessi di autonomo e distinto atto impositivo ex art. 36 co. 5^ cit. (la cui motivazione dovrà evidentemente farsi carico di questo aspetto quale ragione giuridica e presupposto fattuale della pretesa così ad essi per la prima volta indirizzata). Per regola generale, oggi anche sancita dall’art. 7 co. 5 bis D.Lgs. 546/92, è pertanto in questa sede che il Fisco -attore in senso sostanziale -dovrà allegare e provare la responsabilità dei soci nei limiti di quanto da costoro percepito. D’altra parte, già Cass. SSUU n. 619/21 cit. ha precisato che la controversia sorta dall’impugnazione di un avviso di accertamento notificato agli ex soci di una società cancellata dal registro delle imprese, con cui sia stata dedotta l’insussistenza, nel caso concreto, della responsabilità dei soci per i debiti tributari della società sul presupposto della mancata riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, ai sensi dell’art. 2495 c.c., è devoluta alla giurisdizione tributaria, atteso che un simile motivo di impugnazione ruota pur sempre “intorno alla postulata illegittimità o inesistenza della pretesa fiscale azionata dall’ufficio nei confronti dei soci della società estinta, che deve formare oggetto di esame da parte del giudice naturale di quel rapporto, costituito dal giudice tributario”. Una diversa soluzione, oltre a porsi in contrasto con il chiaro dettato dell’art. 36 d.P.R. n. 602/73 che richiede in ogni caso l’instaurazione di un nuovo procedimento amministrativo di imposizione nei riguardi dei soci, verrebbe a collidere sia con la struttura (anche e principalmente) impugnatoria -non di mero accertamento -del processo tributario ex art. 19 e 21 D.Lgs. 546/92, sia con il, correlato, divieto di ampliarne il petitum e la causa petendi, come resi intangibili (salva l’ipotesi dei motivi aggiunti ex art. 24 D.Lgs. cit., peraltro giustificata dalla sola sopravvenienza documentale e comunque anch’essa vincolata alla specifica pretesa inizialmente dedotta in giudizio, e non ad altra) dal compendio costituito dall’atto impositivo e dalle ragioni di opposizione contro di esso inizialmente mosse. Né sarebbe utilmente invocabile la natura non esclusivamente impugnatoria del processo tributario, ma anche di definizione nel merito del rapporto dedotto. Sul punto, si è innumerevoli volte affermato che il processo tributario è annoverabile tra quelli di impugnazione-merito, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’Ufficio, con la conseguenza che qualora il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v., tra le molte, Cass. 18 ottobre 2024 n. 27098; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27574; Cass., 19 novembre 2014, n. 24611; Cass., 21 novembre 2013, n. 26157). E tuttavia, la delimitazione del tema decisionale e probatorio appunto in ragione delle domande di parte dà conto del fatto che la valutazione di merito sul rapporto, che pure compete al giudice tributario, non può spingersi oltre i presupposti dell’atto impugnato ed i motivi di opposizione contro di esso inizialmente proposti. Nel caso di specie non vi è dubbio che il giudizio di opposizione introdotto dalla società e proseguito dai o contro i soci che ad essa siano succeduti scaturisca da un atto impositivo e da correlati motivi di contestazione del tutto avulsi dalla tematica della responsabilità patrimoniale personale dei soci ex art. 2495 cod. civ. Ne deriva che l’oggetto del giudizio stesso, per quanto lo si voglia estendere al merito, non può traslare dal rapporto originario (debito della società) a quello sopravvenuto e mutato per effetto della cancellazione (debito dei soci nei limiti di quanto percepito), per quanto ad esso connesso o da esso derivato. Va dunque condiviso e qui ribadito il già affermato orientamento di legittimità (v. Cass. n. 9672/18 cit.) in ordine al fatto che: -l’eccezione di difetto di responsabilità per mancato ricevimento di somme in sede di distribuzione non può essere introdotta nel giudizio relativo alla pretesa erariale nei confronti della società quale fatto impeditivo della pretesa avanzabile nei confronti del socio, tenuto conto delle caratteristiche formali ed amministrative dell’atto impositivo, nonché della natura impugnatoria del processo; -ciò vale sia che venga attivata la speciale procedura prevista dall’art. 36 d.P.R. n. 602 del 1973 sia, per evidenti ragioni di omogeneità e di compiutezza dell’accertamento tributario e comunque per l’indistinto richiamo di cui al co. 5 dell’art. 36 alle varie forme di responsabilità in questo contemplate, che venga attivato l’art. 2495, secondo comma, cod. civ. Le richiamate peculiarità del processo tributario, a loro volta radicate in quelle dell’obbligo tributario e del suo accertamento, sono ampiamente tali da giustificare una disciplina normativa, quella di cui all’art. 36, che appare per certi versi deteriore per il Fisco rispetto a quella applicabile al creditore, per così dire, di diritto comune, venendo alla fine solo ad esso imposto di far valere ex novo, e non già immediatamente e direttamente nel processo interrotto e riassunto, la responsabilità degli ex soci. E tuttavia, visto dal lato del contribuente, ciò appare conforme alla tutela accordatagli dal- l’ordinamento in ragione delle già menzionate caratteristiche pubblicistiche ed autoritative proprie dell’obbligo tributario e della relativa fase dell’accertamento, non senza osservare come, ad ogni buon conto, la notificazione di un nuovo atto di imposizione all’ex socio (sia questo un avviso di accertamento ovvero anche un atto impo-esattivo ex art. 29 D.L. n. 78/2010 conv. legge 122/10) non implica propriamente un ‘ripartire da zero’, ben potendo l’Ufficio con esso spendere il giudicato di effettiva sussistenza del debito tributario della società estinta formatosi, nel contraddittorio con i soci, nel giudizio ad esso relativo. E tutto questo vale anche nell’ipotesi, come quella qui riscontrabile, in cui l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal registro delle imprese, intervenga in pendenza del termine per impugnare, nel qual caso l’impugnazione della sentenza (resa nei riguardi della società) deve rispettivamente provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta, individuati come giusta parte dell’impugnazione stessa (Cass. n. 9094/17 cit; Cass. n. 15035/17; n. 14446/18; n. 897/19). Piuttosto, va ancora osservato come non convinca l’orientamento, ben evincibile da Cass. n. 31904 del 5 novembre 2021, secondo cui, una volta resosi definitivo il titolo nei confronti della società (per mancata opposizione, estinzione del processo ovvero giudicato) il Fisco potrebbe senz’altro procedere “all’iscrizione a ruolo dei tributi non versati sia a nome della società estinta, sia a nome dei soci (pro quota, in relazione ai relativi titoli di partecipazione), e ciò ai sensi degli artt. 12, comma 3, e 14, lett. b), del d.P.r. n. 602 del 1973, nonché azionare comunque il credito tributario nei confronti dei soci stessi, non occorrendo procedere al- l’emissione di autonomo avviso di accertamento, ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.P.r. cit., relativo al diverso titolo di responsabilità di cui al precedente comma 3 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 28, comma 5, del d.Lgs. n. 175 del 2014), di natura civilistica e sussidiaria”; in modo tale che i soci escussi potrebbero “con l’impugnazione della cartella di pagamento” così loro notificata lamentare l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società, oppure contestare il fondamento della propria responsabilità, dimostrando di non aver conseguito utili dalla liquidazione. Si tratta di soluzione che estende all’ambito di specie la regola generale di cui all’art. 477 co. 1^ cod. proc. civ. sull’efficacia nei confronti degli eredi del titolo esecutivo formatosi nei confronti del defunto. Sennonché, ed a parte i già richiamati limiti della meccanica trasposizione in materia dei principi e delle regole proprie della successione mortis causa, va osservato come non sia qui in discussione né l’effettiva diversità delle due ipotesi di responsabilità degli ex soci di cui, rispettivamente, agli artt. 36 co. 3^ d.P.R. n. 602/73 e 2495 cod. civ., né l’opponibilità agli ex soci della definitività dell’accertamento tributario maturatosi sul debito della società contribuente (tanto più se costoro divengano parte del relativo eventuale giudizio di opposizione, nel qual caso neppure sarebbe necessario invocare nei loro riguardi l’estensione soggettiva del giudicato quali ‘eredi’ o ‘aventi causa’ ex art. 2909 cod. civ.). Rilevano piuttosto, in segno contrario, sia il dato normativo di cui all’art. 36 co. 5^ cit. che mostra (peraltro, si è detto, in accordo con principi di ordine generale) di accomunare le due ipotesi di responsabilità nella necessità di notificazione all’ex socio di un nuovo e distinto atto di accertamento, sia la so stanziale ‘novità’, che certo forma materia a se stante di accertamento pur dopo l’iscrizione a ruolo del debito nei confronti della società, rappresentata dalla condizione dell’avvenuta percezione di quote o attività liquidatorie, sia -ancora -il fatto che quest’ultima condizione opera, oltre che come dimensione economica dell’esposizione personale, quale elemento costitutivo, non impeditivo, della fattispecie di loro responsabilità ex art. 2495 cod. civ., così da dover essere provata dal creditore-Fisco e non (la sua assenza) dall’ex socio in fase riscossiva. È vero che si tratta, quello notificato all’ex socio, di un atto di accertamento che già contiene l’indicazione di un credito non più contestabile nella sua oggettività, ma l’esigenza che tale credito venga legittimamente imputato ad un soggetto pur sempre diverso (appunto l’ex socio) rispetto al contribuente che ad esso ha dato origine (la società) dimostra comunque la permanenza in esso di un sostrato prettamente pretensivo che si palesa per la prima volta, seppure limitatamente al risvolto soggettivo di responsabilità; non sarebbe dunque del tutto esatto ravvisare nella specie un accertamento senza imposizione, come tale surrogabile dalla cartella. § 3.3 Certamente rilevante a fini ricostruttivi, ma non dirimente, pare poi il riferimento, pure contenuto nell’ordinanza di rimessione, all’art. 28 D.Lgs. n. 175/14 (Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata), il cui co. 4^ stabilisce: (...) “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del registro delle imprese ”. Questa previsione, da un lato, legittima espressamente, a sua volta, l’innesto in ambito tributario della disciplina codicistica generale di cui all’art. 2495 ma, dall’altro, ne opera una evidente forzatura instaurando una finzione legale di mantenimento in vita della società (evocatrice di quella posta dall’art. 10 legge fall.) seppure ai soli fini della definizione dei rapporti fiscali pendenti, in sede non solo amministrativa ma anche contenziosa. Essa è stata vagliata da questa Corte -ed anche dalla Corte Costituzionale che ha affermato la sua legittimità ex artt. 3 e 76 Cost.: sent. n. 142/20 -la quale ne ha rimarcato la natura sostanziale e non interpretativa, così da escluderne l’efficacia retroattiva, cioè la sua applicabilità nei confronti di società estintesi prima del 13 dicembre 2014, data di sua entrata in vigore (nella specie la norma non è dunque applicabile, posto che tanto la cancellazione di Simpra Srl dal registro delle imprese, quanto la proposizione dell’appello dell’Agenzia delle Entrate sono antecedenti a questa data). La previsione deroga -nei soli riguardi delle posizioni debitorie indicate e delle relative Amministrazioni creditrici -al principio per cui la società cancellata dal registro delle imprese non può agire né essere convenuta in giudizio, in quanto priva della relativa capacità (Cass. 9 ottobre 2018, n. 24853; Cass. 19 dicembre 2016, n. 26196); né, pertanto, può sussistere in questi casi la legittimazione dell’ex liquidatore a rappresentarla (Cass. 11 giugno 2011, n. 5637; Cass. 23 marzo 2016, n. 5736). Sul tema si riscontra un fermo indirizzo interpretativo, secondo cui la norma non si limita a prevedere una posticipazione degli effetti dell’estinzione al solo fine di consentire e facilitare all’Ufficio la notificazione dell’atto impositivo (altrimenti giuridicamente inesistente, se eseguita nei confronti di società già cancellata: Cass. n. 6743/15; n. 20961/21 ed altre), ma permette all’ex liquidatore di “conservare tutti i poteri di rappresentanza della società, sul piano sostanziale e processuale, nella misura in cui questi rispondano ai fini indicati dall’art. 28, comma 4, che, altrimenti opinando, non potrebbe operare”. Con la conseguenza che il liquidatore, oltre a ricevere le notifiche degli atti dagli enti creditori, può anche opporsi agli stessi e conferire mandato alle liti, dovendosi la dizione legislativa ‘atti del contenzioso’ riferirsi in senso stretto e tecnico proprio agli atti del processo e della tutela giurisdizionale. Pertanto, nei casi in cui si renda applicabile l’art. 28 in esame, in deroga all’art. 2495 cod. civ.: “la società conserva la legittimazione attiva; il liquidatore è legittimato e gli ex soci devono considerarsi privi di legittimazione” (Cass. n. 36892 del 16 dicembre 2022; nello stesso senso, Cass. n. 6743/15; n. 4536/20; n. 18310/23). ora, il richiamo all’art. 28, pur assunto nella sua portata anche sostanziale -volta ad attribuire all’ex liquidatore il potere di compiere ogni attività, appunto anche sostanziale, finalizzata e strumentale alla definizione della pendenza fiscale -non può tuttavia spingersi fino ad incidere sul regime della responsabilità patrimoniale del socio per il debito fiscale della società estinta. Non può non osservarsi, in proposito, come l’artificiosità della permanenza in vita di un ente collettivo che in realtà non esiste più ad ogni altro effetto se, da un lato, agevola l’Ufficio nella notificazione degli atti (facilitando il raggiungimento del soggetto debitore ed il rispetto dei termini di decadenza e prescrizione) affida, dall’altro, le sorti del vaglio giurisdizionale sul debito fiscale all’iniziativa ed alla solerzia di un soggetto tendenzialmente ad esso indifferente perché ormai per definizione privo -a liquidazione esaurita -di patrimonio, e come tale certamente fin dall’inizio inidoneo a soddisfare il credito, con ciò determinandosi, in pratica, una situazione di debito senza responsabilità. L’inopponibilità per legge al Fisco degli effetti della cancellazione societaria non è quindi in grado di risolvere le questioni di causa: non solo perché comunque temporanea (dovendo, allo scadere del quinquennio, riprendere pieno vigore la disciplina anche processuale come detto rinveniente dall’art. 2495 cod. civ.), ma anche e soprattutto perché intatta resta, per il creditore pubblico, l’esigenza di far valere, con l’avvio di nuovo e diverso procedimento amministrativo di accertamento ex art. 36 cit., la responsabilità patrimoniale degli ex soci nei limiti delle attività sociali da costoro riscosse. Per il che vale quanto poc’anzi argomentato. § 4. Tirando le fila del discorso, a fronte dei dubbi sollevati dall’ordinanza di rimessione per vero ingenerati non tanto da un conclamato contrasto di orientamenti quanto da talune incertezze insite nell’adattamento all’ambito tributario di un assetto ricostruttivo già consolidatosi in quello civilistico - va stabilito che: • nella fattispecie di responsabilità dei soci limitatamente responsabili per il debito tributario della società estintasi per cancellazione dal registro delle imprese, il presupposto del- l’avvenuta riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, di cui al 3^ (già 2^) co. dell’art. 2495 cod. civ., integra, oltre alla misura massima dell’esposizione debitoria personale dei soci, una condizione dell’azione attinente all’interesse ad agire e non alla legittimazione ad causam dei soci stessi; • questo presupposto, se contestato, deve conseguentemente essere provato dal Fisco che faccia valere, con la notificazione ai soci ex artt. 36 co. 5^ d.P.r. n. 602/73 e 60 d.P.r. 600/73 di apposito avviso di accertamento, la responsabilità in questione, fermo restando che l’interesse ad agire dell’Amministrazione finanziaria non è escluso per il solo fatto della mancata riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, potendo tale interesse radicarsi in altre evenienze, quali la sussistenza di beni e diritti che, per quanto non ricompresi in questo bilancio, si siano trasferiti ai soci, ovvero l’escussione di garanzie; • la verifica del presupposto dell’avvenuta riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, concernendo un elemento che deve essere dedotto nella fase di accertamento da indirizzarsi direttamente nei confronti dei soci ex art. 36 co. 5^ d.P.r. n. 602/73, non può avere ingresso nel giudizio di impugnazione introdotto dalla società avverso l’avviso di accertamento ad essa originariamente notificato, quand’anche questo giudizio venga poi proseguito, a causa dell’estinzione della società per cancellazione dal registro delle imprese, da o nei confronti dei soci quali successori della società stessa. § 5. Da quanto così affermato discende l’infondatezza dei primi tre motivi del ricorso per cassazione. La Commissione Tributaria Regionale, riformando la prima decisione, ha affermato che: correttamente l’Agenzia delle Entrate aveva chiamato in giudizio gli ex soci della società nelle more cancellata dal registro delle imprese e nei confronti della quale, soltanto, era stato emesso l’atto impositivo impugnato; -la qualità di parte assunta dai soci nel procedimento discendeva dal fenomeno di tipo successorio derivante dall’estinzione della società, con conseguente loro legittimazione attiva e passiva ex articolo 110 cod. proc. civ.; -tutte le questioni diverse dalle contestazioni mosse contro l’avviso di accertamento notificato a Simpra Srl liq. per l’anno 2006 (quali, segnatamente, il limite della responsabilità personale dei soci per le somme portate dall’avviso in esame) esulavano dalla materia del contendere, trattandosi di problematiche destinate ad essere eventualmente dedotte in un diverso procedimento amministrativo o giurisdizionale di accertamento, direttamente ad essi relativo. È quindi di tutta evidenza come si tratti di una decisione pienamente in linea con l’indirizzo tracciato, e non scalfita dalle doglianze mosse da z.A., z.R., z.P. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 360 co. 1^ n. 4) cod. proc. civ., il mancato rilievo del fatto che l’Agenzia del Territorio non avesse allegato (come rilevabile anche d’ufficio, e pure nel giudizio di legittimità) alcun valido profilo di interesse concreto ed attuale ad agire nei confronti dei soci ex art. 100 cod. proc. civ.; tale in particolare non essendo quello riferito all’asserita esistenza di un credito sociale per rimborso iva in ipotesi opponibile in compensazione al controcredito qui dedotto dall’Amministrazione. Credito sociale che farebbe capo ad un soggetto ormai estinto e che, ad ogni buon conto, non era stato pretermesso, ma debitamente inserito nel bilancio finale di liquidazione. Valgono per questa doglianza gli argomenti più volti spesi, nel senso che l’esistenza di utilità e residui liquidatori idonei ad integrare l’interesse ad agire del Fisco costituisce elemento della fattispecie di responsabilità dei soci e non della società, così da non poter aver ingresso, come esattamente argomentato dalla Commissione Tributaria Regionale, nel presente giudizio. il secondo ed il terzo motivo di ricorso -suscettibili di trattazione unitaria perché entrambi concernenti, ex art. 360 co. 1^ nn. 3) e 4) cod. proc. civ., il mancato rilievo da parte della Commissione Tributaria Regionale della radicale inammissibilità dell’appello siccome dal- l’Agenzia proposto nei confronti dei soci in difetto dei requisiti di legge (percezione di somme liquidatorie) -lamentano la violazione e falsa applicazione delle medesime norme (artt. 110 cod. proc. civ. e 1, comma 2, decreto legislativo n. 546/1992 con riferimento agli artt. 2495, comma 2, cod. civ. e 36, comma 3, del d.P.R. n. 602/1973), considerate nei loro effetti, rispettivamente, processuali (secondo motivo, con affermazione di nullità della sentenza e dell’intero procedimento) e sostanziali (terzo motivo). Contrariamente a quanto sostenuto con le censure in esame, la decisione della Commissione Tributaria Regionale di ritenere correttamente instaurato l’appello nei confronti direttamente dei soci, pur non essendo essi parte del primo grado, risulta conforme a diritto, vertendosi di una fattispecie di tipo successorio ex art. 110 cod. proc. civ. nella quale i soci erano stati evo cati in giudizio dall’Agenzia in quanto a ciò doppiamente legittimati -in un contesto di pacifica inapplicabilità, ratione temporis, dell’art. 28, co. 4^ D.Lgs.175/14 -sia ex art. 2495 2^ co. cod. civ. sia ex art. 36 co. 3^ d.P.R. n. 602/73. Quanto poi alla specifica contestazione per cui l’Agenzia appellante non aveva contestualmente dimostrato anche la personale responsabilità dei soci in relazione ai debiti erariali già facenti capo alla società estinta per effetto e nei limiti della riscossione o assegnazione a loro favore delle somme o dei beni, sarà sufficiente rinviare a quanto finora osservato in ordine al fatto che nel giudizio di appello in esame: -rilevava unicamente la legittimazione di z.A., z.R., z.P. quali soci di Simpra Srl estinta (circostanze fattuali, queste, incontestate); -non contava, per contro, la circostanza dell’effettiva percezione di somme dalla liquidazione, perché estranea tanto all’oggetto del contendere come definitivamente consolidato sulla base dell’atto impositivo e del ricorso originario (debito ires ed iva di Simpra Srl per l’anno 2006), quanto alla legittimazione passiva dei soci che di Simpra Srl erano successori pur nell’eventuale difetto di qualsivoglia riscossione o riparto. Del resto, il fatto che z.A., z.R., z.P. siano tuttora ammessi, in diversa sede, a lamentare la mancata percezione di somme, se e quando verranno attinti da avviso di accertamento ad essi partitamente rivolto ex art. 36 co. 5 cit., esclude il maturare di qualsivoglia preclusione o menomazione del loro diritto di difesa, e ciò quand’anche essi nulla avessero eccepito, sul punto, nel presente procedimento, dedicato in via esclusiva all’accertamento del debito della società contribuente. Ne segue, in definitiva, il rigetto di questi primi tre motivi, con restituzione degli atti alla Sezione Tributaria per il vaglio delle ulteriori doglianze relative alla fondatezza dell’avviso, e per la liquidazione delle spese di lite tenuto conto anche della presente fase processuale. P.Q.m. La Corte - rigetta il primo, secondo e terzo motivo di ricorso; -restituisce gli atti alla Sezione Tributaria per la decisione sui restanti motivi e la liquidazione delle spese di lite. in tema di iMu. i principi di diritto enunciati da Corte di Cassazione, ordinanza 11 gennaio 2025 n. 727 sulla legittimazione attiva e passiva nelle azioni reali con riguardo ai beni dello stato L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 727 del 2025, in accoglimento del ricorso in materia di imU proposto dalla Difesa erariale, afferma importantissimi principi di diritto aventi un’evidente incidenza sulla questione della legittimazione attiva e passiva nelle azioni reali con riguardo ai beni dello Stato. in particolare la Cassazione ha affermato che la proprietà dei beni demaniali e del patrimonio (indisponile e disponibile) dello Stato rimane in capo al ministero della Economia e delle Finanze e che i beni demaniali e patrimoniali dello Stato non sono stati trasferiti all’Agenzia del Demanio in forza del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, il quale ha attribuito all’Agenzia la mera gestione (art. 65). Questo il principio di diritto conclusivamente enunciato dalla Cassazione: «in tema di iMU (come anche di iCi), l’Agenzia del demanio non è soggetto passivo di imposta in relazione agli immobili compresi nel demanio e nel patrimonio (disponibile ed indisponibile) dello Stato, dei quali essa è mera affidataria dell’amministrazione e della valorizzazione ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, per cui, non essendo titolare della proprietà o di altri diritti reali di godimento, né beneficiario di concessione amministrativa, sui predetti immobili, il gestore del patrimonio immobiliare pubblico non è ricompreso tra i soggetti passivi elencati nell’art. 9, comma 1, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (così come nell’art. 3 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504, per l’iCi). Ciò non esclude, tuttavia, che l’Agenzia del demanio sia titolare di un autonomo patrimonio ai sensi dell’art. 1 del d.m. 29 luglio 2005 e, quindi, possa acquistare in proprio, a qualsiasi titolo, la proprietà di immobili ». Giovanni Palatiello (*) A.L. 5141/2021 - SEz. iii - Avv. G. Palatiello (**) Avvocatura Generale dello Stato Ecc.ma CoRTE SUPREmA Di CASSAzioNE SEzioNE TRiBUTARiA Adunanza camerale del 4 dicembre 2024 (Rg. n. 24685/2023 - rel. Cons. Lo Sardo - n. 20 del ruolo) (*) Avvocato dello Stato. (**) si pubblica la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. prodotta dalla Difesa erariale. mEmoRiA EX ART. 380-BiS.1 C.P.C. per l’AGENziA DEL DEmANio con l’Avvocatura Generale dello Stato; contro -ricorrente- Comune di Viterbo rappr. e dif. come in atti; -resistentein punto: cassazione della sentenza resa inter partes dalla Corte di Giustizia Tributaria di ii grado del Lazio, Sez. 11^, n. 3091/23 pubblicata il 23 maggio 2023, mai notificata. §§§ Dato per noto il ricorso, al quale si fa integralmente rinvio, la Difesa erariale, in vista del- l’adunanza camerale del 4 dicembre 2024, intende ulteriormente illustrare ed argomentare le tesi giuridiche sostenute con il primo motivo, anche in replica al controricorso del Comune. Con tale primo motivo del ricorso questa Avvocatura Generale ha dedotto, “l’insussistenza, in capo all’Agenzia del demanio, della soggettività passiva ai fini iMU ” in relazione agli immobili statali oggetto dell’accertamento impugnato in prime cure, relativo ad imU 2015. Trattasi di motivo avente un’evidente rilevanza di massima, essendo numerosi i Comuni che sono soliti notificare gli avvisi imU per gli immobili dello Stato esclusivamente all’Agenzia del Demanio. Si è, al riguardo, evidenziato che l’Agenzia del Demanio è mero gestore ex art. 65 del D.lgs. 300/1999 del patrimonio immobiliare di proprietà dello Stato. il gestore ex lege del patrimonio immobiliare dello Stato non è contemplato dalla legge (cfr. art. 9, co. 1, d.lgs. 23/2011, le cui disposizioni sono state, peraltro, trasfuse nell’ art. 1, comma 743, L. 160/2019) nell’elencazione (da ritenersi tassativa) dei soggetti passivi dell’imU, la quale include esclusivamente il titolare di un diritto reale (la proprietà o un diritto reale limitato) nonché il concessionario di aree demaniali. A sostegno del motivo questa difesa erariale ha richiamato Cass. n. 10655 del 2019 in termini. La proprietà del patrimonio immobiliare dello Stato, nella sua interezza, permane in capo allo Stato medesimo, ed in rappresentanza di esso al ministero dell’Economia e delle Finanze, non rinvenendosi alcuna norma che ne abbia trasferito la titolarità in capo all’Agenzia del Demanio dopo la sua istituzione (1999) ed entrata in operatività (2001). L’Agenzia del Demanio (ente pubblico economico, soggetto alla disciplina di diritto privato, e distinto dal m.E.F.: cfr. artt. 61, comma 1, 66, comma 1, del d.lgs. 300/1999), non essendo il proprietario (né il titolare di altro diritto reale, e neppure formale concessionario) del compendio immobiliare dello Stato a cui si riferisce l’avviso di accertamento imU per cui è causa, ma mero gestore ex lege di esso, non può essere soggetto passivo di tale imposta, per legge individuato nel proprietario degli immobili de quibus e, dunque, nella fattispecie, nel Ministero dell’economia e delle Finanze, a cui doveva essere rivolta la richiesta di pagamento, nel rispetto del termine quinquennale di decadenza stabilito dall’art. 1, comma 161, L. 296/2006, nella specie irrimediabilmente spirato (trattandosi di avviso per iMu 2015, notificato il 16 dicembre 2020). L’intestazione castale “demanio dello Stato” degli immobili oggetto di accertamento non è decisiva ai fini della soluzione della controversia. È vero che l’art. 5 del d.lgs. 504/1992 impone agli enti locali, ai fini dell’accertamento del- l’imposta, di attenersi alle risultanze catastali. E tuttavia, è ius receptum che, in tema di iCi, le risultanze catastali hanno valore meramente indiziario in ordine alla sussistenza del presupposto impositivo, ossia la proprietà o titolarità di altro diritto reale sul bene (così Cass. 5316/2019). in tema di i.C.i., l’intestazione catastale di un immobile ad un determinato soggetto, pur se il catasto è preordinato a fini essenzialmente fiscali, fa sorgere una mera presunzione de facto, che ammette prova contraria (cfr. Cass. 26376/21, 16775/2017). orbene, come già esposto nel ricorso introduttivo, l’agenzia del Demanio è proprietaria esclusivamente di pochissimi beni immobili, ad essa conferiti dal Ministero dell’economia e delle Finanze, in virtù del D.M. 29 luglio 2005, recante “Individuazione del patrimonio dell’Agenzia del Demanio”, e del successivo D.M. 17 luglio 2007 recante “individuazione di nuovi beni immobili da conferire in proprietà dell’Agenzia del demanio, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del d.M. 29 luglio 2005, del Ministro dell’economia e delle finanze”, in attuazione dell’articolo 65, comma 2 bis, del d.lgs. 300/1999. tale circostanza -rimasta incontestata ex adverso e, dunque, pacifica in causa ex art. 115 c.p.c. -è di per sé idonea a superare la mera valenza indiziaria dell’intestazione catastale dei beni oggetti dell’accertamento impugnato in prime cure, nel senso che a tale intestazione non corrisponde, evidentemente, la sussistenza, in capo all’Agenzia del Demanio, della titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale, essendo tale Agenzia mero gestore ex lege delle u.i.u. per cui è causa. in altri termini, gli immobili oggetto di accertamento risultano catastalmente intestati al “Demanio dello Stato” soltanto in ragione del potere di gestione ex lege che l’Agenzia del Demanio ha su tali beni, e non perché quest’ultima sia titolare, rispetto ad essi, di una delle situazioni giuridiche soggettive aventi carattere reale richieste dalla legge quale presupposto della soggettività tributaria passiva ai fini imU. Peraltro, l’intestazione castale “demanio dello Stato”, sulla quale insistono i secondi giudici, non è comunque decisiva ai fini della soluzione della controversia poiché essa di, per sé, non fa riferimento ad un soggetto giuridico o ad un ente (infatti l’Agenzia del Demanio, come è noto, è stata costituita solo nel 1999 ed è operativa dal 2001, quindi successivamente all’intestazione catastale), ma ad una categoria di beni, appartenenti allo stato (cfr. art. 1 r.D. 1440/1923), di cui l’agenzia ha la mera gestione ex lege che, come si è visto, non è idonea a fondare la soggettività passiva ai fini iMu. Di qui la radicale nullità e/o illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato in prime cure perché notificato ad un ente pubblico economico distinto dallo Stato (appunto l’Agenzia del Demanio), privo di soggettività passiva ai fini imU e, dunque, non legittimato alla ricezione dei relativi avvisi. §§§ Nel proprio controricorso il Comune di Viterbo, a confutazione del primo motivo del ricorso erariale, trascrive alcuni brani della motivazione di Cass. 7152/2018 senza, tuttavia, citarla (v. pagine 6 e 7 del controricorso). Cass. 7152/2018 sembra aver aderito a quella dottrina della proprietà pubblica come “proprietà- funzione”, secondo la quale il demanio ed il patrimonio indisponibile dello Stato non rientrerebbero nella nozione di proprietà, costituendo piuttosto una pubblica funzione (di cui la res sarebbe lo strumento). Addirittura, secondo Cass. 7152/18, né il ministero dell’Economia, né l’Agenzia del Demanio “sono… «proprietari» del bene nel senso in cui la formula è intesa dalla ricorrente, ed essa invano ricercherebbe un proprietario nel senso che tale espressione ha nei rapporti privati, giacché, semplicemente, un «proprietario», un dominus, in tal senso dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili non v’è, giacché si tratta di beni che appartengono allo Stato, il quale non può che operare attraverso i suoi organi che, lungi dal vantare la proprietà dei beni, li amministrano per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali. Poiché, dunque, la proprietà pubblica non sarebbe un dominio in senso tecnico e privatistico, ma in essa prevale la destinazione a finalità pubbliche e, dunque, la dimensione “della gestione”, correttamente, secondo il Comune di Viterbo, l’avviso opposto in prime cure è stato notificato soltanto all’Agenzia del Demanio, alla quale, appunto, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 300/1999, è stata attribuita l’amministrazione di beni immobili dello Stato. in effetti, aderendo -come ha fatto Cass. 7152/2018 -alla dottrina della proprietà immobiliare dello Stato quale “proprietà-funzione” -“a meno che non si tratti di patrimonio disponibile, nel qual caso la proprietà pubblica e privata non si differenziano, se non per la qualità soggettiva del proprietario” (così Cass. 7152/2018) -può sorgere il dubbio (che la corte territoriale e, prima ancora il Comune di Viterbo, ha trasformato in certezza) che l’art. 57, co. 1, d.lgs. 300/1999 (1) -nel prevedere il passaggio dal dipartimento del territorio del ministero delle Finanze all’Agenzia del Demanio “dei rapporti giuridici, dei poteri e delle competenze” relativi alla gestione delle funzioni già esercitate dal predetto dipartimento -abbia comportato il trasferimento all’Agenzia anche della “titolarità” di tutti i beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato, quali strumenti delle funzioni gestorie trasferite, anche ai fini dell’imU/TASi. Di talché, accedendo all’interpretazione di Cass. 7152/2018, riportata pedissequamente dal Comune di Viterbo, occorrerebbe riconoscere che gli avvisi ai fini imU andrebbero di regola notificati all’Agenzia del Demanio, in ragione della prevalenza del profilo “gestorio” all’interno della nozione della “proprietà-funzione”; in sostanza, in relazione alla proprietà pubblica, il profilo gestorio e quello della titolarità si confonderebbero, tanto che la seconda si identificherebbe nel primo, onde è al gestore, e non al titolare, che andrebbe notificato l’avviso ai fini imU. §§§ La Difesa dello Stato non condivide tali conclusioni, benché già affermate, ai fini delle azioni reali su beni dello Stato, da Cass. 7152/18 (alla quale si è allineato il Comune resistente, pur senza richiamare tale pronuncia di legittimità), e ne sollecita una rivisitazione, per lo meno ai fini che qui interessano, circoscritti all’imU/TASi. Per tale motivo si chiede a codesta Ecc.ma Corte -nella denegata e non creduta ipotesi che non si intendesse dare continuità ai principi già affermati, ai fini iCi/imU, da Cass. 10655/2019 -di voler rinviare la causa alla pubblica udienza, anche ai fini dell’eventuale rimessione alle Sezioni Unite civili della questione posta con il primo motivo. Le ragioni che, ad avviso di questa Difesa Erariale, militano per una rimeditazione da parte di codesta Corte, eventualmente a Sezioni Unite, dei principi affermati dalla sentenza 7152/18 sono le seguenti. i. È ben noto a questa Avvocatura Generale il principio, pacifico in seno alla giurisprudenza (1) L’art. 57, co. 1, D.lgs. 300/1999 prevede che: “Per la gestione delle funzioni esercitate dai dipartimenti delle entrate, delle dogane, del territorio e di quelle connesse svolte da altri uffici del ministero sono istituite l’agenzia delle entrate, l’agenzia delle dogane e dei monopoli e l’agenzia del demanio, di seguito denominate agenzie fiscali. Alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia”. di legittimità, secondo cui, “a seguito del trasferimento alle Agenzie fiscali dei rapporti giuridici, dei poteri e delle competenze, in precedenza facenti capo al Ministero delle finanze, ai sensi del d.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, il Ministero non è più legittimato nei processi pendenti riguardanti i servizi attribuiti alle agenzie fiscali spettando sia la legittimazione ad causam, sia quella ad processum alle suddette agenzie, con conseguente inammissibilità della domanda azionata nei confronti del Ministero (cfr., tra le tante, Cass., Sez. V, 26 febbraio 2019, n. 5556, Cass., Sez. V, 15 marzo 2021, n. 7159; Cass., Sez. V, 29 maggio 2020, n. 10240; Cass., Sez. Vi, 19 dicembre 2019, n. 33809; Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29183; Cass., Sez. V, 25 ottobre 2006, n. 22889; Cass., Sez. V, 22 giugno 2021, n. 17858). i.1. Si ritiene, tuttavia, che tale orientamento giurisprudenziale non sia, di per sé, decisivo ai fini della soluzione della questione giuridica posta con il primo motivo di ricorso in quanto: i. risulta essere stato elaborato con esclusivo riferimento al contenzioso per i tributi erariali e, dunque, in relazione ai rapporti tra mEF ed Agenzia delle Entrate; ii. esso si giustifica per il fatto che all’agenzia delle entrate è riservata dall’art. 62, co. 2, (2) d.lgs. 300/1999 la gestione, in via esclusiva, del contenzioso tributario dello stato o relativo ad altri tributi, anche locali, affidati all’Agenzia delle Entrate in base ad apposite convenzioni stipulate con gli enti impositori o creditori; una norma analoga non si rinviene con riguardo all’agenzia del Demanio, per cui non è possibile affermare che quest’ultima sia legittimata in via esclusiva a ricevere gli avvisi per imU emessi dai Comuni (ed a curare il relativo contenzioso) in relazione al patrimonio immobiliare dello Stato, la cui proprietà, come si vedrà più nel dettaglio infra, continua ad essere ascrivibile allo Stato-persona, e per esso al ministero dell’Economia e delle Finanze. ii. Ciò posto, Cass. 7152/2018 non sembra aver tenuto nella debita considerazione il dettato della Costituzione la quale, all’articolo 42, comma 1, come noto, prevede che “La proprietà è pubblica o privata. i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”. La proprietà pubblica è, dunque, una species del genus unitario “proprietà”. L’utilizzo del verbo “appartenere” che, secondo Cass. 7152/2018 rimarcherebbe “la distinzione tra il diritto di proprietà nell’accezione accolta” dall’art. 832 c.c. “e la proprietà pubblica” non è affatto argomento decisivo nel senso voluto da tale pronuncia, e ciò per due ragioni. innanzitutto, come visto, il verbo appartenere è usato indifferentemente dalla Costituzione per i beni economici sia dei privati che dello Stato. in secondo luogo, come rilevato da autorevole dottrina, il termine “appartenenza” ricorre nelle fonti del diritto romano e serviva ad indicare sempre e soltanto il diritto di proprietà, del quale metteva in evidenza la condizione giuridica della res che ne costituiva l’oggetto: l’essere, cioè, questa, per così dire, riservata ad un determinato soggetto (ad eum pertinens). Ed anzi, nel codice civile italiano il riferimento al fenomeno della c.d. appartenenza di un (2) Ai sensi dell’art. 62, co. 2, d.lgs. 300/1999 “L’agenzia <> è competente in particolare a svolgere i servizi relativi alla amministrazione, alla riscossione e al contenzioso dei tributi diretti e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di tutte le imposte, diritti o entrate erariali o locali, entrate anche di natura extratributaria, già di competenza del dipartimento delle entrate del ministero delle finanze o affidati alla sua gestione in base alla legge o ad apposite convenzioni stipulate con gli enti impositori o con gli enti creditori. Le funzioni e i compiti in materia di riscossione sono disciplinati dall’articolo 1 del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre2016, n. 225”. bene ad un determinato soggetto è sempre indicativo del diritto di proprietà nel senso di cui all’art. 832 c.c. (cfr. artt. 822, 824, 826, 830, 879, 881, 897, 932, 934 e si veda anche, come detto, l’art. 42, co. 1, Cost.). ii.1. Peraltro, anche la giurisprudenza costituzionale, con riferimento al demanio marittimo (almeno in quello ricadente nelle regioni a statuto ordinario), discorre di “titolarità” del bene che spetta allo Stato, distinta dalla gestione, attribuita alle Regioni, e riconosce allo Stato le potestà di determinazione e riscossione del canone per la concessione di aree del demanio marittimo, poiché “tale potestà seguono la titolarità del bene e non quella della gestione… Le anzidette potestà costituiscono, infatti, espressione del potere di disporre (nei limiti in cui lo consente la natura demaniale) dei propri beni…” (sent. 73/2018 e sent. 46/2022). Anche il Giudice delle Leggi, dunque, inquadra il rapporto tra lo Stato ed il bene demaniale nello schema della potestà e riconosce allo Stato il potere di disporre del bene che è una tipica facoltà dominicale ex art. 832 c.c., anzi la più qualificante del dominio privato. ii.2. La posizione della Corte Costituzionale è in linea con il consolidato e maggioritario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che Cass. 7152/18 e la corte regionale sembrano non aver considerato, secondo cui anche al demanio possono applicarsi le norme del diritto privato: ha affermato, ad esempio, Cass. Sez. i, 27 aprile 1993, n. 4962 che: “la demanialità è una qualità della proprietà pubblica, e le norme civilistiche sulla proprietà si applicano, in quanto non siano derogate dalle leggi speciali che la riguardano (art. 823 c.c.)”. in precedenza, Cass. Sez. i, 11 marzo 1992, n. 2913 -nel censurare “il vizio di fondo” che inficiava la sentenza allora impugnata, ravvisato dalla Corte in quella occasione nel voler “configurare la “proprietà pubblica” come qualcosa di diverso, “quoad essentiam”, dal diritto di proprietà (“privata”)”- ebbe ad affermare che: “tale impostazione, benché talvolta sostenuta in giurisprudenza, non appare reggere ad un sereno vaglio critico: unico, infatti, come la dottrina ha rilevato, appare essere il concetto di proprietà, benché i rapporti relativi a determinati beni -per le peculiarità loro proprie -possano essere retti da una particolare normativa. È sempre, infatti, il codice civile a disciplinare (Libro iii, titolo i, Capo ii) nella più ampia categoria dei beni, i beni appartenenti allo Stato, che possono poi essere demaniali o non demaniali. e decisivo appare, in particolare al riguardo, il supporto normativo dell’art. 823 c.c., il quale, in applicazione del principio della giurisdizione unica dell’A.G.o. in tema di diritti soggettivi, consente all’Amministrazione il ricorso alternativo alla potestà di autotutela ovvero alla tutela giurisdizionale per quanto concerne i beni demaniali (cfr. Cass., S.U. n. 2592 del 1976), facultizzandola ad “avvalersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso”. La connotazione alternativa pubblico-privato non discrimina, quindi, due categorie concettuali di proprietà, ma più propriamente due categorie giuridiche di beni. ed è significativo che l’individuazione della categoria dei “beni pubblici” sia operata dalla più accreditata dottrina in materia non già in base ad un criterio soggettivo (essendoci beni dello Stato e degli enti pubblici che non sono pubblici; e beni, per converso, dei privati, come quelli di interesse storico, artistico ecc., che tali vanno considerati) sebbene in base ad un criterio oggettivo. tale criterio è propriamente correlato alla peculiarità del regime giuridico, che, con varia modulazione, va dalla inalienabilità ed inusucapibilità dei beni demaniali al vincolo di destinazione (ed alla soggezione a poteri di polizia amministrativa ecc.) dei beni pubblici di appartenenza ai privati. Senza che mai tale pur accentuata specialità di regime (che, si ripete, può inerire anche a beni di privata appartenenza) possa, però, infrangere lo schema paradigmatico del diritto reale (di proprietà) su di essi esercitato. Consegue da ciò che l’errata supposizione di demanialità del bene, da parte della P.A., non può incidere sulla sua volontà di gestirlo “uti dominus”, ma si risolve in un errore sul regime giuridico della cosa posseduta, come tale irrilevante ai fini dell’usucapione…” <>. Nel solco di Cass. 2913/1992 si colloca, ad esempio, anche Cass. Sez. ii, 23 novembre 2001, n. 14917 nonché, anche di recente, Cass, civ. Sez. ii, 6 maggio 2014, n. 9682 che ribadisce, appunto, quanto segue: “(...) poiché la distinzione tra i beni pubblici ed i beni privati non discrimina due categorie concettuali di proprietà, ma soltanto due categorie giuridiche di beni, la prima delle quali presenta un peculiare regime giuridico (inalienabilità, inusucapibilità, vincolo di destinazione per i beni pubblici appartenenti a privati ecc.), la Pubblica Amministrazione può usucapire il bene privato del quale per oltre un ventennio, nella erronea convinzione che fosse demaniale, abbia disposto la concessione in uso a terzi, atteso che, mentre l’errata supposizione di demanialità del bene non incide sulla volontà della P.A. di gestirlo “uti dominus”, risolvendosi in un errore sul regime giuridico del bene irrilevante ai fini del- l’usucapione, la concessione in uso a terzi costituisce uno dei modi di disposizione del bene e quindi di possesso dello stesso da parte dell’ente pubblico (Cass. 11 marzo 1992 n. 2913; Cass. 23 novembre 2001 n. 14917)”. ii.2.1. il patrimonio indisponibile è espressamente assoggettato alla disciplina del codice “in quanto non è diversamente disposto” (art. 828 c.c.) ed i beni del patrimonio disponibile sono senz’altro assoggettati alla normativa comune. ii.3. D’altro canto, quanto al demanio e al patrimonio indisponibile, il soddisfacimento degli interessi generali a cui essi sono preordinati viene perseguito dall’Amministrazione proprio esercitando sui beni quei poteri che identificano il contenuto della proprietà ex art. 832 c.c. All’Amministrazione, esattamente come il dominus privato, sono consentiti tutti i possibili modi di utilizzazione e disposizione dei beni, che non siano ovviamente esclusi o incompatibili con la destinazione a finalità pubbliche. Peraltro, l’Amministrazione può anche decidere in ordine alla destinazione dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile in quanto, con l’osservanza delle prescritte procedure, può convertirli in patrimonio disponibile integralmente disciplinato dal diritto privato. Le facoltà e poteri che all’Amministrazione spettano in quanto proprietaria ex art. 832 c.c. dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile rivestono indubitabilmente natura di diritti soggettivi, anche se beneficiari, in ultima analisi, degli stessi è la collettività. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono deve, dunque, concludersi che la proprietà pubblica rientra nella unitaria nozione di proprietà ex art. 832 c.c., ed è riconducibile tuttora allo Stato-persona e, in rappresentanza di esso, al ministero dell’Economia e delle Finanze. iii. L’articolo 1, co. 1, del r.d. 2440/1923, recante “Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”, non sembra d’ostacolo a questa conclusione. Tale disposizione, benché emanata nella vigenza dello Statuto albertino, deve essere interpretata in conformità alla (sopravvenuta) Costituzione che, come detto, all’art. 42, co. 1, individua e tutela due tipologie di proprietà, privata e pubblica, quali species del medesimo genus. Pertanto, dal predetto art. 1 r.d. cit. -nella parte in cui affidava al ministero delle Finanze l’amministrazione dei “beni immobili dello Stato, tanto pubblici quanto posseduti a titolo di privata proprietà” -non può ricavarsi l’inesistenza della proprietà pubblica (ridotta ad una mera funzione gestoria di beni pubblici sostanzialmente “acefali”, come vorrebbe il Comune di Viterbo), trattandosi, semmai, di disposizione che dà per presupposta la titolarità della proprietà dei beni immobili dello Stato in capo al ministero delle Finanze, oggi mEF, in quanto organo, competente ratione materiae, dello Stato-persona, e che, proprio per questa ragione, gli conferiva allora l’amministrazione e la cura di quei beni, le quali, dal 2001, sono transitate in capo all’Agenzia del Demanio, rimanendo, però, la proprietà del patrimonio immobiliare dello Stato in capo al mEF, nella qualità di articolazione dello Stato-persona titolare dell’Erario pubblico. iii.1. Come già evidenziato, l’intestazione al “demanio dello Stato” dei beni per cui è causa, risalente al secolo scorso, non fa certo riferimento all’Agenzia del Demanio (che, come è noto, è stata costituita solo nel 1999 ed è operativa dal 2001, quindi successivamente all’intestazione catastale), ma ad una categoria di beni, appartenenti allo stato, nell’accezione di cui all’art. 832 c.c. (cfr. art. 1 r.D. 1440/ 1923), di cui, oggi, l’agenzia ha la mera gestione ex lege. iv. Da tutto quanto esposto discende, dunque, che, contrariamente a quanto opinato da Cass. 7152/18, il demanio e il patrimonio indisponibile dello Stato non costituiscono una “funzione” -transitata in capo all’Agenzia del Demanio in virtù della norma meramente organizzatoria di cui all’art. 57, co. 1, d.lgs. 300/1999 -ma sono oggetto del diritto soggettivo di proprietà pubblica la quale, pur con le note peculiarità di regime giuridico volte ad assicurare la destinazione della res a finalità di interesse pubblico, rientra, ex art. 42, co. 1, Cost., nella unitaria nozione di proprietà, ed è soggetta anch’essa, in linea di principio, alle norme di diritto privato; tale proprietà pubblica è tuttora riconducibile allo Stato-persona, e per esso al ministero del- l’Economia e delle Finanze, non rinvenendosi alcuna norma che ne abbia espressamente trasferito la titolarità in capo all’Agenzia del Demanio, ente pubblico economico distinto dallo Stato, alla quale spetta esclusivamente l’amministrazione del patrimonio immobiliare dello Stato ex art. 65 d.lgs. 300/1999. iv.1. Le contrarie conclusioni a cui è pervenuta Cass. 7152/2018, non possono essere seguite anche perché sono foriere di conseguenze pratiche incongrue e paradossali, nonché di dubbia compatibilità con il sistema complessivo, anche costituzionale. iv.1.1. Ed invero, l’Agenzia del Demanio è un ente pubblico economico (v. artt. 61, comma 1, 66, comma 1, del d.lgs. 300/1999) regolato, salvo che non sia diversamente disposto dal predetto d.lgs., “dal codice civile e dalle altre leggi relative alle persone giuridiche private”. Le Sezioni Unite di codesta Ecc.ma Corte hanno da tempo chiarito che tra le Agenzie fiscali e lo Stato non vi è rapporto di immedesimazione organica, non essendo le agenzie enti-organo, ma persone giuridiche pubbliche esterne e distinte rispetto allo Stato (v. Cass. S.U. 3116/2006 e S.U. 3118/2006). Ciò vale, a fortiori, per l’Agenzia del Demanio che è, addirittura, un ente pubblico economico, disciplinato “dal codice civile e dalle altre leggi relative alle persone giuridiche private”. in mancanza di un rapporto di immedesimazione organica tra Stato e Agenzia del Demanio, viene a cadere il presupposto logico-giuridico su cui si fonda la teoria della “proprietà-funzione”, e cioè l’assunto, che si legge testualmente in Cass. 7152/18, secondo cui “lo Stato” <>” attraverso i suoi organi che, lungi dal vantare la proprietà dei beni, li amministrano per il raggiungimento dei propri scopi istituzionali”. ma, come si è visto, l’Agenzia del Demanio non è un organo dello Stato, per cui, a voler seguire Cass. 7152/18, il demanio e il patrimonio indisponibile dello Stato apparterrebbero ad un ente pubblico economico, distinto e separato dallo Stato, soggetto al “codice civile ed alle altre leggi relative alle persone giuridiche private”, e non legato allo Stato da alcun rapporto di immedesimazione organica; il che appare un esito paradossale, e comunque contraddittorio rispetto al postulato da cui Cass. 7152/18 ha preso le mosse (e cioè la circostanza che lo Stato possiederebbe il demanio e il patrimonio indisponibile attraverso i propri organi). Sotto altro profilo, imputare la titolarità degli immobili demaniali e del patrimonio indisponibile all’Agenzia del Demanio, ente pubblico economico distinto dallo Stato, è conclusione interpretativa di dubbia compatibilità con la Costituzione che, come si è visto, all’art. 42, co. 1, Cost. -nel prevedere che i beni economici appartengono allo Stato -stabilisce un rapporto dominicale diretto tra lo Stato-persona ed i suoi beni, che osta ad una diversa interpretazione che, come quella qui in contestazione, riconduca l’appartenenza dei beni statali ad un ente pubblico economico diverso e distinto rispetto allo Stato, per giunta soggetto al “codice civile ed alle altre leggi relative alle persone giuridiche private”. iv.1.2. Gli assunti di Cass. 7152/18 danno, infine, luogo ad un’altra, forse più grave, incongruenza, anzi ad una vera e propria aporia di sistema: se, come pretenderebbe la pronuncia del 2018, “la legittimazione ad causam” -con riguardo alle azioni reali e/o petitorie aventi ad oggetto beni dello Stato -“si radica” <>> “in funzione della titolarità dei poteri gestori”, ne consegue che quando la causa abbia ad oggetto il demanio idrico, la legittimazione passiva dovrebbe essere riconosciuta in via esclusiva alle Regioni (alle quali, come noto, dal 1998 è stata conferita la titolarità delle relative funzioni gestorie: cfr. art. 86 d.lgs. 112/1998), benché il bene appartenga pacificamente allo Stato (cfr. Corte Cost. sent. 73/2018 e sent. 46/2022). v. Quanto sostenuto nel paragrafo iV della presente memoria trova una ulteriore conferma nell’art. 6, paragrafo 3, punto secondo, del vigente regolamento di Amministrazione e di Contabilità dell’Agenzia del Demanio (in G.U. n. 309 del 30 dicembre 2021), nel quale si legge quanto segue: “Le strutture territoriali <> hanno la piena titolarità della gestione del patrimonio assegnato e di proprietà dell’Agenzia, rappresentando la proprietà dei beni mobili e immobili dello Stato di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze, curandone, in particolare, la gestione efficiente, l’amministrazione e la valorizzazione ”. v.1. Tale disposizione regolamentare conferma, dunque, che l’Agenzia del Demanio -fatta eccezione per alcuni beni, costituenti il suo patrimonio immobiliare, ad essa conferito dal ministero dell’Economia e delle Finanze, in virtù del D.m. 29 luglio 2005, recante “individuazione del patrimonio dell’Agenzia del demanio”, e del successivo D.m. 17 luglio 2007 recante “individuazione di nuovi beni immobili da conferire in proprietà dell’Agenzia del demanio, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del d.M. 29 luglio 2005, del Ministro dell’economia e delle finanze” (v. art. 3 dello Statuto -e l’ art. 65, co. 2 bis, d.lgs. 300/1999), -non è proprietaria del patrimonio immobiliare dello Stato, che è tuttora in capo al ministero dell’Economia e delle Finanze. La proprietà del patrimonio immobiliare dello Stato, nella sua interezza, permane, dunque in capo allo Stato-persona medesimo e, per esso, in capo al ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre l’Agenzia del Demanio “rappresenta… la proprietà dei beni mobili e immobili dello Stato di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze”, ed in particolare, ne cura “la gestione efficiente, l’amministrazione e la valorizzazione” ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, punto secondo, del citato regolamento di amministrazione e contabilità del- l’Agenzia del Demanio. vi. Ragioni di completezza (e prudenza) difensiva impongono a questa Avvocatura Generale di soffermarsi su un’ultima questione giuridica, inerente alla corretta interpretazione della portata e degli effetti del citato articolo, paragrafo 3, punto secondo, del regolamento di amministrazione e contabilità dell’Agenzia del Demanio. Come si è visto, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 3, punto secondo, del vigente regolamento di Amministrazione e di Contabilità dell’Agenzia del Demanio (in G.U. n. 309 del 30 dicembre 2021) “Le strutture territoriali <> hanno la piena titolarità della gestione del patrimonio assegnato e di proprietà del- l’Agenzia, rappresentando la proprietà dei beni mobili e immobili dello Stato di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze, curandone, in particolare, la gestione efficiente, l’amministrazione e la valorizzazione ”. in relazione alla portata e all’effettivo significato di tale disposizione regolamentare, ritiene questa Avvocatura Generale di dover chiarire e precisare, onde evitare equivoci e fraintendimenti, che “la funzione di ‘rappresentanza’ ” della proprietà dei beni immobili dello Stato di competenza del mEF, che l’art. 6, paragrafo 3, punto secondo, del vigente regolamento di amministrazione e contabilità assegna all’Agenzia del Demanio, non può de iure includere la ricezione degli avvisi di accertamento di fini imU e la gestione del relativo contenzioso. infatti, in base all’analisi della lettera della predetta disposizione regolamentare (che costituisce il primo ed assorbente criterio di interpretazione della norma, in ossequio al noto brocardo; “in claris non fit interpretatio”), tale funzione di rappresentanza della proprietà dei beni immobili dello Stato di competenza del ministero dell’Economia e delle Finanze è circoscritta alla “gestione efficiente, l’amministrazione e la valorizzazione”; e ciò in perfetta armonia e coerenza con l’art. 65, co. 1, del d.lgs. 300/1999, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. i), n. 2, del D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173, in base al quale: “All’Agenzia del demanio è attribuita l’amministrazione dei beni immobili dello Stato, con il compito di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego, di sviluppare il sistema informativo sui beni del demanio e del patrimonio, utilizzando in ogni caso, nella valutazione dei beni a fini conoscitivi ed operativi, criteri di mercato, di gestire con criteri imprenditoriali i programmi di vendita, di provvista, anche mediante l’acquisizione sul mercato, di utilizzo e di manutenzione ordinaria e straordinaria di tali immobili ”. Tale ultima disposizione di rango primario attribuisce, dunque, all’Agenzia del Demanio “l’amministrazione dei beni immobili dello Stato”, precisando che essa consiste e si esaurisce nei seguenti compiti: i. di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego; ii. di sviluppare il sistema informativo sui beni del demanio e del patrimonio […]; iii. di gestire […] i programmi di vendita, di provvista […] di utilizzo e di manutenzione ordinaria e straordinaria di tali immobili ”. Tra i compiti attribuiti dall’articolo 65, co. 1, all’Agenzia del Demanio non figura, dunque, quello di ricevere, per conto del mEF, gli avvisi imU emessi dai Comuni e di gestire il relativo contenzioso. Ne consegue che, con il citato articolo 65, comma 1, il legislatore (delegato) non ha affatto inteso derogare, in relazione agli immobili dello Stato, alla disciplina normativa in materia di iCi (poi divenuta imU) la quale, già nel 1999, prevedeva la regola secondo cui il soggetto passivo di imposta (e quindi il legittimo destinatario della pretesa impositiva) è il proprietario dell’unità immobiliare e non il gestore ex lege della stessa (v. l’art. 3, co. 1, del d.lgs. 504/1992, nel testo in vigore al 31 dicembre 2000). L’articolo 6, paragrafo 3, punto secondo, del vigente regolamento di Amministrazione e di Contabilità dell’Agenzia del Demanio deve, ovviamente, essere interpretato in modo coerente con la disposizione normativa primaria dell’art. 65, co. 1, d.lgs. 300/1999. D’altro canto, il regolamento in discorso ha un’efficacia meramente interna (circoscritta alle strutture dell’Agenzia del Demanio) e non sembra idoneo a disciplinare i rapporti giuridici esterni (intersoggettivi) di imposta con gli enti locali, consentendo a questi ultimi di notificare gli avvisi imU all’Agenzia del Demanio per conto del mEF. Una diversa interpretazione del predetto articolo 6 (secondo cui “la funzione di “rappresentanza” della proprietà dei beni immobili dello Stato di competenza del mEF, spettante all’Agenzia del Demanio, legittimerebbe quest’ultima anche a ricevere, per conto del mEF, gli avvisi di accertamento di fini imU ed a gestire il relativo contenzioso) non può essere seguita perché esporrebbe la predetta disposizione dell’articolo 6 a seri dubbi di illegittimità per contrasto con fonti normative di rango primario, con la conseguente necessità di disapplicarla, anche ex officio iudicis, ex art. 5 della Legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E. Si consideri, al riguardo, che il regolamento di Amministrazione e di Contabilità dell’Agenzia del Demanio è annoverabile tra i regolamenti “di altre autorità” di cui all’articolo 3 , comma 2, delle preleggi, che, nella gerarchia delle fonti (statali interne), si collocano sotto la legge (e fonti equiparate) e sotto i regolamenti del Governo, allo stesso livello dei regolamenti dei ministeri: trattasi, quindi, di una fonte regolamentare c.d. “di terzo grado”. Una fonte regolamentare siffatta non può derogare alla disciplina di rango primario in materia di imU la quale, come si è visto, attribuisce la soggettività passiva di imposta al titolare del “possesso” qualificato dal diritto di proprietà, quindi al proprietario, non includendo tra i soggetti passivi il mero gestore dell’immobile (cfr., per l’anno di imposta 2015, l’art. 13, d.l. 201/2011 e l’art. 9, co. 1, d.lgs. 23/2011). il regolamento di Amministrazione e di Contabilità dell’Agenzia del Demanio non è autorizzato da alcuna norma primaria a derogare ai criteri, di fonte legale, di selezione dei soggetti passivi dell’imU: in particolare, l’articolo 65, co. 1, del d.lgs. 300/1999, che va considerato la base normativa di rango primario di tale regolamento, non lo abilita affatto a disporre in materia di soggetti passivi ai fini iCi/imU e TASi; né esiste alcuna norma di rango primario che riservi all’Agenzia del Demanio la gestione, per conto del mEF, del contenzioso avente ad oggetto l’imU asseritamente dovuta in relazione al patrimonio immobiliare dello Stato. L’interpretazione che qui si contesta non sarebbe, in ultima analisi, compatibile con l’articolo 23 della Costituzione che prevede la riserva relativa di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte (quali sono quelle tributarie). Ebbene, accedendo all’interpretazione qui avversata, si avrebbe un regolamento di terzo grado che, senza alcuna base normativa primaria, legittimerebbe l’Agenzia del Demanio a ricevere gli avvisi imU dei Comuni, per conto del mEF, e a gestire il relativo contenzioso, con violazione, indiretta, della riserva relativa di legge costituzionalmente prevista. vii. Alla luce di tutto quanto esposto, è necessario ritenere che, contrariamente a quanto opinato dalla corte regionale, lo Stato-persona, e per esso il mEF, rimane il centro di riferimento e di imputazione della proprietà pubblica dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile (oltre che del patrimonio disponibile, ma di questo neanche Cass. 7152/18 pare dubitare), e rimane, dunque, il (necessario ed unico) destinatario degli avvisi ai fini imU emessi dai Comuni. in conclusione, si chiede che l’Ecc.ma Corte, in accoglimento del primo motivo (di portata assorbente rispetto agli altri), voglia affermare il seguente Principio di diritto: “il demanio e il patrimonio indisponibile dello Stato non costituiscono una “funzione”-transitata in capo all’Agenzia del demanio in virtù della norma meramente organizzatoria di cui all’art. 57, co. 1, d.lgs. 300/1999 -ma sono oggetto del diritto di proprietà pubblica la quale, pur con le note peculiarità di regime giuridico volte ad assicurare la destinazione della res a finalità di interesse pubblico, rientra, ex art. 42, co. 1, Cost., nella unitaria nozione di proprietà, ed è soggetta anch’essa, in linea di principio, alle norme di diritto privato; tale proprietà pubblica è tuttora riconducibile allo Stato-persona, e per esso al Ministero dell’economia e delle Finanze, non rinvenendosi alcuna norma che ne abbia espressamente trasferito la titolarità in capo all’Agenzia del demanio -ente pubblico economico distinto dallo Stato e non mero organo dello stesso -alla quale spetta esclusivamente l’amministrazione del patrimonio immobiliare dello Stato; con la conseguenza che gli avvisi ai fini IMU emessi dai Comuni in relazione agli immobili dello Stato devono essere notificati al Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto tuttora centro di imputazione della proprietà dei beni immobili dello Stato, e non all’Agenzia del Demanio che, in quanto mero gestore, dei predetti beni immobili è priva di soggettività tributaria passiva ai fini IMU e TASI; e ciò anche in considerazione del fatto che, a differenza di ciò che avviene per l’Agenzia delle entrate, il legislatore non ha riservato all’Agenzia del demanio la gestione del contenzioso (civile e tributario) avente ad oggetto il patrimonio immobiliare dello Stato”. §§§ Per il resto si richiama tutto quanto eccepito, dedotto ed argomentato negli altri motivi di ricorso, da intendersi qui integralmente riportati per economia di scrittura. §§§ P.T.m. Previo eventuale rinvio alla pubblica udienza, si confida nell’accoglimento del ricorso. Spese integralmente rifuse. Roma, 17 novembre 2024 l’avvocato dello stato Giovanni Palatiello Cassazione, sezione tributaria, ordinanza 11 gennaio 2025 n. 727 -Pres. G.m. Stalla, rel. G. Lo Sardo -Agenzia del Demanio (avv. gen. Stato) c. Comune di Viterbo (avv. A. La- rivera) avverso sentenza Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio n. 3091/11/2023. RiLEVATo CHE: 1. L’Agenzia del Demanio ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio il 23 maggio 2023, n. 3091/11/2023, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento n. 20151524 del 15 settembre 2020 per l’omesso versamento dell’imU relativa all’anno 2015 per l’importo complessivo di € 46.860,00, in relazione ad immobili ubicati in Viterbo e censiti in catasto con le particelle 1000, 1027, 1028, 256, 496 e 995 del folio 133, 71 sub 3 e 71 sub. 5 del folio 169, 162 sub. 2 e 162 sub 3 del folio 171, 329 sub. 2 e 329 sub. 3 del folio 181, i quali erano compresi nel demanio dello Stato, ha accolto parzialmente l’appello proposto dal Comune di Viterbo nei confronti della medesima avverso la sentenza depositata dalla Commissione tributaria provinciale di Viterbo il 9 marzo 2022, n. 121/01/2022, con compensazione delle spese giudiziali. 2. il giudice di appello ha parzialmente riformato la decisione di prime cure -che aveva accolto il ricorso originario del contribuente -nel senso di dichiarare la legittimità dell’avviso di accertamento nei limiti del 50% con riguardo al fabbricato censito in catasto con la particella 71 sub. 3 del folio 169, nonché per l’intero con riguardo ai terreni censiti in catasto con le particelle 1000, 1027, 1028, 256, 496 e 995 del folio 133, e di dichiarare la cessazione della materia del contendere per il resto. 3. il Comune di Viterbo ha resistito con controricorso. 4. Le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. CoNSiDERATo CHE: 1. il ricorso è affidato a quattro motivi. 2. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 13 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, 1 e 3 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504, 9, comma 1, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, 1, comma 743, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, 2697 cod. civ., 65 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, 1 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per essere stato erroneamente ritenuto dal giudice di secondo grado che l’Agenzia del Demanio fosse dotata di soggettività passiva ai fini dell’imU. 2.1 il predetto motivo è fondato. 2.2 invero, è pacifico che l’Agenzia del Demanio -fatta eccezione per alcuni beni, costituenti il suo patrimonio immobiliare, ad essa conferito dal ministero dell’Economia e delle Finanze, in virtù del d.m. 29 luglio 2005, recante “individuazione del patrimonio dell’Agenzia del demanio”, e del successivo d.m. 17 luglio 2007, recante “individuazione di nuovi beni immobili da conferire in proprietà dell’Agenzia del demanio, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del d.M. 29 luglio 2005, del Ministro dell’economia e delle finanze” -non è proprietaria del patrimonio immobiliare dello Stato, né è titolare, in relazione allo stesso, di diritti reali, o di concessione amministrativa. La proprietà del patrimonio immobiliare dello Stato, nella sua interezza, permane in capo allo Stato medesimo e, in rappresentanza di esso, al ministero dell’Economia e delle Finanze, non rinvenendosi alcuna norma che ne abbia trasferito la titolarità in capo all’Agenzia del Demanio. Per cui, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di iCi (ma con valenza anche per l’imU), l’Agenzia del Demanio, la quale, ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, cura l’amministrazione degli immobili demaniali e patrimoniali dello Stato, non è soggetta ad imposta, non essendo ricompresa tra i soggetti passivi elencati nell’art. 3 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504 (in termini: Cass., Sez. 5^, 5 febbraio 2019, n. 3275; Cass., Sez. 5^, 17 aprile 2019, n. 10655; Cass., Sez. 5^, 17 febbraio 2021, n. 4138). Ciò, in quanto l’Agenzia del Demanio (che, rientrando tra le agenzie fiscali, è munita di personalità giuridica di diritto pubblico, ai sensi del combinato disposto degli artt. 57, comma 1, e 61, comma 1, del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ed è distinta dal ministero dell’Economia e delle Finanze) non è proprietaria (né titolare di altro diritto reale, e neppure formale concessionaria) degli immobili compresi nel demanio e nel patrimonio (disponibile o indisponibile) dello Stato, per cui essa non può essere il soggetto passivo dell’iCi e dell’imU, che per legge (artt. 3, comma 1, del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504; 9, comma 1, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23) è individuato nel proprietario degli immobili (e, dunque, nella fattispecie, nel ministero dell’Economia e delle Finanze). 2.3 Ne discende che, a fronte dell’attribuzione primaria ex lege dell’«amministrazione dei beni immobili dello Stato» (art. 65, comma 1, del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300), non si può valorizzare, al fine di stabilire la soggettività passiva ai fini del pagamento dell’imU (come è stato, invece, fatto dalla sentenza impugnata), la circostanza che la convenzione stipulata tra ministero dell’Economia e delle Finanze ed Agenzia del Demanio per il triennio 2017/2019 «risulta disciplinante la gestione del pagamento delle imposte, gravanti sui beni di proprietà dello Stato, comunque pagate dall’Agenzia del demanio, previa messa a disposizione dei fondi da parte del Ministero delle Finanze». Difatti, sancendo, ai fini della gestione delle imposte, che i servizi prestati consistono in: «a) determinazione degli importi a carico dell’Agenzia (anche attraverso la trasmissione agli enti di competenza dei dati rilevanti per il calcolo degli oneri fiscali); b) trasmissione alla struttura centrale delle informazioni relative ai tributi da corrispondere e la relativa richiesta di messa a disposizione delle necessarie risorse finanziarie; c) gestione del rapporto con il MeF da parte della struttura centrale per la disponibilità dei fondi; d) gestione dei pagamenti dei tributi; e) gestione del relativo contenzioso a supporto dell’Avvocatura», il punto 1.5 del- l’allegato “A” (“dettaglio dei servizi resi”) alla citata convenzione (che è annessa in copia alla documentazione prodotta in via telematica nel fascicolo della ricorrente in sede di legittimità) conferma il ruolo meramente gestorio e strumentale dell’Agenzia del Demanio, che opera per conto e nell’interesse del ministero dell’Economia e delle Finanze anche con riguardo all’adempimento degli obblighi tributari inerenti agli immobili demaniali o patrimoniali, non offrendo alcun appiglio all’opposta ricostruzione del trasferimento delle posizioni dominicali. 3. Con il secondo motivo, in subordine, si denuncia violazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non essere stata tenuta in conto dal giudice di secondo grado l’eccezione di giudicato esterno in relazione alla sentenza depositata dalla Commissione tributaria provinciale di Roma il 17 gennaio 2020, n. 598/21/2020, che aveva annullato l’avviso di accertamento n. 2013000865 per l’imU relativa all’anno 2013 con riguardo al fabbricato censito in catasto con la particella 71 sub. 3 del folio 169, sul presupposto che il tributo non era dovuto per carenza del possesso del predetto immobile in capo all’Agenzia del Demanio. Con il terzo motivo, in subordine, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 13 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, 1 e 2 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per essere stato erroneamente ritenuto dal giudice di secondo grado che, a prescindere dalla formazione del giudicato esterno di cui al secondo motivo, l’Agenzia del Demanio non aveva il possesso del fabbricato censito in catasto con la particella 71 sub. 3 del folio 169, che era stato occupato sine titulo da altri enti. i predetti motivi sono unitariamente assorbiti dall’accoglimento del primo motivo, essendo stati proposti in via subordinata rispetto al primo motivo, per cui se ne rende superfluo ed ultroneo lo scrutinio. 4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 9, commi 1 e 8, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, nel testo applicabile ratione temporis, 3 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504, 1, comma 2, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, e 1, comma 759, lett. a, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, per essere stato erroneamente ritenuto dal giudice di secondo grado che l’imU relativa all’anno 2015 era dovuta in relazione ai terreni censiti in catasto con le particelle 1000, 1027, 1028, 256, 496 e 995 del folio 133, giacché l’edificazione sui medesimi della caserma del Comando Provinciale di Viterbo dei Vigili del Fuoco non basta ad escluderne la debenza, a causa dell’intestazione catastale dei predetti immobili all’Agenzia del Demanio. 4.1 il predetto motivo è inammissibile. 4.2 Difatti, a fronte dell’accertamento in fatto dell’acquisto dei terreni a favore dell’Agenzia del Demanio per effetto di un provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, sebbene sulla sola base delle risultanze catastali (che hanno valore meramente indiziario -da ultima: Cass., Sez. 2^, 6 novembre 2023, n. 30823), il mezzo finisce col risolversi in una inammissibile pretesa alla revisione del merito ed alla rivalutazione delle risultanze probatorie al fine di rinnovare l’accertamento sull’appartenenza dei predetti immobili, che sono rigorosamente precluse al giudice di legittimità. 4.3 D’altra parte, la circostanza che i beni demaniali e patrimoniali dello Stato non siano stati trasferiti all’Agenzia del Demanio in forza del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, non esclude che l’Agenzia del Demanio possa acquistare in proprio, a qualsiasi titolo, la proprietà di immobili, essendo munita di autonomia patrimoniale ex art. 61, comma 2, del citato d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ed essendo, quindi, titolare di un separato patrimonio per il conseguimento delle finalità istituzionali ex art. 1 del d.m. 29 luglio 2005. 4.4 in conclusione, anche al fine di rinsaldare e consolidare la precedente giurisprudenza, il collegio valuta l’opportunità di enunciare il seguente principio di diritto: «in tema di iMu (come anche di iCi), l’agenzia del Demanio non è soggetto passivo di imposta in relazione agli immobili compresi nel demanio e nel patrimonio (disponibile ed indisponibile) dello stato, dei quali essa è mera affidataria dell’amministrazione e della valorizzazione ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, per cui, non essendo titolare della proprietà o di altri diritti reali di godimento, né beneficiario di concessione amministrativa, sui predetti immobili, il gestore del patrimonio immobiliare pubblico non è ricompreso tra i soggetti passivi elencati nell’art. 9, comma 1, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (così come nell’art. 3 del d.lgs. 30 novembre 1992, n. 504, per l’iCi). Ciò non esclude, tuttavia, che l’agenzia del Demanio sia titolare di un autonomo patrimonio ai sensi del- l’art. 1 del d.m. 29 luglio 2005 e, quindi, possa acquistare in proprio, a qualsiasi titolo, la proprietà di immobili». 5. Alla stregua delle suesposte argomentazioni, dunque, valutandosi la fondatezza del primo motivo, l’assorbimento del secondo motivo e del terzo motivo, nonché l’inammissibilità del quarto motivo, il ricorso può trovare accoglimento entro tali limiti e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto; non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ., con l’accoglimento parziale del ricorso originario del contribuente e l’annullamento dell’atto impositivo in relazione ai fabbricati ubicati in Viterbo e censiti in catasto con le particelle 71 sub 3, e 71 sub. 5 del folio 169, 162 sub. 2 e 162 sub 3 del folio 171, 329 sub. 2 e 329 sub. 3 del folio 181. 6. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese dell’intero giudizio. invero, alla luce del principio enunciato di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2022, n. 32061), si può ritenere che l’impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente per una pluralità di immobili in relazione alla medesima imposta integri un’unica domanda articolata in una pluralità di capi (Cass., Sez. Trib., 24 aprile 2024, n. 11072), rispetto alla quale il parziale accoglimento (anche all’esito della riforma della sentenza impugnata in favore dell’ente impositore) costituisce idonea giustificazione alla compensazione delle spese giudiziali. P.Q.m. La Corte accoglie il primo motivo, dichiara l’assorbimento del secondo motivo e del terzo motivo; dichiara l’inammissibilità del quarto motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie parzialmente il ricorso originario con l’annullamento dell’atto impositivo nei limiti specificati in motivazione; compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio. Così deciso a Roma nella camera di consiglio del 4 dicembre 2024. appunti sul D.lgs. n. 139/2024 Modifiche in materia di trust Antonio Ferraioli* il decreto Legislativo 18 settembre 2024, n. 139 introduce la possibilità per il disponente di un trust di optare la tassazione “in entrata” ai fini del- l’imposta sulle successioni e donazioni. il dibattito circa l’identificazione dell’evento che dà luogo alla tassazione ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni in relazione ai trust è stato da sempre fonte di divisioni in dottrina, giurisprudenza e prassi. Le novità normative introdotte dal decreto Legislativo 18 settembre 2024, n. 139 segnano un importante punto di svolta sulla tematica. Questo lo status quaestionis prima del provvedimento. Con il Decreto Legge 3 ottobre 2006, n. 262, l’imposta sulle successioni e donazioni è stata reintrodotta e la sua applicazione estesa anche agli “atti di trasferimento a titolo gratuito di beni e la costituzione di vincoli di destinazione”, tra i quali, secondo l’interpretazione resa dall’Agenzia delle Entrate con la circolare del 6 agosto 2007, n. 48/E, dovevano considerarsi ricompresi anche gli apporti in favore di trust. L’Agenzia ha ritenuto che il mero atto di istituzione del trust (senza apporto di beni) fosse da considerare soggetto alla sola imposta di registro in misura fissa e che l’atto di apporto dei beni in trust (atto dispositivo) fosse da considerarsi soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni (cosiddetta “tassazione in entrata”), con aliquote e franchigie variabili in base al rapporto di parentela (ove esistente) tra disponente e beneficiario del trust. Questa posizione dell’Agenzia ha dato origine ad un ius controversum, ovvero ad una ambivalente prospettazione di posizioni: 1) La posizione dell’Agenzia, oggetto di critica in dottrina (la quale tendeva a considerare unico evento rilevante ai fini impositivi quello dell’effettivo trasferimento dei beni ai beneficiari del trust), ha generato un rilevante numero di contenziosi. 2) in un primo momento la Suprema Corte di Cassazione ha accolto l’interpretazione dell’Agenzia, favorevole alla “tassazione in entrata”. 3) Successivamente, a cominciare dal leading case Cass. 30 ottobre 2020, n. 24154 la Suprema Corte si è pronunciata in senso opposto: “il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dall’art. 1 d.lgs. n. 346 cit. del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari”. (*) Dottore di ricerca in Diritto romano. 4) Di conseguenza è mutata anche l’impostazione della prassi: l’Agenzia, con la circolare del 20 ottobre 2022, n. 34/E, ha rivisto la propria posizione, individuando quale momento impositivo il momento in cui si realizza l’effettivo trasferimento di ricchezza in favore dei beneficiari del trust (cosiddetta “tassazione in uscita”). in particolare: nell’ipotesi in cui i beneficiari individuati (o individuabili) siano titolari di diritti pieni ed esigibili, non subordinati alla discrezionalità del trustee o del disponente, tali, dunque, da consentire loro l’arricchimento al momento dell’istituzione del trust, allora il momento impositivo risulterebbe quello dell’apporto dei beni in trust. 5) Dopo la circolare n. 34/E del 2022, è stata approvata la Legge 9 agosto 2023, n. 111 recante, disposizioni per la razionalizzazione dell’imposta sulle successioni e donazioni atte a modificare il Decreto legislativo del 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo unico imposte di successione e donazione -TUSD), le quali sono state recepite dal Decreto 139/2024, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 ottobre 2024. 6) Con il Decreto 139/2024 è stata prevista la facoltà per il disponente del trust di optare per la corresponsione dell’imposta sulle successioni e donazioni in occasione di ciascun apporto dei beni e dei diritti o, nel caso di trust testamentario, in occasione dell’apertura della successione. La base imponibile, le franchigie e le aliquote applicabili sono determinate con riferimento al valore complessivo dei beni e dei diritti e al rapporto tra disponente e beneficiario al momento dell’apporto o dell’apertura della successione. in particolare: nel caso in cui al momento dell’apporto, o dell’apertura della successione non sia possibile determinare chi siano i beneficiari, oppure questi non siano ancora individuati, l’imposta si calcola applicando l’aliquota più elevata, senza applicazione di franchigie. Qualora il disponente ovvero, in caso di trust testamentario, il trustee opti per la corresponsione dell’imposta sulle successioni e donazioni “in entrata”, i successivi trasferimenti a favore dei beneficiari appartenenti alla medesima categoria per cui è stata corrisposta l’imposta in via anticipata non sono soggetti all’imposta. Le novità introdotte dal Decreto 139/2024 trovano applicazione con riferimento agli atti di trasferimento di beni in trust effettuati (e le successioni aperte) a partire dal 1° gennaio 2025, anche con riferimento ai trust già istituiti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni. in base al ius novum: la possibilità di optare per l’anticipazione dell’imposta al momento del- l’apporto dei beni in trust (anziché al momento del trasferimento ai beneficiari) comporta l’anticipazione della tassazione, consentendo di beneficiare dell’attuale quadro normativo in materia di imposta sulle successioni e donazioni, particolarmente favorevole in termini di aliquote, franchigie e criteri di determinazione della base imponibile; evitando che i successivi incrementi di valore del patrimonio trasferito in trust -dalla data dell’apporto dei beni in trust a quella del trasferimento ai beneficiari -siano soggetti a ulteriore tassazione ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. SoMMArio: 1. il mutamento della fiscalità del trust -2. La sintesi delle modifiche del d.lgs. 139/2024: la tassazione dei trust -3. L’opzione tassazione all’entrata e tassazione all’uscita - 4. in sintesi. 1. il mutamento della fiscalità del trust. Nel riformato Testo Unico sulle Successioni e Donazioni (D.lgs. n. 346/1990 -TUSD), una particolare attenzione è stata dedicata all’istituto del trust, cui sono dedicate diverse nuove disposizioni, in vigore dal 1 gennaio 2025 (1). Per la prima volta, il TUSD menziona espressamente il trust, quale criterio di regolazione degli istituti di imposizione dei vincoli: le norme sono prioritariamente riferite ai trust, oltre che agli “altri vincoli di destinazione”. Con riferimento ai trust, il decreto delegato riformula il presupposto impositivo, specifica le regole di territorialità del tributo e, soprattutto, introduce l’art. 4-bis, cui è assegnato il compito di definire compiutamente i termini di rilevanza fiscale dell’istituto. il testo dell’art. 4-bis recepisce la Corte di Cassazione e il suo leading case del 2020. il legislatore delegato ha dunque positivizzato un meccanismo impositivo detto di “tassazione in uscita”. Termina così il dibattito iniziato all’indomani del 2006, sui presupposti di rilevanza impositiva del trust (cfr. CNN Notizie n. 202 del 31 ottobre 2024). Tra le novità: -la definizione concettuale di “oggetto del tributo” (2) dell’art. 1 TUSD, contestualmente abrogando le disposizioni dell’art. 2, commi da 47 a 52, D.L. n. 262/2006 (convertito in legge n. 286/2006) l’imposta “si applica ai trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito, compresi i trasferimenti derivanti da trust e da altri vincoli di destinazione” (3). (1) L’art. 9, comma 3, dispone che “Le disposizioni di cui al presente decreto hanno effetto a partire dal 1° gennaio 2025 e si applicano agli atti pubblici formati, agli atti giudiziari pubblicati o emanati, alle scritture private autenticate o presentate per la registrazione a partire da tale data, nonché alle successioni aperte e agli atti a titolo gratuito fatti a partire da tale data”. Su questi temi, si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, a m. LUPoi -T. TASSANi, Commentario alla Circolare 34/e, milano, 2023, passim; T. TASSANi, Le imposte indirette, in m. LUPoi (a cura di), i trust, il Foro italiano -Gli Speciali, milano, 2023, 133 ss.; AA.VV., La disciplina fiscale dei trust, a cura di A. LomoNACo, Quaderni della rivista Studi e Materiali del CNN, Napoli, 2023, passim. (2) rectius presupposto impositivo. (3) Si può dunque notare come i trust (e gli altri vincoli) non siano [più] assunti come fattispecie impositiva autonoma, bensì come una delle ipotesi attraverso cui si possono realizzare i trasferimenti -Ai trust ed agli “altri vincoli di destinazione” è dedicato il nuovo art. 4bis TUSD. il comma 1 dell’art. 4-bis: i trust (e gli altri vincoli) “rilevano, ai fini del- l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, ove determinino arricchimenti gratuiti dei beneficiari”. La produzione dell’effetto di arricchimento gratuito determina il perimetro, della rilevanza fiscale: il tributo può essere applicato solo a quei trust che sono idonei a realizzare effetti di arricchimento gratuito a favore di soggetti terzi rispetto al disponente e solo se (e solo quando) tali effetti si producono (4). L’effetto di arricchimento gratuito deve inoltre essere reale, non solo virtuale. Se, dunque, nell’ambito di un trust gratuito/liberale, il trasferimento a favore dei beneficiari non si realizza in concreto, per ragioni fisiologiche o patologiche non importa, il tributo non potrà essere applicato (5). 2. La sintesi delle modifiche del d.lgs. 139/2024: la tassazione dei trust. il D.lgs. 18 settembre 2024 n. 139 (c.d. riforma fiscale) apporta rilevanti modifiche al D.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346 (TUSD), sancendo, per la prima volta espressamente, l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai trust (6). inter vivos o mortis causa oggetto del tributo. La definizione legislativa è indubbiamente più corretta di quella precedente, che sembrava assegnare rilevanza alla costituzione del vincolo in sé, piuttosto che al trasferimento derivante dallo sviluppo della fattispecie negoziale del trust. Tanto che parte della giurisprudenza aveva addirittura teorizzato l’introduzione di un’autonoma imposta sul vincolo di destinazione. (4) il diritto tributario considera gli effetti piuttosto che la causa dei negozi giuridici: i trust sono considerati sia trust funzionalmente non liberali che, in talune circostanze, siano idonei a produrre effetti gratuiti da assoggettare a tassazione. È questo il caso del trust di garanzia in cui più disponenti hanno conferito quote di partecipazioni di una società in relazione al quale il trustee, venuto meno lo scopo del trust, proceda a restituire le quote ai disponenti in misura non proporzionale rispetto all’apporto iniziale, in modo da realizzare arricchimenti gratuiti a favore di taluni di tali soggetti. (5) Si pensi ai casi di retrocessione dei beni come conseguenza della revoca del trust (quando ammessa) o del venir meno dell’ultimo periodo del primo comma dell’art. 4-bis, TUSD precisa che “resta ferma la disciplina” della legge n. 112/2016, sul “Dopo di noi”. Si tratta di un inciso solo in parte superfluo. il regime fiscale del “Dopo di noi” era infatti improntato sul meccanismo della tassazione “in uscita” e non “in entrata”, secondo una prospettiva sistematica e non meramente agevolativa. Lo sviluppo giurisprudenziale e normativo ha confermato questa lettura, visto che gran parte delle previsioni (per le imposte sui trasferimenti) di questa legge esprimono la stessa filosofia impositiva accolta dall’art. 4-bis, TUSD. Vi è però una disposizione, questa sì, puramente agevolativa della legge n. 112/2016 rispetto alla quale la precisazione dell’ultimo periodo del primo comma dell’art. 4-bis, TUSD appare preziosa: quella che prevede la tassazione fissa (imposte di registro, ipotecaria e catastale) per gli acquisti onerosi effettuati dal trustee (art. 6, comma 6, legge 112/2016). (6) Prima della riforma, la legge non disciplinava la tassazione indiretta dei trust. Era stata l’Agenzia delle Entrate, con le circolari n. 48/E del 6 agosto 2007 e n. 3/E del 22 gennaio 2008 ad affermare l’assoggettamento dei trust all’imposta sulle successioni e donazioni, equiparandoli ai vincoli di destinazione. L’Agenzia delle Entrate, con le circolari sopra richiamate, aveva affermato il principio della c.d. tassazione all’entrata, in base al quale l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento dell’apporto dei beni in trust. L’art. 4-bis TUSD, introdotto dal D.lgs. 139/2024, al comma 1, recepisce il principio della c.d. tassazione all’uscita. Ne consegue che, per espressa previsione di legge, l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari e non al momento dell’apporto dei beni in trust. L’imposta va determinata avendo riguardo al rapporto intercorrente tra disponente e beneficiario al momento del trasferimento, sia in riferimento alle franchigie sia in riferimento alle aliquote. La base imponibile deve essere determinata sulla base della normativa vigente al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. L’atto istitutivo del trust e gli atti di apporto di beni in trust, fiscalmente neutri, sono soggetti all’imposta di registro in misura fissa. Nel caso in cui l’atto di apporto abbia ad oggetto diritti reali immobiliari, anche l’imposta ipotecaria e catastale sono dovute in misura fissa. il trasferimento ai beneficiari deve essere denunciato ai sensi dell’art. 19 d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, entro trenta giorni. Vale la pena sottolineare che anche l’art. 19 TUiR è stato modificato dal D.lgs. 139/2024. A differenza di quanto previsto prima della riforma, il contribuente è tenuto ad autoliquidare l’imposta e a effettuarne il pagamento al momento della denuncia. 3. L’opzione tassazione all’entrata e tassazione all’uscita. il legislatore offre una duplice opzione: all’art. 4-bis, comma 1, TUSD, afferma il principio della c.d. tassazione all’uscita, dall’altro, al comma 3, consente al disponente (oppure al trustee, in caso di trust testamentario) di optare per la c.d. tassazione all’entrata. il disponente o il trustee possono optare per la corresponsione dell’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale al momento dell’apporto dei beni in trust e non al momento del trasferimento ai beneficiari. La c.d. tassazione all’entrata permette al disponente o al trustee di avere certezza sulla normativa fiscale applicabile al trust istituito. Vi sono però dei possibili punti di torsione: a) il trasferimento ai beneficiari, può intervenire molto tempo dopo rispetto all’apporto dei beni in trust e, nel lasso di tempo che intercorre tra l’apporto e il trasferimento, la normativa dettata in tema di tassazione indiretta dei trust potrebbe cambiare; b) nel caso in cui il disponente o il trustee optino per la c.d. tassazione all’entrata, ai sensi dell’art. 4-bis, comma 3, TUSD, non si dà luogo al rimborso dell’imposta versata. Nel caso in cui il disponente o il trustee abbiano La Corte di Cassazione, contrastando la prassi applicativa dell’Agenzia delle Entrate, aveva in più occasioni affermato il principio della c.d. tassazione all’uscita, in base al quale l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. optato per la c.d. tassazione all’entrata, i trasferimenti a favore dei beneficiari appartenenti alla stessa categoria per cui è stata corrisposta l’imposta al momento dell’apporto dei beni in trust non sono soggetti all’imposta. L’imposizione all’uscita non opera nel caso in cui il beneficiario finale appartenga ad una categoria differente rispetto a quella per cui è stata corrisposta l’imposta anticipata. in tal caso, il trasferimento è soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale secondo il generale principio della c.d. tassazione all’uscita (7). il D.lgs. 139/2024 ha, infine, modificato l’art. 28, comma 2, TUSD, includendo tra i soggetti tenuti alla presentazione della dichiarazione di successione anche i trustee, nel caso di trust testamentario. il termine di dodici mesi per la presentazione della dichiarazione di successione decorre, per i trustee, ai sensi dell’art. 31 TUSD, dalla data in cui gli stessi hanno avuto notizia legale della nomina. Prima della riforma, la legge non disciplinava la tassazione indiretta dei trust. Era stata l’Agenzia delle Entrate, con le circolari n. 48/E del 6 agosto 2007 e n. 3/E del 22 gennaio 2008 ad affermare l’assoggettamento dei trust all’imposta sulle successioni e donazioni, equiparandoli ai vincoli di destinazione. L’art. 1 TUSD e l’art. 56 TUSD, nella loro nuova formulazione, prevedono espressamente l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni ai “…trasferimenti derivanti da trust…”. il comma 2-bis dell’art. 2 TUSD e il comma 1 dell’art. 4-bis TUSD definiscono il perimetro applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni, dando rilevanza alla residenza del disponente al momento della separazione patrimoniale. Più precisamente, se il disponente è residente in italia al momento della separazione patrimoniale, l’imposta si applica a tutti i beni e diritti trasferiti ai beneficiari. Se il disponente non è residente in italia al momento della separazione patrimoniale, invece, l’imposta si applica ai soli beni e diritti esistenti nel territorio dello Stato italiano e trasferiti ai beneficiari. Ulteriore presupposto richiesto dall’art. 4-bis, comma 1, TUSD perché si applichi l’imposta sulle successioni e donazioni è che il trasferimento ai beneficiari determini un arricchimento gratuito per i beneficiari stessi. Restano, quindi, esclusi i trust di garanzia, i trust liquidatori e i trust di scopo (8). (7) La legge, però, nulla dispone sulla sorte dell’imposta versata al momento dell’apporto dei beni in trust. Sarebbe iniquo ritenere che l’imposta versata in via anticipata resti definitivamente acquisita allo Stato, senza tenerne conto ai fini del calcolo dell’imposta dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022, in relazione ai trust tassati all’entrata, aveva ritenuto che l’imposta già versata potesse essere detratta dall’imposta eventualmente dovuta all’uscita. Dunque, potrebbe ritenersi che il descritto meccanismo di imputazione sia applicabile anche all’imposta dovuta per i trasferimenti effettuati a favore di beneficiari appartenenti a categorie differenti rispetto a quella per cui è stata versata l’imposta anticipata, nel caso di opzione per il regime della c.d. tassazione all’entrata di cui all’art. 4-bis, comma 3, TUSD. 4. in sintesi. L’Agenzia delle Entrate aveva affermato il principio della c.d. tassazione all’entrata, in base al quale l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento dell’apporto dei beni in trust. La Corte di Cassazione, contrastando la prassi applicativa dell’Agenzia delle Entrate, aveva in più occasioni affermato il principio della c.d. tassazione all’uscita, in base al quale l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. L’apporto di beni in trust, secondo tale orientamento, non determinando di per sé alcun arricchimento gratuito per i beneficiari, è da considerarsi fiscalmente neutro e, quindi, soggetto all’imposta di registro in misura fissa. Nel caso in cui l’apporto abbia ad oggetto diritti reali immobiliari, anche l’imposta ipotecaria e catastale sono dovute in misura fissa. L’Agenzia delle Entrate aveva, poi, cambiato indirizzo e recepito l’orientamento della Suprema Corte con la circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022. L’art. 4-bis TUSD, introdotto dal D.lgs. 139/2024, al comma 1, recepisce il principio della c.d. tassazione all’uscita. Ne consegue che, per espressa previsione di legge, l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale è dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari e non al momento dell’apporto dei beni in trust. L’imposta va determinata avendo riguardo al rapporto intercorrente tra (8) Nel tributo donativo, l’integrazione del presupposto impositivo richiede la sussistenza di un elemento “formale”. È, cioè, necessario che l’arricchimento derivi da un atto soggetto a registrazione (come è per la donazione: art. 55, TUSD) oppure che risulti da un atto per il quale vi sia obbligo di registrazione (art. 1, comma 4-bis, TUSD). Quando, invece, l’effetto gratuito deriva o risulta da un atto che non è soggetto a registrazione oppure da un comportamento materiale, la tassazione diviene possibile solo integrando una delle due ipotesi di cui all’art. 56-bis, TUSD: la registrazione volontaria della liberalità oppure la dichiarazione resa dal contribuente nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento di altri tributi. Questo sistema di registrazione volontaria e di tassazione solo eventuale degli atti gratuiti atipici (o liberalità indirette) è stato confermato in sede di riforma (il riformulato art. 56-bis, TUSD non innova su questo aspetto) e continua, dunque, ad applicarsi alla generalità dei contribuenti. A questo però si affianca il nuovo obbligo di denuncia inserito dall’art. 4-bis, TUSD, con riferimento ai beneficiari di trust ed altri vincoli di destinazione. Ai sensi del terzo periodo del primo comma dell’art. 4-bis, TUSD, il beneficiario ha l’obbligo di denunciare il “trasferimento” gratuito ottenuto dal trustee ai sensi dell’art. 19, d.P.R. 131/1986 (TUR), il cui termine (30 giorni) “decorre dal predetto atto di trasferimento”. Volendo tentare una prima ricostruzione sistematica, rileviamo che: se l’attribuzione si realizza attraverso di un atto soggetto a registrazione formato o ricevuto da un responsabile d’imposta (es. atto pubblico di trasferimento della proprietà di un immobile; scrittura privata autenticata con cui si attribuisce una somma di denaro con accettazione del beneficiario), l’applicazione del tributo avviene tramite l’ordinario meccanismo impositivo che prevede che la registrazione e la liquidazione del tributo sia ad opera del responsabile d’imposta medesimo (notaio). in questi casi, il beneficiario non deve procedere a nessuna ulteriore “denuncia”; cfr. CNN Notizie n. 202 del 31 ottobre 2024. disponente e beneficiario al momento del trasferimento, sia in riferimento alle franchigie sia in riferimento alle aliquote. Anche la base imponibile deve essere determinata sulla base della normativa vigente al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. L’atto istitutivo del trust e gli atti di apporto di beni in trust, fiscalmente neutri, sono soggetti all’imposta di registro in misura fissa. Nel caso in cui l’atto di apporto abbia ad oggetto diritti reali immobiliari, anche l’imposta ipotecaria e catastale sono dovute in misura fissa. Se quello sopra descritto è lo scenario cui assisteremo, resta ancora aperto il problema se la (obbligatoria) tassazione “all’entrata” prevista dalla citata Circolare 34E/2022 possa sopravvivere alla Riforma. È noto infatti che l’Agenzia delle Entrate la richiede nel caso in cui «i beneficiari individuati (o individuabili) siano titolari di diritti pieni ed esigibili, non subordinati alla discrezionalità del trustee o del disponente, tali da consentire loro l’arricchimento e l’ampliamento della propria sfera giuridico-patrimoniale già al momento dell’istituzione del trust». il trasferimento ai beneficiari deve essere denunciato ai sensi dell’art. 19 d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, entro trenta giorni. Vale la pena sottolineare che anche l’art. 19 TUiR è stato modificato dal D.lgs. 139/2024. A differenza di quanto previsto prima della riforma, il contribuente è tenuto ad autoliquidare l’imposta e a effettuarne il pagamento al momento della denuncia. Se, da un lato, il legislatore, all’art. 4-bis, comma 1, TUSD, afferma il principio della c.d. tassazione all’uscita, dall’altro, al comma 3, consente al disponente (oppure al trustee, in caso di trust testamentario) di optare per la c.d. tassazione all’entrata. il disponente o il trustee possono optare per la corresponsione dell’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale al momento dell’apporto dei beni in trust e non al momento del trasferimento ai beneficiari. in questo caso, ai fini della determinazione dell’imposta, si ha riguardo al rapporto intercorrente tra disponente e beneficiario al momento dell’apporto. Nel caso in cui non sia possibile determinare detto rapporto al momento dell’apporto dei beni in trust (come, ad esempio, nel caso di beneficiari determinabili), si applica l’aliquota più elevata, ovvero sia l’aliquota dell’8%, senza alcuna franchigia. Anche la base imponibile deve essere determinata sulla base della normativa vigente al momento dell’apporto dei beni in trust. La c.d. tassazione all’entrata permette al disponente o al trustee di avere certezza sulla normativa fiscale applicabile al trust istituito. il trasferimento ai beneficiari, infatti, può avere luogo anche dopo molto tempo rispetto all’apporto dei beni in trust e, nel lasso di tempo che intercorre tra l’apporto e il trasferimento, la normativa dettata in tema di tassazione indiretta dei trust potrebbe cambiare. Al contempo, bisogna tenere presente che, nel caso in cui il disponente o il trustee optino per la c.d. tassazione all’entrata, ai sensi dell’art. 4-bis, comma 3, TUSD, non si dà luogo al rimborso dell’imposta versata. Si può ben verificare il caso in cui l’imposta versata al momento dell’apporto dei beni in trust sia superiore rispetto a quella dovuta, se non si fosse optato per la c.d. tassazione all’entrata, al momento del trasferimento ai beneficiari. Nel caso in cui il disponente o il trustee abbiano optato per la c.d. tassazione all’entrata, i trasferimenti a favore dei beneficiari appartenenti alla stessa categoria per cui è stata corrisposta l’imposta al momento dell’apporto dei beni in trust non sono soggetti all’imposta. i trasferimenti non sono soggetti all’imposta anche se il beneficiario finale è diverso dal beneficiario individuato nell’atto istitutivo, purché il beneficiario finale appartenga alla stessa categoria del beneficiario individuato nell’atto istitutivo. Le categorie sono quelle individuate dagli artt. 7 e 56 TUSD, ovvero sia il coniuge e i parenti in linea retta, i fratelli e le sorelle, i parenti fino al quarto grado, gli affini in linea retta e gli affini in linea collaterale fino al terzo grado, gli altri soggetti. Data la lettera dell’art. 4-bis, comma 3, TUSD, a mente del quale detti trasferimenti “… non sono soggetti all’imposta…”, si può ritenere che l’imposta non sia dovuta anche nel caso in cui l’imposta corrisposta al momento dell’apporto dei beni in trust sia inferiore rispetto a quella dovuta, se non si fosse optato per la c.d. tassazione all’entrata, al momento del trasferimento ai beneficiari. Leggendo a contrario la disposizione al vaglio, si evince come il descritto meccanismo di sterilizzazione dell’imposizione all’uscita non operi nel caso in cui il beneficiario finale appartenga ad una categoria differente rispetto a quella per cui è stata corrisposta l’imposta anticipata. in tal caso, il trasferimento è soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale secondo il generale principio della c.d. tassazione all’uscita (9). (9) il secondo periodo del primo comma precisa che l’imposta “si applica al momento del trasferimento dei beni e diritti a favore dei beneficiari”. La formulazione legislativa accoglie in questo modo l’impostazione teorica che considera il trasferimento al beneficiario come perfezionamento della fattispecie impositiva, cui consegue il sorgere (in capo al beneficiario) dell’obbligazione tributaria. in questo senso, il trust si presenta quale fattispecie unitaria e complessa, in grado di realizzare una attribuzione gratuita indiretta, che prende avvio con l’apporto del disponente (soggetto che si “impoverisce”) e termina con l’arricchimento del beneficiario (o con gli arricchimenti, che genereranno allora altrettante fattispecie impositive). A differenza di altri atti di liberalità, nel trust l’arricchimento non è “istantaneo” (ossia non coincide temporalmente, e anche qualitativamente, con l’impoverimento del disponente) ma è dato dal succedersi di diversi atti e fatti giuridici, in una logica di progressività, dovendosi dunque parlare di fattispecie a formazione progressiva. il sistema di imposizione ordinaria dei trust non conosce deroghe rispetto a tale regola impositiva, nel senso che in nessun caso (salvo il regime opzionale) la tassazione può essere affermata all’atto dell’apporto in trust piuttosto che dell’attribuzione. A meno che l’apporto medesimo non si presenti già quale attribuzione finale a favore dei beneficiari: è questa l’ipotesi (praticamente di scuola) dei trust nudi (bare trust o simple trust), in cui i beneficiari sono fin dall’inizio titolari di una posizione giuridica piena. L’applicazione del tributo “al momento” del trasferimento implica, tra l’altro, che la base imponibile La legge, però, nulla dispone sulla sorte dell’imposta versata al momento dell’apporto dei beni in trust. Sarebbe iniquo ritenere che l’imposta versata in via anticipata resti definitivamente acquisita allo Stato, senza tenerne conto ai fini del calcolo dell’imposta dovuta al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022, in relazione ai trust tassati all’entrata, aveva ritenuto che l’imposta già versata potesse essere detratta dall’imposta eventualmente dovuta all’uscita. Dunque, potrebbe ritenersi che il descritto meccanismo di imputazione sia applicabile anche all’imposta dovuta per i trasferimenti effettuati a favore di beneficiari appartenenti a categorie differenti rispetto a quella per cui è stata versata l’imposta anticipata, nel caso di opzione per il regime della c.d. tassazione all’entrata di cui all’art. 4-bis, comma 3, TUSD. Detti trasferimenti, quindi, dovrebbero essere soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, ma detratta l’imposta versata in via anticipata. il D.lgs. 139/2024 ha, infine, modificato l’art. 28, comma 2, TUSD, includendo tra i soggetti tenuti alla presentazione della dichiarazione di successione anche i trustee, nel caso di trust testamentario. il termine di dodici mesi per la presentazione della dichiarazione di successione decorre, per i trustee, ai sensi dell’art. 31 TUSD, dalla data in cui gli stessi hanno avuto notizia legale della nomina. debba essere determinata in base al valore, a quella data, dei beni e diritti attribuiti e che la disciplina legislativa applicabile sia quella in futuro vigente. Non si tratta, infatti, di un atto sottoposto a condizione sospensiva che, ai sensi dell’art. 27 TUR (richiamato dall’art. 58, comma 2, TUSD), è regolato dalle disposizioni vigenti al momento della formazione dell’atto. Coerente con l’impostazione della rilevanza unitaria, ma progressiva, della fattispecie è poi la previsione del secondo comma dell’art. 4-bis, TUSD che esprime una regola ormai consolidata nel diritto vivente: le franchigie e le aliquote d’imposta si applicano “in base al rapporto tra disponente e beneficiario”. il riferimento al “trasferimento di beni e diritti” -da leggersi in modo armonico con la definizione del presupposto data dall’art. 1, comma 1, TUSD -consente di affermare che non qualunque utilità o beneficio riconosciuti al beneficiario siano assoggettati ad imposta, ma solo quelle attribuzioni che determinano uno spostamento patrimoniale a suo favore, un incremento del suo patrimonio. Dovendo in ogni caso escludersi (art. 1, comma 4, TUSD) le attribuzioni di modico valore, quelle per mantenimento, educazione, malattia e le liberalità d’uso (ex artt. 742, 770 secondo comma, 783, c.c.). inoltre, il “trasferimento” deve essere inteso in senso giuridico, non materiale, venendo ad integrarsi con il sorgere della posizione giuridica soggettiva in capo al beneficiario, diritto reale o diritto di credito, avente contenuto patrimoniale. Nella logica del tributo, l’attribuzione patrimoniale deve risolversi in un trasferimento di un cespite patrimoniale, nell’attribuzione di nuova ricchezza che affluisce nel patrimonio del beneficiario, restando invece irrilevanti quelle utilità, come i risparmi di spesa, ... ; si pensi anche al resettlement del trust in cui, a determinate condizioni, il patrimonio di un trust può essere segregato in un diverso trust senza generare arricchimento gratuito alcuno a favore di beneficiari; cfr. CNN Notizie n. 202 del 31 ottobre 2024). Si apre così una nuova fase: quella in cui gli operatori saranno chiamati a valutare e decidere la convenienza, in concreto, del modello di tassazione ordinario (in uscita) piuttosto che di quello opzionale (in entrata) . PARERIDELCOMITATOCONSULTIVO Istituto della prenotazione a debito di cui all’art. 158 del T.U. in materia di spese di giustizia: sulla esenzione dal pagamento del contributo unificato da parte della Regione Siciliana nei giudizi promossi innanzi alla Corte Suprema di Cassazione Parere del 12/12/2024-777626, al 5959/2024, Sez. aG, avv. domenico maimone Con la nota in riscontro codesta Avvocatura Distrettuale sottopone alle valutazioni della Scrivente la questione, ritenuta di massima perché destinata verosimilmente a riproporsi con potenziale notevole impatto sulla finanza pubblica, della esenzione della Regione Siciliana dall’obbligo di versare il contributo unificato nei giudizi in cui essa è parte e che si svolgono dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione. In sintesi, è accaduto che con invito al pagamento del 3 giugno 2023 la Regione sia stata richiesta da Equitalia Giustizia S.p.a., per conto del Ministero della Giustizia -Corte d’Appello di Palermo, di corrispondere l’importo del contributo unificato che la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, derogando ad una prassi di senso contrario, ha determinato di porre a suo carico sul presupposto che l’Ente territoriale, risultato soccombente nel giudizio definito con ordinanza della Suprema Corte n. 27100 del 14 settembre 2022, non fruisca dell’istituto della prenotazione a debito di cui all’art. 158 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (TU in materia di spese di giustizia). Codesta Avvocatura ha espresso il proprio avviso sulla vicenda, ritenendo invece che alla Regione Siciliana spetti, quanto alla previsione di cui all’art. 158 d.P.R. 115/02 e con le precisazioni di cui si dirà, proprio il medesimo trattamento che la legge prevede per le Amministrazioni dello Stato, stante la norma di equiparazione di cui all’art. 1 della L.R. Sic. 22 marzo 1952 n. 6, recante Trattamento tributario degli organi della Regione Siciliana, secondo cui «agli effetti di qualsiasi imposta, tassa e diritto in genere, di spettanza della regione, stabiliti da leggi generali o speciali, la regione siciliana e gli organi ed amministrazioni da essa dipendenti fruiscono dello stesso trattamento stabilito per le amministrazioni dello Stato». Pertanto, avuto riguardo alla pacifica natura tributaria del contributo unificato (ex multis, Corte costituzionale, 11 febbraio 2005 n. 73 e 6 giugno 2012 n. 143; Cass. Sez. Un. 17 aprile 2012 n. 5994 e 5 maggio 2011 n. 9840), l’art. 1 funge da norma che estende alla Regione Siciliana i benefici previsti per lo Stato (lo “stesso trattamento stabilito”) ai tributi erariali e a quelli ulteriori, istituiti e disciplinati con legge dello Stato (“qualsiasi imposta, tassa e diritto in genere”), il cui gettito è comunque destinato alla Regione medesima (“di spettanza”). Nel rendere la chiesta consultazione occorre muovere dall’inquadramento del contesto normativo di riferimento. Nel caso in esame viene in rilievo il meccanismo di cui agli artt. 11 e 158 d.P.R. 115/2002 mediante il quale si opera la sospensione della riscossione del tributo in vista del successivo annullamento della partita contabile, atteso che l’art. 3, comma 1, lett. s) del medesimo T.U. definisce la “prenotazione a debito” come “l’annotazione a futura memoria di una voce di spesa per la quale non vi è pagamento, ai fini di un eventuale successivo recupero ”. Infatti, in caso di soccombenza in giudizio della Amministrazione ammessa al beneficio con condanna a rifondere le spese di lite alla controparte la voce di spesa viene annullata, mentre nel caso opposto la Cancelleria, che ha provveduto ad annotare la voce sul cd. foglio delle notizie, lo trasmette ai fini del successivo recupero ad opera della parte pubblica costituita in giudizio nei confronti della parte privata che sia risultata soccombente (art. 280). Le prenotazioni sono quindi effettuate a fini meramente contabili e i relativi importi saranno recuperati solo in presenza del presupposto della condanna della parte privata; di contro, non si procederà ad alcun recupero nell’ipotesi di soccombenza della parte pubblica che beneficia della prenotazione a debito (cfr. Cass. sez. III, 18 aprile 2000 n. 5028; sez. I, 22 aprile 2002, n. 5859; sez. II, 11 settembre 2018, n. 22014). Il meccanismo sopra accennato si ricava dalla lettura dei commi 1 e 3 dell’art. 158, i quali prevedono che «1. nel processo in cui è parte l’amministrazione pubblica, sono prenotati a debito, se a carico dell’amministrazione: a) il contributo unificato nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo tributario; b) l’imposta di bollo nel processo contabile; c) l’imposta di registro ai sensi dell’articolo 59, comma 1, lettere a) e b), del decreto del Presidente della repubblica 26 aprile 1986, n. 131, nel processo civile e amministrativo; d) l’imposta ipotecaria e catastale ai sensi dell’articolo 16, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347; e) le spese forfettizzate per le notificazioni a richiesta d’ufficio nel processo civile. […] 3. le spese prenotate a debito […] sono recuperate dall’amministrazione, insieme alle altre spese anticipate, in caso di condanna dell’altra parte alla rifusione delle spese in proprio favore». È appena il caso di considerare che, in caso di disposta compensazione delle spese di giudizio, la giurisprudenza della Corte di cassazione, con orientamento costante, ritiene che il contributo unificato vada recuperato a carico della controparte nella misura del 50% del suo importo (1), mentre per l’Amministrazione prenotante a debito, l’articolo di credito viene annullato. La prenotazione a debito del contributo unificato nei giudizi civili, amministrativi, tributari (e dell’imposta di bollo in quelli contabili) si colloca poi in una più ampia cornice normativa di favore che comprende, nell’ambito del medesimo istituto, anche le imposte di bollo, ipotecarie e catastali e di registro per effetto, rispettivamente, dell’art. 17 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 642 (Disciplina dell’Imposta di Bollo), dell’art. 16 del D.lgs. 31 ottobre 1990 n. 347 (T.U. delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale) e degli art. 59 del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 (T.U. Imposta di Registro) e 159 d.P.R. 115/2002 (2). Come già ritenuto con parere del Comitato Consultivo prot. 21530 del 14 gennaio 2020 (a.l. 51786/2018), menzionato anche nella richiesta di parere di codesta Avvocatura Distrettuale, nei confronti delle Amministrazioni che possono giovarsi di tale meccanismo (ossia, le amministrazioni dello Stato e le altre amministrazioni pubbliche ammesse dalla legge alla prenotazione a debito di imposte o spese a suo carico, come definite dall’art. 3 comma 1 lett. q) del d.P.R. 115/02 e tra le quali deve ritenersi rientri a pieno titolo la Regione Siciliana in forza dell’art. 1 L.R. 6/1952 cit.) non sono posti esborsi effettivi, ma la semplice “prenotazione” della spesa che, al definitivo esito del giudizio, sarà annullata ovvero recuperata dall’Amministrazione parte in causa nei confronti della controparte secondo lo schema sopra descritto. Si osservi ancora che la circostanza che la prenotazione a debito non riguarda solo le Amministrazioni dello Stato ma anche soggetti formalmente o sostanzialmente differenti, cui la legge attribuisce le medesime prerogative, fa ritenere maggiormente condivisibile quella giurisprudenza della Cassazione (1) Cfr. Cass. sez. v-vI, n. 29679/2017; in argomento anche sez. III, n. 38943/2021. (2) Art. 159: «nel caso di compensazione delle spese, se la registrazione è chiesta dall’amministrazione, l’imposta di registro della sentenza è prenotata a debito, per la metà, o per la quota di compensazione, ed è pagata per il rimanente dall’altra parte; se la registrazione è chiesta dalla parte diversa dall’amministrazione, nel proprio interesse o per uno degli usi previsti dalla legge, l’imposta di registro della sentenza è pagata per intero dalla stessa parte». più incline a ravvisare il fondamento dell’istituto della prenotazione a debito non tanto nel meccanismo estintivo della “confusione” bensì nel beneficio della “esenzione” (3). In sostanza si tratta di un sistema di evidenziazione solo contabile della spesa (prevista anche per l’imposta di registro degli atti giudiziari e per il bollo dovuto nei giudizi contabili), che esonera le amministrazioni beneficiarie dal pagamento dell’imposta dovuta all’atto della instaurazione di un giudizio civile, amministrativo o tributario. Soggiunge codesta Avvocatura che la peculiarità del regime di esenzione che caratterizza la prenotazione a debito prevista in favore della Regione Siciliana risieda nel concetto di “territorialità”. Come accennato, infatti, l’art. 1 della legge regionale n. 6/1952 riconnette l’equiparazione ai fini fiscali della Regione Siciliana (e degli organi e amministrazioni da essa dipendenti) allo Stato alla imprescindibile condizione che si tratti di imposte, tasse e diritti in genere “di spettanza” della Regione stessa. Di tal ché appare di centrale importanza nell’economia del ragionamento comprendere di quali tributi si tratti. Come correttamente riferito nella richiesta di parere, sul tema assume rilievo il principio generale di attribuzione alla Regione Siciliana dei tributi riscossi sul proprio territorio (siano essi istituiti dalla Regione stessa, siano essi quelli previsti con leggi dello Stato), sì come sancito con forza di legge costituzionale dagli artt. 36 e 37 dello Statuto di autonomia speciale (Regio Decreto Legislativo 15 maggio 1946 n. 455) (4). (3) Cfr. parere Co.Co. prot. 21530 del 14 gennaio 2020 cit. (cfr. note 9, 23 e 25) ove si dà conto dell’indirizzo delle SSUU, 8 maggio 2014 n. 9938, nel senso di rinvenire il fondamento dell’istituto nella confusione, ma si conclude per la maggiore ‘solidità’ dell’orientamento fatto proprio da Cass. 1778/2016 che, pur ribadendo il principio tradizionale che individua la ratio della prenotazione a debito nella “evidente ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di se stesso con la conseguenza che l’obbligazione non sorge”, poi di fatto spiega il meccanismo della prenotazione a debito in termini di “esenzione”, categoria giuridica di fatto ritenuta meglio idonea ad inquadrare il fenomeno in base al quale l’obbligazione tributaria (ri-)sorge qualora a soccombere sia la parte privata. Infatti, la Corte spiega che “si tratta… sostanzialmente di una esenzione fiscale, ma che vale esclusivamente nei confronti dell’amministrazione pubblica. 21. difatti nella ipotesi cui la controparte è soccombente relativamente alle spese, la stessa è tenuta al pagamento in favore del- l’erario delle spese prenotate a debito analogamente a quanto sarebbe avvenuto nei confronti di qualsiasi altra parte vittoriosa. 22. l’istituto della prenotazione a debito… se per un verso esenta la pubblica amministrazione dal pagamento degli importi delle imposte e delle tasse -ivi compresi quelli afferenti al contributo unificato -che gravano sul processo, assolve, altresì, alla funzione, sotto il profilo amministrativo contabile, di evitare che di detta esenzione possa giovarsi la controparte in caso di soccombenza e di sua condanna alle spese”. Espressamente in termini di esenzione si esprime anche Cass. sez. trib., 27 dicembre 2023 n. 36035 e, seppur in concorrenza con il meccanismo della confusione, Cass., sez. 5 civ., sent. n. 23879 del 2020. (4) R. D.lgs. 15 maggio 1946 n. 455 Recante approvazione dello statuto della regione Siciliana, pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 133-3 del 10 giugno 1946 e convertito in Legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 2 (pubblicata nella GURI n. 58 del 9 marzo 1948), come modificato dalle Leggi co Il principio è declinato a livello di fonte di rango primario dall’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (5) secondo cui, fatta eccezione per l’IRPEF e l’IvA, attribuite alla Regione in quota percentuale (comma 1 lett. a e a-bis), «[…] spettano alla regione, oltre alle entrate tributarie da essa direttamente deliberate […]: b) i dieci decimi di tutte le altre entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate, ad eccezione delle nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime». È dunque possibile per la legge statale prevedere diversamente, attribuendo in tutto o in parte allo Stato il gettito di determinati tributi riscossi sul territorio dell’Isola, ma ciò può legittimamente accadere soltanto ove ricorrano due condizioni indicate in modo concorrente dal ricordato art. 2: che si tratti di una entrata tributaria «nuova»; che il relativo gettito sia specificamente destinato dalla legge alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi istitutive medesime. La lettura della disposizione in commento ha ricevuto l’avallo della Corte costituzionale (cfr. sent. n. 145 e 207/2014; n. 42 e 97/2013; nn. 135, 143 e 241/2012). Al di là di possibili tassative deroghe, consentite unicamente ove concorrano le due suddette condizioni, la regola generale ricavabile dal sistema è dunque che le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del territorio siciliano competano alla Regione. Non fa eccezione il contributo unificato, come precisato in alcune pronunce della Corte costituzionale, chiamata a verificare il rispetto delle cennate condizioni in presenza di norme statali che, in deroga al richiamato principio, avevano destinato per un periodo delimitato di tempo allo Stato una quota del gettito del contributo unificato riscosso sul territorio siciliano (cfr. sent. 7 luglio 2015 n. 131, par. 5). In base ai superiori argomenti, spetta quindi alla Regione Siciliana, se stituzionali 23 febbraio 1972 n. 1 (pubblicata nella GURI n. 63 del 7 marzo 1972), 12 aprile 1989 n. 3 (pubblicata nella GURI n. 87 del 14 aprile 1989) e 31 gennaio 2001 n. 2 (pubblicata nella GURI n. 26 del 1° febbraio 2001). Art. 36: “al fabbisogno finanziario della regione si provvede con i redditi patrimoniali della regione a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto”. Art. 37: “Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell’accertamento dei redditi viene determinata la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi. l’imposta relativa a detta quota compete alla regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima”. (5) Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria (Pubblicato nella G.U. 18 settembre 1965, n. 235). non diversamente disposto da legge dello Stato, il gettito del contributo unificato riscosso sul proprio territorio; conseguentemente, rispetto a tale tributo, l’ente territoriale fruisce del medesimo trattamento stabilito per le Amministrazioni dello Stato in forza dell’art. 1 della L.R. n. 6/1952, tra cui quello della prenotazione a debito ex art. 158 T.U. sulle spese di giustizia. L’esenzione di cui si discetta deve infatti ritenersi fruibile dalla Regione a condizione che la gestione dell’attività di riscossione del contributo unificato sia attribuita ad un ufficio operante presso un’Autorità giudiziaria sita sul territorio siciliano; sicché, di regola, l’Ente territoriale beneficia della prenotazione a debito laddove sia parte di un giudizio di merito instaurato innanzi ad un Ufficio giudiziario situato sul proprio territorio, il quale è altresì incaricato della riscossione del relativo contributo unificato. venendo così al caso sottoposto, al fine di stabilire se la prenotazione a debito dell’importo del contributo unificato, che in astratto dovrebbe gravare sulla parte pubblica del giudizio in Cassazione, si applichi anche alla Regione Siciliana, occorre accertare se si tratti di entrata fiscale di sua spettanza, perché solo in tal caso, in forza dell’art. 1 della L.R. n. 6/1952, la Regione gode dello stesso trattamento dello Stato. occorre, pertanto, indagare ove lo stesso vada riscosso. Coglie nel segno, anche in tal caso, l’argomento speso nella richiesta di parere di codesta Avvocatura che correttamente individua la norma applicabile nell’art. 208, comma 1, d.P.R. 115/2002, secondo cui: «1. Se non diversamente stabilito in modo espresso, ai fini delle norme che seguono e di quelle cui si rinvia, l’ufficio incaricato della gestione delle attività connesse alla riscossione è così individuato: a) per il processo civile, amministrativo e tributario è quello presso il magistrato, diverso dalla corte di cassazione, il cui provvedimento è passato in giudicato o presso il magistrato il cui provvedimento è divenuto definitivo; b) per il processo penale è quello presso il giudice dell’esecuzione; b-bis) in tutte le altre ipotesi è quello presso la corte d’appello di roma» (6). Dalla lettura della disposizione si ricava che, per i giudizi civili, ammini strativi e tributari che si svolgono dinanzi alla Corte di cassazione, l’ufficio ausiliario del giudice di legittimità è espressamente esentato dall’attività di riscossione; attività che di conseguenza spetta svolgere agli uffici giudiziari territoriali in base ai criteri indicati dalla medesima disposizione: il giudice di merito che ha adottato la sentenza o l’ordinanza impugnate con esito sfavorevole in sede di legittimità (e dunque passate in giudicato) ovvero rese in sede di rinvio con determinazione non ulteriormente gravata nei termini ordinari di impugnazione (e dunque anch’esse divenute definitive). (6) La disposizione è stata così modificata dall’art. 1, comma 625, lett. a), L. 30 dicembre 2021, n. 234, a decorrere dal 1° gennaio 2022, con la soppressione -dopo la parola “amministrativo” e prima delle parole “e tributario” - del riferimento al processo contabile. In base agli esposti princìpi può concludersi che la Regione Siciliana deve ritenersi esentata, anche per il giudizio di legittimità, dall’obbligo di anticipare o di corrispondere l’importo del contributo unificato in astratto dovuto tutte le volte in cui il procedimento giurisdizionale -del quale quello di cassazione costituisce un grado -provenga da o dovrà proseguire in sede di rinvio presso un Ufficio giudiziario avente sede nel territorio siciliano (cioè in uno dei quattro Distretti in cui è ripartita la Sicilia: Palermo, Catania, Messina e Caltanissetta), ufficio il quale, in base alla disposizione richiamata in precedenza, deve altresì curare l’attività di esazione del contributo unificato. Le superiori conclusioni appaiono, peraltro, condivise anche dalla giurisprudenza largamente prevalente della Suprema Corte (cfr. ord., sez. II 12 luglio 2018 n. 18511; sez. lav., 28 settembre 2022, n. 28271) che, ancorché episodicamente contrastate da una recente dissonante pronuncia (sez. III, ord. 21 febbraio 2023, n. 5386, il cui ragionamento appare, invero, irrimediabilmente minato dalla operata ma errata equiparazione della Regione Siciliana agli altri enti territoriali), sono state nuovamente ribadite in sede di legittimità con la sentenza Cass. civ., sez. I, 21 febbraio 2024 n. 4639, la quale, nell’escludere a carico della Regione Siciliana l’applicazione della sanzione del pagamento del doppio contributo unificato in ipotesi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile (art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2002), ha affermato che «Trattandosi di impugnazione proposta da un organo della regione Siciliana, che ai sensi dell’art. 1 della legge regionale 22 marzo 1952, n. 6 fruisce dello stesso trattamento tributario previsto per le amministrazioni dello Stato, ivi compresa la prenotazione a debito del contributo unificato, prevista dallo art. 158 del d.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, non trova applicazione nella specie l’art. 13, comma 1-quater del medesimo d.P.r.». Un’indiretta conferma della correttezza di tale conclusione può trarsi, altresì, dal provvedimento di rigetto adottato in data 29 ottobre 2020 dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (proc. 113/2016 R.G. regione Siciliana ed altri c/ comune di messina), trasmesso da codesta Avvocatura a supporto della richiesta di parere, con il quale, provvedendo su un’istanza di autotutela avanzata dalla Regione Siciliana per l’annullamento di un avviso emesso da Equitalia Giustizia S.p.a. in relazione all’omesso pagamento del contributo unificato, il TSAP l’ha rigettata proprio sul presupposto che il c.u. relativo al giudizio che si svolge innanzi a sé non viene riscosso nel territorio regionale, ma direttamente dal proprio Ufficio ausiliario operante in Roma. Atteso il carattere di massima della questione giuridica, essendo la stessa verosimilmente destinata a riproporsi nel tempo ed essendo altresì suscettibile di dar luogo a conflitto ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 2 marzo 1948 n. 142, di essa, con nota prot. 147284-7 del 1 marzo 2024, sono stati preventivamente messi a conoscenza la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero del- l’Economia e delle Finanze e il Ministero della Giustizia. Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia, con nota prot. 181016 del 11 settembre 2024, ha condiviso le medesime conclusioni adesso prospettate. L’esito della consultazione viene esteso, per opportuna conoscenza, agli Uffici in precedenza interessati nonché al Segretario Generale della Giustizia Amministrativa e al Dipartimento della Giustizia Tributaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta dell’11 dicembre 2024. L’Avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli Interpretazione delle previsioni del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di esclusione a fronte della novella introdotta dal d.lgs. n. 150/2022 sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta Parere del 24/01/2025-55779, al 17349/2023, Sez. aG, avv. marco STiGliano meSSuTi, avv. adele BerTi Suman Con la nota in epigrafe, Consip S.p.A. ha chiesto a questa Avvocatura un parere in merito alla corretta interpretazione delle previsioni del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di esclusione dalle procedure di gara a fronte della novella introdotta dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia) sull’istituto dell’applicazione della pena su richiesta. Nello specifico, il comma 1-bis dell’articolo 445 c.p.p., così come novellato dall’articolo 25, comma 1, lett. b) del d.lgs n. 150/2022 ha previsto che “se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di legge, diverse da quella penale, che equiparano la sentenza prevista dal- l’art. 444 comma 2, c.p.p. alla sentenza di condanna”. La c.d. riforma Cartabia, nell’ottica di incentivare il ricorso all’applicazione della pena su richiesta per finalità deflattive della giustizia penale, ha dunque stabilito che, salvo il caso in cui sia il giudice penale, con la sentenza di patteggiarnento, a disporre una “pena accessoria”, la sentenza di patteggiamento in sede extra-penale non può essere equiparata ad una sentenza di condanna. In questo senso, recita infatti l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., le disposizioni extra-penali “non producono effetti”. Come già affermato in precedenti consultazioni (cfr. CS 9291/2023 parere del 27 febbraio 2023, n. 153480 in ordine alla possibilità che la sentenza di patteggiamento determini a carico dell’imputato una situazione di incandidabilità ai sensi del d.lgs. 235/2012, c.d. decreto Severino), dal tenore testuale della novellata disposizione si ricava che, salvo il caso di applicazione di pene accessorie, tutte quelle disposizioni legislative non qualificabili come penali, nelle quali la sentenza resa ex art. 444 c.p.p. è equiparata alla sentenza di condanna, non trovano più applicazione a far data dall’entrata in vigore della riforma Cartabia (30 dicembre 2022, ai sensi del D.L. n. 162/2022). *** Con la nota a riscontro Consip S.p.A. si interroga in merito alle conseguenze che la predetta novella normativa ha sulle disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) in tema di cause di esclusione. Nello specifico, si chiede a questo G.U. di confermare che: 1) la sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 94, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023 non costituisce adeguato mezzo di prova ai fini dell’esclusione (non automatica) di cui all’articolo 98 comma 3, lett. g) del medesimo decreto legislativo; 2) la sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 98, comma 3, lett. h) del d.lgs. n. 36/2023 non costituisce adeguato mezzo di prova ai fini del- l’esclusione (non automatica) ivi prevista; 3) la sentenza non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 98, comma 3, lett. h) del d.lgs. n. 36/2023 non costituisce adeguato mezzo di prova ai fini della esclusione (non automatica) ivi prevista”. Si richiede, inoltre, di fornire un parere circa l’interpretazione dell’articolo 98, comma 6, lett. g) del d.lgs. n. 36/2023 (che attribuisce valenza probatoria alla sentenza non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai fini della causa di esclusione non automatica del c.d. grave illecito professionale) in combinato disposto con il novellato articolo 445 c.p.p. In particolare, “fermo restando che le disposizioni del codice dei contratti pubblici non hanno natura di legge penale”, Consip domanda se: 4) le sentenze di “patteggianiento” rilevanti ai sensi dell’articolo 98, comma 6, lett. g) del d.lgs. n. 36/2023 siano solo quelle che prevedono pene accessorie e, in caso affermativo, se assume rilievo l’applicazione di qualsiasi pena accessoria ovvero soltanto l’applicazione della pena accessoria rilevante nel contesto della contrattualistica pubblica, ovverosia l’incapacità di contrattare con la Pubblica amministrazione; ovvero se 5) nell’applicazione dell’articolo 98, comma 6, lett. g) del d.lgs. n. 36/2023 -in quanto norma successiva e speciale che tiene conto delle sentenze di applicazione della pena su richiesta ai soli fini della valutazione discrezionale dell’illecito professionale nei limitati casi in cui venga contestato uno dei reati tassativamente elencati all’art. 94 comma 1 dello stesso decreto legislativo -deve essere privilegiata un’interpretazione letterale da cui consegue che le dette sentenze assumono rilievo anche ove non sia disposta l’applicazione di pene accessorie”. *** Con nota prot. 405556/60 del 16 giugno 2023 la Scrivente, dopo aver analizzato la disciplina introdotta dal nuovo Codice dei contratti pubblici in materia di cause di esclusione, ha anzitutto evidenziato come, alla luce del tenore letterale della disposizione, la sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. non rileva ai fini dell’esclusione c.d. automatica di cui all’articolo 94, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023, in quanto la norma nel- l’elencare i reati rilevanti ai fini dell’esclusione (automatica) richiama testual mente, nella sua versione definitiva, le sole ipotesi di “sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile”: a differenza della vecchia formulazione dell’art. 80, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016 (1), non è dunque più contemplata la sentenza di patteggiamento ex art. 444 del c.p.p come causa di esclusione automatica ex art. 94, comma 1, d.lgs. 36/2023. Ciò risulta peraltro confermato dalla recente giurisprudenza amministrativa (cfr. T.A.R. Lazio, II, 9 gennaio 2025, n. 401) (2). Per le medesime ragioni di ordine testuale, quanto ai quesiti indicati sub 2) e 3), si è ritenuto di concordate con l’interpretazione fornita da Consip S.p.A. nel senso che la sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. non rileva come mezzo di prova adeguato ai fini della esclusione non automatica di cui al combinato disposto dell’articolo 95, comma 1, lett. e) e dell’articolo 98, comma 3 e comma 6, lett. h) elencando quest’ultima disposizione, tra i mezzi di prova, “la sentenza di condanna definitiva, il decreto penale di condanna irrevocabile, la condanna non definitiva, i provvedimenti cautelari reali o personali, ove emessi dal giudice penale ”, senza dunque fare riferimento alla sentenza emessa ai sensi degli articoli 444 e ss. c.p.p. Sul punto, si è in particolare precisato che l’irrilevanza della sentenza di patteggiamento vale sia per la sentenza irrevocabile, sia per la sentenza non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi del- l’articolo 444 c.p.p., in quanto il tenore letterale della disposizione (art. 98, comma 6, lett. h)) è chiaro nell’escludere qualsiasi tipologia di sentenza ex art. 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 98, comma 3, lett. h) del d.lgs. n. 36/2023 tra i mezzi di prova rilevanti ai fini dell’esclusione (non automatica) ivi prevista. Le suddette conclusioni appaiono peraltro supportate dai lavori preparatori come descritti nella Relazione illustrativa, da cui risulta che, rispetto al testo approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri, nell’ultima versione sono stati espunti i riferimenti alla sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. nei sopra richiamati articoli in materia di cause di esclusione (art. 94, comma 1 e art. 98, comma 6, lett. h) del d.lgs. n. 36/2023), proprio con il dichiarato intento di “coordinare lo schema (1) Secondo cui: “1. costituisce motivo di esclusione di un operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto o concessione, la condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei seguenti reati: [...]”. (2) ove si è rilevato che “a differenza della vecchia formulazione dell’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 non è più prevista come causa automatica di esclusione, la sentenza di patteggiamento ex art. 444 del c.p.p. risulta, pertanto, del tutto priva di fondamento l’affermazione di parte del ricorrente in base alla quale la sentenza di patteggiamento subita dall’aggiudicataria sarebbe equiparata a una sentenza di condanna definitiva e, pertanto, causa di esclusione automatica dalla procedura di gara ai sensi dell’art. 94 del d.lgs. n. 36/2023”. di decreto legislativo con le novità introdotte dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 sugli effetti extra-penali delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale ” (3). Più problematica è invece la questione prospettata con i quesiti sub 1) e 4)-5), in quanto l’articolo 98, comma 6, lett. g) del d.lgs. n. 36/2023 espressamente attribuisce valenza probatoria ai fini della valutazione del grave illecito professionale alla sentenza non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta per uno dei reati consumati o tentati di cui al comma 1 dell’articolo 94. Ciò, tuttavia, potrebbe apparire non coerente con la nuova disciplina introdotta dalla c.d. riforma Cartabia al comma 1-bis dell’articolo 445 c.p.p. in quanto si potrebbe ritenere che in questo modo si prospetti una sostanziale equiparazione della sentenza (non irrevocabile) ex articolo 444 c.p.p. alla sentenza di condanna (non definitiva) come mezzo di prova discrezionalmente valutabile dalla stazione appaltante al fine della verifica in merito alla idoneità e affidabilità dell’operatore economico concorrente. Consip S.p.a. pone dunque ai quesiti sub 4) e 5) la questione di verificare se, alla luce della nuova formulazione dell’articolo 445 c.p.p., novellato dalla c.d. riforma Cartabia, la sentenza di applicazione della pena su richiesta, possa rilevare come mezzo di prova rilevanti ai fini della causa di esclusione (non automatica) del grave illecito professionale ai sensi dell’art. 98, comma 6, lettera g) del d.lgs. n. 36/2023 solo nel caso in cui sia prevista l’applicazione di pene accessorie (e, in caso affermativo, se assume rilievo l’applicazione di qualsiasi pena accessoria ovvero soltanto l’applicazione della pena accessoria rilevante nel contesto della contrattualistica pubblica, ovverosia l’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione), ovvero debba essere privilegiata un’interpretazione letterale da cui consegue che la sentenza di patteggiamento assuma di per sé rilievo come mezzo di prova nella valutazione del grave illecito professionale, anche ove non sia disposta l’applicazione di pene accessorie. (3) Come si legge nella Relazione illustrativa di accompagnamento al nuovo Codice, con riferimento all’art. 94, comma 1 “rispetto al testo approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri in accoglimento dell’osservazione con la quale entrambe le commissioni parlamentari hanno chiesto al Governo di valutare l’opportunità di coordinare lo schema di decreto legislativo con le novità introdotte dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 sugli effetti extra-penali delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, all’alinea del comma 1 è stato soppresso il riferimento al citato articolo 444 del codice di procedura penale” [...] e con riferimento all’art. 98, comma 6, lett. h) “sono state apportate anche le necessarie modifiche alla lettera h) del comma 7, finalizzate -per l’illecito professionale -ad eliminare il riferimento alla sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, al decreto penale di condanna non irrevocabile oppure agli atti di cui gli articoli 405 407-bis, comma 1 del codice di procedura penale nonché al decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 429 del codice di procedura penale, come mezzi di prova di per sé sufficienti a concretare l’esclusione, mentre è rimasto il riferimento alla condanna, definitiva e non definitiva, e alle misure cautelari penali”. Nel precedente parere reso sulla questione si sono prospettate due diverse soluzioni interpretative. A. Una prima soluzione interpretativa è quella di ritenere, pur a fronte del tenore letterale dell’articolo 98, comma 6, lettera g), del nuovo Codice che menziona espressamente le sentenze (non irrevocabili) di patteggiamento, che quest’ultime acquistino rilievo ai fini probatori solo qualora sia prevista l’applicazione di pene accessorie, a fronte della nuova disciplina dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. Tale soluzione si traduce di fatto nel considerare il riferimento contenuto nell’art. 98, comma 6, lettera g) del d.lgs. n. 36/2023 alla sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. frutto di un “difetto di coordinamento” tra i due testi normativi (nuovo Codice dei contratti pubblici e Codice di procedura penale come novellato dalla c.d. riforma Cartabia). B. Una seconda soluzione interpretativa parte dal presupposto che il mantenimento del riferimento alla sentenza di patteggiamento contenuta nel- l’art. 98, comma 6, lettera g) del d.lgs. n. 36/2023 rappresenti una precisa “scelta del legislatore”, alla luce della diversità delle fattispecie previste dalla lettera g) e dalla lettera h), contemplando il primo ipotesi di reato di maggior gravità e allarme sociale rispetto a quelli indicati nella lettera h), che non a caso di per sé rilevano anche ai fini della esclusione automatica ex art. 94 (comma 1). Attesa la delicatezza della questione nonché le conseguenze derivanti dalle soluzioni prescelte in termini di possibile contenzioso, questo G.U., in conformità al parere espresso dal Comitato Consultivo nella seduta del 5 giugno 2023, ha ritenuto opportuno, prima di assumere le proprie determinazioni conclusive in ordine alla corretta interpretazione del citato articolo 98, comma 6, lettera g), del d.lgs. 36/2023, acquisire preliminarmente l’eventuale avviso del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Ministero della Giustizia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Sono pervenuti esclusivamente i contributi da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e dell’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. *** Tanto premesso, esaminati i riscontri trasmessi, la Scrivente, anche alla luce del fatto che la previsione in esame non risulta essere stata oggetto di modifiche da parte del decreto “correttivo” del Codice dei Contratti Pubblici pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2024, ritiene di dover accogliere la seconda soluzione interpretativa sopra indicata. Anzitutto, deve rilevarsi come, dal punto di vista temporale, il nuovo Codice dei contratti pubblici sia successivo all’entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia e, quindi, non possa ravvisarsi una forma di c.d. abrogazione implicita, come avvenuto con riguardo alle disposizioni del c.d. de creto Severino nella consultazione già richiamata nelle premesse del presente parere. In secondo luogo, la disciplina dei contratti pubblici rappresenta una normativa speciale che, di per sé, appare destinata comunque a prevalere rispetto ad una legge precedente e generale, in virtù dei noti principi di risoluzione delle antinomie tra norme “incompatibili” compendiati nei noti brocardi latini lex posterior derogat priori e lex specialis derogat legi generali. In questo senso, si potrebbe comunque ritenere che le norme del nuovo Codice rientrino nella clausola di salvaguardia prevista dall’art. 445 c.p.p. (4), trattandosi di disciplina speciale rispetto a quella che limita gli effetti extra-penali del patteggiamento. Inoltre, a favore della seconda interpretazione prospettata, convergono argomenti di carattere testuale, sistematico e teleologico. Si ritiene infatti determinante, ai fini della soluzione alla questione interpretativa de qua, la diversità delle fattispecie previste dall’art. 98, comma 3, lettera g) e dalla lettera h), cui il comma 6 rinvia. Solo con riguardo alla seconda, infatti, il legislatore ha ritenuto di espungere il riferimento alla sentenza di patteggiamento, motivato proprio dall’esigenza di coordinare la disposizione alla novità introdotta dalla c.d. riforma Cartabia (come risulta dalla Relazione illustrativa citata alla nota 3), mentre tale richiamo è rimasto immutato nella lettera g). Invero, mentre l’art. 98, comma 3, lettera g) fa riferimento all’ipotesi di “g) contestata commissione da parte dell’operatore economico, ovvero dei soggetti di cui al comma 3 dell’articolo 94 di taluno dei reati consumati o tentati di cui al comma 1 del medesimo articolo 94 ” ossia gli stessi reati che impongono l’esclusione automatica ai sensi dell’art. 94, la lettera h) fa riferimento alla “h) contestata o accertata commissione, da parte dell’operatore economico oppure dei soggetti di cui al comma 3 dell’articolo 94, di taluno dei seguenti reati consumati: 1) abusivo esercizio di una professione, ai sensi dell’articolo 348 del codice penale; 2) bancarotta semplice, bancarotta fraudolenta, omessa dichiarazione di beni da comprendere nell’inventario fallimentare o ricorso abusivo al credito, di cui agli articoli 216, 217, 218 e 220 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; 3) i reati tributari ai sensi del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i delitti societari di cui agli articoli 2621 e seguenti del codice civile o i delitti contro l’industria e il commercio di cui agli articoli da 513 a 517 del codice penale; 4) i reati urbanistici di cui all’articolo 44, comma 1, lettere b) e c), del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, di cui (4) ove stabilisce che l’effetto di privare di efficacia “le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna” vale “salvo quanto previsto [...] da diverse disposizioni di legge”. al decreto del Presidente della repubblica 6 giugno 2001, n. 380, con riferimento agli affidamenti aventi ad oggetto lavori o servizi di architettura e ingegneria; 5) i reati previsti dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”. Queste seconde ipotesi, in quanto di per sé fattispecie non idonee alla esclusione automatica ex art. 94 cit., appaiono “meno gravi” rispetto a quelle contemplate nella lettera g) e dunque tali da condurre a ritenere non sufficiente, quale mezzo di prova ai fini della valutazione del grave illecito professionale, la “sola” sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. La lettera g) riguarda, infatti, ipotesi di reato di maggior gravità ed allarme sociale (es. riciclaggio, corruzione, turbativa d’asta e gli altri reati contro la Pubblica Amministrazione) rispetto quelli indicati nella lettera h), che -non a caso -di per sé rilevano anche ai fini della esclusione automatica ex art. 94, comma 1, qualora siano accertati con sentenza di condanna definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile. Peraltro, come già evidenziato nel precedente parere del 16 giugno 2023, proprio dal fatto che nelle altre ipotesi in cui la sentenza ex art. 444 c.p.p. era espressamente menzionata (art. 94 e art. 98, co. 6, lett. h)) il legislatore ha ritenuto di espungere il riferimento nel dichiarato fine di coordinare il testo alla c.d. riforma Cartabia (cfr. relazione illustrativa citata nella nota 3), si può dedurre, a contrario, che il permanere del richiamo alla sentenza di patteggiamento nell’art. 98, comma 6, lettera g) rappresenti una precisa scelta legislativa, alla luce della maggior gravità probatoria rappresentata dalla presenza di una sentenza di patteggiamento per reati che -se definitivamente accertati con sentenza di condanna -sono motivo di esclusione automatica ex art. 94, comma 1. È dunque ragionevole ritenere che in queste ipotesi il legislatore abbia voluto mantenere in capo alla stazione appaltante un certo margine di discrezionalità nel procedere all’esclusione, riconoscendo alla stessa il potere di valutare l’esistenza di una sentenza di patteggiamento, pronunciata in relazione ai reati di cui all’art. 94, comma 1, del nuovo Codice, quandanche soggetta ancora ad impugnazione, quale prova della commissione da parte dell’offerente di un illecito professionale grave, tale da compromettere il rapporto fiduciario e comportare l’esclusione del medesimo dalla procedura di gara. Ciò peraltro, come anticipato, risulta confermato anche dal decreto “correttivo” del Codice dei Contratti Pubblici (d.lgs. n. 209 del 31 dicembre 2024) che non è intervenuto sull’art. 98, confermando dunque la voluntas legis di mantenere il riferimento alla sentenza di patteggiamento tra i mezzi di prova valutabili ai fini della sussistenza della causa di esclusione (non automatica) del grave illecito professionale rispetto alle fattispecie di reato contemplate nell’art. 94, comma 1. In questo modo, peraltro, la sentenza di patteggiamento non appare equiparata tout court ad una sentenza di condanna, rilevando quale mero “indice sintomatico” dell’esistenza di un illecito professionale grave, essendo comunque rimesso alla discrezionalità della stazione appaltante di valutare l’idoneità del fatto a compromettere l’affidabilità e l’integrità dell’operatore economico, come del resto prescritto dall’art. 98, comma 2 del nuovo Codice (5). Ne deriva che un operatore economico, il quale sia stato destinatario di una sentenza di patteggiamento, non potrà per ciò solo essere escluso dalla procedura di gara, essendo comunque necessario che la condotta sia valutata nella sua globalità dalla stazione appaltante, alla quale il legislatore riserva la individuazione del «punto di rottura dell’affidamento» nel futuro contraente (6). Tale lettura si pone in linea con la ratio della novità introdotta dalla c.d. riforma Cartabia che, nell’ottica di incentivare il ricorso all’applicazione della pena su richiesta per finalità deflattive della giustizia penale, ha stabilito di “ridurre” gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento senza tuttavia escluderli del tutto (cfr. art. 1, comma 10, lett. a), n. 2 della legge delega 27 settembre 2021, n. 134 che indica come criterio quello di «ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi») (7). La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 e ss. del c.p.p, rileva, infatti, ai sensi dell’art. 98, comma 6, lett. g), unicamente quale “mezzo di prova adeguato” dell’avvenuta commissione da parte del (5) Secondo giurisprudenza oramai costante, pronunciatasi anche nella vigenza del nuovo Codice, l’esclusione conseguente alla valutazione di inaffidabilità dell’operatore, dovuta alla commissione di gravi illeciti professionali, è una sanzione la cui operatività, lungi dall’essere rimessa a rigidi automatismi, è piuttosto legata alla valutazione discrezionale della S.A., poiché “è la stazione appaltante a fissare il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente perché è ad essa che è rimesso il potere di apprezzamento delle condotte dell’operatore economico che possono integrare un grave illecito professionale ” (Cons. Stato, Sez. v, 23 febbraio 2024, n. 1804; cfr. altresì Cons. Stato, Sez. v, 3 gennaio 2019, n. 72, che richiama sul tema Cass., SS.UU., 17 febbraio 2012, n. 2312), per cui “l’apprezzamento della ricorrenza del grave illecito professionale è connotato da un importante contenuto fiduciario, da intendersi nel senso che assume particolare rilevanza la condotta dell’operatore rispetto allo specifico contratto stipulando e alla posizione della singola stazione appaltante: “l’amministrazione, nell’esercizio dell’ampio potere tecnico-discrezionale attribuitole dal codice degli appalti pubblici, può utilizzare ogni elemento idoneo e mezzi adeguati a desumere l’affidabilità e l’integrità del concorrente, potendo evincere il compimento di gravi illeciti professionali da ogni vicenda pregressa, anche non tipizzata, dell’attività professionale dell’operatore economico di cui sia stata accertata la contrarietà ad un dovere posto in una norma civile, penale o amministrativa [...] secondo un giudizio espresso non in chiave sanzionatoria, ma piuttosio fiduciaria” (cons. Stato, Sez. v, 20 marzo 2023 n. 2807)” (Cons. Stato, Sez. v, 4 dicembre 2023, n. 10448). (6) Cfr. Cons. Stato sez. v, 8 settembre 2022, n. 7823: “nelle gare pubbliche il giudizio su gravi illeciti professionali è espressione di discrezionalità da parte dell’amministrazione, cui spetta apprezzare autonomamente le pregresse vicende professionali dell’operatore economico, perché essa sola può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente”. (7) Come riconosce la stessa Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 150/2022, “la ricerca di maggior stimolo a patteggiare risulta [...] affidata al criterio in materia di confisca e pene accessorie [...] e al [...] criterio in materia di riduzione degli effetti extra-penali ”. l’operatore economico di un illecito professionale grave (8), con la conseguenza che un provvedimento di tal genere non comporta di per sé l’esclusione, ma richiede l’attivazione del potere valutativo delle stazioni appaltanti, chiamate a verificare, caso per caso, l’effettiva incidenza dello stesso sull’integrità o sulla professionalità del concorrente, anche in considerazione della tipologia e dell’importo della prestazione richiesta (9). La configurazione della sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. per i reati di particolare gravità elencati all’art. 98, comma 3, lettera g) (mediante il rinvio a quelli rilevanti ai fini dell’esclusione automatica ex art. 94) tra i “mezzi di prova” da cui desumere l’esistenza di un grave illecito professionale, non fa dunque venir meno il potere valutativo della stazione appaltante, la (8) Il grave illecito professionale è da considerarsi integrato, ai sensi dell’art. 98, comma 2 del nuovo Codice, allorquando ricorrano le seguenti condizioni: (i) elementi sufficienti ad integrare il grave illecito professionale; (ii) idoneità del grave illecito professionale ad incidere sull’affidabilità e integrità dell’operatore; (iii) adeguati mezzi di prova di cui al comma 6. (9) Ed ora anche alla luce del generale Principio di fiducia, introdotto all’art. 2 del d.lgs. n. 36/2023, con particolare riferimento al comma 2, ove si dispone che “il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato”. Sul punto, vale richiamare quanto recentemente affermato dal T.A.R. Sardegna proprio in relazione al giudizio di affidabilità connesso a gravi illeciti professionali dell’operatore economico: “sotto il profilo semantico, il concetto stesso di ‘affidabilità’si predica riguardo a qualcuno che sia meritevole di ‘fiducia’ riflettendosi questo aspetto, perciò, sotto il profilo giuridico, nella lettura e interpretazione dell’art. 98 del codice alla luce del generale Principio della fiducia, innovativamente introdotto all’art. 2 del d.lgs. n. 36/2023, con particolare riferimento al comma 2, ove si dispone che “il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato”. e dunque, in coerenza con la funzione interpretativa del principio in parola, sancita dall’art. 4 del codice (“le disposizioni del codice si interpretano e si applicano in base ai principi di cui agli articoli 1, 2 e 3”), non può che concludersi che ne esca rafforzata l’autonomia decisionale dell’ente in relazione all’esercizio del potere di esclusione per inaffidabilità dell’operatore economico, che è profilo che impinge proprio e direttamente nel rapporto di fiducia che deve necessariamente intercorrere tra stazione appaltante e appaltatore. la discrezionalità dell’amministrazione sotto questo profilo è dunque particolarmente pregnante, ravvisandosi, come visto, comunque i limiti per essa, oltre che nei principi generali di logicità e congruità, nelle declinazioni specifiche di cui al citato art. 98, che circoscrivono le fattispecie rilevanti di illecito professionale, i mezzi di prova adeguati e gli oneri motivazionali, con richiamo agli elementi specifici, cui è tenuta l’amministrazione. l’interpretazione ora esposta individua perciò, rispetto all’esclusione per grave illecito professionale ex artt. 95 e 98 del codice, il corretto punto di caduta tra “il nuovo principio-guida della fiducia, introdotto dall’art. 2 del d.lgs. n. 36/2023, [che] porta invece a valorizzare l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici e afferma una regola chiara: ogni stazione appaltante ha la responsabilità delle gare e deve svolgerle non solo rispettando la legalità formale, ma tenendo sempre presente che ogni gara è funzionale a realizzare un’opera pubblica (o ad acquisire servizi e forniture) nel modo più rispondente agli interessi della collettività. Trattasi quindi di un principio che amplia i poteri valutativi e la discrezionalità della p.a., in chiave di funzionalizzazione verso il miglior risultato possibile” e la circostanza per cui “tale ‘fiducia’, tuttavia, non può tradursi nella legittimazione di scelte discrezionali che tradiscono l’interesse pubblico sotteso ad una gara, le quali, invece, dovrebbero in ogni caso tendere al suo miglior soddisfacimento” (cfr. T.a.r. Sicilia, catania, Sez. iii, 12 dicembre 2023, n. 3738)” (T.A.R. Sardegna, Sez. I, 11 marzo 2024, n. 204). quale, anche a fronte di una sentenza di patteggiamento per i reati gravi contemplati dall’art. 94 (comma 1), sarà chiamata a svolgere le opportune verifiche in ordine all’incidenza della stessa sull’affidabilità dell’operatore economico, dandone conto in motivazione. Così valutato il ruolo della sentenza di patteggiamento come “indice sintomatico” utilizzabile dalla stazione appaltante ai fini della valutazione del grave illecito professionale, si ritiene che tale ragionamento debba valere sia per le sentenze non irrevocabili di applicazione della pena su richiesta, espressamente menzionate dall’art. 98, comma 3, lett. g), sia per le sentenze irrevocabili di applicazione della pena su richiesta, pur nel silenzio della norma sul punto. Ciò in quanto, come visto, proprio al fine di coordinamento con la c.d. riforma Cartabia, nella versione definitiva del Codice è stato espunto il riferimento alle sentenze irrevocabili di patteggiamento per i reati (gravi) di cui all’art. 94, comma 1, come causa di esclusione automatica ex art. 94, con la conseguenza che, allo stato, non appare logico ritenere che la stessa non possa rilevare più nemmeno come mezzo di prova adeguato per la valutazione del grave illecito professionale, facendo comunque l’art. 98, comma 3, lett. g) espresso riferimento alla sentenza non irrevocabile di patteggiamento. A favore di tale soluzione, seppure non supportata dal criterio letterale, militano sia il criterio teleologico che quello sistematico, non essendo ragionevole ritenere che il legislatore abbia voluto mantenere il riferimento alla sentenza non irrevocabile di patteggiamento per uno dei reati contemplati dall’art. 94, comma 1, tra i mezzi di prova adeguati ai fini della valutazione del grave illecito professionale ex art. 98, comma 3, lett. g) escludendo, invece, la medesima rilevanza alla sentenza irrevocabile di patteggiamento, anche in conformità al principio plus semper in se continet quod est minus. Si ritiene, dunque, che la locuzione “sentenze non irrevocabili di applicazione della pena su richiesta” di cui all’art. 98, comma 3, lett. g), debba essere interpretata nel senso che costituisce “mezzo di prova” adeguato del grave illecito professionale (in presenza di tutti gli altri presupposti sostanziali richiesti dall’art. 98, comma 2) non solo la sentenza patteggiata non irrevocabile, ma anche quella irrevocabile, che comunque, a fortiori, costituisce “mezzo di prova” idoneo a dimostrare la sussistenza di un illecito professionale grave. Resta inteso che la soluzione sopra prospettata, che supera il tenore letterale dell’art. 98, comma 3, lett. g) sebbene la materia risulti ispirata al principio di tassatività (10), non può escludere contenziosi dall’esito, comunque, non del tutto prevedibile, anche alla luce del fatto che, come rilevato già nel precedente parere, la problematica sottoposta riguarda una materia, quella del (10) l’art. 95, comma 1, lett. e), del nuovo Codice precisa che “all’articolo 98 sono indicati, in modo tassativo, i gravi illeciti professionali, nonché i mezzi adeguati a dimostrare i medesimi ”. “grave illecito professionale” quale fattispecie escludente nel settore delle gare pubbliche, che ha già generato nel passato un vasto contenzioso, sfociato in decisioni non sempre lineari e coerenti tra loro. Quanto, infine, alla rilevanza delle pene accessorie, richiamate da Consip nei quesiti sub 4) e 5), alla luce della interpretazione accolta dell’articolo 98, comma 3 e 6, lett. g), secondo cui la sentenza di patteggiamento -sia revocabile che irrevocabile -costituisce adeguato mezzo di prova ai fini dell’esclusione non automatica ivi prevista, si ritiene che esuli dal presente parere la diversa tematica relativa alla incidenza delle pene accessorie che vengono in rilievo nel settore dei contratti pubblici (quale, ad esempio, l’incapacità di contrattare con la p.a.) quali fattispecie di per sé escludenti. *** In conclusione, alla luce delle considerazioni sopraesposte, la Scrivente ritiene di rispondere ai quesiti posti da codesta Società nei termini di seguito indicati: -la sentenza irrevocabile e non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. non costituisce causa di esclusione automatica dalla procedura di gara ai sensi dell’art. 94, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023; -in risposta ai quesiti sub 2) e 3): la sentenza irrevocabile e non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 98, comma 3, lett. h) del d.lgs. n. 36/2023 non costituisce adeguato mezzo di prova ai fini dell’esclusione (non automatica) ivi prevista; -in risposta ai quesiti sub 1) e 4-5): la sentenza irrevocabile e non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei reati di cui all’articolo 98, comma 3, lett. g) del d.lgs. n. 36/2023 costituisce adeguato mezzo di prova ai fini dell’esclusione (non automatica) ivi prevista. Nei termini suindicati è il parere di questa Avvocatura Generale che resta a disposizione per ogni approfondimento o chiarimento dovesse rendersi ulteriormente necessario. Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo che, nella seduta del 15 gennaio 2025, si è espresso in conformità. l’avvocato Generale aggiunto Marco Corsini LegisLAzioneedAttuALità Processi al gruppo Al Qaeda di Roma: la Jihad mediatica vista da dentro Carlo Maria Pisana* Breviter. La complessità degli scenari internazionali odierni impone di non abbandonare la riflessione sul terrorismo di matrice religiosa, che ben potrà riaccendersi al cessare delle fasi di guerra tradizionale in essere (1). Particolarmente esposto è il nostro Paese, sia per la posizione geografica di ponte tra l’Europa e il quadrante MENA (Middle East and North Africa), sia perché la sua capitale ospita la sede della Cristianità dove avrà inizio a giorni la celebrazione del Giubileo (2). Il caso della cellula romana di Al Qaeda, articolatosi in vari processi, appare concluso con l’udienza dell’11 ottobre 2024 in Corte di Assise di appello di roma. Le indagini dei ros, confermate dagli esiti dei dibattimenti, hanno portato alla luce una mole di materiale, che consente di conoscere in dettaglio (*) Avvocato dello Stato. L’Autore, avvocato dello Stato presso l’Avvocatura Generale, ha rappresentato la Presidenza del Consiglio dei Ministri in tutti i processi relativi alla cellula romana di Al Qaeda. Nell’ambito di tali processi l’Avvocatura si è fatta latrice della esigenza di promuovere un mutamento della giurisprudenza atto ad includere i fenomeni della Jihad mediatica e della correlata azione dei c.d. “lupi solitari” nella fattispecie incriminatrice del reato di associazione per delinquere con finalità di terrorismo di cui all’art. 270 bis c.p. L’Autore ha partecipato a diverse conferenze sul tema del terrorismo islamico. (1) “Osservando con un’ottica di lunga durata la storia del terrorismo jihadista, queste fasi di apparente eclissi sono invece momenti di importante attivismo riorganizzativo spesso anticipatrici di eventi preoccupanti e crescita del livello della minaccia”, on. Andrea Manciulli nel convegno “La protezione delle infrastrutture critiche nel contesto geopolitico attuale” presso ENI il 12 novembre 2024. (2) EuroPEAN uNIoN TErrorISM SITuATIoN ANd TrENd rEPorT 2023 riferisce che su 28 aggressioni ricondotte a terrorismo islamico avvenute nell’unione nel corso del 2022, ben 25 hanno avuto luogo in Italia. le dinamiche interne alle strutture operanti nella Jihad mediatica e da cui emerge conferma del passaggio da una strategia imperniata su attentati spettacolari a un’altra focalizzata sulla spettacolarizzazione degli attentati. Abstract. The complexity of today’s international scenarios requires that the reflection on religiously motivated terrorism is not to be abandoned, as it could well reignite once the phases of war on the ground are completed. The case of the roman cell of Al Qaeda, consisting of several trials, was concluded with the hearing on 11 october 2024 in the Corte d’Assise d’Appello. Investigations by roS, corroborated by the results of the hearings, have brought to light an impressive amount of material, that confirms the transition from a strategy based on spectacular attacks to another focused on making the attacks spectacular. A key in this context, is the role of the so-called Media Jihad. SOmmAriO: 1. introduzione -2. L’innesco delle indagini -3. il sito “Ashaq al hur” -4. Cenni sulla ideologia di Al Qaeda e sulla Jiahd mediatica -5. Organizzazione centrale della Jiahd mediatica -6. ruolo della Jihad mediatica e azione dei “lupi solitari” -7. rapporto tra organizzazione periferica e centrale della Jihad mediatica: la storia degli “Amanti delle Vergini” - 8. Conclusioni. 1. introduzione. Con l’udienza dell’11 ottobre 2024 innanzi alla Corte di Assise di appello di roma, sembra chiudersi la vicenda giudiziaria riguardante la c.d. cellula romana di Al Qaeda, articolatasi in vari processi (3). I fatti destano allarme perché riferiti ad un’organizzazione presente nella capitale italiana affiliata ad Al Qaeda, che, fra febbraio 2009 e aprile 2015, ha operato a roma, aggregandosi intorno a un sito internet denominato i7ur (in Arabo Ashaq al hur, cioè “amanti delle vergini”), il quale ha diffuso materiale inneggiante al martirio, al terrorismo, istruzioni su funzionamento di armi e preparazione di ordigni, indirizzi strategici, giustificazioni ideologiche. 2. L’innesco delle indagini. Nell’ambito di un’operazione di intelligence avviata in Italia nel 2009 fu (3) L’indagine unitaria ha dato luogo a due processi a seguito delle scelte operate dagli imputati in sede di udienza preliminare. L’imputato X ha optato per il rito abbreviato, beneficiando così della riduzione di pena prevista. Nei suoi confronti sono state pronunciate la sentenza di condanna n. 3662/2016 del Tribunale di roma, la n. 51/2017 della I Corte di assise di appello di roma, la n. 51218/2018 della Corte di Cassazione VI sez., la n. 42/2018 della II Corte di assise di appello e infine la n. 7808/2020 della II sez. della Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna pur riducendo la pena a 4 anni e 8 mesi di reclusione. Gli imputati Y e Z sono stati giudicati con rito ordinario e ritenuti colpevoli con sentenza della Corte di Assise III sez. n. 3/2021, n. 10/2022 della III Corte di assise di appello, n. 29602/2023 della Corte di Cassazione sez. III e infine con le nn. 6/2024 e 11 ottobre 2024 (motivazione in corso di deposito) della II Corte di assise di appello. individuato un sito, tale Jarchive (una sorta di Youtube del terrorismo islamista, hanno spiegato gli investigatori assunti a deporre) situato su un server ad Arezzo appartenente a una nota società italiana di servizi informatici. L’amministratore del sito era un giovane proveniente dagli EAu, studente in Australia. La polizia federale australiana avviò intercettazioni, venendo così a sapere che lo studente prendeva direttive dal forum Al Falluja, considerato di sicura matrice Jihadista (4). Tra i frequentatori di Jarchive, tra i quali sono stati anche individuati gli autori di atti di terrorismo, compariva con 58 accessi nel giro di circa un anno identificati da altrettanti I.P. (Internet Protocol: sull’identificazione a mezzo di protocollo informatico IP), una linea telefonica intestata a un cittadino tunisino residente in provincia di roma. Gli orari di frequentazione e il profilo dei componenti della famiglia consentirono di ricondurre le frequentazioni al figlio poco più che ventenne, poi imputato dei gravi fatti in oggetto. Questi è infatti risultato essere l’amministratore del sito “Ashaq al hur”, gli “amanti delle vergini”, nome evocativo del premio delle 72 vergini spettanti al martire. In seguito, il sito fu collegato ad un’utenza relativa a un’abitazione sita in un altro paese del Lazio, dove si era trasferito il giovane tunisino, confermando quindi la riconducibilità a lui solo dell’attività. Mezzi di indagine tradizionale hanno dimostrato che egli vi viveva sostanzialmente isolato dal mondo. L’abitazione era frequentata da un’unica persona: un cittadino marocchino un po’ più vecchio di lui, poi condannato per il medesimo reato associativo con sentenza ormai passata in giudicato. Attraverso l’istallazione di un “agente remoto” si sono potuti conoscere i contenuti delle comunicazioni svolte da parte del reo attraverso il pc. Il giovane tunisino, così come gli altri partecipi dello staff direttivo del sito, agiva sotto vari nickname, o meglio kunyia, nomi di battaglia, e ad uno di questi era associata una scheda profilo che lo definiva fondatore del sito. Egli si rapportava nelle comunicazioni con rappresentanti delle organizzazioni facenti capo ad Al Qaeda, qualificandosi come capo della struttura e gli altri membri dello staff direttivo si rivolgevano a lui con l’appellativo di “emiro”. 3. il sito “Ashaq al hur”. Il sito “Gli amanti delle vergini” si presentava ben strutturato. Suddiviso in sezioni dedicate ai più disparati argomenti da “la famiglia mussulmana”a “tecnologia e tecnica”, “apologetica”, “Sharia e giurisprudenza islamica”, “news”e“risposte alle eresie”. Tali sezioni erano moderate da un gruppo, di (4) Lo studente emiratino fu arrestato a dubai, ma l’intervento repressivo di quel paese è consistito nella sottoposizione a un programma di deradicalizzazione, indizio della differente sensibilità di altri Stati al fenomeno del terrorismo a matrice religiosa. cui sono state identificati quattro componenti con ruolo direttivo (tre imputati e poi condannati -chiamati nel testo che segue X, Y e Z -e uno apparentemente deceduto in combattimento in Siria). I frequentatori erano centinaia dislocati in Italia e in varie parti del mondo. Emblematico della svolta di strategia globale (dalla organizzazione degli attentati spettacolari alla spettacolarizzazione di attentati minori) è il fatto che i rei, gestori del sito, non hanno mai direttamente realizzato, né progettato un attentato, né intrapreso atti finalizzati alla realizzazione di attentati. Tale peculiarità pone, in astratto, il problema di discernere tra una, sia pur sgradevole, manifestazione del pensiero, consentita e tutelata dal nostro ordinamento ed una attività terroristica (5). Se infatti la reazione repressiva si lasciasse condurre dal terrore e divenisse indiscriminata, l’obiettivo delle organizzazioni terroristiche sarebbe conseguito ipso facto. Nel presente caso, l’attività espletata consisteva nella pubblicazione di materiale ideologico e apologetico. Il materiale pubblicato e le chat dirette dai moderatori sul sito vertevano anche su temi molto più concreti, quali l’individuazione di obiettivi strategici, ivi compresa una lista di persone, tra cui l’allora presidente di Telecom, manuali di preparazione di ordigni e uso di armi, tecniche di realizzazione di attentati, tra i quali si è rinvenuta anche la descrizione delle modalità poi utilizzate per l’attentato realizzato a Nizza alcuni anni dopo (Promenade des Anglais, 14 luglio 2016, si precisa che l’attentato fu rivendicato dall’Isis e non da Al Qaeda). Per cogliere appieno il significato di tali, già gravi, condotte è necessario fare alcuni cenni alla ideologia qaedista e al ruolo della Jihad mediatica al suo interno. 4. Cenni sulla ideologia di Al Qaeda e sulla Jiahd mediatica. Sulla strategia della Jihad mediatica si richiama la ricostruzione contenuta nella prima sentenza di merito resa sulla vicenda (Tribunale di roma GuP ufficio II, 24 novembre 2016, n. 3662) (6). (5) Problema su cui si è soffermato l’intervento di Ciro Sbailò nel convegno “La protezione delle infrastrutture critiche nel contesto geopolitico attuale” presso ENI il 12 novembre 2024. La elaborazione giurisprudenziale volta a individuare gli elementi per operare tale discernimento è stata compiuta proprio in questi processi, per effetto anche del contributo dell’Avvocatura dello Stato costituita parte civile, e ha trovato la sua prima illustrazione nella motivazione della sentenza n. 51218/2018 della Corte di Cassazione VI sez. (6) Si precisa che la sentenza Tribunale di roma GuP ufficio II, 24 novembre 2016, n. 3662 è stata confermata dalla Corte di appello di assise I n. 51/17, a sua volta annullata dalla Corte di Cassazione VI, sent. 51218/18, soltanto per deficit di motivazione sul rapporto biunivoco tra il sito Ashaq al Hur e l’organizzazione internazionale Al Qaeda, motivazione poi fornita da Corte di appello di assise n. 42/2018, annullata parzialmente da Cass. II, 7808/20, che ha soltanto ritoccato il trattamento sanzionatorio. resta quindi valida la ricostruzione del quadro storico della attività di Al Qaeda contenuta nella sentenza di prime cure (pagg. 12-18). In sintesi, la ideologia di Al Qaeda si connette sul piano religioso alla dottrina wahabita, un orientamento fondamentalista sul piano religioso e dei rapporti familiari e sociali nato in ambito sunnita, che fin dalla fine del XVIII sec. ha assunto una connotazione politica, essendo alla base del lento processo di formazione dello Stato saudita e sostegno della monarchia di tale paese (7). Come è noto, le origini di Al Qaeda sul piano organizzativo vanno ricercate nella lotta contro l’invasione sovietica dell’Afganistan. In tale ambito lo sviluppo in chiave antioccidentale si forma nel corso degli anni ‘90 quale reazione all’operazione “Enduring freedom” in territorio afgano (8). Tale evoluzione è sugellata: -sul campo, da alcuni attentati spettacolari a fine anni ’90 (alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998, all’incrociatore statunitense uSS Cole nello Yemen nel 2000) e, ovviamente, da quello alle Torri Gemelle del 2001; -sul piano dottrinale, dal documento programmatico diffuso nel 1998 da osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri “Dichiarazione del fronte islamico mondiale per la jihad contro gli ebrei e i crociati”. In tale documento, distaccandosi dalla dottrina tradizionale sunnita, si afferma la legittimità della aggressione di civili anche in aree non di guerra, nonché dell’azione violenta di ogni mussulmano, a prescindere dalla posizione assunta dal governo del paese di appartenenza: “Chiamiamo, se Dio lo permette, ogni musulmano credente e desideroso di essere ricompensato da Lui a ottemperare all’ordine di Dio di uccidere gli americani e saccheggiare i loro beni, ovunque si trovino e in ogni momento”. Il fondamento religioso di tale tesi viene individuato nel verso 60 della sura al-Anfal, che ordina ai musulmani di “prepararsi a incutere terrore nei nemici di Dio” (9), e riconoscerebbe come “martirio” il suicidio realizzato in esecuzione di attentati. Esso sarebbe infatti compiuto per la jihad, cioè nel- l’ambito dello sforzo, dovuto da ogni musulmano, per rendere la realtà, prima individuale e poi sociale, conforme all’Islam. Nei primi anni di questo secolo si assiste ad una evoluzione della modalità operativa di Al Qaeda. dagli attentati organizzati a partire da territori islamici, sia diretti negli (7) Sull’influenza della dottrina radicale religiosa wahabita sulla formazione dello stato saudita: amb. EuGENIo d’AurIA “Veli d’Arabia. il regno saudita tra stereotipi e realtà”, ed. università Bocconi 2015, cap. II. (8) Pag. 11 sent. Cass. II 7808/20 nel riportare il contenuto della motivazione della sent. n. 42/18 del 6 marzo 2019 della Corte di assise di appello di roma quale giudice del rinvio. (9) Sura al-Anfal (Il bottino): “60. Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro [28] e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce [29]. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati”, da sufi.it. stessi, sia in paesi occidentali, si passa alla dottrina strategica, oggi superata, delle c.d. “cellule dormienti”. Questa trova alimento nella radicalizzazione dei musulmani residenti in Europa, ed in primis i c.d. emigrati di seconda generazione, sino ad indurli ad abbracciare l’ideologia radicale e a fare ricorso alla violenza. Va sottolineato che tale modalità operativa escludeva un diretto contatto con la struttura centrale (c.d. jihad individuale o jihad senza leader). Sul campo, il culmine di questo modello organizzativo viene considerato la realizzazione degli attentati di Londra del 7 luglio 2005 e della metropolitana di Madrid del 11 marzo 2004. Sul piano dottrinale, testimonia tale fase storica la diffusione di un articolo di Abu Abdullah Al Najdi, membro di Al-Qaeda in Arabia Saudita e responsabile della sezione mediatica dell’organizzazione: “molti giovani disoccupati ed oziosi sono stati motivati ad unirsi alla jihad da una foto o un video … Chiunque ascolti gli appelli di Osama Bin Laden sente nelle sue parole l’importanza dell’indottrinamento dei sostenitori della corrente jihadista ... lo sceicco, penso, potrebbe dirigere i mujahidin attraverso dei messaggi segreti personali. Comunque, lui ha voluto che l’indottrinamento fosse pubblico perché la gente che aspetta i suoi appelli sui canali internet, possa fare propri i suoi obiettivi e seguirli”. Nella seconda metà del primo decennio del secolo, inizia una riflessione che porta ad un ulteriore mutamento strategico: il passaggio dalla strategia delle cellule dormienti a quella della Jiahd mediatica / “lupi solitari”. Preme all’autore evidenziare che la strategia è unitaria. Non si deve immaginare come elementi distinti: da una parte una azione propagandistica, che -salvo commissione di specifici reati -possa considerarsi esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, e dall’altra l’azione di invasati che commettono inconsulti gesti di violenza. La azione mediatica è funzionale alle azioni individuali violente. La sua funzione precipua è proprio quella di determinare, guidare e poi enfatizzare l’azione violenta individuale. Non è necessario ricostruire in via indiziaria il passaggio alla modalità organizzativa della Jihad mediatica: sono le stesse fonti di Al Qaeda a riferirlo. Viene considerato espressivo del punto di svolta il documento video del dicembre 2006 del leader dell’organizzazione Ayman Al Zawahiri in cui afferma “chiedo ad Allah di fare degli uomini della jihad mediatica lo strumento della disseminazione del messaggio dell’islam al mondo intero”. Non si riferisce a un messaggio religioso, come fatto chiaro dalla diffusione di altri coevi testi di altri autori quali “44 modi per sostenere la Jihad”. In tale quadro assume rilievo storico la pubblicazione della rivista inspire in lingua inglese avvenuta tra il 2010 e il 2013 contenente non soltanto indottrinamento politico e religioso, ma elenchi di obiettivi e concrete istruzioni per la loro realizzazione. Alcuni numeri di tale rivista sono stati pubblicati anche sul sito di nostro interesse e il metodo di individuazione di persone oc cidentali da uccidere proposto sul sito in parola è stato mutuato dalla predetta rivista. Nella strategia di Al Qaeda si passa quindi dalla costosa organizzazione di grandi attentati in proprio, a quella basata su cellule dormienti, e infine alla Jihad mediatica / lupi solitari. La attività mediatica si pone in definitiva come catena di trasmissione indefettibile tra la testa dell’organizzazione e l’azione sul campo. In un convegno di qualche anno fa (10), che ha fatto il punto della situazione in materia, è stato posto in evidenza il passaggio storico, dovuto anche a cause di ordine economico, dalla produzione di attentati spettacolari alla spettacolarizzazione di attentati minori. 5. Organizzazione centrale della Jiahd mediatica. I processi sulla cellula romana di Al Qaeda hanno fotografato l’imponente apparato organizzativo esistente nella prima metà dello scorso decennio a sostegno dei siti apparentemente innocui presenti in varie città dei paesi europei. Innanzitutto, occorre distinguere tra la produzione e la distribuzione dei materiali propagandistici o funzionali alla attività di Jihad mediatica. Le due funzioni sono affidate a organizzazioni diverse. La fase di produzione è svolta in house da Al Qaeda o dalle sue emanazioni regionali o organizzazioni alleate. Per Al Qaeda “internazionale” provvede la propria sezione mediatica, As-Sahab. Le quattro articolazioni regionali di Al Qaeda (AQAP per la penisola arabica; AQI per l’Iraq, poi denominata Stato Islamico dell’Iraq (11); AQuIM per i paesi del Maghreb; infine As-Shabaab somala) provvedono da sé alla produzione, così come i numerosi gruppi alleati sparsi per il mondo (Therik Taliban Pakistan; Partito Islamico del Turkestan che raggruppa gli ughuri (10) Struttura territoriale di formazione decentrata -Corte Suprema di Cassazione, 1-3 marzo 2017: “il terrorismo internazionale: strumenti di conoscenza e di contrasto”, registrazione su radio radicale, in particolare il mio intervento critico sull’utilità dei mezzi di prevenzione di tipo economico a fronte di un nuovo terrorismo “a buon mercato”. (11) Al Qaeda Iraq, pur avendo mantenuto il nome attribuitole da Al Zarqawi, ha avuto per brevissimo tempo un controllo di territorio a causa della opposizione degli altri movimenti armati sunniti all’epoca presenti in Iraq, che tentava forzatamente di unificare sotto la propria leadership. Lo Stato Islamico, ISIS o secondo l’acronimo in Arabo daesh, è invece entità del tutto diversa, sorta nel 2013 nell’ambito della guerra civile siriana, rispondente a finalità diverse e talvolta concorrenziali con quelle di Al Qaeda, sebbene l’origine sia fatta risalire alla formazione di Al Zarqawi. Secondo una semplificazione, efficace sul piano descrittivo, fatta da ugo Gaudino basandosi sui concetti de “La Teoria del partigiano” di Carl Shmitt, Al Qaeda risponderebbe alla nozione di “partigiani globali”, la seconda a quella di “partigiani territoriali”, “Terrore e territorio nel Jihadismo del XXi secolo”, Gnosis 3/2021. Invero, la concorrenza tra le due organizzazioni si direbbe oggi attenuata. EuroPEAN uNIoN TErrorISM SITuATIoN ANd TrENd rEPorT 2023 riferisce che molti sequestri di materiale propagandistico compiuti nel corso del 2022 hanno riscontrato la distribuzione da parte degli stessi soggetti di materiale prodotto da entrambe le organizzazioni. mussulmani in lotta contro la Cina laica; Movimento islamico dell’uzbekistan) (12)(13). Le produzioni delle articolazioni regionali e dei gruppi alleati sono sottoposte a validazione per garantirne la autenticità. Tale validazione si manifesta mediante la pubblicazione nei tre siti divulgativi. La distribuzione è articolata in due livelli. Al primo attendono le due organizzazioni GIMF, Global Islamic Media Front, e Al-Fajr Media Center, le quali sono munite della competenza tecnica per garantire la autenticità dei contenuti e la sicurezza delle comunicazioni a fronte della minaccia di inoculazione di virus informatici (14). I video distribuiti indicano in coda tali fonti. Al secondo livello si pongono i tre grandi siti divulgativi Jahidisti, As- Shummukh, Al-Fidaa, As-Ansar, i quali provvedono a mettere a disposizione di soggetti accreditati il materiale pubblicato nei due siti maggiori, che ne garantiscono sicurezza e provenienza. A queste riserve attingono poi i numerosi siti sparsi nel mondo ripetendo e amplificandone i contenuti. Nel corso del processo con rito ordinario, svoltosi nei confronti di due dei rei, la deposizione di uno degli investigatori ha schematizzato l’attività predetta in quattro fasi: 1. Filmato e registrazione in cui possono anche comparire personalmente i vertici o gli autori di attentati o l’esecuzione di atti di violenza, ed elaborazione, prevalentemente da parte della struttura denominata Al Fajr; 2. distribuzione nei siti “ufficiali” da parte di Al Fajr o del GIMF (global islamic media front); 3. Moltiplicazione, riproduzione in migliaia di esemplari da parte dei gestori di altri siti, che in quanto accreditati, accedono ai siti ufficiali e inseriscono il post nel proprio sito; 4. Fruizione, in poche ore il documento viene visitato e inserito in profili facebook e youtube. 6. ruolo della Jihad mediatica e azione dei “lupi solitari”. Il caso di Ashaq al hur non è isolato, ma si inserisce in una ampia strate (12) Si tratta di sigle inserite nell’elenco degli individui ed enti riconducibili a Al Qaeda approvato dal Comitato istituito dalla risoluzione 1267/99 dell’onu per il congelamento dei fondi dei Talebani, la cui competenza è stata poi estesa con ris. 1373/2001 ad Al Qaeda. (13) Sul sito della cellula romana su 236 documenti “postati” sul forum da gennaio 2011 a febbraio 2013, ben 231 erano riconducibili ad Al Qaeda ed organizzazioni affiliate o alleate. Precisamente ben 182 risultano prodotti dalle 4 organizzazioni costituenti il nucleo di Al Qaeda. Gli altri documenti provengono da organizzazioni affiliate o alleate, tra cui Therik Taliban Pakistan, il partito islamico del Turkestan, Al Ansar-curda, Jabhat al Nusra, in cui militava uno degli organizzatori del sito. (14) Le risultanze del processo hanno consentito di conoscere il funzionamento pratico di tale meccanismo. Il giovane fondatore di Ashaq al ur era stato aspramente criticato e escluso dal GIMF a causa della imprudente condotta riguardo la sicurezza informatica e dovrà tribolare e ottenere raccomandazioni autorevoli per potersi nuovamente accreditare. gia. Molti commentatori hanno sottolineato il passaggio da “l’attentato spettacolo”, di cui è esempio insuperato quello alle Torri Gemelle, a “la spettacolarizzazione dell’attentato”, ossia alla promozione mediatica di attentati che non hanno in sé nulla di spettacolare. La ragione è semplice: i primi costano molto e richiedono una complessa organizzazione e l’intervento diretto alle associazioni terroristiche; i secondi costano pochissimo, non richiedono complessa organizzazione, sono “esternalizzati” a soggetti che possono anche non avere alcun contatto diretto con l’associazione. ora, i siti jihadisti costituiscono l’anello che si pone tra l’associazione internazionale e i singoli che prenderanno le iniziative. Il collegamento opera a monte e a valle dell’azione individuale. A monte possono distinguersi astrattamente tre livelli di intervento: -motivazionale, determinando la c.d. “radicalizzazione” di individui originari di paesi di religione islamica più fragili o meno inseriti nelle società europee, in cui vivono; -strategico, offrendo la visione complessiva della azione sul piano globale della organizzazione terroristica, a cui va a saldarsi il contributo individuale; -tattico, mettendo a disposizione precise informazioni esecutive, afferenti alla fabbricazione di ordigni, alle persone, eventi o strutture da prendere di mira, all’uso di mezzi comuni come armi improprie, ecc. A valle, si realizza l’obiettivo più importante della Jihad mediatica, che consiste nella spettacolarizzazione di attentati compiuti in qualunque parte del mondo. L’azione del singolo sito si unisce così a quella di siti consimili sparsi in altri paesi europei, amplificando la portata dei fatti commessi. Nel caso in esame i rei hanno dimostrato piena coscienza di svolgere tale ruolo di raccordo. Per quanto attiene all’azione a monte, uno di essi ebbe infatti a pubblicare un articolato scritto che contiene un paragrafo intitolato “raccomandazioni ai lupi solitari”, in cui elenca in nove punti gli essenziali consigli “per quelli che fanno jihad da soli”, un altro paragrafo è dedicato a “La Guerra sul terreno”, in cui si consiglia l’uso di silenziatori e di approfittare della libertà di movimento dei paesi democratici, dove si può incontrare e uccidere un giudice della corte suprema o un ministro mentre fa la spesa (15). Per quanto attiene alla azione a valle, il sito i7hur compie nel 2012 l’esaltazione dell’attentato di Tolosa ad opera di Mohammed Merah e di quello al periodico “Charlie Hebdo” di Parigi del 2015. I “lupi solitari” dunque sono tutt’altro che solitari, ma trovano alimento e appoggio nei gruppi formati intorno ai siti estremisti sparsi nei paesi occidentali e realizzano il proprio scopo di disseminazione del terrore proprio gra (15) Post 23 marzo 2012 sul sito Ashaq al ur. zie all’azione di questi. Spingendoci a un paradosso: l’attentato potrebbe anche non essere compiuto, ciò che conta è diffonderne le immagini. 7. rapporto tra organizzazione periferica e centrale della Jihad mediatica: la storia degli “Amanti delle Vergini”. un notevole contributo alla conoscenza dell’organizzazione viene dalla analisi dei rapporti tra i7hur e la articolata struttura centrale della diffusione mediatica. Tale conoscenza è essenziale in quanto l’applicazione degli schemi normativi non accompagnata dalla comprensione piena dei fatti può portare a risultati aberranti. La parabola del sito Ashaq al hur parte da un momento particolarmente critico. Nel 2007 il GIMF aveva distribuito “Arsar al Mujahidin”, un programma di cifratura e compressione di testi volto a realizzare l’obiettivo, perseguito in modo prioritario nella Jihad mediatica, della sicurezza delle comunicazioni (16). una copia di tale programma infettata da un trojan era stata rinvenuta sul sito romano a seguito dei controlli della organizzazione centrale predetta. dopo un contraddittorio con un membro del GIMF delegato a trattare l’affare, il sito pubblica il 15 dicembre 2011 un invito a non scaricare il programma da Ashaq al hur. Per il sito romano è una condanna a morte. Il suo leader, Y, si prodiga con molti altri messaggi, dichiarandosi affranto e giunge a fabbricare un falso video per dimostrare la propria innocenza, senza ottenere riscontro. È soltanto grazie alla “raccomandazione” che Y riesce a risalire la china (17). Si riscontrano scambi di corrispondenza con tale A.K., moderatore di Al Shumukh, uno dei grandi contenitori di divulgazione di Al Qaeda. Y si rivolge con toni confidenziali, seppure di rispetto, che indicano una conoscenza diretta pregressa. Infine, rampognato il giovane Y, A.K. intercede presso Abu Ayman (18), amministratore di Al Shumukh, e fa confermare la fiducia a Y. Tale accreditamento, tazkya, porta Ashaq al hur a un livello di inserimento ben superiore nella galassia dei siti di divulgazione. Molto rapidamente il sito vola. L’instancabile Y riesce a entrare in contatto con un noto predicatore marocchino, omar Al Haddouchi, già condannato nel suo paese per concorso morale nell’attentato di Casablanca del 2003 (19). Tale contatto è di particolare importanza in quanto in Al Qaeda, accanto a leader politici di grande statura, non hanno trovato posto leader religiosi di altrettanto (16) Arsar al Mujahidin forniva chiavi simmetriche (256 bit) e asimmetriche (2048 bit) di cifratura, nonché strumenti di compressione dei testi. (17) Si direbbe proprio che “tutto il mondo è paese”. (18) L’uomo a cui corrisponde il nome di battaglia Abu Ayman è un cittadino tunisino residente in Francia e ivi arrestato per terrorismo il 15 luglio 2012. (19) Il 16 maggio 2003 dodici attentatori si fecero esplodere in vari punti della città, tra cui il ristorante italiano “Positano”, uccidendo 33 persone e ferendone oltre 100. peso. Tale carenza è percepita come grave dagli organizzatori di vario livello in quanto soltanto da studiosi di materia religiosa può provenire la necessaria giustificazione teologica di una dottrina, che si discosta dall’Islam ortodosso, specie sul piano della giustificazione della aggressione di civili e del contrasto ai governanti dei paesi mussulmani. L’importante contatto (nel sito giustificato in modo poco credibile) porta Y a creare una rubrica dedicata alla predicazione di Haddouchi, Al daraghem Studio, il cui link viene disseminato in altri siti divulgativi islamici, fornendo visibilità anche a i7hur. Il fatto attira l’attenzione dei grandi siti divulgativi Al Ansar e Al Shumukh, in cui dopo una trattativa viene inserito il materiale della rubrica Al daraghem, con il proprio marchio, contenente i video della predicazione. È il massimo successo di Y. da tale spaccato della vita interna della Jihad mediatica emerge un quadro diverso dalla percezione comune del fenomeno riscontrabile sulla stampa occidentale. Non abbiamo di fronte un monolite, ma una struttura centrale, articolata in produzione, autenticazione e diffusione. I tre siti divulgativi sono protetti da meccanismi di semplice accreditamento, Al Ansar, o di accreditamento unito a presentazione, gli altri due. A fronte di questa struttura centrale, vi è una galassia di piccoli siti in sostanziale concorrenza, non sempre gestiti da personale avveduto. Infatti, il protagonista Y incorre nell’errore di pubblicare un programma infetto, incappando nelle ire del GIMF. L’acquisizione della “fiducia”, tazkya, apre le porte all’accesso a livelli superiori di integrazione con la struttura centrale. Tale passaggio può determinarsi non per meriti particolari o superamento di prove di appartenenza, ma anche con una buona raccomandazione di un componente autorevole delle strutture centrali. Si tratta pertanto di strutture meno disciplinate delle organizzazioni eversive con cui il nostro ordinamento si è confrontato negli anni di piombo e pertanto meno difficilmente permeabili alla infiltrazione personale e informatica. Tali operazioni richiedono però una conoscenza puntuale e aggiornata delle strutture, dei loro meccanismi effettivi di funzionamento, dell’apparato ideologico e persino rituale. 8. Conclusioni. Il quadro di insieme emerso dai processi afferenti al sito Ashaq al ur affiliato ad Al Qaeda pone in luce la strategia terroristica attuale nel secondo decennio del secolo. risulta imperniata sui due poli complementari della Jhiad mediatica e dei c.d. “lupi solitari”. L’azione di questi ultimi si innesta su una rete di appoggio costituita da siti internet, che lungi dall’esprimere semplicemente opinioni dissidenti rispetto alla politica e società odierne, agiscono a monte e a valle dell’atto violento. Forniscono prima motivazione ideologica, visione strategica e suggerimenti tattici per “chi vuol fare da solo”; poi amplificazione mediatica del fatto. Sono proprio tali siti, infatti, a contribuire ognuno per sua parte allo scopo comune della proliferazione del messaggio che attinge così lo scopo ultimo dell’operazione terroristica: ossia lo spargimento del terrore. La rappresentazione del terrore, quasi più importante dell’azione in sé, necessita di un “palcoscenico”, secondo alcuni commentatori costituito necessariamente dal Vecchio Continente (20). Ciò impone due considerazioni. In primo luogo, tali realtà non possono essere sottovalutate e rappresentate come meri siti di opinione, recanti la manifestazione di un’opinione politica diversa. In secondo luogo, soltanto la conoscenza delle strutture, dei loro meccanismi effettivi di funzionamento, dell’apparato ideologico può consentire il discernimento tra ciò che è manifestazione del pensiero, tutelato dal nostro ordinamento e, mi si perdoni l’enfasi, essenza della nostra Civiltà, e ciò che è articolazione di una associazione per delinquere con finalità di terrorismo operante su scala globale. (20) “il terrorismo, che dopo l’avvento del Jihad mediatico ha bisogno di un palcoscenico per funzionare al meglio, può trovare questa dimensione soltanto in Europa. Perché il Vecchio Continente è il luogo nel quale oggi passano tutte quelle contraddizioni, che contribuiscono ad amplificare le reazioni suscitate dalle dinamiche terroristiche” in “La minaccia jihadista nel mediterraneo allargato”, n. 3/2023 Gnosis. gli uffici per i procedimenti disciplinari nelle amministrazioni pubbliche; un’analisi giurisprudenziale Andrea Ferri* SOmmAriO: 1. introduzione -2. L’UPD nell’organizzazione dell’ente: conformazione e struttura -3. Le sanzioni applicate da altro organo diverso dall’UPD: nullità ed ipotesi giurisprudenziali - 4. Collegialità ed imparzialità. 1. introduzione. L’articolo 55 bis come novellato d.lgs. 150/2009 -ha disposto al comma 2 ed al successivo comma 4 che la violazione dei termini stabiliti nel presente comma comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa. una successiva sostanziale novellazione della disciplina del procedimento disciplinare è stata prevista dal decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75 che, abrogando il citato comma 4, al comma 9 ter dell’articolo 55 bis ha disposto che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento. Allo scopo di definire la disciplina applicabile ai procedimenti disciplinari già iniziati o relativi ad illeciti comunque commessi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina il d.lgs. 75/2017 all’articolo 22 comma 13 ha previsto una disposizione transitoria secondo la quale le disposizioni di cui al Capo Vii si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Le due disposizioni succedutesi nel tempo (1) presentano un campo di applicazione parzialmente comune riferendosi entrambe ai termini del proce (*) dirigente del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca -ufficio scolastico regionale delle Marche. Preposto all’ufficio legale e responsabile dell’uPd regionale. (1) una informazione sui contenuti della riforma in PAoLuCCI, il procedimento disciplinare nel pubblico impiego. Aspetti procedimentali alla luce del d.lgs. n. 75 del 2017 in il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2018, fasc. 3, pagg. 127-155. dimento disciplinare, ma la novella del 2017, riferendosi oltre che ai termini alle disposizioni relative ad esso, presenta un ambito di applicazione più vasto. Le predette disposizioni -contrapposte ai termini -riguardano gli aspetti relativi alla costituzione dell’ufficio procedimenti disciplinari, che l’articolo 55 bis comma vuole sia costituito all’interno di ciascuna amministrazione pubblica e le problematiche relative a profili di eventuale incompetenza dell’organo che abbia irrogato la sanzione in luogo dell’uPd. Viceversa i termini del procedimento oggetto della novellazione -a causa dell’espressa esclusione dal proprio ambito di applicazione del termine entro il quale il procedimento disciplinare va rispettivamente avviato e concluso la cui violazione determina insanabilmente la decadenza del procedimento (2) -sono i termini infraprocedimentali di esso, ossia la tardiva trasmissione al dirigente dell’uPd della segnalazione di fatti di rilievo disciplinare da parte del dirigente (ovvero del responsabile della struttura ove sprovvisto della qualifica dirigenziale) dell’ufficio cui appartiene il dipendente presuntamente autore dell’illecito, l’inosservanza del termine dilatorio per l’audizione del dipendente (con la possibile variante della mancata concessione della ulteriore dilazione richiesta dal dipendente o della concessione di una dilazione asseritamente ritenuta troppo breve), la mancata tempestiva riassunzione di un procedimento sospeso per la concomitante pendenza di un procedimento o di un processo penale ovvero la mancata tempestiva riattivazione del procedimento in caso di passaggio del dipendente incolpato dall’una all’altra amministrazione. Il modello di sanzione delineato dalle due discipline succedutesi è però profondamente diverso e pone differenti problemi al giudice ed al- l’interprete. Il sistema delineato dal d.lgs. 150/2009 è pacificamente riconducibile a quello della nullità sebbene presenti elementi eclettici rispetto al modello comune di nullità -come la presenza di un breve termine per l’impugnazione della sanzione del licenziamento, la circostanza che essa possa essere sollevata dalla sola parte privata (comune invece alla disciplina della nullità è la rileva (2) La ragione per la quale i termini iniziale e finale del procedimento disciplinare (contestazione e sanzione) se non osservati comportano la caducazione della sanzione deve ravvisarsi in una esigenza di certezza giuridica e nella volontà di accelerarne la definizione allo scopo di assicurare l’effettività del sistema delle sanzioni allo stesso tempo favorendo la difesa del dipendente. Sebbene, alla luce del- l’obbligatorietà dell’attivazione del procedimento nel pubblico impiego, il decorrere del tempo non potrebbe comunque generare nel lavoratore la convinzione sulla volontà del legislatore di non perseguirlo ben potrebbe rendere difficoltosa la difesa del dipendente o consentire al datore di dilazionare la sanzione per punirla più severamente alla luce di successive violazioni. Sul punto MALIZIA, La variabilità empirica del concetto di immediatezza nella contestazione disciplinare in Argomenti di diritto del lavoro, 2009, pagg. 592-597. Sul dies a quo per l’avvio del procedimento disciplinare MAZZANTI, La decorrenza dei termini del procedimento disciplinare nel pubblico impiego in il lavoro nella giurisprudenza, 2019, fasc. 1, pagg. 67-73. bilità d’ufficio che va comunque correlato al rispetto della necessaria corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, senza che il giudice possa rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte) (3). Tratto costitutivo essenziale del sistema della nullità codicistica è che dalla constatata difformità della fattispecie concreta oggetto di esame dalla fattispecie tipica discende la nullità del negozio senza l’intermediazione di alcun sindacato giudiziale relativo al rilievo della accertata difformità sull’assetto negoziale; dall’individuata natura imperativa della norma violata discende un automatico ed indefettibile effetto caducatorio che assicura al massimo grado la tutela degli interessi riconosciuti rilevanti dalla norma. Il modello definito dalla novella del 2017 è invece sensibilmente diverso, dal momento che la caducazione della sanzione discende non dalla sola inosservanza dei termini o delle altre disposizioni in materia di procedimento disciplinare ma dall’accertamento che tali violazioni abbiano nel caso concreto irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e che l’azione disciplinare nel suo complesso sia stata comunque compatibile con il principio di tempestività. Pertanto non è la violazione di legge di per sé stessa a determinare l’invalidità della sanzione disciplinare irrogata ma una valutazione delle circostanze di fatto del caso in esame dalla quale emerga l’avvenuta compromissione del diritto di difesa del dipendente: una medesima violazione di legge può condurre in un caso all’annullamento e nell’altro alla conservazione della sanzione a seconda di come le circostanze di fatto abbiano inciso, pregiudicandolo, sul diritto di difesa. Questa valutazione caso per caso degli effetti invalidanti sulla sanzione avvicina tale modello di sindacato giudiziale a quello proprio delle cosiddette nullità speciali e segnatamente delle clausole vessatorie di cui agli articoli 33 e seguenti del codice del consumo raccolto nel d.lgs. 206/2005 i cui tratti salienti sono il sindacato sul significativo squilibrio del contenuto del singolo contratto contenente clausole vessatorie ed il rilievo attribuito alla effettiva avvenuta contrattazione del contenuto negoziale (4). Quest’ultimo aspetto è estraneo alla materia del procedimento disciplinare che è un atto unilaterale recettizio, laddove il sindacato sull’equilibrio con (3) Cassazione civile sez. lav., 5 aprile 2019, n. 9675, la S.C. ha confermato la decisione che non aveva rilevato d’ufficio la violazione, dedotta tardivamente dalla parte, dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui dispone che il procedimento disciplinare deve essere concluso entro il termine di 120 giorni dalla sua apertura. (4) In dottrina per una informazione sulla nullità in materia di clausole vessatorie si veda VALLE, L’inefficacia delle clausole vessatorie e le nullità a tutela della parte debole del contratto in Studium iuris, 2005, n. 11; eadem, L’inefficacia delle clausole vessatorie e il codice del consumo in Studium iuris, 2006, n. 2. trattuale è interamente sovrapponibile alla verifica della non avvenuta significativa compressione del diritto di difesa del dipendente. Il sindacato sull’equilibrio contrattuale nell’ambito dei contratti con il consumatore è stato ricondotto -nonostante la non univoca interpretazione dell’espressione malgrado la buona fede (5) all’interno del codice del consumo nell’ambito della buona fede obiettiva (6) -come fonte di autonomi doveri che integrano il contenuto del negozio, espungendo le clausole ad essa contrarie ed integrandone il contenuto; la buona fede che impedisce la caducazione della sanzione, ove non risulti compromesso il diritto di difesa del dipendente, è da ricondurre a quella particolare forma di integrazione del contratto che impone alla controparte di accettare minime difformità della prestazione (in questo caso intesa come l’iter procedimentale che conduce alla sua irrogazione) entro il limite di un apprezzabile sacrificio da intendersi come una non significativa compressione del diritto di difesa (7). Nel caso in cui si tratti dell’inosservanza dei termini preprocedimentali ed endoprocedimentali la compressione del diritto di difesa può discendere da tale ritardo, ma la constatazione di esso esige una ulteriore indagine sul pregiudizio concretamente arrecato. In altri casi la compressione del diritto di difesa può essere indipendente dal rispetto dei termini procedimentali come nel caso in cui sia omessa l’audizione del dipendente che però abbia presentato una propria esaustiva memoria difensiva o nel caso in cui l’amministrazione non abbia dato corso al richiesto accesso agli atti ovvero ad ulteriori approfondimenti istruttori richiesti dal dipendente, laddove si dimostri che allo stato degli atti la sanzione era giustificata e che gli adempimenti istruttori richiesti non avrebbero inciso su tale dato. Nel presente scritto si cercherà di porre in evidenza come la giurisprudenza di legittimità, pur nel vigore del precedente meccanismo della nullità civilistica aveva già fatto ricorso ad una valutazione caso per caso dell’effettiva incidenza della violazione facendo riferimento alla ratio delle disposizioni in esame e come la successiva novellazione dell’articolo 55 bis abbia legittimato un indirizzo giurisprudenziale già invalso. Con specifico riferimento alla violazione dei termini del procedimento in (5) Sull’interpretazione di tale espressione si veda CArINGELLA-BuFFoNI, manuale di diritto civile, edizioni dike, II ed., pagg. 851-852. (6) Per una definizione della buona fede oggettiva, del suo contenuto e delle sue molteplici applicazioni ibidem pagg. 727-733. (7) un precipitato dell’accresciuto potere di valutazione riconosciuto al giudice è costituito dalla novella dell’articolo 63 comma 2 bis secondo la quale il giudice, qualora ravvisi un difetto di proporzionalità della sanzione inflitta dalla P.A. al proprio dipendente, può egli stesso sostituire, anche senza domanda di parte, la sanzione eccessiva con quella proporzionata (in melius e non in peius), convertendola in ossequio al principio di proporzionalità (in proposito TENorE, Le novità apportate al procedimento disciplinare dalla riforma madia (d.lgs. n. 75 del 2017 e n. 118 del 2017) in Lavoro, Diritti, Europa, 2017, fasc. 1. epoca anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 75/2017, Cass. sez. lav. del 22 agosto 201 n. 17245 (8) aveva ritenuto che l’inosservanza del termine dilatorio di 20 giorni dalla notifica della contestazione non determinasse ex se l’invalidità della sanzione ma solo nel caso il dipendente deduca e dimostri che il suo diritto di difesa è stato frustrato dalla contrazione del termine. Tale conclusione -in contrasto con il tenore letterale della norma illo tempore vigente -veniva fondata su di una interpretazione teleologica che individuava la funzione della norma nella sua strumentalità al diritto di difesa del dipendente riconoscendogli un tempo idoneo per articolare le sue difese e non in quella di assicurare la tempestiva conclusione del procedimento (per la quale operano il dies a quo ed il temine finale) derivandone la conseguenza che laddove lo scopo della norma non fosse stato frustrato non si poteva dichiararne l’invalidità (la prova della sua mancata lesione veniva ravvisata nella circostanza che il dipendente si era presentato “alla convocazione coll’ausilio del proprio difensore, non ha chiesto alcun rinvio, ma ha articolato compiutamente le proprie difese, incentrate su vizi formali e senza alcuna contestazione nel merito degli addebiti mossi”). 2. L’UPD nell’organizzazione dell’ente: conformazione e struttura. Nella sentenza del 25 luglio 2011 n. 16190 (9) un comune non aveva costituito l’uPd, inserendolo ex novo nell’organigramma, né aveva provveduto ad attribuirne le competenze ad altro preesistente organo, ed il relativo procedimento disciplinare, conclusosi con una sanzione espulsiva, era stato condotto dal sindaco, identificato per facta concludentia nell’uPd. La sezione lavoro della Cassazione riconosceva che l’ufficio non era stato costituito e pertanto riteneva la nullità del licenziamento intimato non potendosi individuare de plano l’uPd nel sindaco. una ulteriore autonoma ragione di illegittimità -non rilevata dalla Cassazione -era la natura di organo politico del sindaco, cui l’attribuzione di compiti di amministrazione attiva non era consentita, se non violando il fondamentale canone di riparto della competenza tra uffici politici ed uffici amministrativi rispettivamente dotati di funzioni di indirizzo, verifica e controllo e di attuazione di tali indirizzi. Anche Cassazione sezione lavoro del 4 dicembre 2015 n. 24731 (10) resa nei confronti di un licenziamento irrogato da una Camera di commercio, industria artigianato che aveva identificato l’ufficio procedimenti disciplinari nella Giunta dell’ente dichiarava l’illegittimità del licenziamento irrogato per incompetenza dell’organo procedente. La giunta aveva radicato la propria competenza facendo leva sul fatto che la norma istitutiva attribuiva ad essa i (8) In italgiure web. (9) In italgiure web. Le sentenze citate nel presente articolo non sono apparse su rivista. (10) In itagiure web. provvedimenti riguardanti l’assunzione e la carriera del personale, da disporre su proposta del segretario generale; la Corte -facendo leva su di un rinvio recettizio contenuto nell’articolo 19 della legge 29 dicembre 1993, n. 580 alle disposizioni del d.lgs. 29/1993 che allora conteneva le norme sulla riforma del pubblico impiego che rendeva recessiva l’attribuzione delle competenze gestionali alla Giunta camerale -quindi finiva con l’identificare la giunta camerale in un organo di indirizzo politico cui venivano inibite funzioni di amministrazione attiva e quindi l’incompetenza all’irrogazione di sanzioni disciplinari. Nella sentenza del 4 novembre 2016 n. 22487 (11) la Cassazione sezione lavoro si confrontava con un licenziamento adottato dall’ISFoL, che non aveva proceduto a dotarsi ex novo di un ufficio per i procedimenti disciplinari, né aveva formalmente individuato come tale altro preesistente ufficio del- l’ente. Il procedimento disciplinare era stato condotto dal direttore generale dell’ente cui si contestava la competenza per assenza di una formale attribuzione in materia. La Cassazione riconosceva la competenza del direttore generale a fungere da uPd dal momento che ad esso venivano pacificamente riconosciute la potestà di gestione del personale mediante atti organizzativi ed amministrativi; i giudici riconoscevano come l’univoco riconoscimento del direttore come uPd, pur in mancanza di determinazioni dell’ente in tal senso, fosse agevolata dalla relativa scarsa complessità dell’ordinamento dell’ente. Cassazione sezione lavoro 19 agosto 2016 n. 17125 (12) si occupa del- l’impugnativa di un licenziamento adottato dal direttore generale dell’Agenzia delle entrate che era stato formalmente indicato con delibera dell’ente a fungere da uPd. La contestazione del lavoratore consisteva nel fatto che attribuire al Capo della struttura, gerarchicamente sovraordinato a tutti gli altri uffici dirigenziali non ne avrebbe assicurato la necessaria terzietà; la Cassazione ne riconosceva la competenza non ravvisando alcun ostacolo nella natura monocratica ed apicale dell’organo. Nella sentenza della Cassazione sezione lavoro 4 dicembre 2013 n. 27128 (13) di fronte ad una sanzione irrogata dal direttore generale di una ASur ne veniva riconosciuta la incompetenza sulla base di una distinzione tra la responsabilità dirigenziale e quella disciplinare rispettivamente da ascriversi al direttore generale ed al non ancora costituito uPd; in essa si legge che a tale riguardo va rilevato che la ratio sottesa al citato art. 55, vada individuata nell’esigenza di assoggettare ai medesimi organi disciplinari l’esame della condotta di tutti coloro -e quindi anche dei dirigenti -cui vengono contestati addebiti che, in ragione della natura subordinata del loro rapporto lavorativo, (11) In itagiure web. (12) In itagiure web. (13) In itagiure web. configurano un inadempimento agli obblighi scaturenti da detti rapporti, con esclusione quindi di quelle condotte che necessitano invece di giudizi che richiedono differenti criteri valutativi per avere ad oggetto non la configurabilità della responsabilità disciplinare dei dirigenti ma la responsabilità scaturente da un esercizio dei loro poteri del tutto inadeguato rispetto alla rilevanza delle funzioni ad essi attribuite. La medesima fattispecie e le medesime conclusioni sono trattate e raggiunte nella sentenza del 17 giugno 2010 n. 14628 (14). Nella sentenza del 24 gennaio 2017 numero 1753 (15) si verteva su di una sanzione irrogata dalla commissione amministratrice di un Consorzio fitosanitario che era stata formalmente investita della competenza disciplinare e della quale veniva riconosciuta la natura di organo gestionale essendogli statutariamente affidate le competenze circa l’approvazione del bilancio, le delibere sulle spese di ordinaria e straordinaria amministrazione, sulla pianta organica e sugli inquadramenti del personale, sulle missioni dei dipendenti, sul conferimento degli incarichi di responsabilità. Mentre venivano riconosciute alla regione funzioni di indirizzo, vigilanza, controllo nonché l’esercizio della attività ispettiva. Sul piano dell’iter procedimentale da seguire non veniva attribuito rilievo in tema di imparzialità dell’organo alla circostanza che la sanzione disciplinare fosse da considerarsi illegittima perché inflitta dalla Commissione Amministratrice, della quale faceva parte anche il soggetto che aveva provveduto a denunciare i comportamenti tenuti dal dipendente in violazione dei doveri di ufficio. il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità del- l’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. un più lontano precedente -da individuarsi nella sentenza di Cassazione sezione lavoro del 5 febbraio 2004 numero 2168 (16) sempre resa con riguardo al settore sanitario si riconosceva la nullità del recesso irrogato dall’ufficio di gestione del personale in luogo che dall’uPd dato che -sebbene l’ufficio del personale possa ritenersi un ufficio nel quale siano allocate anche le competenze disciplinari -nella concreta vicenda postasi all’attenzione della Corte così non era, con ciò confermandosi che l’omessa individuazione dell’uPd può essere sanata solo se le funzioni di esso sono univocamente e chiaramente allocate in altro preesistente ufficio. (14) In itagiure web. (15) In italgiure web. (16) In massimario di giustizia del lavoro, 2004, fasc. 7, pag. 528 con nota di BArBIErI, Sulla competenza dell’ufficio procedimenti disciplinari a carico di dipendenti pubblici privatizzati. Conclusivamente deve affermarsi che l’uPd può non essere formalmente indicato in uno degli uffici preesistenti e che la mancanza di una previa individuazione di esso non si traduce ex se nell’incompetenza dell’organo procedente, purchè esso sia univocamente identificabile all’interno dell’amministrazione dell’ente quello titolare dell’esercizio dell’azione disciplinare e pertanto non vi sia margine alcuno di dubbio nella sua identificazione. 3. Le sanzioni applicate da altro organo diverso dall’UPD: nullità ed ipotesi giurisprudenziali. occorre ora verificare gli effetti dell’adozione di una sanzione disciplinare da parte di un soggetto incompetente, comunque interno all’amministrazione. La sentenza 16190/2011 (17) afferma che il concetto di legittimità sia di fatto riferibile ormai non solo all’atto amministrativo ma anche all’atto di autonomia privata intendendosi come tale l’atto -sia esso posto in essere da una pubblica autorità o da un soggetto privato -contra legem e quindi invalido e come tale inefficace nullo o annullabile, ritenendo tali sanzioni tutte fungibili ai fini della valutazione negativa dell’atto. In termini più tecnici 24731 del 4 dicembre 2015 (18) afferma che il procedimento instaurato da un soggetto diverso al predetto ufficio è illegittimo e la sanzione è affetta da nullità risolvendosi in una violazione di norme di legge inderogabili sulla competenza; in termini letteralmente identici anche la sentenza 7 giugno 2016 n. 11632 (19). Più approfondita e perspicua nella sua sinteticità è la già citata sentenza del 5 febbraio 2004 n. 2168 (20) nella quale oltre all’ascrizione della sanzione alla nullità per violazione di norme imperative si legge che la norma determinatrice di competenza è espressione non solo di tecnica organizzativa ma anche di una esigenza di giustizia (o almeno di garanzia della giustizia degli atti da essa considerati) atteso che il legislatore ha stabilito che solo un determinato organo si trova nelle condizioni di poter rettamente iniziare o decidere in ordine ad un provvedimento disciplinare. In essa si enuclea la ratio di tutela del dipendente ad essere perseguito da un ufficio provvisto di una specifica competenza tecnica e diverso -per gli illeciti di maggiore gravità -dal superiore diretto. La norma pertanto è preordinata a definire il soggetto titolato a perseguire gli illeciti nello specifico interesse del dipendente e pertanto essa se violata non può dare origine che alla nullità. Autorevole dottrina (21) ha contestato la soluzione della nullità, richia (17) italgiure web. (18) italgiure web. (19) italgiure web. (20) italgiure web. (21) TENorE, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego. Dopo la legge anticorruzione e la riforma madia (L. 7 agosto 2015 n. 124), Giuffrè, 2017, pag. 278, sub nota 3. mandosi ad un orientamento giurisprudenziale nato nel campo del lavoro privato secondo il quale nel rapporto di lavoro alle dipendenze di una persona giuridica l’emanazione di un atto disciplinare da parte di un organo privo al riguardo del potere di rappresentanza non comporta la nullità dell’atto stesso, bensì la sua annullabilità che può essere fatta valere soltanto dallo stesso datore di lavoro che può anche ratificare l’atto ai sensi dell’articolo 1399 (Cass. sez. lav. del 11 giugno 2004 n. 11193 (22) ed in terminis Cass. sez. lav. del 23 settembre 1998 n. 9533 (23)). Le ragioni dell’inapplicabilità di tale orientamento al rapporto di lavoro pubblico privatizzato consistono nel fatto che -diversamente dal rapporto di lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati nel quale l’organizzazione degli uffici dell’ente è priva di giuridica rilevanza, costituendo un mero fatto organizzatorio rimesso alla libera esplicazione del potere datoriale -nel rapporto di lavoro privatizzato la costituzione di un organo a competenza esclusiva è imposta dalla legge per una evidente ragione di tutela del dipendente. Alla fungibilità degli organi dell’impresa che possono procedere al licenziamento (la cui incompetenza rileva solo ai fini della corretta manifestazione di volontà dell’ente che risulterebbe viziata da un vizio affine a quello del contratto concluso dal rappresentante senza potere che diversamente da quello non impedisce l’attribuzione dell’atto alla persona giuridica, che può modificarlo ad opera dell’organo competente, ovvero farlo proprio attraverso la ratifica) corrisponde il carattere legislativamente predeterminato dell’organo che agisce nel pubblico impiego, che non può non ricondursi ad una esigenza di inderogabile tutela del lavoratore. Ancora, in materia di sanatoria della sanzione irrogata dall’organo incompetente in luogo dell’uPd, la medesima dottrina (24) richiama la sentenza della Cassazione sezione lavoro 7 giugno 2016 n. 21032 (25). In essa la sanzione adottata da un membro supplente era stata successivamente ratificata dall’organo competente. L’iter argomentativo della sentenza esordisce col dire che i procedimenti disciplinari contemplati dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55, non costituiscono procedimenti amministrativi essendo condotti dalle pubbliche amministrazioni con i poteri propri del datore di lavoro privato (Cass., 29 marzo 2005, n. 6601), trova applicazione al caso in esame la disciplina dettata dall’art. 1399 c.c. -che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso da soggetto privo del potere di rappresentanza e con specifico riferimento alla perentorietà dei termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare (22) In italgiure web. (23) ibidem. (24) TENorE, ibidem, pag. 285, sub nota 13. (25) In italgiure web afferma che non varrebbe in contrario opporre che tale efficacia retroattiva della ratifica non possa operare, una volta decorsi i termini perentori per la contestazione, anche se osservati mediante l’atto emesso dal falsus procurator. invero, il lavoratore non può considerarsi terzo, del quale, rispetto all’effetto retroattivo della ratifica, sono fatti salvi i diritti a norma dell’art. 1399, secondo comma, c.c., giacché egli non è un avente causa dal dominus di diritti incompatibili con quello su cui è destinata ad incidere la dichiarazione unilaterale datoriale, siccome titolare di una posizione soggettiva costituita con il dominus proprio in virtù del rapporto di lavoro subordinato (cfr.: Cass. n. 1250 del 1985 e n. 2824 del 1990). il lavoratore incolpato non può pertanto pretendere di contrapporre alla ratifica del dominus il verificarsi di preclusioni o decadenze che presuppongono l’inefficacia dell’atto ratificato e che invece devono ritenersi non verificatesi proprio per effetto dell’operatività ex tunc dalla ratifica, per cui l’atto emesso dal soggetto privo del potere rappresentativo è divenuto efficace sin dal suo compimento. La critica a tale indirizzo può svolgersi su due punti fondamentali. Il primo di essi consiste nell’affermazione che l’atto adottato da organo incompetente è nullo e ciò ne impedisce la ratifica ex art. 1399 la quale suppone una quantomeno parziale esistenza giuridica dell’atto. Inoltre il considerare il lavoratore non come un terzo che ha acquisito diritti incompatibili rispetto a quello oggetto della ratifica (cosa che certamente il lavoratore non è) per negargli gli effetti della tutela ad essi riconosciuta, oltre a presupporre nell’atto un vizio diverso dalla nullità, dimentica che il lavoratore è destinatario di un provvedimento che è soggetto a limiti temporali (che certamente riguardano il suo avvio e la sua conclusione) presidiati dalla nullità -in tal caso per espressa disposizione di legge automatica ed insanabile che non possono essere fittiziamente superati dalla retroattività ex tunc della ratifica. Anche se si volesse per mera ipotesi astrarre dalla nullità dell’atto per incompetenza occorrerebbe comunque assimilare la posizione del lavoratore a quello dei terzi tutelati, dal momento che alla posizione di soggezione di costui dinnanzi al diritto potestativo di irrogare una sanzione che fa capo al datore di lavoro sono connaturate alcune forme di protezione consistenti nella perentorietà dei termini per l’avvio e la conclusione del procedimento e l’avvenuto decorso di essi al momento dell’esercizio della ratifica rappresenta un dato immodificabile a suo danno, determinando esso la nullità della sanzione. Prima di esaminare le sentenze che operano un sindacato sulla compromissione del diritto di difesa nel caso specifico è bene citare nuovamente la sentenza della Cassazione civile sezione lavoro 5 febbraio 2004, (ud. 2 dicembre 2003, n. 2168 la quale così individua la ratio dell’istituzione dell’uPd in cui si concentrano …tutte le attribuzioni in materia disciplinare (incisivamente si è accennato di “sua monofunzionalità rispetto al resto dell’apparato amministrativo” ) conservandosi sostanzialmente la peculiarità del “pubblico impiego” tradizionale (cd. terzietà della “commissione di disciplina” su cui, da ultimo, Cass. n. 12684/2000) -che si era fatta preferire per una maggiore garanzia di imparzialità rispetto al settore del “lavoro privato” che cumulava nel datore di lavoro le funzioni di “accusatore”, “istruttore” e “giudice sanzionante la pena privata” -in quanto anche se per l’u.c.p.d. non è possibile più parlare di posizione di “terzietà”, sicuramente la “specializzazione” di tale organo e in special modo il suo distacco rispetto al capo della struttura del dipendente incolpato (cioè, a chi è -sia pure “in posizione attiva” -implicato direttamente nella vicenda disciplinare) tendono significativamente all’“imparzialità” del momento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato. La specializzazione dell’uPd e la conseguente verosimile ed auspicata maggiore preparazione tecnica di esso costituiscono il suo tratto distintivo. Meno condivisibile è la sentenza nella parte in cui individua una sostanziale continuità tra le commissioni disciplinari di cui al dPr 1957 n. 3 e l’odierno uPd dal momento che le prime avevano una composizione corporativa essendo composte da dipendenti appartenenti alla carriera direttiva che manifestavamo in seno ad esse un sostanziale potere decisorio mentre l’odierno titolare dell’uPd è un dirigente che non ha garanzie del proprio status che ne corroborino l’imparzialità a fronte di possibili indebite pressioni cui possa essere sottoposto (quali una predefinita durata del suo incarico che ecceda la consueta durata triennale degli incarichi dirigenziali e la garanzia ove non sia incorso in responsabilità disciplinare o dirigenziale -di essere assegnato alla scadenza ad un incarico almeno equivalente all’ultimo espletato); pure l’imparzialità -che certamente sussiste nel caso in cui l’uPd si attivi su segnalazione del capo dell’ufficio in cui il dipendente lavori o di altri assicurando la separazione soggettiva con l’autore della denuncia -viene meno laddove, come pure è certamente possibile, l’uPd si attivi motu proprio sulla base di una diretta conoscenza del fatto o per averne appreso dai mezzi di informazione (26). Con esclusivo riferimento alle sanzioni disciplinari meno gravi di competenza del capo della struttura cui è addetto il dipendente Cassazione civile sezione lavoro, 31 marzo 2023, n. 9121 (27) ha sostenuto che pur in assenza di tale previsione nell’organigramma dell’ente, l’eventuale applicazione della sanzione da parte non del superiore diretto immediatamente preposto all’ufficio presso cui il dipendente presta servizio, ma di altro dirigente ancora superiore ma pur sempre nella medesima linea gerarchica propria del settore di appartenenza, non comporta alcuna nullità della sanzione irrogata, risol (26) LuCCA, Autosegnalazione del responsabile dell’Ufficio dei procedimenti disciplinari di una condotta disciplinarmente rilevante all’UPD non comporta l’obbligo di astensione per l’assenza del conflitto di interessi in risorse umane nella pubblica amministrazione, 2019, fasc. 2, pagg. 31-40. (27) italgiure web. vendosi nell’intervento di un dirigente comunque di pertinenza del settore presso cui il servizio è prestato, ma in maggiore posizione di terzietà e quindi con una ancora maggior garanzia per il dipendente: in tal caso sulla constatata difformità dell’organo che ha irrogato la sanzione rispetto a quello individuato come competente dalla legge fa premio l’avvenuto rispetto della terzietà mentre non viene in questione il profilo della specializzazione dell’uPd non trattandosi nel caso de quo. un limitato spazio al concorso -non viziante -di altri soggetti nella formazione dell’atto disciplinare è quello di cui si parla nella citata sentenza del 7 giugno 2016 n. 11632 (28). In essa l’uPd di un comune aveva formulato una proposta di licenziamento alla giunta comunale, affinchè essa eventualmente lo condividesse e la giunta, condividendolo, aveva dato mandato al dirigente dell’uPd di procedere alla sua adozione e trasmissione al destinatario. In merito a tale peculiare articolazione concreta del procedimento disciplinare la Cassazione afferma che non ogni interferenza di organi esterni all’UPD è, infatti, giuridicamente rilevante, tale essendo solo quella che abbia determinato decisiva -nel senso di sostitutiva e non meramente additiva -compartecipazione del soggetto estraneo all’adozione del provvedimento, con conseguente inammissibile sostanziale trasferimento della competenza dall’organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente. In quanto le violazioni delle regole procedurali che non si risolvano anche nella violazione delle norme sulla “competenza”, per essere stato in concreto l’intero procedimento disciplinare, in tutte le fasi, gestito in autonomia dall’organo competente e per essere stati tutti gli atti previsti adottati da quest’ultimo, non determinano per ciò solo nullità del procedimento e della sanzione adottata. Solo nell’ipotesi in cui la volontà dell’organo incompetente si manifesti in termini adesivi a quella espressa dall’uPd e cronologicamente successiva ad essa, tale volontà è sostanzialmente irrilevante ai fini della formazione dell’atto (un caso sussumibile in questa fattispecie è quello in cui l’uPd avvii il procedimento con le contestazioni, esperisca le attività istruttorie e l’audizione dell’incolpato, rediga il provvedimento e lo trasmetta al direttore generale della direzione in cui l’incolpato presti servizio, che lo firmi senza apportarvi alcuna modifica e lo trasmetta tempestivamente all’incolpato). Laddove invece un soggetto diverso avvii il procedimento disciplinare con le contestazioni ovvero indichi o suggerisca all’uPd la sanzione irrogabile, l’iniziativa assunta da altro soggetto sostituisce o precede quella dell’uPd e cessa pertanto di essere meramente additiva, assumendo un ruolo integrativo che diviene inscindibile rispetto alla volontà da quest’ultimo espressa. Tale sentenza ratione temporis antecedente alla novella del d.lgs. 75/2017 (28) italgiure web. compie una valutazione dell’effetto che sulla sanzione ha prodotto l’intervento di un organo terzo, palesemente incompetente, riconoscendo che la sanzione era sostanzialmente riconducibile alla determinazione dell’uPd senza procedere all’invalidazione della sanzione per la constatata difformità dalla fattispecie tipica, che riconosce in esso l’unico soggetto competente, come la normativa vigente avrebbe imposto. In termini più generali Cassazione civile sezione lavoro, 15 novembre 2022, n. 33619 (29) ha affermato che per i procedimenti disciplinari instaurati in relazione ad illeciti commessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 75 del 2017, l’erronea individuazione dell’organo interno alla P.A. titolare del potere disciplinare, nonché il mancato rispetto delle regole di costituzione e funzionamento dello stesso, incidono sulla legittimità della sanzione, espulsiva o conservativa, solo quando emerga che l’ufficio non sia terzo e specializzato, con concreta compromissione delle garanzie difensive dell’incolpato, in quanto l’introduzione dei commi 9 bis e 9 ter nell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ha ristretto l’ambito di applicazione della nullità prevista dal primo comma dell’art. 55 del medesimo decreto, sicché il carattere imperativo della disciplina in esame non è più da sola idonea a determinare, ex art. 1418 c.c., la nullità della sanzione. In merito a tale sentenza si deve precisare come la circostanza che iter procedimentale ed irrogazione della sanzione siano stati svolti da un organo diverso dall’uPd fa venir meno in re ipsa il requisito della specializzazione in capo all’ufficio che di fatto ha agito dal momento che tale requisito appartiene per definizione al solo uPd ma che ciò non rileva ai fini della caducazione della sanzione ove non risulti la compromissione del diritto di difesa. Nel prosieguo la sentenza afferma che il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, non può essere confuso con quello di imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare, e postula unicamente la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente…ciò perché quel principio «riflette l’obiettivo di garantire, in relazione alle sanzioni di maggiore gravità, che tutte le fasi del procedimento disciplinare vengano condotte da un soggetto terzo, così da attuare un “sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente autore dell’infrazione” e l’esigenza “di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell’ambito” stesso del- l’ufficio di appartenenza (Cass. n. 20417/2019, fra altre), nel quale potrebbero non sussistere le indispensabili condizioni di serenità e imparzialità nell’esame dei fatti» concludendo che dai richiamati principi non si è discostato il giudice d’appello il quale ha rilevato che il direttore generale non era il superiore ge (29) italgiure web. rarchico diretto … e non aveva lui originariamente rilevato la violazione commessa ed effettuato la relativa segnalazione. Pertanto la Corte ritiene che solo la concentrazione dell’azione disciplinare nelle mani del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora determini in re ipsa, la necessità di accertamenti in punto di fatto sul concreto esercizio dell’azione disciplinare, la violazione della terzietà e la caducazione della sanzione. Ciò sebbene la legge come novellata -nel riferirsi alle disposizioni sul procedimento disciplinare e quindi anche ai profili dell’incompetenza dell’organo -non faccia eccezioni consentendo che a fronte di un’accertata incompetenza si proceda alla verifica dell’effettiva rilevante compromissione del diritto di difesa; nella realtà ben può darsi l’ipotesi che -a dispetto del fatto che sia stato il superiore gerarchico diretto del dipendente a curare l’iter, irrogando la sanzione -non sia stato recato pregiudizio alla difesa del dipendente ad esempio qualora i fatti siano acclarati e la sanzione nei fatti vincolata, (tanto più che in caso di eccessi nel quantum della sanzione il giudice può comunque far ricorso a rideterminare la sanzione rendendola proporzionata ai fatti). Tale ultima sentenza ha avuto un consistente seguito nell’ambito del riparto delle competenze disciplinari tra ufficio in cui presta servizio il dipendente ed uPd operato dal d.lgs. 75/2017 che ha nuovamente riservato al primo l’irrogazione del solo rimprovero verbale in luogo delle sanzioni conservative sino alla sospensione dal servizio per 10 giorni con l’unica espressa eccezione contenuta nell’articolo 55 bis comma 9 quater secondo cui per il personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le istituzioni scolastiche ed educative statali l’irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per dieci giorni è di competenza del responsabile della struttura in possesso di qualifica dirigenziale. Con specifico riferimento al personale docente delle scuole statali (30) infatti la struttura delle sanzioni disciplinari -fatta salva dall’articolo 72 comma 1 lett. b) del d.lgs. 150/2009 -prevede che dopo le sanzioni dell’avvertimento scritto e della censura vi sia quella della sospensione sino a 30 giorni; nel caso in cui il dirigente scolastico avesse irrogato una sanzione sospensiva sino a 10 giorni si è ritenuto che fosse affetta da incompetenza dal momento che essa doveva potersi determinare ex ante ed univocamente sulla base del limite edittale dei trenta giorni e che ogni illecito disciplinare cui fosse astrattamente applicabile la sanzione della sospensione fosse di competenza non del dirigente scolastico ma dell’uPd. Cassazione civile sezione lavoro, 11 luglio 2024, n. 19097 (31) ha previsto che l’attribuzione della competenza al dirigente della struttura cui appar (30) ZIANI, il potere disciplinare nel pubblico impiego e la potestà sanzionatoria dei dirigenti scolastici in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 2021, fasc. 3, pagg. 725-756. (31) italgiure web. tiene il dipendente o all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ai sensi del- l’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, si definisce esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti contestati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare; la misura applicata in violazione delle predette regole di competenza interna è invalida qualora la sanzione sia irrogata dal dirigente e responsabile della struttura in luogo dell’U.P.D., per le minori garanzie di terzietà offerte al lavoratore, stante l’identificazione fra la figura di chi è preposto al dipendente e di chi lo giudica in sede amministrativa. Esattamente in terminis Cassazione sezione lavoro, 23 febbraio 2023, n. 5607, Cassazione civile sezione lavoro, 27 marzo 2023, n. 8656, Cassazione civile sezione lavoro, 20 novembre 2019, n. 30226, Cassazione civile sezione lavoro, 3 ottobre 2019, n. 28111. Alla luce di questo uniforme orientamento giurisprudenziale deve concludersi che, laddove sia il dirigente dell’ufficio cui il dipendente è addetto ad irrogare la sanzione ciò ne determini la caducazione perché in capo a costui mancano tanto la terzietà quando la specializzazione e la conseguente connessa competenza. resta comunque da rilevare come tale interpretazione consideri eo ipso viziata la sanzione irrogata dal capo del dipendente, senza procedere -come è certamente consentito dalla normativa vigente -ad un’analisi della compromissione in concreto delle garanzie del dipendente. Peraltro l’interpretazione giurisprudenziale invalsa porta ad un interpretatio abrogans della norma relativamente al personale docente in quanto per esso la competenza del dirigente scolastico per le sanzioni superiori alla censura non vi sarebbe mai, con la conseguente frustrazione dell’intento del legislatore del d.lgs. 75/2017 che intendeva chiaramente accrescere la competenza disciplinare del dirigente scolastico dettando una disposizione specifica per il personale della scuola (l’art. 55 bis comma 9 quater) mentre procedeva al- l’abrogazione per il resto del pubblico impiego dell’articolo 55 bis, nella parte in cui accresceva la competenza dirigenziale alla sanzione della sospensione sino a 10 giorni, restringendola come era in origine al solo avvertimento scritto. 4. Collegialità ed imparzialità. L’istituzione e l’infungibilità dell’organo ufficio per i procedimenti disciplinari discendono dalla sua specializzazione tecnica, nonchè dalla sua relativa estraneità alla vicenda disciplinare di cui è investito, il cui protagonista sul versante datoriale è rappresentato dal capo della struttura in cui il dipendente lavora. Ciò è evidente nella sentenza della Cassazione del 9 dicembre 2015 n. 24828 (32) ove si legge che deve essere inoltre precisato (32) italgiure web. che, se è vero che il citato art. 55 bis d.lgs. n. 165 del 2001 ha sottratto al responsabile della struttura presso la quale il dipendente presta l’attività lavorativa la competenza per i provvedimenti disciplinari che possono culminare con le sanzioni più gravi ed ha a tal fine imposto alle Amministrazioni pubbliche di creare un ufficio a ciò destinato che sia terzo e imparziale, è anche vero che, come esattamente rilevato nella sentenza impugnata, il Direttore regionale, soggetto apicale al quale afferiscono tutti gli uffici presenti nella Direzione regionale, non può identificarsi nel capo della struttura presso la quale lavora il dipendente sottoposto al procedimento disciplinare. L’identificazione dell’UPD con il Direttore regionale, garantisce, per la posizione di vertice di quest’ultimo, un sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare. Viene così rispettata l’esigenza di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell’ambito dell’ufficio di appartenenza del lavoratore, ossia in un luogo dove lo stesso dirigente dell’ufficio ha un coinvolgimento diretto con l’autore dell’infrazione disciplinare. Ancora, nella sentenza Cassazione n. 1753 del 2017 (33) si legge che è poi da escludere che la sanzione disciplinare possa essere ritenuta illegittima perché inflitta dalla Commissione Amministratrice, della quale faceva parte anche il soggetto che aveva provveduto a denunciare i comportamenti tenuti … in violazione dei doveri di ufficio. il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità del- l’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto. Ne discende che qualora, come nella fattispecie, l’ufficio dei procedimenti disciplinari abbia composizione collegiale e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, non fa venire meno la terzietà dell’organo, nei termini sopra specificati, la sola circostanza che lo stesso sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione. Con specifico riferimento alla costituzione di un uPd monocratico Cassazione19 agosto 2016 n. 17125 (34) precisa che l’individuazione dell’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UPD), in forma monocratica, nella persona del Direttore regionale della Direzione regionale nella quale è compreso l’ufficio (33) Cit. supra. (34) italgiure web. nel quale il dipendente presta servizio è una scelta assolutamente logica e coerente con i principi di buona amministrazione e di garanzia del diritto di difesa in quanto facilita, da un lato, l’espletamento dell’indagine disciplinare, e, dall’altro, il reperimento, anche da parte del lavoratore, degli eventuali elementi finalizzati a discolparsi ed ancora che l’identificazione dell’UPD con il Direttore regionale, garantisce, per la posizione di vertice di quest’ultimo, un sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare. Viene così rispettata l’esigenza di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell’ambito dell’ufficio di appartenenza del lavoratore, ossia in un luogo dove lo stesso dirigente del- l’ufficio ha un coinvolgimento diretto con l’autore dell’infrazione disciplinare, per cui appaiono infondate le allegazioni del ricorrente in punto violazione del principio di terzietà dell’Ufficio disciplinare. Pure nella sentenza del 24 gennaio 2017 numero 1753 sul piano dell’ iter procedimentale da seguire non veniva attribuito rilievo in tema di imparzialità dell’organo alla circostanza che la sanzione disciplinare fosse da considerarsi illegittima perché inflitta dalla Commissione Amministratrice, della quale faceva parte anche il soggetto che aveva provveduto a denunciare i comportamenti tenuti … in violazione dei doveri di ufficio. il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicché lo stesso non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. Venendo alla composizione di tali organi si è già detto che la costituzione di organismi collegiali ovvero monocratici è concretamente rimessa alle libere determinazioni datoriali, ferma restando l’unicità di esso e la concentrazione delle funzioni requirenti e giudicanti (dettaglio questo confermativo della non assimilabilità del procedimento disciplinare ad un microprocesso, completo di tutte le garanzie derivantegli dall’articolo 24 Cost.). In caso di costituzione di uPd plurisoggettivi si è posta la domanda se essi debbano essere considerati come collegi perfetti, che per operare esigono la presenza contemporanea di tutti i componenti ovvero collegi semplici che operano purchè vi sia il quorum strutturale e deliberativo. Interrogata in proposito la Corte di cassazione ha fornito delle risposte. Nella sentenza del 26 aprile 2016 n. 8245 (35) la sezione lavoro della Cassazione precisava che non vi era normativa nazionale ovvero statuizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne imponessero la strutturazione come collegio perfetto e che la variabilità numerica era anche un tratto caratterizzante di alcuni collegi giurisdizionali. L’assenza di una regola generale rendeva (35) italgiure web. necessario alla Corte individuare i tratti distintivi dei collegi perfetti, individuabili attraverso il fatto che si fosse contestualmente proceduto alla nomina dei supplenti (tanto allo scopo di assicurare la continuità dell’organo, anche in caso di assenza di alcuno dei membri titolari) nonché nella composizione con soggetti dotati di professionalità complementari così da rendere ogni figura infungibile rispetto all’altra. Precisava altresì che -anche laddove ci si fosse trovati davanti ad un collegio perfetto -la contestuale presenza di tutti i componenti avrebbe dovuto concernere solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il proprio contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall’intero consesso. Conseguentemente ne ricavava la conseguenza che un adempimento meramente istruttorio -perché di per sé stesso improduttivo di effetti -come l’audizione dell’incolpato poteva essere posto in essere anche da uno solo dei componenti; la Cassazione proseguiva affermando che non trattandosi di collegio perfetto una volta che sia stato regolarmente costituito, può legittimamente deliberare purché il numero dei componenti non scenda al di sotto del quorum, con la conseguenza che esso può funzionare anche con la sola presenza di due, sempre che la legge che ne disciplina il funzionamento non preveda diversamente. Con riferimento alla delegabilità di atti istruttori a soggetti non componenti l’uPd né assegnati ad esso, la di poco precedente Cassazione sezione lavoro del 9 dicembre 2015 n. 24828 (36) aveva analogamente ritenuto come in materia di delega del procedimento ad altro dirigente dell’ufficio, deve osservarsi che, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, tale delega aveva ad oggetto unicamente una specifica attività istruttoria, costituita dall’audizione del dipendente e che era coerente con la natura della delega che, una volta esaurita l’attività delegata, l’esercizio dell’attività disciplinare ritorni al delegante, nella specie il Direttore regionale che pertanto, quale UPD aveva nelle proprie competenze quella di irrogare il provvedimento espulsivo. Nella sentenza 27 settembre 2015 n. 24157 (37) nella quale ci si trovava di fronte ad un organo collegiale pacificamente composto da tre membri si era verificata la condizione che tutto il procedimento disciplinare nei confronti dell’odierno controricorrente è stato avviato, istruito e concluso (con la relazione finale indirizzata al Commissario straordinario) da un solo componente dell’ufficio per i procedimenti disciplinari; la Cassazione afferma che a prescindere dalla natura di collegio perfetto o meno dell’organo procedente in nessun caso un collegio imperfetto può ridursi ad operare attraverso uno solo (36) ibidem. (37) itagiure web. dei propri membri, di fatto venendosi ad equiparare ad un organo monocratico, in violazione dell’ordinamento interno del Consorzio ricorrente che prevede pur sempre un organo collegiale per i procedimenti disciplinari, facendone discendere la nullità della sanzione irrogata. Anche la sentenza della cassazione sezione lavoro del 16 aprile 2018 n. 9314 (38) -nella quale l’irrogazione della sanzione era avvenuta da parte di un uPd che non operava nel suo plenum -esclude sul punto la nullità della sanzione. La sentenza perviene a determinare la natura di collegio imperfetto dell’uPd dell’ente che era composto di 4 componenti, fra cui il presidente. Le ragioni per individuare in esso un collegio imperfetto vengono fatte consistere nella circostanza che al voto del presidente non fosse attribuita maggior rilevanza in caso di parità numerica nella decisione (il che era indice del fatto che l’ente ben poteva operare e decidere con tre membri) nonchè nella circostanza che mancando il presidente non si perveniva alla sua sostituzione, ma uno dei membri ne assumeva le veci, il che significava che in tali circostanze il collegio era -secondo le sue stesse previsioni imperfetto in quanto funzionante con tre soli membri in luogo dei quattro che lo costituivano. Nella sentenza della Cassazione sezione lavoro del 27 giugno 2019 numero 17357 (39) è interessante notare che a fronte di un uPd collegiale vi fosse stata l’adozione dell’atto di contestazione degli addebiti ad opera del solo presidente; a fronte di ciò la Corte nell’affermare che il plenum di un collegio perfetto opera soltanto nella fase decisoria e valutativa ascriveva l’adozione della contestazione degli addebiti ad opera di un solo componente agli atti meramente istruttori, affermando che essa non ha natura decisoria né è espressione di un potere discrezionale, in quanto nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, a differenza dell’impiego privato, l’iniziativa disciplinare è doverosa. deve al contrario ritenersi che la contestazione degli addebiti -in quanto atto che avvia formalmente il provvedimento disciplinare determinandone il necessario svolgimento sino all’epilogo (il cui esito è alternativamente l’irrogazione della sanzione ovvero l’archiviazione) e la cui tardiva adozione comporta la decadenza dall’adozione del provvedimento o la nullità dello stesso se adottato -abbia contenuto decisorio in quanto la sua adozione implica che si sia formata la convinzione sull’esistenza di un illecito disciplinare ed esiga una determinazione volitiva comune e quindi se non sanata con la tempestiva adozione di un atto collegiale o di ratifica dell’operato di un singolo componente -debba comportare la nullità della sanzione irrogata, dal momento che è un solo componente a decidere l’avvio del procedimento con violazione della collegialità; né la successiva adozione collegiale di un provvedimento con (38) italgiure web. (39) ibidem. forme alla contestazione adottata varrebbe a sanare il vulnus inferto alla collegialità perché non potrebbe sanare l’avvenuto decorso del termine perentorio per la contestazione. Al contrario la decisione della Corte è diversa dal momento che attrae nell’ambito della nullità per violazione di norme imperative sulla competenza solo le fattispecie in cui vi sia l’intervento decisivo di altro organo, ma non la violazione delle regole interne di funzionamento dell’uPd laddove sia questo e non altro organo ad intervenire. Testualmente la sentenza recita: occorre distinguere le regole legali sulla competenza da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, perché il d.lgs. n. 165/2001 «non attribuisce natura imperativa “riflessa” al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’UPD». Ciò perché l’interpretazione del- l’art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti, tenendo, però, in considerazione i principi di cui agli artt. 54, 97 e 98 Cost. La costituzione di un uPd come ufficio non dirigenziale ed il conseguente necessario affidamento ad un non dirigente costituiscono soluzione obbligata nei comuni privi di figure dirigenziali. L’articolo 109 comma 2 del d.lgs. 267/2000 decreto legislativo18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali dispone che nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all’articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l’applicazione dell’articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione. Tale eventualità anche laddove non sia imposta dalla carenza di figure dirigenziali trova riscontro nella sentenza della Cassazione sezione lavoro del 3 giugno 2004 numero 10600 (40) nella quale si rigetta l’argomentazione che riteneva l’uPd non legittimamente costituito per la presenza di due funzionari con qualifica inferiore a quella degli incolpati non essendo previsto da alcuna norma che di esso dovessero far parte soggetti aventi pari grado degli incolpati, né si trattava di requisito idoneo ad assicurare l’imparzialità dell’organo disciplinare (principio attinente all’amministrazione attiva e volto ad assicurare il pari comportamento di fronte a tutti i cittadini nella gestione del bene pubblico), mentre in sede disciplinare la garanzia di imparzialità è assicurata dall’affidamento della decisione sanzionatoria a un organismo diverso dal (40) ibidem. l’ente datore di lavoro, e tale è l’U.P.D., struttura autonoma precostituita presso la provincia. In realtà la violazione delle norme interne di costituzione dell’organo va valutata -nella sua portata invalidante -nella concreta incidenza esplicata sulle esigenze di tutela. Nella sentenza di Cassazione sezione lavoro del 25 ottobre 2017 n. 25379 (41) il lavoratore si doleva della non regolare costituzione dell’uPd rispetto alla previsione delle norme organizzative che ne avevano determinato la struttura dal momento che, a fronte di una previsione di un organo collegiale interamente composto da personale munito di laurea in materie giuridiche un componente tale requisito non possedeva essendo laureato in economia e commercio. La Cassazione respinge la censura osservando che la mancanza di uno dei requisiti richiesti per la nomina, riferito alla laurea in discipline giuridiche da parte di uno solo dei componenti dell’ufficio, non poteva risolversi in un vizio della costituzione dell’organo collegiale, in quanto il possesso del titolo di studio da parte degli altri componenti garantiva che l’organo collegiale agisse sulla base di quelle conoscenze giuridiche la cui rilevanza era stata rimarcata dall’appellante. Tale ultima decisione, seppur succintamente motivata, è corretta perché la sanzione risulta dagli atti di causa irrogata dall’intero collegio e pertanto la prova di resistenza -ossia la verifica del se, senza la partecipazione al voto del soggetto privo dei requisiti, si sarebbe comunque formata una maggioranza -dà esito positivo; comunque dal solo mancato possesso dei requisiti di qualificazione richiesti dalle disposizioni interne per far parte dell’uPd non potrebbe farsi discendere la rilevante compromissione del diritto di difesa richiesta per gli illeciti commessi prima del- l’entrata in vigore del d.lgs. 75 del 2017. Con riferimento da ultimo alla delegabilità di atti istruttori a soggetti non componenti l’uPd né assegnati ad esso, Cassazione sezione lavoro del 9 dicembre 2015 n. 24828 (42) ha ritenuto come in materia di delega del procedimento ad altro dirigente dell’ufficio, deve osservarsi che, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, tale delega aveva ad oggetto unicamente una specifica attività istruttoria, costituita dall’audizione del dipendente e che era coerente con la natura della delega che, una volta esaurita l’attività delegata, l’esercizio dell’attività disciplinare ritorni al delegante, nella specie il Direttore regionale che pertanto, quale UPD aveva nelle proprie competenze quella di irrogare il provvedimento espulsivo. Conclusivamente deve ritenersi che laddove l’uPd venga costituito in forma collegiale l’invalidità della sanzione si produca laddove esso abbia nei fatti operato come organo monocratico ovvero con un numero di componenti inferiore al proprio quorum strutturale (ad esempio 2 in luogo dei 5 in ipotesi (41) ibidem. (42) ibidem. previsti dalle norme istitutive), perché in questi casi viene meno la collegialità ovvero essa è irreversibilmente alterata con un’ovvia ripercussione sulla difesa del dipendente incolpato, dal momento che è evidente che la deliberazione avrebbe potuto assumere un diverso e più favorevole esito attraverso le dinamiche intrinseche alla collegialità, senza che per il mancato coinvolgimento degli altri membri possa procedersi alla cosiddetta prova di resistenza, accertandosi che se anche gli altri componenti si fossero pronunciati in favore del dipendente la sanzione sarebbe comunque stata adottata a maggioranza (43). (43) BENVISTo, Funzionamento degli organi collegiali in Enti pubblici, 2004, fasc. 1, pagg. 22 24. operazioni sotto copertura nuovi possibili orizzonti Giuseppe Coccia* Sin da tempi remoti, alcune figure -quali gli “indices” ed i “delatores”creavano le condizioni idonee per porre in essere denunce all’Autorità o istigavano altri alla commissione di reati, da cui si dissociavano, per trarne benefici personali. A questi soggetti si fa risalire la genesi della figura dell’operatore sotto copertura e dell’agente provocatore, figure apparentemente simili ma connotate da profonde dissomiglianze di natura sostanziale, specie per la tutela dell’indagato. Partendo dall’analisi delle origini dell’istituto giuridico, il lavoro si prefigge di effettuare una ricostruzione storica dello stesso e dell’evoluzione normativa connessa, al fine di permetterne un inquadramento complessivo, anche con riferimento alla normativa anglosassone; procede successivamente all’analisi dei possibili nuovi orizzonti per le operazioni undercover, con particolare riferimento al contrasto dei reati a pregiudizio della Pubblica Amministrazione. SOmmAriO: 1. Premessa -2. inquadramento storico della figura -3. L’estensione delle operazioni sotto copertura e la Legge Spazzacorrotti del 9 gennaio 2019 n. 3 -Bibliografia, sitografia et al. di riferimento. 1. Premessa. Messico -u.S.A, 1985: 7 febbraio del 1985, “Kiki” Camarena, agente della d.E.A. -agenzia u.S.A. preposta al contrasto dei traffici di stupefacenti -veniva rapito e dopo indicibili sevizie e torture, brutalmente assassinato per mano dei capi dei cartelli della droga messicani. L’agente speciale durante la sua attività sotto copertura, svolta in gran parte in Messico quale impiegato dell’ambasciata statunitense, aveva permesso alla d.E.A. di sferrare colpi pesantissimi alle organizzazioni criminali presenti -spesso in guerra tra loro nei martoriati territori messicani. Camarena aveva intuito che le associazioni malavitose prosperavano nel Paese sudamericano a causa della dilagante corruzione (1), presente in tutti gli strati della società messicana; tra i ceti inferiori era diffusa la prassi del clientelismo mentre tra le classi sociali più agiate erano (*) ufficiale della Guardia di Finanza, attualmente in forza al Comando Generale della Guardia di Finanza; cultore in materia di antiriciclaggio e contrasto al finanziamento del terrorismo, della lotta alle forme di criminalità organizzata e studioso/conoscitore delle sempre più strette relazioni -a volte identificazione totale -tra colletti bianchi e criminalità organizzata; cultore delle tecniche di ingegneria sociale e forme di contrasto alla stessa. (1) https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. spesso presenti tracce di compromissione con i cartelli della droga. Politica, imprenditoria, apparati statali e polizia messicana erano intrecciati in un intricato - e apparentemente indistricabile - groviglio di legami e commistioni. * Italia, 2012: lo chiamavano “Geppo” (2) ed alla sua morte, i colleghi del GICo della Guardia di Finanza ed i magistrati con cui aveva lavorato per più di dieci anni, hanno voluto ricordare la figura del maresciallo Fabio Pedrotti, straordinario agente sotto copertura; alcune delle sue operazioni di infiltrazione hanno fatto scuola e sono ormai citate nei testi destinati ad addestrare gli agenti operativi di tutta Europa. Con lui, grazie al suo coraggio ed alla sua perizia, la Procura di Trieste ha potuto risolvere decine di operazioni antidroga all’estero e in Italia. Nel 2002, per citarne una, aveva partecipato ad un’operazione riuscendo a intercettare 25 chili di eroina prelevati in Macedonia e ad arrestare i destinatari in Italia. Fabio Pedrotti era riuscito a infiltrarsi, assieme ad una poliziotta slovena, nell’organizzazione; aveva vissuto con i trafficanti per una settimana, ne aveva conquistato la fiducia tanto da riuscire a farsi affidare il trasporto, con un camper, della droga attraverso cinque Paesi -scortato da una staffetta dell’organizzazione malavitosa. Era entrato in Italia ed aveva proseguito fino a Firenze, meta finale del traffico. di operazioni come queste, “Geppo” ne aveva portate a termine decine, in Italia, nei Balcani e nei Paesi sudamericani. * Italia, 2022: Il Nucleo PEF Guardia di Finanza di Trieste, ha inferto un duro colpo al gruppo criminale colombiano “Clan del Golfo”, operante in più regioni d’Italia. Le evidenze probatorie sono state raccolte anche attraverso l’accorto impiego di agenti “sotto copertura”, che si sono infiltrati nell’organizzazione, simulando di gestire la parte logistica necessaria a permettere i traffici. La raccolta delle prove è stata resa possibile attraverso ben 19 “consegne controllate”, fra maggio 2021 e maggio 2022, grazie alle quali sono stati individuati importanti mediatori nel sistema del narcotraffico mondiale ed un cospicuo numero di vettori che operavano sia in territorio nazionale che estero. Sono stati 4.300 i kg di cocaina sottoposta a sequestro (uno dei più grandi mai avvenuti in Europa) (3), che avrebbe permesso guadagni da capogiro una volta sul mercato al dettaglio. Il breve riferimento a persone, territori e tempi storici recenti diversi permette di comprendere l’importanza degli interventi realizzati attraverso la figura dell’agente sotto copertura, specie negli ultimi decenni ed in modo (2) https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2012/05/01/news/finanziere-morto-era-un-agentesotto- copertura-1.4448520. (3) https://www.ilgazzettino.it/nordest/trieste/operazione_guardia_finanza_sequestro_cocaina_colombia_ narcotraffico_arresti-6737999.html?refresh_ce. particolare in riferimento alle operazioni antidroga, anche se, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, l’istituto giuridico in argomento può essere efficacemente utilizzato per realizzare un proficuo contrasto di altri reati, da quelli più odiosi nei confronti della persona umana -quali quelli connessi alla pedofilia ed allo sfruttamento della prostituzione ad esempio -a quelli tipicamente finanziari -quali il riciclaggio ed il finanziamento al terrorismo, specie quello di natura islamica (4) -passando per molteplici altre ipotesi delittuose. 2. inquadramento storico della figura. La figura giuridica dell’agente provocatore ha origini antiche. Secondo la dottrina tedesca è agente provocatore colui che determina altri a commettere un reato allo scopo di far sorprendere il “provocato” in stato di flagranza, di creare le condizioni per denunciarlo all’autorità oppure istiga qualcuno a commettere un delitto per vendetta, per avere profitto dalla punizione del soggetto determinato (5). Possiamo affermare, quasi con certezza, come tale figura possa, di fatto, essere originata dall’antica figura degli indices e dei delatores (6) presenti nell’antica roma. Tali soggetti, nel primo caso si dissociavano da un crimine che avevano contribuito a preparare e lo denunciavano, i secondi invece, non avendo fornito alcun apporto causale ad un’attività criminale, ne segnalavano i promotori alle autorità. Entrambe le figure ricevevano in cambio benefici (7). Tale “attività”, si è evoluta ed oggi constatiamo tre diversi metodologie di approccio, che porta all’enucleazione di tre differenti profili di agente provocatore e quindi la finta vittima, il finto acquirente e l’infiltrato; tutte accomunate dalla finalità di cogliere l’autore del delitto per cui si opera in flagranza di reato (8). Approfondiremo la figura dell’infiltrato. L’operatore di polizia che intervenga quale infiltrato ha lo scopo di insinuarsi in un’organizzazione criminale al fine di carpirne, in virtù della sua posizione di “spettatore favorito”, la sua struttura, la composizione soggettiva e gli scopi delittuosi che i compartecipi si prefiggono di conseguire. In campo operativo e per le esigenze connesse ad assicurare le scriminanti previste dalla vigente normativa penale assume particolare rilievo la netta di (4) G. CoCCIA, il finanziamento al sedicente Stato islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in rass. Avv. Stato, 2020, III, pp. 171-189. (5) C. dE MAGLIE, L’agente provocatore. Un’indagine dommatica e politico-criminale, Giuffrè, Milano, 1991. (6) 49° Corso Superiore di Polizia Economico-Finanziaria -Ten. Col. Giuseppe di Noi, Ten. Col. Girolamo Franchetti. (7) M.F. PETrACCIA, indices e Delatores nell’antica roma, Edizioni universitarie di Lettere, Economia, diritto, Milano, 2014. (8) F.C. PALAZZo, Corso di diritto penale: parte generale, Giappichelli, Torino, 2021. stinzione tra la figura dell’agente provocatore e quella dell’infiltrato, ove è massima l’esperienza del Corpo. Nel fondare, infatti, l’affermazione di penale responsabilità degli imputati in relazione ai delitti di associazione mafiosa e commercio di materiali esplodenti -sulla scorta delle evidenze acquisite da un appartenente alla Guardia di Finanza che si era infiltrato nel gruppo criminale -i Giudici (9) della Massima Autorità Giudiziaria affermavano, già nel 2008, la piena utilizzabilità di tali fonti di prova e la correlata liceità della condotta dell’agente, motivando come, in concreto, tale attività sotto copertura si era sostanziata nel mero controllo, osservazione e contenimento dell’azione illecita; fondamentalmente le attività in cui si sostanzia la condotta pratica dell’operatore di polizia infiltrato. Per converso, l’agente provocatore “è colui che, pur trovandosi nelle stesse condizioni dell’infiltrato, a differenza del primo pone in essere una condotta attiva, ossia di induzione, ideazione ed esecuzione di uno o più fatti penalmente illeciti che, senza il suo intervento determinante, non si sarebbero mai verificati nella realità ontologica” (10). Nel caso in cui la Corte Edu accerti che l’operazione sotto copertura sia sfociata in attività provocatoria (nel c.d. entrapment -intrappolamento -che ha portato poi alla commissione del reato), la Corte dichiara violato l’art. 6 CEdu sul diritto ad un equo processo ed inutilizzabili le prove ottenute attraverso la provocazione (11). La maggior parte dei casi giunti all’esame della Corte Edu riguarda il traffico di stupefacenti e proprio a tal proposito, la Corte ha dato un forte impulso a scindere nettamente le figure dell’agente sotto copertura e l’agente provocatore. 3. L’estensione delle operazioni sotto copertura e la Legge Spazzacorrotti del 9 gennaio 2019 n. 3. Le operazioni sotto copertura sono largamente utilizzate oltreoceano anche nel contrasto dei reati perpetrati ai danni della Pubblica Amministrazione. La Corte Suprema degli u.S.A. non ha espresso pareri in riferimento ma la giurisprudenza delle corti minori ha generalmente avvallato gli “integrity tests” (12) posti in essere dalla polizia e dalle agenzie governativi americane, (9) Corte di Cassazione, II Sezione penale, Sentenza 28 maggio 2008, n. 38488. (10) 49° Corso Superiore di Polizia Economico-Finanziaria -Ten. Col. Giuseppe di Noi, Ten. Col. Girolamo Franchetti. (11) https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura- ai-delitti-contro-la-pubblica-amministrazione-dalla-gi. (12) difesa del senatore Williams sulla presunta cospirazione anti-Kennedy (United States v. Williams); vd. P.M. VErroNE, The Abscam investigation: Use and Abuse of Entrapment and Due Process Defenses, in 25 B.C.L. rev., 1984, p. 351, 377: «Although the Williams court held that the accusations had no basis in reality, the possibility exists that an ABSCAM-type investigation could be focused upon a particular individual for reasons unrelated to the detection of criminal activity. Thus, the ramifications relate not only to personal vendettas but even to the balance of power between the branches of the federal government [note 325: The FBI, as an arm of the executive branch, could potentially rout the legislative permettendo quindi il ricorso dell’istituto giuridico de quo, specie nei confronti dei c.d. “colletti bianchi” (in riferimento abstract di altro studio) (13). Il presupposto da cui muovono gli ordinamenti europei è opposto rispetto a quello del sistema giudiziario d’oltreoceano: le forze dell’ordine devono avere poteri limitati e stabiliti dalla legge e l’uso di tali poteri deve essere subordinato ad un costante controllo del giudice, allo scopo di garantire il rispetto della democrazia ed evitare eventuali abusi. In Italia l’art. 9 della legge 146/2006 disciplina la materia e prevede una causa di giustificazione per l’agente che svolga l’attività sotto copertura, purché l’operazione rispetti i requisiti indicati dalla prescrizione. La norma in titolo, la c.d. Legge Spazzacorrotti, recante “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione ... e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” si prefigge lo scopo di “potenziare l’attività di prevenzione, accertamento e repressione dei reati contro la Pubblica Amministrazione” (14)(15). La novella legislativa estende l’uso di uno strumento di indagine -precedentemente quasi completamente riservato ad acclarare reati tipicamente legati alla criminalità organizzata (16) ed allo sfruttamento sessuale dei minori (17) -che diventa pienamente utilizzabile per accertare i delitti contro la P.A. L’ampliamento del campo di intervento dell’istituto giuridico in rassegna branch by offering unwary Congressmen huge bribes in large numbers. Even if they did not accept, the resulting scandal would undoubtedly rock the government]». https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-ai delitti-contro-la-. (13) https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. (14) http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. (15) https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura- ai-delitti-contro-la-pubblica-amministrazione-dalla-gi. (16) In particolare, le operazioni sotto copertura di cui all’art. 9 possono essere disposte per l’accertamento dei delitti commessi con finalità di terrorismo o eversione; della falsificazione (453 c.p.) e dell’alterazione (454 c.p.) di monete; della spendita e introduzione nello Stato di monete falsificate (455 c.p.); della contraffazione (460 c.p.) e della fabbricazione o detenzione (461 c.p.) di filigrane; della contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (473 c.p.); dell’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (474 c.p.); dell’estorsione (629 c.p.); del sequestro di persona a scopo di estorsione (630 c.p.); dell’usura (644 c.p.); del riciclaggio (648bis); dell’impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (648-ter); dei delitti sessuali e per la tutela dei minori (libro II, titolo XII, capo III, sezione I, c.p.); dei delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi; dei delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter del Tu immigrazione (d.lgs. 286/1998); dei delitti previsti dal t.u. stup. (d.P.r. 309/1990); dei delitti di favoreggiamento e induzione alla prostituzione (art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75). (17) L’art. 14 l. 269/1998 disciplina le operazioni sotto copertura disposte al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di prostituzione minorile (art. 600-bis c.p., primo comma), pornografia minorile (art. 600-ter c.p., primo, secondo e terzo comma; è escluso il quarto comma [3]), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (il c.d. turismo sessuale minorile, art. 600quinquies c.p.). La procedura delineata per l’espletamento di tali operazioni è simile nella struttura all’art. 9, ma con alcune differenze, tra le quali spicca il requisito dell’autorizzazione giudiziaria, in luogo della comunicazione al p.m. trova terreno fertile nel fatto che i delitti contro la P.A. sono caratterizzati dal- l’essere particolarmente gravi, diffusi nella quotidianità e di non essere facilmente accertabili (18). La natura intrinsecamente concorsuale di tali reati ne rende rara la denuncia, l’emersione e la repressione. È, tuttavia, palese il rischio che le operazioni sotto copertura, svolte a tutela delle Pubbliche Amministrazioni, possano trasformarsi -o venire alla luce -quali attività provocatorie; pericolo già in essere nelle attività di contrasto alla criminalità organizzata. i fenomeni corruttivi si consumano, infatti, in un contesto in cui tutte le persone che vi partecipano hanno «posizioni apparentemente irreprensibili; bisogna gradualmente svelarsi e far sì che l’interlocutore faccia altrettanto; è una serie d’abboccamenti, un gioco d’allusioni, nel quale può risultare difficile capire chi proponga e chi accetti, chi lanci l’esca e chi la morda» (19). I sospetti, infatti, nei confronti del corrotto o del corruttore -criteri che la Corte E.d.u. considera tra i fondamentali al fine di accertare l’eventuale attività provocatoria -sono particolarmente complessi da verificare, dato il contesto di riferimento molto burocratizzato, particolarmente disciplinato e caratterizzato da un’apparente situazione di costante rispetto delle regole del gioco. A tali argomentazioni si aggiunga, inoltre, che il contesto operativo di riferimento vede con una certa frequenza l’iterazione tra politici e pubblici amministratori, spesso di spessore, e quindi non è da sottacere la possibilità remota, a parere dello scrivente, attesa la professionalità degli operatori di polizia italiani ed in particolare dal Corpo, in prima linea nel settore -che le indagini possano essere oggetto di strumentalizzazione. ricordiamo, ancora, che nel caso di simulato acquisto di stupefacenti la normativa di riferimento è l’art. 73 d.P.r. n. 309/1990 che prevede il perfezionamento del reato non solo ove vi sia la cessione di sostanze psicotrope, ma anche semplicemente nella detenzione della sostanza ai fini di spaccio. L’analisi delle sentenze di condanna, a seguito di attività sotto copertura, permette di evincere che le stesse sanzionano principalmente condotte connesse alla detenzione di sostanza. Nel caso di attività delittuose perpetrate a pregiudizio della pubblica amministrazione, non è possibile rinvenire, a similitudine di quanto detto per la casistica inerente ai reati connessi agli stupefacenti, un antefatto analogo e paragonabile alla semplice detenzione per il successivo spaccio. diventa, dunque, difficile capire se il soggetto indagato avrebbe commesso comunque la condotta in caso di mancato intervento dell’operatore sotto (18) http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. (19) A. CAMoN, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Arch. Pen., 2018, n. 3, p. 1; https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delleoperazioni- sotto-copertura-ai-delitti-contro-la-. copertura. La “corruttibilità”, non è infatti tangibile, non si può fisicamente riscontrare nelle disponibilità materiali di un soggetto -come può avvenire con le droghe -confermando quindi una condotta, di per sé già delittuosa, antecedente. La partecipazione corruttiva potrebbe innescarsi, nell’animo della persona indagata, solo successivamente all’eventuale approccio dell’operatore di polizia. Sostanzialmente il legislatore, in merito alle fattispecie permesse all’infiltrato che si finge funzionario pubblico corrotto, è stato generico, pensiamo alla condotta di ricevere denaro per commettere un reato, il comportamento potrebbe essere effettivamente autonomamente realizzato dall’agente e non si comprende perché -come vedremo invece per il simulato privato corruttore -nella norma non siano previste misure di contenimento, ad esempio citando l’accordo già concluso con altri soggetti. Considerando che l’ampiezza e la vaghezza del testo normativo ricomprende anche le condotte “prodromiche e strumentali” appare ben chiaro il punto di vista della dottrina, preoccupata di veder la scriminante applicabile a tutte le attività realizzate dall’agente in operazione. Nel caso del simulato privato corruttore, come sopra accennato, il dettato normativo ha preordinato condotte ben delineate, ad esempio la corresponsione di utilità «in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri», o la promessa o dazione di utilità «richiesti» o «sollecitati» da terzi, idonee a circoscrivere fattispecie ben definite e nettamente distinte rispetto alle ipotetiche condotte riconducibili a forme di istigazione. dovendo essere critici e obiettivi vi sono contesti in Italia ove la corruzione ed il clientelismo sono diffusi a diversi livelli, ove il pagamento di tangente viene vissuto quasi alla stregua di “contribuzione dovuta” alla Pubblica Amministrazione. Questa lettura parrebbe quasi voler punire i cittadini per essere accondiscendenti e abituati ormai ai comportamenti abusivi nella gestione del potere discrezionale proprio della Pubblica Amministrazione; infatti tale normativa è virtualmente applicabile anche alla “microcorruzione” quotidiana che il privato incontra nella sua vita, non solo quindi alle realtà di ampio respiro, che calcolano le tangenti quali “costi necessari”, da spalmare successivamente sui prezzi finali dei beni e servizi prodotti, al momento della loro rivendita al pubblico. La norma garantisce comunque, attraverso il dettato dell’art. 9, che le attività in incognito si vadano ad impiantare all’interno di un percorso criminale già autonomamente avviato, il fatto, ancora, che dette operazioni debbano essere disposte dagli organi di vertice delle Forze dell’ordine, autorizzate dal P.M., e concretamente realizzate da ufficiali di P.G. appartenenti a Strutture Specializzate fa ritenere poco plausibile l’“impianto” di un reato da parte del- l’agente sotto copertura. Il requisito ulteriore, secondo cui le operazioni sotto copertura debbano essere disposte “al solo fine di acquisire elementi di prova” in ordine ai reati specificamente rubricati eleva l’istituto a mezzo ideale di ricerca della prova in esito a certe tipologie di reato particolarmente gravi e complesse da accertare (20). Le operazioni sotto copertura non potrebbero, dunque, essere utilizzate a fini meramente preventivi e dovrebbero svolgersi soltanto successivamente all’acquisizione di una notitia criminis, nell’ambito di un procedimento penale già instaurato (21). La stessa Corte Edu ritiene che uno dei criteri per stabilire se un’operazione sotto copertura abbia avuto risvolti provocatori o meno è la verifica circa la sussistenza di fondati sospetti precedenti all’operazione, nonché il controllo da parte dell’autorità giudiziaria (22). Alla luce delle considerazioni enunciate non appare tuttavia pacifico che quanto disciplinato dalla legge “Spazzacorrotti” non ingeneri il rischio, almeno potenziale, di condotte provocatorie da parte delle Forze di Polizia. I lavori della relazione illustrativa alla norma, volti a sgombrare il campo dal pericolo che si possa cadere nella provocazione sembra non siano riusciti nell’intento. L’esperienza sul campo ha dimostrato come nonostante le condanne possibili nei confronti dell’agente provocatore, nell’ordinamento italiano non sono previste precetti che prevedano espressamente la non punibilità dei soggetti provocati da operatore sotto copertura. A livello unionale la CEdu ritiene violato l’art. 6 in caso di condanna per reato che non si sarebbe compiuto senza provocazione. L’evoluzione delle operazioni sotto copertura ai reati contro la pubblica amministrazione, settore molto particolare attese le specificità del contesto operativo, moltiplica le criticità ed i rischi. Mancando disposizioni legislative di riferimento specifiche, parte della dottrina propone l’introduzione di garanzie più efficaci, che potrebbero ritrovarsi in una ipotetica “causa di esclusione della punibilità per reo provocato” oppure nel “divieto probatorio per il mancato rispetto dei parametri stabiliti dalla legge”. (20) L. PAoLoNI, La controversa linea di confine tra attività sotto copertura e provocazione poliziesca. Spunti dalla giurisprudenza della Corte Edu, in Cass. Pen., 2016, fasc. 5, p. 1899, par. 2. (21) Vd. Circolare della direzione per i servizi antidroga del 5 settembre 1995; in dottrina C. TAorMINA, Polizia giudiziaria e operazioni “sotto copertura”, in riv. Pen., 2015, fasc. 11, p. 923; P. MoroSINI, Dall’acquisto simulato di droga all’attività sotto copertura. Questioni sostanziali e processuali, in Trattato manzini, AA.VV., Torino, 2009; L. PISTorELLI, intercettazioni preventive ad ampio raggio ma inutilizzabili nel procedimento penale, in Guida dir., 2001, 42, p. 89; contra P. duBoLINo -C. du- BoLINo, Codice delle leggi penali speciali, Commento ad art. 9, l. 16 marzo 2006, n. 146, La Tribuna, 2014, p. 768: «Speciali tecniche di investigazione preventiva [che] possono anche prescindere dall’esistenza di indagini preliminari relative ad uno specifico fatto...». La stessa giurisprudenza sembra consentire l’utilizzo dello strumento a fini preventivi, vd. Cass., sez. II, 28 maggio 2008, n. 38488: «In tutte le ipotesi legislative di attività sotto copertura si prescinde dal- l’esistenza di un procedimento penale o di indagini preliminari su uno specifico fatto di reato, trattandosi di attività investigative a carattere preventivi». (22) https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sottocopertura- ai-delitti-contro-la-. In carenza di disciplina specifica l’ideale sarebbe, come auspicato dalla dottrina, un approccio cauto e teso ad evitare che le operazioni sotto copertura in campo anticorruzione possano diventare mezzi di strumentalizzazione politica o, ancora, integrity Test. Per quanto riguarda le Forze di Polizia sarà fondamentale, in attesa di nuovi sviluppi normativi orientare gli agenti ad un’attività principalmente “inattiva”, non inerte si badi, all’unico scopo di garantire al Giudice la più efficace ricerca probatoria nell’ambito di indagini autorizzate, indirizzate e costantemente monitorate dall’Autorità Giudiziaria. Ciò a tutela di tutti gli attori coinvolti, anche del soggetto indagato. Bibliografia, sitografia et al. di riferimento https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2012/05/01/news/finanziere-morto-era-un-agente-sottocopertura- 1.4448520. https://www.ilgazzettino.it/nordest/trieste/operazione_guardia_finanza_sequestro_cocaina_colombia_na rcotraffico_arresti-6737999.html?refresh_ce. G. CoCCIA, il finanziamento al sedicente Stato islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in rass. Avv. Stato, 2020, III, pp. 171189. C. dE MAGLIE, L’agente provocatore. Un’indagine dommatica e politico-criminale, Giuffrè, Milano, 1991. 49° Corso Superiore di Polizia Economico-Finanziaria -Ten. Col. Giuseppe di Noi, Ten. Col. Girolamo Franchetti. M.F. PETrACCIA, indices e Delatores nell’antica roma, Edizioni universitarie di Lettere, Economia, diritto, Milano, 2014. F.C. PALAZZo, Corso di diritto penale: parte generale, Giappichelli, Torino, 2021. Corte di Cassazione, II Sezione penale, Sentenza 28 maggio 2008, n. 38488. https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti- contro-la- pubblica-amministrazione-dalla-gi. difesa del senatore Williams sulla presunta cospirazione anti-Kennedy (United States v. Williams); vd. P.M. VErroNE, The Abscam investigation: Use and Abuse of Entrapment and Due Process Defenses, in 25 B.C.L. rev., 1984, p. 351, 377: «Although the Williams court held that the accusations had no basis in reality, the possibility exists that an ABSCAM-type investigation could be focused upon a particular individual for reasons unrelated to the detection of criminal activity. Thus, the ramifications relate not only to personal vendettas but even to the balance of power between the branches of the federal government [note 325: The FBI, as an arm of the executive branch, could potentially rout the legislative branch by offering unwary Congressmen huge bribes in large numbers. Even if they did not accept, the resulting scandal would undoubtedly rock the government]». https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti- contro-la-. https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/09/26/2275/. http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti- contro-la- pubblica-amministrazione-dalla-gi. Legge 16 marzo 2006, n. 146 -ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001. Esegesi articolo 9 e seguenti. In particolare, le operazioni sotto copertura di cui all’art. 9 possono essere disposte per l’accertamento dei delitti commessi con finalità di terrorismo o eversione; della falsificazione (453 c.p.) e dell’alterazione (454 c.p.) di monete; della spendita e introduzione nello Stato di monete falsificate (455 c.p.); della contraffazione (460 c.p.) e della fabbricazione o detenzione (461 c.p.) di filigrane; della contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (473 c.p.); dell’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (474 c.p.); dell’estorsione (629 c.p.); del sequestro di persona a scopo di estorsione (630 c.p.); dell’usura (644 c.p.); del riciclaggio (648-bis); dell’impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (648-ter); dei delitti sessuali e per la tutela dei minori (libro II, titolo XII, capo III, sezione I, c.p.); dei delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi; dei delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter del Tu immigrazione (d.lgs. 286/1998); dei delitti previsti dal t.u. stup. (d.P.r. 309/1990); dei delitti di favoreggiamento e induzione alla prostituzione (art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75). L’art. 14 l. 269/1998 disciplina le operazioni sotto copertura disposte al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di prostituzione minorile (art. 600-bis c.p., primo comma), pornografia minorile (art. 600 ter c.p., primo, secondo e terzo comma; è escluso il quarto comma [3]), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (il c.d. turismo sessuale minorile, art. 600-quinquies c.p.). La procedura delineata per l’espletamento di tali operazioni è simile nella struttura all’art. 9, ma con alcune differenze, tra le quali spicca il requisito dell’autorizzazione giudiziaria, in luogo della comunicazione al p.m. http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1189.18PDL0029490.pdf. A. CAMoN, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Arch. Pen., 2018, n. 3, p. 1. https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti- contro-la-. https://www.iusinitinere.it/undercover-operations-lagente-sotto-copertura-e-lagente-provocatore22782#:~: text=9%2C%20L.,gli%20atti%20di%20rispettiva%20competenza. L. PAoLoNI, La controversa linea di confine tra attività sotto copertura e provocazione poliziesca. Spunti dalla giurisprudenza della Corte Edu, in Cass. Pen., 2016, fasc. 5, p. 1899, par. 2. Vd. Circolare della direzione per i servizi antidroga del 5 settembre 1995; in dottrina C. TAorMINA, Polizia giudiziaria e operazioni “sotto copertura”, in riv. Pen., 2015, fasc. 11, p. 923; P. MoroSINI, Dal- l’acquisto simulato di droga all’attività sotto copertura. Questioni sostanziali e processuali, in Trattato manzini, AA.VV., Torino, 2009; L. PISTorELLI, intercettazioni preventive ad ampio raggio ma inutilizzabili nel procedimento penale, in Guida dir., 2001, 42, p. 89; contra P. duBoLINo -C. duBoLINo, Codice delle leggi penali speciali, Commento ad art. 9, l. 16 marzo 2006, n. 146, La Tribuna, 2014, p. 768: «Speciali tecniche di investigazione preventiva [che] possono anche prescindere dall’esistenza di indagini preliminari relative ad uno specifico fatto...». La stessa giurisprudenza sembra consentire l’utilizzo dello strumento a fini preventivi, vd. Cass., sez. II, 28 maggio 2008, n. 38488: «In tutte le ipotesi legislative di attività sotto copertura si prescinde dal- l’esistenza di un procedimento penale o di indagini preliminari su uno specifico fatto di reato, trattandosi di attività investigative a carattere preventivi». https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6530-lestensione-delle-operazioni-sotto-copertura-aidelitti- contro-la-. CONTRIBUTIDIDOTTRINA Collegi consultivi tecnici: il correttivo al codice conferma l’applicabilità solo residuale delle linee guida M.I.T. del 2022 Ennio Antonio Apicella* SommarIo: 1. Le linee guida m.I.T. del 2022: fonte normativa e ambito di intervento 2. L’applicabilità solo parziale delle linee guida dopo l’entrata in vigore del codice del 2023 -3. L’ulteriore delimitazione operata dal correttivo del 2024 -4. Il regime transitorio della disciplina sui collegi introdotta dal correttivo. 1. Le linee guida m.I.T. del 2022: fonte normativa e ambito di intervento. Com’è noto, il nuovo codice dei contratti pubblici ha stabilizzato e rivitalizzato il collegio consultivo tecnico, individuandolo come rimedio generale per prevenire o consentire la rapida risoluzione delle controversie e delle dispute tecniche di ogni natura che possano insorgere nell’esecuzione dei contratti (art. 215 d.lgs. n. 36 del 2013: di seguito, codice). l’intervento correttivo di fine anno 2024 (d.lgs. n. 209 del 2004: di seguito, correttivo) ha riportato l’istituto al suo originario ambito applicativo, costituito dagli appalti di lavori superiori alla soglia di rilevanza europea, dopo la scelta inizialmente operata dal codice di comprendervi anche lo svolgimento di servizi e forniture di importo pari o superiore a un milione di euro. Dopo le alterne vicende collegate alla sua istituzione, repentina soppressione e rinascita (1), il collegio consultivo tecnico aveva trovato una “defini (*) Avvocato distrettuale dello Stato di Catanzaro. (1) Sull’altalenante evoluzione normativa dell’istituto v., tra gli altri, C. Volpe, Il collegio consultivo tecnico. Un istituto ancora dagli incerti confini, in www.giustizia-amministrativa.it, 2020, § 2; F. FrAnCArio, Il collegio consultivo tecnico, organismo atipico di mediazione e di conciliazione in ambito pubblicistico, in www.giustiziainsieme, 2023, § 1; p. De BernArDiniS, Commento agli artt. 215219, in Codice dei contratti pubblici, a cura di GioVAGnoli e roVelli, Milano 2024, 1920 ss. tiva” -ma solo temporanea -sistemazione nell’art. 6 d.l. n. 76/2020 (conv. in legge n. 120/2022). infatti, secondo il comma 1 dell’art. 6 cit., “fino al 30 giugno 2023, per i lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 50 del 2016, è obbligatoria, presso ogni stazione appaltante, la costituzione di un collegio consultivo tecnico, prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre dieci giorni da tale data, con i compiti previsti dall’articolo 5, nonché di rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso. Per i contratti la cui esecuzione sia già iniziata alla data di entrata in vigore del presente decreto, il collegio consultivo tecnico è nominato entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla medesima data”. il comma 8-bis del medesimo art. 6 d.l. n. 76/2020 disponeva che “… con provvedimento del ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, previo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, sono approvate apposite linee guida volte a definire, nel rispetto di quanto stabilito dal presente articolo, i requisiti professionali e i casi di incompatibilità dei membri e del presidente del collegio consultivo tecnico, i criteri preferenziali per la loro scelta, i parametri per la determinazione dei compensi rapportati al valore e alla complessità dell’opera, nonché all’entità e alla durata dell’impegno richiesto ed al numero e alla qualità delle determinazioni assunte, le modalità di costituzione e funzionamento del collegio e il coordinamento con gli altri istituti consultivi, deflativi e contenziosi esistenti…”. la fonte primaria, dunque, attribuiva all’atto amministrativo un ambito di intervento molto ampio, che muove dai requisiti professionali, casi di incompatibilità e criteri preferenziali per la scelta dei componenti del collegio, include i parametri per la determinazione dei compensi (da commisurare al valore e complessità dell’opera, all’entità e alla durata dell’impegno richiesto ed al numero e qualità delle determinazioni assunte), e giunge fino alle modalità di costituzione e funzionamento del collegio ed al coordinamento con gli altri istituti consultivi, deflativi e contenziosi previsti dalla disciplina dell’esecuzione delle opere pubbliche. infatti, l’art. 1 D.M. 17 gennaio 2022 n. 12, prevede che “in attuazione di quanto previsto dall’art. 6 del d.l. 16 luglio 2020 n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020 n. 120, sono adottate le linee guida per l’omogenea applicazione, da parte delle stazioni appaltanti, delle disposizioni in materia di collegio consultivo”. le linee guida disciplinano “la costituzione del collegio consultivo tecnico ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 76/2020” (§ 1.2.1) e richiamano ripetutamente lo stesso d.l. n. 76 in tema di obbligatorietà del collegio (§ 1.3.1), costituzione, durata dell’incarico e scelta dei componenti (§§ 2.1, 2.2 e 2.6.1), inosservanza dell’obbligo di costituzione (§ 2.3), requisiti professionali e incompatibilità (§§ 2.4.1 e 2.5), insediamento, funzioni e compiti dell’organismo (§ 3), natura delle decisioni (§ 5.1), oneri di funzionamento (§ 7.2.4), monitoraggio delle attività (§ 8). le linee guida del 2022 sono, dunque, dichiaratamente attuative dell’art. 6 cit., il quale, tuttavia, prevede espressamente un termine finale di efficacia per le disposizioni ivi contenute, in quanto dispone la costituzione obbligatoria, presso ogni stazione appaltante, di un collegio consultivo tecnico per i lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche sopra-soglia, “fino al 30 giugno 2023”, venendo così a coordinarsi con l’efficacia generale attribuita alle norme del codice (1° luglio 2023). Solo limitatamente agli interventi finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal p.n.r.r. e dal p.n.C., le disposizioni di cui agli artt. 1, 2 (ad esclusione del comma 4), 5, 6 e 8 del d.l. n. 76/2020 cit., “si applicano fino al 30 giugno 2024, salvo che sia previsto un termine più lungo” (così, l’art. 14, comma 4, d.l. n. 13 del 2013, conv. in legge n. 41/2023) (2). ne consegue che, dal 1° luglio 2023 (o dal 1° luglio 2024, per gli interventi finanziati con risorse p.n.r.r. e p.n.C., non risultando ulteriori differimenti del termine di efficacia), le linee guida M.i.t. del 2022 sono divenute ex se inapplicabili, essendo cessata l’efficacia della fonte normativa che ne aveva legittimato l’adozione. in virtù del richiamo operato dall’art. 1, comma 5, dell’allegato V.2 al codice, il comma 7-bis dell’art. 6 d.l. n. 76/2020 continuava a definire l’importo massimo dei compensi del collegio (3). 2. L’applicabilità solo parziale delle linee guida dopo l’entrata in vigore del codice del 2023. il codice e l’allegato V.2 hanno disciplinato ex novo il collegio consultivo tecnico, normando parte delle materie che, in precedenza, l’art. 6, comma 8bis, del d.l. 76/2020 affidava all’atto amministrativo. in particolare, la fonte primaria regola direttamente l’ambito di intervento del collegio, la natura e gli effetti delle sue decisioni (artt. 215, 216 e 217 del codice; art. 3 dell’allegato V.2); le modalità di costituzione e l’insediamento (artt. 1 e 2 dell’allegato V.2); il procedimento per l’adozione delle decisioni (art. 3 dell’allegato V.2). in tutte queste materie, relative al funzionamento del collegio, risulta (2) Sulle difficoltà interpretative poste dall’infelice formulazione della norma, p. CArBone, Il tortuoso percorso per l’individuazione della disciplina regolante il collegio consultivo tecnico, in www.appaltiecontratti. it. (3) la necessità di un rinvio espresso conferma l’inefficacia delle altre disposizioni dell’art. 6 cit. ormai inibito l’intervento dell’atto amministrativo, fatti salvi specifici rinvii contenuti in espressa previsione di legge. infatti, l’allegato V.2 al codice (art. 1, comma 3) rinvia alle linee guida da adottare sempre con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti su conforme parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici -limitatamente alla fissazione dei requisiti professionali, casi di incompatibilità e criteri preferenziali per la scelta dei componenti del collegio, nonché dei parametri per la determinazione dei compensi (sempre da commisurare al valore e complessità dell’opera, all’entità e durata dell’impegno ed al numero e qualità delle determinazioni). Se le linee guida del 2022 fossero state applicabili anche dopo la cessazione di efficacia dell’art. 6 d.l. n. 76/2020, il codice non avrebbe avuto necessità di effettuare un rinvio espresso, ma limitato ad alcune specifiche materie. Scompare il riferimento alle modalità di costituzione e funzionamento del collegio e viene espunta anche la precedente autorizzazione delle linee guida a provvedere in tema di coordinamento con gli istituti consultivi, deflativi e contenziosi esistenti (in particolare, l’accordo bonario), che sarà inevitabilmente affidato ai futuri orientamenti della giurisprudenza. nelle more dell’adozione del nuovo decreto ministeriale, continuano a trovare applicazione le linee guida M.i.t. del 2022, secondo quando prevede l’art. 1, comma 3, dell’allegato V.2, ma, deve ritenersi, nelle stesse e più limitate materie ivi indicate. e ciò per un duplice ordine di ragioni: le modalità di costituzione e di insediamento del collegio, la natura, gli effetti ed il procedimento per l’adozione delle decisioni -che costituiscono l’ambito principale di intervento delle linee guida del 2022 -, sono già direttamente normate dal codice e dall’allegato, circostanza che esclude l’intervento dell’atto amministrativo senza una espressa autorizzazione della fonte legislativa; l’allegato al codice ha ridotto, rispetto alle previsioni dell’art. 6, comma 8-bis, d.l. n. 76/2020, le materie nelle quali le linee guida sono autorizzate a provvedere (4). residua il regime differenziato degli interventi imputati, in tutto o in (4) una volta cessata l’efficacia dell’art. 6 d.l. n. 76, dunque, il rinvio effettuato dall’allegato V.2 al codice comportava l’applicabilità delle previsioni alle linee guida sui requisiti professionali (§ 2.4) e le incompatibilità dei componenti del collegio (§ 2.5). per quanto concerne i compensi del collegio, in vigenza del codice e prima del correttivo, trovavano applicazione il § 7.2.1, lett a), primo e secondo periodo, e lett. b), il § 7.2.4, il § 7.4, il § 7.5 e il § 7.6.1, ma non tutte le altre previsioni che esulano dai “parametri per la determinazione dei compensi” (art. 1, comma 3, dell’allegato), come ad es. quelle relative alle condizioni ed ai tempi per il pagamento della parte fissa e variabile, contenute nel § 7.2.1, lett. a, terzo periodo, e nel § 7.7.2. Di contrario avviso, il parere del Servizio supporto giuridico del Ministero infrastrutture e trasporti n. 2680 del 18 luglio 2024, secondo il quale per il pagamento della parte fissa del compenso del collegio devono essere soddisfatte le condizioni previste dal § 7.2.1 delle linee guida (e del § 4.1.2 per gli appalti p.n.r.r. e p.n.C.). parte, a risorse del p.n.r.r. e del p.n.C. per questa tipologia di opere, come già rilevato, l’integrale applicabilità delle linee guida M.i.t. 2022 fino al 30 giugno 2024 consegue alla prorogata efficacia dell’art. 6 d.l. n. 76 ad opera dell’art. 14, comma 4, d.l. n. 13 del 2013 (legge n. 41/2023). 3. L’ulteriore delimitazione operata dal correttivo del 2024. il recente correttivo di fine anno 2024 ha nuovamente delimitato l’oggetto delle linee guida, riducendone ulteriormente l’ambito di applicazione. obiettivo dell’intervento, esplicitato nella relazione illustrativa (5), è quello di rimediare alle incertezze operative emerse in ordine al perimetro dell’attività del collegio consultivo tecnico, nonché riguardo ai relativi presupposti di istituzione e attivazione ed alle modalità di funzionamento. il nuovo allegato V.2, che sostituisce integralmente quello originario, ha sostanzialmente normato tutte le materie precedentemente regolate dalle linee guida, recependo in fonte primaria una parte dei contenuti del D.M. n. 12/2022, con le opportune modificazioni e integrazioni. infatti, l’art. 1, comma 6, del vigente allegato V.2 così dispone: “Con apposite linee guida adottate con decreto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, previo parere conforme del Consiglio superiore dei lavori pubblici, sono definiti i parametri per la determinazione dei compensi e delle spese non aventi valore remunerativo che devono essere rapportati al valore del contratto e alla complessità dell’opera, nonché all’esito e alla durata dell’impegno richiesto e al numero e alla qualità delle determinazioni assunte, prevedendone l’erogazione secondo un principio di gradualità. Le medesime linee guida definiscono anche i parametri per la determinazione del compenso della segreteria tecnico amministrativa. Nelle more dell’adozione del decreto di cui al primo periodo, continuano ad applicarsi, per la parte relativa alla determinazione dei compensi, le linee guida approvate con decreto del ministro e delle infrastrutture e delle mobilità sostenibili 17 gennaio 2022, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 55 del 7 marzo 2022”. Con l’entrata in vigore del correttivo, dunque, alle linee guida ministeriali è demandata la sola disciplina dei parametri per la determinazione del compenso e delle spese non remunerative del collegio e della segreteria, secondo i consueti criteri (valore del contratto e complessità dell’opera; esito e durata dell’impegno; numero e qualità delle determinazioni), dovendone prevedere l’erogazione secondo un canone di gradualità. Fino all’adozione del nuovo provvedimento ministeriale -questa volta per esplicita previsione di legge -, le linee guida M.i.t. del 2022 continuano ad applicarsi, in via residuale, esclusivamente “per la parte relativa alla determinazione dei compensi”. (5) in www.sentenzeappalti.it. Di conseguenza, per tutte le materie che esulano dalla determinazione dei parametri per i compensi, le previsioni delle linee guida M.i.t. 2022 possono, al più, costituire una indicazione di massima -non cogente -in grado di orientare il collegio nell’esercizio delle proprie funzioni, ove non risultino in contrasto con le disposizioni ora contenute nel nuovo allegato V.2 al codice. 4. Il regime transitorio della disciplina sui collegi introdotta dal correttivo. Anche l’intervento del correttivo è assistito da un regime transitorio relativo alla nuova disciplina del collegio consultivo tecnico, che persegue la dichiarata finalità (6) di evitare le consuete incertezze che caratterizzano la fase di avvio di ogni riforma legislativa particolarmente rilevante. Secondo l’art. 224, comma 1, del codice le disposizioni di cui agli articoli da 215 a 219 si applicavano anche ai collegi già costituiti ed operanti alla data di entrata in vigore del codice. non erano menzionate le disposizioni dell’allegato. il nuovo art. 225-bis, comma 5, ora dispone che “le disposizioni di cui agli articoli da 215 a 219 e all’allegato V.2, la cui entrata in vigore coincide con la data di entrata in vigore della presente disposizione si applicano, in assenza di una espressa volontà contraria delle parti, anche ai collegi già costituiti ed operanti alla medesima data, ad eccezione di quelli relativi ai contratti di servizi e forniture già costituiti alla data di entrata in vigore della presente disposizione”. pur apprezzando la meritoria intenzione del legislatore, il risultato non è brillante. la formulazione della nuova norma intertemporale presenta ambiguità e suscita interrogativi (7). Da un lato, sembra prefigurarsi un doppio regime di funzionamento dei collegi, che discende dalla necessità di distinguere le disposizioni del correttivo riproduttive/confermative di precetti già in vigore nel testo originario del codice e dell’allegato rispetto alle disposizioni di carattere innovativo, che trovano applicazione anche ai collegi già operanti qualora le parti non manifestino espressamente una volontà contraria. Ciò prefigura dubbi circa il tasso di novità, totale o parziale, delle nuove disposizioni, in quanto la relazione illustrativa al correttivo dichiara che l’allegato riproduce le linee guida M.i.t. del 2022 (rectius, solo qualche previsione delle linee guida) (8), con le opportune modificazioni e integrazioni (9). (6) Cfr. la relazione illustrativa al correttivo, ibidem. (7) Di rischio paralisi dei collegi già operanti parla M. interDonAto, Collegio consultivo tecnico, tutte le novità del Correttivo: rischio paralisi nel passaggio di regole, in www.ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore. com. (8) Similmente, l’originario allegato V.2 era il risultato di una collazione di alcune disposizioni contenute nell’art. 6 d.l. n. 76/2020 e di altre trasfuse dalle linee guida M.i.t. del 2022: così la relazione al codice, in www.giustizia-amministrativa.it. Dall’altro, risulta inedita la previsione che, a differenza dell’originario regime transitorio del codice (art. 224, comma 1, cit.), rimette alla volontà delle parti l’applicazione ai vecchi collegi della nuova disciplina del correttivo, consentendo l’opzione per l’ultrattività delle regole precedenti. in proposito, il legislatore non ha accolto l’indicazione del Consiglio di Stato, che aveva auspicato la soluzione opposta, che prevedesse l’applicazione delle nuove disposizioni solo a richiesta delle parti (10). la norma intertemporale non chiarisce se tale perpetuatio iuris (da riferirsi, ancora una volta, alle disposizioni di codice e allegato e non direttamente alle previsioni delle linee guida) richiede la volontà di entrambe le parti, o se l’opzione sia efficace anche in virtù della determinazione espressa di una di esse. neppure vengono indicate le modalità e i tempi nei quali l’opzione per l’applicazione della disciplina pregressa dovrebbe essere formulata. Si tratta, in ogni caso, di ulteriori complicazioni delle quali certo non si avvertiva la necessità. Da ultimo, si apprende dalla disciplina transitoria anche che i collegi consultivi tecnici relativi ai contratti di servizi e forniture già costituiti continueranno ad operare secondo la normativa pregressa, essendo espressamente esclusi dalla nuova disciplina introdotta dal correttivo. (9) Dal che si trae ulteriore conferma che le linee guida 2022 sono divenute ex se inapplicabili con la cessazione di efficacia dell’art. 6 d.l. n. 76 cit. (10) Consiglio di Stato, Comm. spec., parere 2 dicembre 2024 n. 1463, § 61, in www.giustiziaamministrativa. it. La sanità in Italia. Il futuro delle competenze nell’era dell’Intelligenza Artificiale Gaetana Natale* SommarIo: 1. Introduzione -2. Le applicazioni dell’Intelligenza artificiale in ambito sanitario e biomedicale -3. Gli ostacoli alla piena integrazione dell’Ia nel sistema sanitario -4. rischi etici e nuove conoscenze -5. La responsabilità medica tra aI act e prospettive di riforma nazionali. 1. Introduzione. la medicina ha fatto progressi significativi e rapidi negli ultimi decenni, soprattutto grazie agli avanzamenti scientifici e alle innovazioni tecnologiche, portando a un incremento dell’aspettativa di vita a livello nazionale e globale. tuttavia, le sfide che il settore sanitario affronta, e che sarà chiamato ad affrontare nel prossimo futuro, si mostrano sempre più complesse. Ciò è vero soprattutto volgendo lo sguardo al contesto italiano, dove la domanda di prestazioni sanitarie e di farmaci è in aumento, così come la spesa corrente, il tutto a fronte di una forza lavoro strutturalmente sottodimensionata rispetto al fabbisogno. il quadro che emerge da un recente report sullo “stato di salute” del Sistema Sanitario nazionale evidenzia, inoltre, differenze regionali particolarmente marcate, mentre le retribuzioni sono molto inferiori alla media oCSe. Altrettanto allarmante è il livello di medici e infermieri pro-capite, che risulta essere tra i più bassi d’europa. in particolare, a differenza del passato, la carenza di Medici di Medicina Generale non si arresta più alle sole aree remote del paese, ma interessa anche i grandi centri urbani (1). la prima parte del presente contributo sarà dedicata alla descrizione di alcuni casi di studio particolarmente esemplificativi delle potenzialità dell’intelligenza Artificiale (iA) applicata al campo sanitario e biomedicale, al fine di evidenziare come la piena integrazione di questo strumento multifunzionale nel Sistema Sanitario nazionale possa porre rimedio, almeno in parte, alle criticità segnalate. Da un lato, la capacità di analizzare grandi quantità di dati complessi e di fornire supporto decisionale rende l’iA una risorsa preziosa per migliorare l’efficienza operativa e per ridurre le attese diagnostiche, consentendo ai professionisti di dedicare più tempo all’assistenza diretta, con benefici finali per la salute dei pazienti. Dall’altro, l’iA ha il potenziale per favorire la ricerca sanitaria e lo sviluppo di nuovi farmaci. la seconda parte del contributo darà spazio ai sempre più frequenti mo (*) Avvocato dello Stato e professore di Sistemi Giuridici Comparati. (1) 7° rapporto GiMBe sul Servizio Sanitario nazionale, presentato l’8 ottobre 2024 presso la Sala Capitolare del Senato della repubblica. niti, provenienti da taluni esperti di iA e large language Models (llM), aventi ad oggetto gli ostacoli, di varia natura, che si frappongono alla piena integrazione di queste tecnologie nei sistemi sanitari, come la presenza d’infrastrutture digitali deboli e di standard tecnologici inadeguati. la terza parte, invece, s’interesserà ai rischi di tipo etico, determinati dalla delicata triangolazione algoritmo -operatore sanitario -paziente. infatti, un ruolo fondamentale per integrare i più recenti portati tecnici e tecnologici nell’attività medica è giocato proprio dalla capacità di adattamento degli stessi professionisti sanitari che saranno chiamati a rivestire nuovi ruoli e funzioni, ma soprattutto a trasporre nell’era dell’iA -quali “humans in the loop” -il principio di umanizzazione delle cure. A ciò, del resto, come si avrà modo di sottolineare, si correla strettamente e necessariamente la spinta ad una complessiva riprogrammazione delle competenze e dei curricula universitari in ambito sanitario. nella quarta sezione, incentrata sulle ricadute prettamente giuridiche del- l’adozione dell’iA e degli llM, si offrirà un quadro delle più recenti iniziative legislative eurounitarie e nazionali volte ad adeguare il regime della responsabilità medica ad un contesto di crescente applicazione dei sistemi di iA. 2. Le applicazioni dell’Intelligenza artificiale in ambito sanitario e biomedicale. Gli strumenti, quali software e applicazioni, che incorporano l’iA e che sono adoperati in campo sanitario e biomedicale sono numerosi e differenziati, coinvolgendo non solo diverse branche mediche, ma anche diversi aspetti del percorso di cura, assistenza ed erogazione del servizio. in primo luogo, vengono in rilievo le applicazioni cliniche dell’iA, specialmente in campo diagnostico, mediante sistemi algoritmici capaci di analizzare immagini per identificare patologie. Si tratta di una capacità trasversale alle aree di specializzazione medica, interessando l’uso di immagini per identificare e localizzare anomalie a livello cerebrovascolare, attraverso l’analisi dell’encefalogramma (2), così come nei feti, rilevabili dalle immagini delle ecografie ostetriche ultrasuono (3). Sempre grazie all’analisi automatizzata delle immagini ed al loro miglioramento, possono essere individuati glaucomi, retinopatie diabetiche e melanomi maligni (4). in campo radiologico sono stati sviluppati algoritmi in grado di individuare anomalie nelle radiografie toraciche (5). inoltre, attraverso la radiomica, (2) in ambito cardiologico, gli algoritmi sviluppati da Anumana e AliveCor sono impiegati per diagnosticare amiloidosi cardiaca e fibrillazioni atriali. per ulteriori esempi si rinvia a G. nAtAle e F. D’orAzio, La responsabilità medica alla prova dell’Ia, in rassegna avvocatura dello Stato, n. 1/2023. (3) American Medical Association (AMA), Future of Health: The Emerging Landscape of augmented Intelligence in Health Care, 2024. (4) Ibidem. una tecnica di processazione delle immagini che estrae informazioni di carattere quantitativo in relazione all’eterogeneità e alla forma di tessuti e lesioni, sono ricavabili informazioni utili per definire le strategie di trattamento, specie se combinate con grandi quantità di dati demografici, istologici, genomici o proteomici (6). Altri settori che beneficiano di un crescente sviluppo di algoritmi impiegati per la diagnostica attraverso immagini sono la nefrologia, per il monitoraggio delle patologie renali croniche, l’oncologia, grazie ad algoritmi applicati allo screening delle biopsie linfonodali (7), e l’epatologia, in particolare per la rilevazione automatizzata della steatosi epatica non alcolica (nAFlD), nonché per stimare la gravità e la prognosi dell’epatite virale cronica (8) e per la diagnosi di lesioni nel fegato (9). Anche la procreazione, specie quella medicalmente assistita, può incrementare le proprie chance di successo grazie all’iA: l’analisi dei dati consente di ottimizzare la selezione dell’embrione nella fecondazione in vitro, di personalizzare i trattamenti in base all’anamnesi materna ed ai parametri vitali del feto, oltre a predire casi di emorragia post-partum (10). ulteriori proficue applicazioni dell’iA in campo medico interessano la gestione dei pazienti nei pronto soccorso, supportando le decisioni degli operatori sanitari durante il triage, e il monitoraggio domiciliare degli anziani e dei malati cronici (11). Grazie a strumenti come software ed applicazioni per smartphone viene semplificata l’assistenza nell’assunzione regolare di farmaci, l’adattamento della dieta alle specificità del paziente e il pronto intervento in caso di cadute o eventi avversi. in tal modo si promuove una maggiore indipendenza e si semplificano le interazioni con il sistema sanitario (12). l’iA ha dimostrato, inoltre, di poter migliorare la qualità della vita di pazienti paralizzati, consentendo loro di comunicare grazie a interfacce cervello-spina dorsale o sistemi che traducono segnali cerebrali in parole (13). (5) Ad esempio, l’algoritmo DlAD, sviluppato nel 2018 da ricercatori del Seoul national university Hospital, rileva anomalie nelle radiografie toraciche, come il cancro ai polmoni, v. J.G. nAM et al., Development and Validation of Deep Learning-based automatic Detection algorithm for malignant Pulmonary Nodules on Chest radiographs, in radiology, 2019, vol. 290, pp. 218 ss. (6) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, 2022, p. 6 e bibliografia ivi citata. (7) il più noto tra gli algoritmi in grado di individuare tumori metastatici al seno analizzando biopsie linfonodali è lynA, sviluppato da Google iA nel 2018. (8) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 9 e ss. (9) Ad esempio, nel 2022 la FDA ha approvato l’algoritmo sviluppato da Arterys inc. in grado di diagnosticare lesioni nel fegato e nei polmoni. l’elenco degli aI/mL-enabled medical devices approvati dalla FDA ammontava, ad agosto 2024, a 950. (10) AMA, Future of Health: The Emerging Landscape of augmented Intelligence in Health Care, cit., p. 12. (11) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 6 e ss. (12) ivi, p. 8. Da ultimo, grande rilievo assumono le applicazioni dell’iA per la tutela della salute mentale, un campo in cui diversi strumenti, sia software, sia chatbot che utilizzano modelli cognitivo-comportamentali per supportare pazienti con ansia e depressione (14), possono supportare la diagnosi e il trattamento di disturbi psichici e psicologici. oltre alle applicazioni in ambito clinico e assistenziale, l’iA è fondamentale per accelerare lo sviluppo di nuovi farmaci. le tecniche di apprendimento automatico, ossia il machine Learning (Ml), consentono di estrarre informazioni chimiche da ampi database di composti e di prevedere il comportamento di quelli di nuovo conio (15), così da favorire la progettazione di nuovi farmaci, migliorarne l’efficacia e supportare le valutazioni sulla sicurezza nella fase di sperimentazione (16). un altro importante utilizzo riguarda l’analisi delle interazioni tra farmaci (17): attraverso modelli di Ml ed algoritmi viene favorita una migliore comprensione delle diverse tipologie di farmaci e dei relativi risultati clinici, così come la valutazione dei composti, delle loro capacità biologiche e della loro tossicità, contribuendo a ridurre i tassi di abbandono dei farmaci (18). 3. Gli ostacoli alla piena integrazione dell’Ia nel sistema sanitario. Ai vantaggi sopra evidenziati fanno da contraltare diverse classi di rischio associate all’impiego dell’iA in campo sanitario e biomedico. la letteratura suole suddividere i rischi in tre principali tipologie (19): i rischi clinici, quelli (13) i casi più noti riguardano le interfacce in grado di tradurre i segnali dell’attività cerebrale in parole ed espressioni, v. S. AMBroGio et al., an analog-aI chip for energy-efficient speech recognition and transcription, in Nature, 24 August 2023, vol. 620, pp. 768 ss. e H. lorACH et al., Walking naturally after spinal cord injury using a brain-spine interface, in Nature, 1 June 2023, vol. 618, pp. 126 ss. (14) tra i programmi che fanno uso dell’iA in psicologia si possono menzionare “Mser-Diagno”, che offre valutazioni diagnostiche basate su dati clinici. per quanto riguarda le chatbot, “eliza” e “Woebot” utilizzano modelli cognitivo-comportamentali per supportare pazienti con ansia e depressione. Woebot, ad esempio, analizza e classifica le emozioni per fornire un aiuto personalizzato. per approfondire si rinvia a G. nAtAle e F. D’orAzio, La responsabilità medica alla prova dell’Ia, cit. (15) in european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., p. 11, vengono descritti i modelli esistenti basati su approcci QSAr (Quantitative Structure-activity relationship) che possono prevedere il comportamento di numerosi nuovi composti per diversi obiettivi biologici. tuttavia, le previsioni di tali modelli presentano alcune limitazioni evidenziate dalla letteratura in materia. (16) Ad esempio, un algoritmo di deep learning è stato addestrato per prevedere il potenziale antimicrobico di alcune molecole v. J.M. StokeS, et al., a Deep Learning approach to antibiotic Discovery in Cell, vol. 180, n. 4, 2020, pp. 688-702. (17) un’analisi condotta dai ricercatori della Vanderbilt university ha studiato, ad esempio, come ottimizzare la terapia di combinazione per il tumore del polmone non a piccole cellule e per il melanoma servendosi dell’algoritmo “MuSyC” (multi-dimensional synergy of combinations). (18) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 11 e ss. (19) A. Muley et al., risk of aI in Healthcare: a Comprehensive Literature review and Study Framework in asian J. med. Health, vol. 21, n. 10, 2023, pp. 276-291. tecnici e, infine, i rischi etici, cui sarà dedicata la trattazione dei successivi paragrafi. nella prima categoria viene inquadrato il rischio di provocare danni ai pazienti. È stato rilevato che, pur a fronte di iA addestrate con un grande quantitativo di dati qualitativamente robusti, possono verificarsi errori determinati dal “rumore statistico”, dalla differenza nella distribuzione statistica nel dataset usato per l’addestramento e in quello impiegato “sul campo”, nonché quelli dovuti alla difficoltà degli algoritmi ad adattarsi ai cambiamenti del contesto in cui sono adoperati e che possono condurre a falsi positivi o negati (c.d. “misclassification”) (20). nella seconda categoria sono ricompresi sia i rischi da uso erroneo degli strumenti di iA (c.d. “misuse”), sia quelli derivanti da pregiudizi (c.d. “bias”), da fallimenti nell’infrastruttura di sicurezza o dall’opacità degli algoritmi (21). tra i fattori principali che possono condurre ad un uso scorretto dell’iA il più importante riguarda il mancato coinvolgimento degli operatori sanitari nella fase di progettazione ed implementazione, attività che spesso pertiene esclusivamente agli ingegneri informatici ed agli analisti dei dati. inoltre, la proliferazione di strumenti di iA, non accompagnata da un’alfabetizzazione adeguata dei professionisti e dei pazienti, può amplificare il rischio di un uso inconsapevole e inefficace (22). Altrettanto problematico è il rischio di algorithmic bias che si verifica in tutti quei casi in cui “l’applicazione di un algoritmo aggrava le disuguaglianze esistenti in termini di status socioeconomico, razza, origine etnica, religione, genere, disabilità o orientamento sessuale, amplificandole e incidendo negativamente sulle disuguaglianze nei sistemi sanitari” (23). le diseguaglianze sistemiche in danno di popolazioni e comunità storicamente discriminate o stigmatizzate determinano una loro sottorappresentazione o sovra-rappresentazione nei dati utilizzati per l’addestramento dei llM. in tal modo le disparità vengono incorporate e codificate negli strumenti basati sull’iA, compromettendone l’efficacia, diminuendone la capacità predittiva o producendo risultati erronei (24). ulteriore punto debole dell’iA, con annesso elevato livello di rischio in caso di applicazione nel contesto medico, attiene al noto deficit di trasparenza che ne caratterizza lo sviluppo e che incide negativamente sulla fiducia di pa (20) Ibidem. (21) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 15 e ss. (22) Ibidem. (23) t. pAnCH et al., artificial intelligence and algorithmic bias: implications for health systems in Journal of Global Health, vol. 9, n. 2, 2019, p. 1. (24) european parliamentary research Service, artificial intelligence in healthcare applications, risks, and ethical and societal impacts, cit., pp. 20 e ss. zienti, medici e sistemi sanitari. in letteratura la trasparenza si ritiene presente quando entrambi gli elementi della tracciabilità e della spiegabilità sono sodi- sfatti (25). nel primo caso si richiede che l’intero ciclo vitale dell’algoritmo sia reso noto dal produttore. per spiegabilità s’intende, invece, alla capacità di dare conto delle decisioni e delle predizioni basate sull’iA. il GDpr garantisce il diritto a ottenere spiegazioni sui processi decisionali automatizzati, ma molti modelli restano “black box” difficili da penetrare per gli stessi “addetti ai lavori”. Ciò è ritenuto un ostacolo all’adozione clinica, in quanto i medici devono poter comprendere i principi alla base delle decisioni per integrare l’iA nella pratica (26). 4. rischi etici e nuove conoscenze. Dopo aver succintamente passato in rassegna i benefici ed i rischi legati all’adozione di strumenti basati sull’iA in campo medico, è utile prendere in considerazione la prospettiva dei professionisti della sanità per vagliare sia la loro attitudine rispetto al fenomeno, sia per confrontarsi con le problematiche da loro riscontrate nell’integrazione dei portati tecnologi alla quotidianità medico- ospedaliera. A tal proposito, suggestioni interessanti giungono da un recente studio commissionato dall’oCSe (27), che ha coinvolto le associazioni mediche aderenti alla World Medical Association per acquisire il punto di vista degli operatori sanitari sull’impatto dell’iA e dei servizi sanitari erogati a distanza. nonostante i risultati dell’indagine siano positivi, evidenziandosi un sostanziale ottimismo circa la prevalenza dei benefici sui rischi, gli operatori hanno espresso preoccupazioni sui profili etici delle applicazioni dell’iA, nonché timori in merito ad un incremento della propria responsabilità professionale per l’adozione di strumenti di iA. lo studio dell’oCSe in questione, nella sezione dedicata alle raccomandazioni, mette in luce la necessità di un coinvolgimento dei professionisti medici in tutte le fasi d’implementazione delle soluzioni basate sull’iA, così da garantire una sua integrazione efficace e rispettosa delle esigenze etiche e operative. Viene, inoltre, enfatizzata la necessità di creare nuove figure professionali trasversali e di avviare programmi di formazione continua per il personale attivo. Fondamentale, inoltre, è l’inclusione dello studio dell’iA nei curricula delle facoltà di ambito medico-sanitario per dotare i professionisti del futuro delle competenze necessarie ad affrontare le sfide che si affacciano all’orizzonte. importanti sono anche le considerazioni sui profili etici attinenti al nuovo (25) A. Muley et al., risk of aI in Healthcare: a Comprehensive Literature review and Study Framework, cit., pp. 282 e s. (26) Ibidem. (27) oCSe, artificial intelligence and the health workforce perspectives from medical associations on aI in health, oECD artificial Intelligence Papers, n. 28, novembre 2024. rapporto tra medico e paziente. Come sottolineato in un report dello “Steering Committee for Human rights in the fields of Biomedicine and Health” del Consiglio d’europa è urgente orientare l’innovazione tecnologica nel rispetto dei diritti e della dignità del paziente, considerando che la funzione sociale del medico gli richiede di rispondere ad una duplice istanza: “to cure and to care”, ossia curare il paziente e “prendersi cura” della persona. Secondo le conclusioni del Comitato, l’impatto dell’Ai sulla pratica medica dipende dal modello di utilizzo adottato. tuttavia, non viene escluso che l’adozione crescente dell’iA porti all’emergere di “buone pratiche” diffusamente accettate, consentendo un maggiore tempo di interazione diretta tra medico e paziente, grazie al supporto delle raccomandazioni automatizzate (28). proprio per garantire il ruolo di cura della persona e il rispetto dell’umanizzazione delle cure, la “Guidance on ethics and Governance of Ai for health” (29) della World Health organization ha fatto propria la proposta di includere nella fase di sviluppo dei llM tutti i fruitori e beneficiari delle applicazione cliniche e farmaceutiche, ossia gli stakeholders (operatori sanitari, pazienti, caregiver e popolazioni vulnerabili), introducendo degli “human oversight colleges” a cui parteciperebbero i rappresentanti delle menzionate categorie. Al fine di prevenire l’elusione del giudizio umano, foriero di deresponsabilizzazione morale e degradazione delle competenze, la proposta del WHo prevede che nel progettare e sviluppare i llM vadano prese in considerazione le istanze di inclusività e che siano incorporati nel design i valori e principi ricavabili dal consensus, dalle best practices, dagli standard etici e dall’evoluzione degli usi professionali. le raccomandazioni del WHo affermano di voler preservare, attraverso uno sviluppo degli llM assiologicamente orientato, la human oversight e l’autorità epistemica umana. 5. La responsabilità medica tra aI act e prospettive di riforma nazionali. nell’aprile del 2021 ha avuto inizio l’iter legislativo che ha portato al- l’approvazione del regolamento (ue) 2024/1689 del parlamento europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024 che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale, meglio noto come Ai Act. il testo si compone di 113 articoli e tredici allegati ed è volto a definire regole comuni per lo sviluppo, l’immissione sul mercato, la messa in servizio e l’utilizzo dei sistemi di iA. poiché il regolamento si applica anche ai fornitori e ai deployer stabiliti in un paese terzo, “laddove l’output prodotto dal sistema di Ia sia utilizzato nell’Unione” (28) B. MittelStADt, The Impact of artificial Intelligence on The Doctor-Patient relationship, December 2021 (report commissioned by the Steering Committee for human rights in the fields of Biomedicine and health, Council of europe). (29) World Health organization, Ethics and governance of artificial intelligence for health. Guidance on large multi-modal models, 2024. (30), la sua portata spaziale ha una capacità trasformativa che va al di là dei confini dell’ue, facendo da innesco al c.d. “effetto Bruxelles” ed orientando gli sviluppatori stabiliti in paesi terzi verso gli standard ue. il regolamento è stato predisposto secondo un approccio basato sul rischio (c.d. “risk-based approach”) in virtù del quale la tipologia e il contenuto delle regole è proporzionato “all’intensità e alla portata dei rischi che possono essere generati dai sistemi di Ia” (31). tali rischi sono suddivisi in quattro categorie: 1) unaceptable risk, 2) high risk, 3) limited risk e 4) low and minimal risk. in base a questo criterio ordinatore, la regolamentazione è incentrata sui casi di c.d. alto rischio, sul divieto di utilizzazione di alcuni tipi di iA specificamente individuati per ragioni d’impatto negativo sui diritti e sulle libertà fondamentali protette dalla Carta di nizza e sull’individuazione di requisiti minimi di trasparenza applicabili in tutti i casi di impiego di sistemi di iA. l’art. 6, par. 1, considera ad alto rischio un sistema di iA che, congiuntamente, a) “è destinato a essere utilizzato come componente di sicurezza di un prodotto, o il sistema di Ia è esso stesso un prodotto, disciplinato dalla normativa di armonizzazione dell’Unione elencata nell’allegato I ” e b) “il prodotto, il cui componente di sicurezza a norma della lettera a) è il sistema di Ia, o il sistema di Ia stesso in quanto prodotto, è soggetto a una valutazione della conformità da parte di terzi ai fini dell’immissione sul mercato o della messa in servizio di tale prodotto ai sensi della normativa di armonizzazione dell’Unione elencata nell’allegato I ”. proprio in virtù del rinvio operato dall’Allegato i, punto n. 11, al regolamento (ue) 2017/745 sui dispositivi medici, che a sua volta prevede che gli stessi siano sottoposti ad una valutazione di conformità da parte di organismi terzi ai fini dell’immissione sul mercato o della messa in servizio, quando rientranti in una classe di rischio pari o superiore alla “ii a”, deve concludersi che, nella maggior parte dei casi, i dispositivi medici basati su sistemi di iA siano classificabili come ad “alto rischio”. Conseguentemente, tali dispositivi comportano l’applicazione di un cospicuo numero di disposizioni contenute nel- l’Ai Act, quali ad esempio quelle sulla gestione del rischio (Art. 9), qualità dei dati (Art. 10), documentazione tecnica e conservazione delle registrazioni (Artt. 11 e 12), obblighi di trasparenza e doveri informativi, supervisione umana (Art. 14) e misure correttive in caso di non conformità (Art. 20), che si andranno a sommare agli obblighi previgenti di cui al regolamento 2017/745 sui dispositivi medici. pertanto, quando l’Ai Act entrerà in vigore, gli ulteriori requisiti da questo imposti integreranno i criteri in base ai quali è operata la valutazione di conformità dei dispositivi medici. il regolamento sull’iA non contiene disposizioni in punto di responsabi (30) regolamento (ue) 2024/1689, art. 2, par. 1, lett. c). (31) regolamento (ue) 2024/1689, Considerando n. 26. lità per danno causato da sistemi di iA, tuttavia, sempre a livello unionale, è stata elaborata una proposta di Direttiva vertente proprio sulla responsabilità extracontrattuale da intelligenza artificiale (32). il primario obiettivo della proposta è quello di garantire ai cittadini europei il diritto al risarcimento dei danni causati da sistemi di iA ad alto rischio e, nel perseguirlo, prevede delle agevolazioni finalizzate a identificare il centro d’imputazione del danno, nonché la prova dei fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria. A tal fine, l’art. 3, par. 1, attribuisce all’organo giurisdizionale il potere di ordinare la divulgazione di elementi di prova in relazione a specifici sistemi di iA ad alto rischio la cui operatività si presume abbia cagionato un danno. inoltre, il par. 5 del medesimo articolo introduce una presunzione di non conformità della condotta del convenuto all’obbligo di diligenza previsto in capo allo stesso. Si tratta di una presunzione relativa, pertanto confutabile dal convenuto, a scopo sanzionatorio, entrando in azione solo in caso d’inadempimento dell’obbligo di divulgazione o di conservazione degli elementi di prova. nella proposta in esame, la responsabilità è comunque attribuita a titolo di colpa, che si sostanzia nell’inosservanza del dovere di diligenza, così come configurato dall’insieme di obblighi prescritti del diritto eurounitario o nazionale. un’ulteriore agevolazione al soddisfacimento della pretesa risarcitoria è determinata dall’art. 4, par. 1, in virtù del quale il nesso causale tra la violazione della diligenza e l’output prodotto (o non prodotto) dal sistema di iA che ha cagionato un danno, si presume. Anche in questo caso trattasi di presunzione iuris tantum, reputata una soluzione tecnica in grado di superare le difficoltà in cui il danneggiato incorre nella dimostrazione della causalità e che, resta comunque proporzionata, applicandosi solo quando si può ritenere probabile che la colpa in questione abbia influenzato l’output non voluto. inoltre, nei sistemi di iA “ad alto rischio” la presunzione di causalità non si applica quando il convenuto dimostri che l’attore può ragionevolmente accedere a elementi di prova sufficienti per dimostrare il nesso causale, mentre nei sistemi di iA a rischio inferiore l’applicazione della presunzione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice. A livello nazionale, l’applicazione dell’iA al campo medico ha portato la dottrina ad interrogarsi sulla tenuta dell’attuale configurazione del regime di responsabilità dell’operatore sanitario, della struttura ospedaliera e del produttore del sistema di iA difettoso. per quanto riguarda la responsabilità del- l’operatore sanitario, si confrontano diversi orientamenti. Secondo il primo (32) proposta di Direttiva del parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità extracontrattuale da intelligenza artificiale, CoM(2022) 496 final. nello stesso anno è stata avanzata anche la proposta di Direttiva del parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi. per approfondire questi temi si rimanda a G. nAtAle e F. D’orAzio, La responsabilità medica alla prova dell’Ia, cit. l’iA è neutrale rispetto alla qualificazione della natura della prestazione sanitaria che, pertanto, in linea con l’impostazione tradizionale, resterebbe tra le species delle obbligazioni di mezzo. in caso d’inadempimento la responsabilità rimarrebbe attribuibile a titolo di colpa, da valutarsi secondo il canone della diligenza professionale ex art. 1176, co. 2, c.c. e secondo le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali di cui all’art. 5 della legge n. 24 dell’8 marzo 2017 (c.d. “legge Gelli-Bianco”) (33). Secondo taluna dottrina, inoltre, il semplice ricorso a sistemi di iA non sarebbe di per sé sufficiente a limitare la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, prevista dall’art. 2236 c.c. nelle ipotesi di prestazioni implicanti “problemi tecnici di speciale difficoltà”. Al contrario, la ricorrenza di tale presupposto andrebbe pur sempre effettivamente riscontrata nel caso concreto. il medico non risponderebbe del malfunzionamento di un sistema di iA, ma verrebbero ad esso imputati i soli danni causati da un suo negligente e scorretto utilizzo del sistema (34). Questa impostazione fa emergere in tutta la sua attualità la pressione a formare medici e operatori sanitari con competenze trasversali di alto livello e, al contempo, la necessità che gli stessi siano coinvolti nelle fasi d’implementazione dei sistemi di iA. un diverso orientamento ritiene invece applicabili analogicamente le disposizioni che dettano regimi speciali di responsabilità extracontrattuale. in particolare, tra le altre, sono state avanzate interpretazioni incentrate sulla responsabilità del precettore per le azioni dell’allievo, ex art. 2048, co. 2, c.c., sulla responsabilità del preponente, ex art. 2049 c.c., ovvero sulla responsabilità del proprietario di animale, ex art. 2052 c.c. (35). Secondo un’ulteriore suggestione dottrinaria (36), le indicazioni provenienti dall’algoritmo circa un trattamento sanitario integrerebbero linee guida mediche o buone pratiche assistenziale e, conseguentemente, il medico in grado di dimostrare di essersi attenuto alle stesse, non sarebbe condannabile o subirebbe la condanna ad un risarcimento del danno di minor ammontare. Da ultimo, si segnala che la Commissione d’ippolito -“Commissione per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica” -costituita con Decreto Ministeriale del 28 marzo 2023, ha ultimato il testo base per la riforma della responsabilità dell’esercente attività sanitaria, modificando sia articoli del Codice penale, sia gli artt. 5 e 7 della (33) M. FACCioli, Intelligenza artificiale e responsabilità sanitaria, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2023, n. 3, pp. 735 ss. (34) G. VotAno, Intelligenza artificiale in ambito sanitario: il problema della responsabilità civile, in Danno e responsabilità, 2022, n. 6, pp. 675 ss.; M. FACCioli, Intelligenza artificiale e responsabilità sanitaria, cit., p. 736. (35) Si v. la ricostruzione delle diverse prospettive operata da M. FACCioli, Intelligenza artificiale e responsabilità sanitaria, cit., p. 737. (36) A.G. GrASSo, Diagnosi algoritmica errata e responsabilità medica, in rivista di diritto civile, 2023, n. 2, pp. 341 ss. legge Gelli-Bianco (37). in particolare, l’art. 5 vorrebbe aumentare l’autonomia professionale del medico prevedendo che accanto ai parametri di riferimento della condotta, quali le linee-guida e le buone pratiche, siano annoverate anche “altre scelte diagnostiche e terapeutiche adeguate alle specificità del caso concreto” (38). tuttavia, in base alla proposta, è soprattutto l’art. 7 a subire alterazioni. Si prevede in modo netto che la conformazione del medico ai riferiti parametri di condotta escluda la responsabilità civile sia per il medico che per la struttura sanitaria (comma 3), mentre la dizione letterale porterebbe a ritenere che la condotta conforme incida solo sul quantum del risarcimento, presupponendo la responsabilità. il testo si propone, inoltre, di uniformare l’onere probatorio che regola l’affermazione della responsabilità in capo alla struttura sanitaria e al medico. infine, viene specificata l’applicabilità dell’art. 2236 c.c., limitando la responsabilità del medico ai soli casi di dolo o colpa grave e prevedendo, altresì, specifiche ipotesi integranti “speciale difficoltà” e tipizzando i casi di responsabilità per colpa grave. (37) la relazione alla proposta di riforma è stata presentata in anteprima all’ordine dei Medici di Milano il 25 novembre 2024 ed è disponibile al https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1732296539. pdf (ultimo accesso: 29 novembre 2024). (38) relazione alla proposta di riforma, p. 24. Il versamento diretto dell’assegno periodico di mantenimento al figlio maggiorenne non economicamente autonomo: un diritto negato Carlo Maria Pisana* Breviter: la norma di cui all’art. 155 quinquies c.c., trasfuso nel vigente art. 337 septies c.c., sebbene abbia compiuto 18 anni e sia pertanto maggiorenne, continua a essere tenuta sotto tutela dalla prevalente giurisprudenza, così come continuano a essere indebitamente tenuti sotto “tutela”, e talvolta sotto ricatto morale, i figli maggiorenni non economicamente autonomi di coppie separate o divorziate. il presente articolo analizza i vari aspetti pratici e teorici della applicazione della norma secondo l’orientamento tradizionale e secondo quello emergente, evidenziando infine lo scopo del legislatore, tale quale risultante dagli stessi lavori parlamentari. SommarIo: 1. Introduzione -2. La legittimazione processuale -3. La legittimazione sostanziale - 4. Il versamento a mani del figlio - 5. Lo scopo del legislatore - 6. Conclusione. 1. Introduzione. la disposizione in esame è stata introdotta, come art. 155 quinquies c.c. dalla l. 54/06 sotto la XiV legislatura. Successivamente, senza mutamenti, è stata inserita nell’art. 337 septies a seguito della riforma complessiva della filiazione adottata con d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154. l’art. 337 septies comma 1 c.c. vigente così recita: “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”. il comma successivo estende le disposizioni previste in favore dei minorenni anche ai figli maggiorenni “portatori di handicap”. la norma non sembrerebbe richiedere alcuna interpretazione: nell’ambito dei giudizi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento e nullità del matrimonio (ex art. 337 bis c.c.), il Giudice, quando ne ricorrono i presupposti, attribuisce al figlio maggiorenne non indipendente economicamente “il pagamento di un assegno periodico”, che, salvo diversa determinazione, deve essere versato al figlio stesso. la norma non introduce il diritto al mantenimento in favore del figlio maggiorenne non indipendente. (*) Avvocato dello Stato. tale diritto infatti preesisteva, essendo previsto già dall’art. 147 c.c., nonché dall’art. 30 della Costituzione. in assenza di tale disposizione, il figlio maggiorenne avrebbe potuto comunque adire le vie legali per ottenere il riconoscimento del suo diritto al mantenimento nei confronti del genitore che si fosse sottratto all’adempimento. essa ne ha voluto semplificare il conseguimento. la disposizione tutela infatti tale diritto, previo accertamento dell’indefettibile requisito dello stato di non indipendenza economica, nel delicato momento della crisi familiare. il novum apportato dalla norma consiste proprio nella possibilità per il Giudice di attribuire tale diritto al suo titolare, in assenza di domanda giudiziaria da parte di questi. inoltre, ha previsto che in particolari e motivate circostanze il pagamento dell’assegno periodico possa anche non avvenire a mani del figlio. Si pensi alle ipotesi di grave immaturità, talvolta causata proprio dalla conflittualità tra i genitori vissuta nella adolescenza, o di tossicodipendenza, o di condizionamento da parte del genitore convivente o di quello obbligato. nelle fattispecie non patologiche, il figlio ha diritto al “pagamento” del- l’assegno, da compiersi a lui “direttamente”, con esclusione di mediazioni e forme di tutela, che si porrebbero in antitesi con la piena disponibilità dei propri diritti conseguita con la maggiore età, che determina il venire meno della rappresentanza legale dei genitori (ex art. 320 c.c.) e della “responsabilità genitoriale” (art. 316 c.c.) e del correlato obbligo di sottostarvi. nonostante l’evidenza della lettera della legge, un orientamento tradizionale di giurisprudenza, ancorato ad una visione astorica della famiglia, ha elaborato una ricostruzione, secondo cui sussisterebbe una legittimazione concorrente del figlio e del genitore convivente, il quale sarebbe titolare di un diritto iure proprio al versamento dell’assegno. il figlio potrebbe ottenere il pagamento diretto soltanto a seguito di espressa domanda, secondo taluni anche stragiudiziale, secondo altri addirittura giudiziaria, oppure nel caso di cessazione della coabitazione, non essendo a tale fine sufficiente neanche l’allontanamento dalla casa familiare per ragioni di studio (ipotesi dello studente in erasmus o fuori sede) e comunque previo intervento di un provvedimento giudiziario attributivo. 2. La legittimazione processuale. la ricostruzione di diritto pretorio volta a ravvisare una legittimazione processuale concorrente alla domanda giudiziale di contributo al mantenimento sia in capo al figlio maggiorenne, sia del genitore convivente è priva di appiglio nella formulazione della norma. né potrebbe giustificarsi sulla considerazione che il figlio, seppur divenuto maggiorenne, potrebbe trovarsi nella impossibilità, sia per inesperienza sia per condizionamento morale, di pretendere il corretto adempimento dell’obbligazione di mantenimento nei confronti del genitore non convivente. la medesima situazione ben potrebbe ricorrere nei confronti del genitore convivente percettore dell’assegno in luogo del figlio, anzi le possibilità di condizionamento morale appaiono maggiori nel- l’ambito della convivenza. oltre che sul piano pratico tale ricostruzione sconta altresì una difficoltà concettuale. la legittimazione concorrente dei due soggetti, figlio e genitore, finirebbe per derogare all’art. 75 c.p.c., relegando il figlio maggiorenne allo status di soggetto privo della capacità giuridica piena, che invece l’ordinamento gli riconosce. Ancor meno convincente è la tesi secondo cui il genitore agirebbe “iure proprio”, aggirando la regola processuale. 3. La legittimazione sostanziale. l’elaborazione giurisprudenziale si è infatti spinta più in là. essa ha ipotizzato accanto al diritto processuale alla domanda del genitore convivente, anche un diritto sostanziale di questi a conseguire “iure proprio” il contributo in parola. l’orientamento tradizionale giunge e a porre sullo stesso piano il figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e il genitore con cui vive, «[…] Si tratta di due diritti autonomi, ancorché concorrenti, non già del medesimo diritto attribuito a più persone» (Cass. Civ. 11 novembre 2013, n. 25300). Secondo tale tesi, il diritto a ricevere a mani proprie il contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne in capo al genitore convivente discenderebbe dagli artt. 147 e 148 c.c., che obbligano in via generale l’altro genitore a concorrere all’onere di mantenimento della prole, ivi compresi quelli maggiorenni ma non autonomi. tale prassi è censurabile sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello pratico. Sotto il primo, non si vede come un diritto che appartiene ad una persona, il figlio soggetto di diritto munito di piena capacità giuridica, possa divenire il diritto proprio di un’altra persona -il genitore convivente. l’incoerenza della ricostruzione ipotizzata, e incredibilmente seguita da parte della giurisprudenza, risalta nella sua pienezza se la si trasla al di fuori dell’ambito dei rapporti tra coniugi. Se un qualunque creditore volesse fare valere le proprie ragioni nei confronti del debitor debitoris, dovrebbe prima procurarsi un titolo nei confronti del primo e poi, nei limiti consentiti, procedere ex art. 543 c.p.c. ad espropriazione forzata presso terzi. né il richiamo agli artt. 147 e 148 c.c. pare sufficiente a fondare la compressione della capacità giuridica del figlio maggiorenne, che è il solo titolare del diritto al proprio mantenimento nei confronti di entrambi i genitori fino alla autonomia economica. Sotto il profilo pratico, valgono le stesse considerazioni svolte in relazione al tema della legittimazione processuale. infatti, se il figlio maggiorenne per inesperienza o per condizionamento morale potrebbe non essere in grado di esercitare il suo diritto nei confronti del genitore non convivente e onerato all’assegno periodico, a fortiori lo sarebbe nei confronti del genitore con cui convive. Quest’ultimo, una volta percepito “iure proprio” l’assegno potrebbe destinarlo agli usi ritenuti più opportuni, non necessariamente rispondenti al- l’interesse del figlio, vero destinatario del mantenimento. Si pensi all’ipotesi in cui sotto lo stesso tetto convivano figli di altre unioni, ovvero che il genitore ospiti in maniera più o meno continuativa un nuovo partner: nella migliore delle ipotesi l’assegno destinato al figlio confluirà nel budget della nuova convivenza, supplendo alle esigenze di tutti i conviventi. il figlio dovrebbe allora farsi latore di un’azione giudiziaria nei confronti del genitore, che dorme sotto lo stesso tetto dietro la porta accanto, per ottenere il diretto versamento del- l’assegno per il suo mantenimento dall’altro. non sembra francamente un’ipotesi realistica. 4. Il versamento a mani del figlio. Ancora più grave è la distorsione registrabile nella prassi giurisprudenziale in ordine al pagamento diretto al figlio maggiorenne da parte del genitore onerato. la questione si articola in due diversi temi: A -il diritto del figlio maggiorenne a percepire direttamente il contributo dell’altro genitore; B -il diritto del figlio, già destinatario di un assegno corrisposto al genitore convivente durante la minore età, una volta divenuto maggiorenne. Quanto al primo tema, l’opinione tradizionale, che continua ad avere seguito, trova espressione nella pronuncia sopra citata, secondo cui “giammai […] potrebbe disporsi il versamento diretto in favore del figlio in mancanza della domanda del medesimo, cioè dell’avente diritto” (Cass. Civ. 11 novembre 2013, n. 25300). A fondamento della decisione il Collegio richiama i principi processuali in tema di domanda. Sulla stessa linea, ma aggravando l’apporto formalistico, si pone parte della giurisprudenza successiva, nel negare il versamento a mani del figlio, persino quando ne abbia fatto esplicita richiesta all’obbligato, ma non domanda giudiziale (“attribuzione della provvidenza direttamente a mani del figlio ne presuppone la domanda giudiziale e non viene meno perciò al principio della domanda giudiziale di cui all’art. 99 c.p.c.” Cass. Civ. ord. 12 novembre 2021, n. 34100). in definitiva, si è giunti al totale esproprio del diritto del figlio maggiorenne in favore del genitore convivente, subordinando la realizzazione del suo diritto a una azione giudiziaria autonoma, che egli non potrà in sostanza esercitare e per difetto di esperienza e per condizionamento morale, ma anche materiale, non disponendo il figlio neanche del necessario per mantenersi. Quanto al secondo, si assiste ad una sorta di prorogatio sine die del versamento a favore del genitore convivente durante la minore età del figlio, sprovvista di un vero e proprio apparato motivazionale. A fronte di una giurisprudenza stancamente ripetitiva, si stagliano le posizioni di parte della dottrina e alcune innovative pronunce. Autorevole dottrina, rifacendosi alla lettera e alla ratio ritiene che l’art. 155 sexies c.c. impone che il diritto alla contribuzione fissato dal giudice durante la minore età del figlio cessi automaticamente quando questi raggiunga la maggiore età, dopo di che il giudice potrà sempre disporre, ex novo, in favore dello stesso figlio divenuto maggiorenne, un assegno periodico, qualora ricorrano i requisiti previsti da tale norma (M. FinoCCHiAro, assegno versato direttamente ai maggiorenni, in Guida dir., 2006, 11, 41-42) . un innovativo orientamento giurisprudenziale fa capo alla ordinanza Cass. civ., sez. i, 14 agosto 2020, n. 17183, la quale ha affermato, in maniera esplicita, che il dovere in capo ai genitori di mantenere i figli cessa istantaneamente al compimento del diciottesimo anno di età, salva la possibilità, per coloro che non abbiano raggiunto l’indipendenza economica in tale tempo, di proporre domanda giudiziale per vedersi riconoscere un (nuovo) diritto al mantenimento, prudentemente valutato dal giudice sia nell’an che nel quantum debeatur. Si riportano alcuni passi della motivazione: -«il dovere di mantenimento dei figli ha assunto connotati nuovi sin dalla riforma di cui alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, che con l’art. 155-quinquies c.c., ha dettato una disposizione ad hoc “in favore di figli maggiorenni”»; -pertanto «sussistono modalità diverse per l’adempimento del dovere di mantenimento verso il figlio, a seconda che questi sia un minore (art. 337-ter) o un maggiorenne ma non indipendente economicamente (art. 337-septies)» (par. 4.1); -«Nella materia in esame, occorre [...] osservare come, alla stregua della lettera e della ratio dell’art. 33-septies c.c., comma 1, la legge si fondi sul- l’assunto secondo cui l’obbligo in questione permane a carico dei genitori sino al momento in cui il figlio raggiunga la maggiore età, alla stregua del dovere di mantenere e del diritto di essere mantenuto, rispettivamente previsti dall’art. 147 c.c. [...] e art. 315-bis c.c., comma 1. [...] Così come il dovere di educare a tutte le esigenze della vita e di procurare un’istruzione ai figli -e, specularmente, di esigere la continuazione negli studi oltre quelli dell’obbligo -può ragionevolmente datarsi dalla nascita alla maggiore età del figlio, del pari il dovere di mantenere i figli permane sicuramente fino a quella età, ai sensi degli artt. 147 e 315-bis c.c.» (par. 4.3); -dal compimento della maggiore età «subentra la diversa disposizione “in favore dei figli maggiorenni”, di cui all’art. 337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta essi siano “non indipendenti economicamente”» (par. 4.4). Con il compimento del diciottesimo anno d’età, dunque, cessa il diritto al mantenimento che la legge riconosce a favore dei minorenni e subentra un regime normativo nuovo e diverso che, come si sta per chiarire, rifugge ogni automatismo. tale conclusione, trae alimento e a sua volta lumeggia il secondo periodo del comma 1 dell’art. 337 septies c.c., a tenore del quale l’assegno di mantenimento riconosciuto dal giudice è versato direttamente al figlio, salvo diversa disposizione. tale soluzione giurisprudenziale appare maggiormente conforme alla volontà del legislatore, quale emergente dai lavori parlamentari. 5. Lo scopo del legislatore. l’applicazione della norma compiuta dalla giurisprudenza contrasta con la ratio dell’istituto desumibile dai lavori parlamentari relativi alla l. 54/06, che conteneva l’art. 155 quinquies c.c., trasfuso nella disposizione oggi vigente 337 septies c.c. la norma nasce del tutto bipartisan. essa è inclusa nella proposta n. 4068 presentata il 16 giugno 2003 dell’on. Mazzucca del pD, poi riunita alle altre. essa fu condivisa da esponenti di altre forze politiche, di cui sono espressione le parole del relatore on. tarditi di tutt’altro orientamento politico. infatti, la Commissione referente, poi seguita dal voto dell’assemblea, scelse tra due orientamenti: uno c.d. adultocentrico e uno volto a privilegiare la centralità dell’interesse del figlio. Così si espresse in assemblea il relatore, (Seduta n. 600 del 10 marzo 2005): La discussione, sia in Commissione giustizia, sia nelle altre Commissioni interpellate in sede consultiva, ha abbondantemente chiarito che quanti rimproverano al progetto di riforma in esame di non pensare abbastanza ai figli, all’atto pratico vogliono effettuare sistematiche scelte che lo mettono in secondo piano: … è ancora così quando si vuole che l’assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne sia versato sul conto corrente del genitore convivente, anziché esserne egli stesso … titolare”. Ancora più vigoroso l’intervento in replica nel dibattito assembleare dell’on. paniz: “ma il figlio è maggiorenne! L’elaborazione giurisprudenziale nel nostro paese si è orientata lungo due linee guida: da un lato si è individuata la legittimazione in capo al figlio maggiorenne, proprio in quanto tale, dall’altro lato si è ritenuto opportuno confermare una legittimazione attiva a favore del genitore del figlio pur maggiorenne. ma in questa conflittualità, in questo orientamento difforme si annida la possibilità di contrasti giurisprudenziali continui e di liti che, invece di cessare, aumentano. Noi, con questo provvedimento assumiamo una posizione precisa in favore del maggiorenne. E non può che essere così se pensiamo che il maggiorenne viene considerato titolare di un centro di interessi e di possibilità di intervento, in linea con la sua età al punto tale che egli può esercitare un fondamentale diritto come, ad esempio, quello di voto. E allora perché da un lato considerarlo titolare di diritti fondamentali e dall’altro ritenerlo incapace di gestire un peculio che gli serve per vivere? È ovvio che una presa di posizione, da questo punto di vista, era necessaria nel senso di eliminare, una volta per tutte, la possibilità di contrasti giurisprudenziali che avrebbero aggravato economicamente le stesse famiglie che si fossero trovate, in situazione di necessità, a dover ricorrere al giudice per ottenere l’assegno in oggetto”. il legislatore, in sostanza, perfettamente conscio della esistenza di due tesi, una incentrata sulla legittimazione del genitore convivente, l’altra su quella del figlio divenuto maggiorenne, ha compiuto la propria scelta: “Noi, con questo provvedimento assumiamo una posizione precisa in favore del maggiorenne”. la opzione conservatrice, che pone al centro di ogni tutela il genitore convivente, viene espressamente ripudiata in quanto foriera di ulteriori conflitti nel nucleo familiare, già ferito: “in questa conflittualità, in questo orientamento difforme si annida la possibilità di contrasti giurisprudenziali continui e di liti che, invece di cessare, aumentano”. 6. Conclusione. in conclusione, a fronte di una chiara lettera della disposizione desumibile dal testo, nonché della ratio desumibile dai lavori parlamentari, ripudiando le interpretazioni alternative proposte dalla dottrina, la giurisprudenza prevalente si è adagiata su una interpretazione stancamente conservatrice del regime giuridico anteriore alla introduzione della norma, volto a valorizzare il ruolo del genitore convivente in chiave “adultocentrica”. tale opzione ermeneutica contrasta con i valori costituzionali di libertà individuale da riferirsi anche al giovane adulto, che esattamente come i soggetti più anziani ha diritto alle sue libertà civili e alla disponibilità dei suoi averi, tutelata peraltro anche in sede di CeDu, orami parte del diritto unionale che la ha recepita. A ricordo dell’Avv. Raffaello Martelli Con profondo dispiacere comunico che è venuto a mancare l’avv. Raffaello Martelli, Avvocato Generale dello Stato Onorario (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, venerdì 31 gennaio 2025 18:09. A ricordo dell’Avv. Giovanna Maria Cuccia Con profondo dispiacere comunico che nella giornata di domenica 2 febbraio 2025 è venuta a mancare l’avv. Giovanna Maria Cuccia, Avvocato Generale dello Stato Onorario (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, lunedì 3 febbraio 2025 10:10. A ricordo dell’Avv. Giacomo Arena Con profondo dispiacere comunico che è venuto a mancare l’avv. Giacomo Arena, già Avvocato dello Stato ... (*) Il Segretario Generale Avv. Maurizio Greco (*) E-mail Segreteria Generale, venerdì 14 marzo 2025 10:33. A ricordo dell’Avv. Maria Grazia Scalas Nella giornata di ieri è mancata la collega ed amica Maria Grazia Scalas, già avvocato distrettuale dello Stato di Perugia. Noi tutti, avvocati e personale, la ricordiamo con profondo affetto e (*) stima ... Francesca Morici (*) E-mail Avv. Francesca Morici, Avvocato Distrettuale dello Stato di Perugia, martedì 18 marzo 2025 09:12. Finito di stampare nel mese di marzo 2025 Tipografia Gemmagraf 2007 S.r.l. Via Tor De’ Schiavi 227 - 00172 Roma